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Le voci di fuori. Niccolò Puccini e il suo Risorgimento

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(1)

UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI CIVILTÀ E FORME DEL SAPERE

Tesi di Laurea Magistrale in Storia Contemporanea

LE VOCI DI FUORI.

NICCOLÒ PUCCINI ED IL SUO RISORGIMENTO

Relatore:

Candidata:

Chiar.mo Prof. Alberto Mario Banti

Maura Bertelli

(2)

Alle mie due stelle comete e alla pazienza di Bruno, ai silenzi di Alessandro,

alle curiosità di Virginia. .

(3)

Per le vite passate,

(4)

INDICE

Introduzione 5

C’era una volta…un giardino incantato 6

Agli inizi fu un giardino all’italiana 8

Sul giovane Niccolò e i suoi avi 11

I dolori del giovane Niccolò 13

1799 16

Una città vivace 19

Nuovi ceti crescono 21

L’imprescindibile Scipione de’ Ricci 22

Ancora i francesi 24

Il vero volto dei francesi 26

L’importanza dei simboli 26

Alea iacta erat 28

Alla ricerca di stabilità 31

Voci di corridoio. Dal Granducato ai Borboni 31

Le Roi d’Etrurie 33 Strategie napoleoniche 34 Elisa 36 Un po’ d’economia 38 Finalmente la liquidazione 40 Le Università 41

Addio sogni di gloria 42

La Restaurazione in Pistoia 43

La Restaurazione oltre Pistoia 47

Altra chiave di lettura 49

Amalgamare 52

Agostino Fantoni 53

(5)

L’importante ruolo delle Accademie 54

Un crescendo 59

Parliamo di lui 61

Tra classico e romantico 63

Il Circolo di Scornio 64

Movimenti carbonari toscani 68

Fermo immagine 71 Viaggiare 72 In carrozza 78 Amori profani 79 L’ereditiero 82 À rebours 85

Apriamo i cancelli ed entriamo 87

Architetti paesaggisti 92 Le voci di fuori 104 La parola ai dipinti 109 Nuove committenze 114 La filantropia 120 A passeggio 124 Tre testamenti 172 Ultime volontà 174 Considerazioni 177

Indice delle immagini 190

Indice delle tavole 191

Fonti 192

(6)

Introduzione

Alberto Banti, il mio tutor, mi rispose che se desideravo una tesi che avesse un piede nell’Ottocento, non ci sarebbero stati problemi: “Mi faccia pensare”.

La proposta, che mi arrivò dopo qualche giorno, riguardava Niccolò Puccini e la sua villa di Scornio. Non ne avevo mai sentito parlare ma mi piacque subito l’idea di frugare fra i panciotti di un ricco aristocratico pistoiese con simpatie risorgimentali che tanta energia e tanto denaro aveva profuso per abbellire la propria villa e per dare vita ad un giardino che, ancora oggi, viene ricordato fra i più illustri esempi di giardini italiani ottocenteschi; ma, soprattutto, parlare del Puccini e del suo credo politico e sociale, espresso anche nel dar vita al suo parco, mi avrebbe consentito di parlare del Risorgimento che, sullo sfondo, ma non certo in secondo piano, avrebbe dato un impulso imprescindibile al mio discorso.

Così, entrare nella villa e osservare i dipinti, spalancare i cancelli del ‘Giardino’ e percorrerne i viali, osservare le statue e i fabbricati gotici che lo abitarono sarà il viatico da cui trarrò spunto per illustrare le origini, gli eventi, la politica, i contesti, la cultura di quel momento storico tanto dibattuto e sempre attuale che fu inteso alla stregua di una vera e propria Resurrezione.

(7)

Scornio,

Pistoia

C’era una volta…un giardino incantato

‘Un giardino incantato’, così, nel 1841, lo definì Emanuele Repetti nel Dizionario Geografico fisico storico della Toscana: il giardino di Scornio <<è incantato e difficilmente si potrebbe descrivere come merita1>>.

Proprio così, del resto, lo aveva voluto il Puccini: un giardino meraviglioso agli occhi di chi lo guardava e, che, meraviglioso, fu agli occhi di quanti lo videro, fossero essi i frequentatori del salotto della villa, come il bibliotecario fiorentino Innocenzo Giampieri che nel 1838 scrive:

1 Francesca Susini, Passato e Presente di Niccolò Puccini, Editrice, C.R.T., 1999 Pistoia, p.54. Veduta della Villa e giardino di Scornio, da Monumenti del Giardino Puccini.

(8)

22 luglio 1838, da Firenze

Amico Niccolò,

sebbene io credo che mai verrà meno nella memoria la bella giornata di ieri […] passata in osservare le cose, bellissime tutte, della tua villa, amo nonostante conservartene la mia ammirazione prima che si raffreddino le dolcissime sensazioni.

[…] Bravo Puccini! A chiunque mi dimanderà della tua persona, risponderò: fate una visita alla sua villa, e ne comprenderete le parti tanto del cuore, che dell’intelletto. Nell’intitolo al Ponte Napoleone ne vedrete la filantropia, nella Fortezza che gli serve da abitazione, lo spirito capriccioso […]; nella villa, vedrete l’uomo che vuol mostrarsi signore, e come vi è riuscito. Nell’ampiezza poi di tutto il recinto, e molteplici sue fabbriche, ed annessi piacevoli, indovinerete di quai doti spirituali l’abbia fornito Natura.

[…] Salutami il caro luogo, le sponde del lago, i merli della Fortezza le memorie del Ponte Napoleone, la splendidezza della Sala da Ballo, il Romitorio, la Badia, il Pantheon e persino l’aria che vi circonda

Tuo affezionatissimo amico

Innocenzo Giampieri2

oppure i popolani che lo frequentarono, una volta l’anno dal 1841 al 1846, durante lo svolgersi della Festa delle Spighe, evento voluto fortissimamente dal Puccini e del quale mi occuperò più avanti.

Come vedremo, la storia della villa di Scornio e del suo giardino comincia circa <<un secolo prima della nascita di Niccolò, quando il prozio Tommaso Puccini, medico del granduca Cosimo III a Firenze, aveva iniziato a costruire una villa in campagna sui terreni che appartenevano alla famiglia già dalla seconda metà del Seicento. Uomo colto e raffinato, desiderava ritirarsi in un luogo di delizia, poco fuori la porta nord della sua città natale. […]

2

Laura Dominici, Il giardino Puccini di Scornio a Pistoia: genesi, evoluzione e significati di un’idea

(9)

Alla morte del committente l’eredità passò al nipote Domenico, nonno di Niccolò Puccini, che viveva in città nel palazzo di via del Can Bianco. Questi non si curò di terminare il prestigioso edificio, recandosi a Scornio solo saltuariamente, per occuparsi del giardino e per curare i propri interessi nei numerosi poderi che circondavano la villa, affidati a famiglie di coloni.

Solo le tumultuose vicende politiche della fine del secolo indussero il figlio ed erede di Domenico, Giuseppe Puccini, ad aprire un nuovo cantiere alla villa. Nel giugno del 1796, infatti, Napoleone giunse a Pistoia e i suoi ufficiali si acquartierarono in alcune nobili residenze cittadine, tra cui il palazzo di via del Can Bianco, dove Giuseppe viveva con la moglie Maddalena Brunozzi, e il figlio di dieci anni Domenico; mentre a Pistoia Giuseppe Puccini temeva per la sua famiglia e per i suoi beni, il fratello di lui, Tommaso, direttore della Real Galleria degli Uffizi gli scriveva da Firenze lettere accorate in cui, lungimirante, esprimeva i suoi timori per la sorte delle opere d’arte che gli erano state affidate3>> e che avrebbero potuto essere preda delle ingordigie di Napoleone.

Lasciamo Tommaso Puccini su una banchina del porto di Livorno dove, il 14 ottobre 1800, sta per imbarcarsi per la Sicilia e portare in salvo l’enorme patrimonio artistico degli Uffizi, e concentriamoci su Scornio per ripercorrere le tappe che portarono villa e giardino al loro massimo splendore.

Agli inizi fu un giardino all’italiana

Come sopra accennato, << Il ‘Poderino di Scornio’, com’è definito dal titolo del fascicolo che ne raccoglie le carte dell’amministrazione costituì probabilmente uno dei primi possedimenti della famiglia Puccini nel contado alla periferia di Pistoia aveva cominciato a prendere vita addirittura nel 1675, quando Giuseppe di Onofrio Puccini, dottore e fisico in Pistoia, acquistò nel comune di Burgianico, in una località detta “Scornio”, “un podere di più coltre di terra lavorativa, la casa del lavoratore, e cittadino, aia, pozzo, forno, stalla e tino […], con tutti i suoi ingressi, egressi, usi, e servitù attive e passive e tutte le sue ragioni e appartenenze et adiacenze di qualsiasi sorta”. […]

3

Laura Dominici, UN “GIARDINO INCANTATO“ <<Italia sia pure una volta sul serio>> Il sogno di

(10)

A questa proprietà si aggiunse subito un altro podere […]. Come il primo, anche questo si trovava nel comune di Burgianico, nella cortina di Porta al Borgo, comune che diventerà, almeno a partire dai primi decenni del secolo successivo, una sorta di piccolo “feudo” della famiglia Puccini4

>>. […]

Tra il 1702 e il 1704 ebbero inizio, per volontà del dottor Tommaso Puccini, figlio di Giuseppe e medico alla corte del granduca Cosimo III de’ Medici, i lavori di costruzione di quello che venne da subito chiamato il Villone e che, tuttora (sede di una casa di riposo per anziani fin dal 1927) mantiene tale denominazione.

<<La villa ebbe fin dall’origine un giardino all’italiana, destinato alla produzione di agrumi per la vendita, descritto per la prima volta nel 1727 dal viaggiatore sassone Georg Christoph Martini nel suo diario di viaggio5>>. […] Il Martini, detto il Sassone, fu pittore ed antiquario e valente naturalista, nato in Sassonia nel 1685, venne in Italia nel 1722 e, dopo aver soggiornato in diverse città, si fermò a Lucca6. Egli, che visita il giardino nel settembre del 1727, parla di piante di agrumi, parte in conche parte piantate a spalliera, che tale rimase anche quando fu ereditato dal nipote di Tommaso, Giuseppe Puccini, e fu abbellito, tra l’altro, da “tre zampilli per la fonte” e da <<una fabbrica in fondo (al giardino) consistente in un semicerchio di pietre della Golfolina, suppedaneo, sedile e spagliera (sic), il tutto in pietra lavorata con molta diligenza7>>. […]

I lavori della villa non erano stati troppo impegnativi, Cosimo Rossi Melocchi, l’architetto incaricato della ristrutturazione <<si limita a modeste modifiche all’interno dell’edificio […] focalizzando il suo intervento sulla facciata, rimasta incompiuta alla morte di Tommaso Puccini. I lavori alla villa si concludono nel 1807, e da allora Rossi Melocchi si dedica alla sistemazione degli spazi esterni, che si devono accordare con la rinnovata e preziosa coreografia dell’edificio8

>>. […]

4

Laura Dominici, Il giardino Puccini di Scornio a Pistoia. Genesi, evoluzione e significato di un’idea

romantica, in <<Ricerche storiche>>, 1994, III e in https://www.academia.edu/, p.4.

5 Ibidem, p.5. 6 Ivi.

7

Ibidem, p.6.

(11)

La ristrutturazione prevede il rifacimento in chiave dorica della tinaia che assume nuova dignità di fondale scenico, l’inserimento di due viali perpendicolari che si incrociano al centro, in corrispondenza di una vasca…

arricchita da un getto d’acqua decorato a fogliami, altre due fontane visibili dalla strada che saranno collocate ai lati di un nuovo e maestoso cancello.

<<Ora, il giardino, con i suoi giochi d’acqua, la grotta incassata sotto la scala, le statue, le panchine e le decorazioni all’antica, doveva evocare in qualche misura i modelli buontalentiani e gli esempi più illustri del Rinascimento e del barocco fiorentino9>>. […]

Gli abbellimenti continuarono ma Giuseppe Puccini morì nel 1818 e forse non vide terminato il suo giardino. <<Di esso, a imperitura memoria del defunto cavalier Puccini, l’erudito Matteo Soldati celebrava in un solenne elogio funebre redatto in latino il “subterraneum”ed il “Cammin Coperto”, “deambulationem […] aeque patentem in longitudinem latitudinemque bene tectam munitamque et amoenissimo hilaratam horti prospectu”.

L’aspetto del giardino è documentato dall’incisione pubblicata nel 1848 dal figlio Niccolò, oltre che dalla sua carta da lettere, dove, per un errore tipografico, l’immagine appare rovesciata10

>>. […]

9

Dominici, Il giardino di Scornio a Pistoia, p.6. 10 Ibidem, p.7.

Giuliano Gatteschi, […]

Scalinata di collegamento tra la villa Puccini di Scornio ed il giardino all’italiana, 1770-72. Pistoia, biblioteca

(12)

Sul giovane Niccolò e i suoi avi

Prima di arrivare agli anni in cui Niccolò prenderà le redini dei beni ereditati, è giusto conoscere ciò che fu la sua età giovanile della quale, peraltro, non si sa poi molto; nasce il 10 giugno 1799 nel palazzo di famiglia in via del Can Bianco a Pistoia ed è << […] l’ultimo rappresentante di una importante famiglia del patriziato pistoiese imparentata con altrettanto importanti famiglie dell’aristocrazia pistoiese e fiorentina […].

Forse di origine sassone, i Puccini si stabilirono a Pistoia sin dal secolo XIV e furono attivi soprattutto da quello successivo ricoprendo le principali cariche comunali assegnate ai cittadini pistoiesi11>>. […]

Il ramo dei Puccini della Genizia, come ci segnala Mazzei nel suo “Stemmi ed insegne pistoiesi” era uno dei tre segnalati dai prioristi <<Puccini detti degli antichi, Puccini detti della Genizia e Puccini da Controna12>>.

11 Carlo Vivoli in Le Cose ed i Giorni di Niccolò Puccini. Archivio di Stato di Pistoia-Comune di Pistoia- Istituti Raggruppati di Pistoia, 1999, p.11.

12 Ivi.

Stemma dei Puccini, Stemma dei Brunozzi,

Libro d’oro dei patrizi di Pistoia, Libro d’oro dei patrizi di Pistoia,

Biblioteca Forteguerriana Biblioteca Forteguerriana

(13)

La famiglia della madre, Maddalena Brunozzi, era anch’essa prestigiosa: <<Probabilmente originari della Francia, i Brunozzi si erano stabiliti sin dalla metà del secolo XIII nell’Appennino tosco-emiliano. Passati a Lizzano, nella Montagna pistoiese, si inurbarono nella città di Pistoia prima della fine del ‘400. Furono fatti cittadini pistoiesi, secondo il Mazzei, nel 1492. […] Nel 1637, Annibale di Possente Brunozzi supplicò il Granduca di poter fare le provanze di nobiltà per conseguire l’abito di cavaliere milite dell’Ordine di Santo Stefano13

>>. […] La supplica fu esaudita una volta accertati meriti e titoli riconducibili alla famiglia della quale, poi, nel 1787, Maddalena, madre di Niccolò, sarà l’ultima esponente ed erede.

Tale lustro non fu, però, determinante a giudizio di Niccolò il quale << non si riconobbe mai nel suo ceto di appartenenza, tanto da gloriarsi di non essere patrizio, come afferma in una lettera a Pietro Contrucci, suo futuro biografo, dell’agosto 1842: ”Il Rossi Girolamo dice che non son patrizio, a me non importa un fico, e trovo speso meglio il tempo a ridere delle sciocchezze degli uomini che a cacciarmi in archivio a cavar diplomi”14>>. […]

In effetti, i Puccini, erano stati ammessi al patriziato pistoiese con decreto del 14 aprile 1755, ma le poche righe accennate ci anticipano, in fondo, quello che fu il carattere imprevedibile e bizzarro del nostro Niccolò.

La sua giovinezza era stata cosparsa di lutti: la morte del fratello Antonio, con il quale aveva condiviso i giorni in collegio << […] lo portò a divenire malinconico e cupo, contrariamente alla sua indole. Dopo un mese, la morte per parto della sorella Chiara Anna, sposata Conversini […] ed il 10 Marzo 1816 la dipartita della sorella Elisabetta15>>. […] Il 3 maggio del 1818 fu la volta del padre Giuseppe.

Certamente le disgrazie da cui fu oppresso influirono sulla sua salute visto che alla morte della sorella Chiara <<si sviluppò in lui una malattia che lo tormentò tanto da togliergli l’appetito e la vivacità; divenne pallido ed irritabile, finché cominciò a deformarsi e dovette addirittura lasciare il collegio. Fu tentato tutto per curarlo ma inutilmente: divenne presto gobbo. Da allora in poi egli sarà designato fuori dell’ambiente domestico con la denominazione ‘Gobbo Puccini’16

>>. […]

13 Ibidem, p.12. 14 Ibidem, p.11. 15

Susini, Passato e presente, pp.17-18. 16 Ibidem, p.17.

(14)

I dolori del giovane Niccolò

È innegabile che un grande dolore possa influire sulla formazione di un giovane uomo, tuttavia altrettanto determinante per la formazione e crescita intellettuale e fisica di Niccolò furono gli anni che trascorse in collegio: nel collegio Vescovile di Pistoia.

Le emozioni di disperazione e rabbia vissuti negli anni di permanenza nell’Istituto, l’inadeguatezza culturale che rivendica e che sarà, poi, una delle spinte per intraprendere i suoi viaggi, le punizioni corporali, le umiliazioni, sono l’oggetto della lunga lettera che il 1° agosto 1826, proprio durante un viaggio a Rotterdam, scrive all’amico Alessandro Sozzifanti. Di anni ne sono passati ma le ferite non si sono rimarginate:

<< […] Ma perché io avessi potuto profittare di questi viaggi, conveniva, che mi

fosse stata educata la mente d’altri studi, e di altro vigore; e che mi fosse cresciuto il corpo infaticabile con assidui esercizzi [sic] e continuate occupazioni. Ma pochi pensieri così mi attristano, e mi affaticano la mente quanto la nullità della mia adolescenza ed il niente che si operava da quelli a che ne era commessa la cura. Tu ti devi ricordare quanto io fossi fiero in quella dissennata età, e come quasi per domarmi mi sottomettessero alla verga dei preti in collegio: i quali tosto s’annojarono della mia ferocia, e del mio perpetuo movimento, e cominciarono a flagellarmi a dritta, ed a sinistra, come un panno che si scamata [sic]. Fino da quel momento presi odio coi miei educatori, non potendomi persuadere, che mi amassero quelli che sì crudamente mi martoriavano; quindi tutto dì mi insalvatichivo, e tutto dì pur crescevano le battiture[…] Fra le quali battiture tiene spaventosa memoria lo schiaffo dell’arciprete Queppis, che lasciava a me adolescente di 9 anni, l’impressione di 4 dita, per 20 giorni in sulla faccia, per cui si guastarono 3 denti, che sono gli unici che mi manchino; ed al presente giorno non so con qual sentimento riguardo le marche che tanto nella testa che nel corpo conservo di quelle, che parmi d’essere stato stimatizzato dal Diavolo. Questo quanto al corpo che non era meglio trattato della mente, la quale inasprita dall’aridezza del Porretti, e dalle Selectae si fermava per alcuni anni in un vergognoso statu quo. Mio padre era certo un bravo, ed illuminato cittadino; ma non era padrone delle sue idee e mi tiranneggiava per 5 anni collo studio d’Orazio, e di Virgilio sotto la scorta del nostro, il quale certamente mi volle gran bene, ed al quale resterò eternamente obbligato; ma egli stesso maravigliato della tenacia della mia memoria mi voleva impastojare con quella sua malnata

(15)

Rettorica, odiata ancor da mio padre, e sì l’uno che l’altro mi tormentavano perché facessi versi italiani, o latini […]Niente di disegno, niente di mattematica, né di geometria, né di fisica; delle quali cose mio padre conosceva poco oltre che il nome […]Continuavano le villanie, le umiliazioni, e quel che è peggio le battiture. Ma a me pure cresceva la forza che insofferente di tanta viltà cominciò a menare le mani, e tosto incappò nelle scomuniche […] Prefetti che ci guardavano erano tanti villani rotolati dalla montagna, senza alcuna nozione delle cose del mondo, senza alcuna maniera di civiltà e che passavano dal governo di porci, e di pecore, a quelli di figli di gentiluomini. Tutto dì ci si donava l’esempio di finzioni, di tradimenti, di spionate, ed altre simili nequizie, e tutto di noi ci ostinavamo al male, non conoscendo virtù, né modo di acquistarla. Tacerò degli altri vergognosissimi disordini fisici, e morali, che impestavano quel loco; e dei modi ancor più vergognosi onde rimediarvi o scoprirli. Sicché come tu vedi, quell’educazione doveva produrre cattivi frutti, perché gli stessi che ce la davano, non sapevano a che attenersi, né come rivolgerla. Mai mi fu parlato qual uso doversi fare delle ricchezze, se viaggiare, se studiare, se oziare17>>. […]

L’ambiente scellerato e distruttivo di ogni dignità lo condizionerà, a fine benefico, nelle scelte che lo riguarderanno in seguito, quando, a causa della morte del fratello Domenico, diventerà l’unico erede di un vastissimo patrimonio.

Sempre attento all’istruzione dei giovani figli del popolo secondo il suo credo ed anche secondo il dibattito politico del tempo sui temi sociali, <<coltiverà quasi come una missione, progettando per quasi dieci anni quella Scuola del Mutuo Insegnamento per trenta bambini e trenta bambine inaugurata nel 1838 nei locali del Ponte Napoleone, in mezzo al suo giardino e istituita secondo i modelli inglesi e francesi teorizzati da Bell e Lancaster, che prevedevano che alcuni studenti – detti ‘monitori’ – affiancassero gli insegnanti delle classi inferiori aiutando gli alunni più giovani allo studio. Oltre alle discipline classiche il corso prevedeva l’insegnamento di arti e mestieri, per favorire l’avvio al lavoro dei giovani figli dei contadini, consentendone così l’emancipazione18

>>. […]

17 Daniele Danesi, Alla ricerca dell’utile e del pittoresco, Niccolò Puccini tra Italia e Europa, 1822-1826, in Monumenti del giardino Puccini, Un luogo del romanticismo in Toscana, Edizioni Polistampa, Firenze 2010, p.86.

18

Laura Dominici, Personaggi pistoiesi del Risorgimento. Niccolò Puccini, https://www.academia.edu/, p.2.

(16)

Né si sottrarrà a questi principi umanitari quando, a pochi anni dalla propria morte, redigerà il testamento:

A nome di Dio, in presenza dell’umanità che comanda gli Uomini di giovare alla patria colle opere e coll’esempio Amen. Questo 1 Gennaio 1847 regnando in Toscana LEOPOLDO SECONDO, e in Roma PIO NONO.

[…] ho pensato di disporre delle cose mie in un modo onorato e cristiano che onori la civiltà dei tempi, che mantenga e continui la tradizione del mio casato, che coll’aiuto di Dio si mostrò sempre benficente non al popolo infingardo e accattone, ma al popolo operaio e infelice. Persuaso pertanto dalla costante ed incivile esperienza, che più nocciono al popolo, anzi che giovarlo, le sovvenzioni per Doti, siccome che stimolano li improvidi accasamenti, né che lo giovano le distribuzioni temporarie di danaro, che si profondono ed inabissano in gozzoviglie, giuochi ed in vanissime superbie di lusso, ho risoluto dietro l’esempio di Gesù Cristo, che chiamava intorno a se i fanciulli, insegnando e comandando ai ricchi d’innalzare la dignità dell’uomo colla educazione ed istruzione i figli del popolo abbrutiti dalla miseria e dall’ignoranza; ho risoluto dico di lasciare mio EREDE UNIVERSALE l’ORFANOTROFIO della nostra Citta di Pistoia detto la Calconia. Non valsero a rimuovermi da questa prepotente determinazione le inesorabili insinuazioni di quelli che mi consigliavano di chiamare altra persona a succedermi, avvegnachè io ho sempre disprezzata la nobiltà della nascita, apprezzando solo la nobiltà delle azioni, e mi chiamo fortunato di fermare ed assegnare la mia facoltà in opera che frutti al paese, anziché vada dispersa da qualche successore in vizii, viltà ed insolenze […] ho fatto e scritto di propria mano il presente testamento olografo, per quale voglio, che IL CONSERVATORIO DEGLI ORFANI, ossia l’ORFANOTROFIO posto nella Cura di S. Bartolomeo della Città di Pistoia, succeda e sia mio Erede universale di ogni mi eredità niuna esclusa od eccettuata. E siccome fra i primi bisogni dell’orfanotrofio avvi quello di provvedere in modo più adatto ai bisogni del tempo, alla istruzione artigiana, ed alla educazione religiosa dei suoi Alunni, così dopo maturo esame della niuna idoneità della Fabbrica della presente Calconia, a conseguirne lo scopo dispongo:

Che gli Orfani abbiano a trasferirsi nel mio Palazzo di S. Gregorio a lato del Vescovato […].

(17)

Prego i miei carissimi Colleghi ed amici Buonomini a secondare questo mio volere, che tornerà d’ utile e sodisfazione generale.

Lascio in piena loro libertà di provvedere coi miei assegnamenti alla Istruzione Religiosa, ma vedano di scegliere persone reverende per pratica di vita Evangelica; riguardando l’insegnamento del leggere, scrivere, e far di conto come la prima chiave d’ogni progresso morale e civile nel popolo, facciano le spese necessarie per conseguirlo19. […]

Istruzione, educazione, la dignità dell’uomo passa da qui. La nobiltà non si eredita, si conquista attraverso l’esempio di una vita spesa nel dare. Lo stesso vale per l’insegnamento religioso: a pochi anni dalla morte, il pensiero corre ancora agli anni giovanili vessati da coloro che avrebbero dovuto essere educatori ed invece erano stati oppressori.

1799

Mi piace legare simbolicamente l’anno di nascita di Niccolò Puccini alla fine di quel periodo che viene ricordato come il triennio giacobino e, del quale, è venuto il momento di parlare: vediamone i prodromi.

A metà del XVIII secolo, gli Stati italiani furono colpiti da un grave crisi alla quale non erano estranee le divisioni interne; fu così che alcuni di essi si trovarono sotto il controllo diretto (il ducato di Milano, la Toscana, il Regno delle Due Sicilie) di monarchie straniere mentre, gli altri, ne subirono il controllo indiretto.

A nulla erano serviti i tentativi di trasformazione sociale compiuti da alcuni sovrani che avevano cercato di effettuare riforme economiche e burocratiche perché la Chiesa e l’aristocrazia avevano fortemente avversato gli attacchi rivolti ai loro privilegi in modo da rendere vani i tentativi di incrementare le entrate fiscali; con i problemi economici e sociali esistenti, la crisi fu inevitabile.

Anche per il Meridione si tentarono strade atte a migliorare la situazione: si cercò di introdurre l’agricoltura in circuiti commerciali, furono aboliti gli obblighi feudali nell’intento di danneggiare i privilegi dei nobili e del clero, e si cercò di creare una

(18)

borghesia agraria. Non fu possibile. <<I poveri delle campagne, emarginati sia dai mutamenti economici che dagli attacchi rivolti contro la Chiesa, patirono le conseguenze delle riforme, e una rapida crescita della popolazione aggravò ulteriormente i loro problemi. Dagli anni settanta del Settecento le sommosse e le violenze popolari, spesso incoraggiate dalla nobiltà e dalla Chiesa, erano diventate un fenomeno consueto in molte campagne italiane20>>. […]

Gli unici Stati in cui i tentativi riuscirono furono il Ducato di Milano e la Toscana le cui classi dirigenti, però, avevano già dimostrato un approccio favorevole alle innovazioni. <<Le riforme ebbero molto meno successo nel regno delle Due Sicilie; a Napoli, nonostante la presenza di riformatori convinti e impegnati, i ministri del governo furono alla prova dei fatti incapaci di attuare i cambiamenti proposti senza il sostegno dei detentori del potere locale. Quale che fosse il loro esito, le riforme innescarono poi una serie di problemi in tutta la penisola. I riformatori non riuscirono a costruire nuove forme di consenso politico o relazioni stabili che sostituissero quelle dell’antico regime. Negli scritti e nei dibattiti animati dai riformatori emerse un senso strisciante di disillusione ancora prima che si verificassero gli eventi traumatici degli anni novanta21>>. […]

Dal 1793 in poi, le vicende italiane furono soggette ai postumi della rivoluzione francese i cui venti, del resto, già soffiavano vigorosi in tutta Europa e che, in quei cieli, alitarono fino al 1814.

<<Nel 1793 le armate rivoluzionarie francesi invasero il Piemonte, occupando le provincie di Nizza e Savoia. Nel 1796, un esercito riorganizzato sotto il comando del generale Napoleone Bonaparte invase nuovamente l’Italia settentrionale; con il trattato di Campoformio, firmato dall’Austria nel 1797, la Francia guadagnò il controllo dell’intera penisola. Questi eventi fecero precipitare l’Italia in un periodo di cambiamento radicale, tanto straordinario quanto complesso. Da allora in poi e fino alla sconfitta di Napoleone nel 1814, l’evoluzione politica della penisola fu largamente determinata dalla sequenza di vittorie e sconfitte dell’esercito francese nelle guerre contro l’Austria e la Gran Bretagna.

Nell’occupazione francese in Italia si possono distinguere sostanzialmente due periodi. Durante il cosiddetto ‘triennio giacobino’, tra il 1796 e il 1799, si assisté alla

20

Lucy Riall, Il Risorgimento, Donzelli Editore, Roma 2007, p.4. 21 Ivi.

(19)

formazione di una serie di repubbliche: nell’Italia settentrionale la Repubblica cispadana e quella transpadana, riunite poi nel 1797 nella Repubblica cisalpina; nell’Italia centrale la Repubblica romana (1798) e nel Mezzogiorno la Repubblica partenopea o napoletana. Dopo poco tempo, in seguito alla sconfitta della Francia a opera della Seconda coalizione tra l’Austria e la Russia e sotto pressione delle insurrezioni controrivoluzionarie, l’autorità francese subì un duro colpo. Tuttavia nel 1800, dopo che Napoleone aveva conquistato il potere con un colpo di Stato, l’esercito d’oltralpe lanciò un contrattacco in Italia sconfiggendo ancora una volta l’Austria. Con il trattato di Lunéville nel 1801 l’Austria riconosceva la dominazione francese in Italia. Soltanto la Sicilia e la Sardegna, dove i Borboni e i Savoia si erano rispettivamente rifugiati sotto la protezione della marina britannica, rimasero fuori dal controllo della Francia22>>. […]

La fortuna militare di Napoleone, in Italia, fa palpitare molti cuori che accolgono <<con simpatia il cambiamento anche perché, almeno inizialmente, esso si accompagna all’abolizione dei privilegi sociali e giuridici precedentemente in vigore, oltre che a una libertà di opinione, di discussione e di stampa assolutamente sconosciuta in precedenza23>>. […]

Altri, invece, accolgono <<i francesi con dichiarata ostilità: molti ecclesiastici, spaventati da possibili legislazioni antireligiose, e una parte cospicua delle classi popolari, specie nelle campagne, guardano con sospetto ai nuovi venuti, contro i quali non di rado si organizzano insurrezioni armate24>>.

<<Il dibattito fra quelle élite intellettuali e politiche che guardano con simpatia all’arrivo dei francesi si fa vivacissimo, ovunque è possibile, si pubblica un numero sorprendente di giornali e di pamphlets, nei quali si discute animatamente delle possibili riforme, degli assetti costituzionali da dare alle nuove repubbliche e, per la prima volta, si prende in considerazione l’ipotesi della formazione di un unico Stato unitario italiano25>>. […]

In un lampo, però, nel 1799, i palpiti del cuore di coloro che avevano sperato nel cambiamento saranno soffocati e non senza spargimento di sangue. <<Le istituzioni

22 Ivi.

23 Alberto Mario Banti, L’età contemporanea Dalle rivoluzioni settecentesche all’imperialismo, Editori Laterza, Bari 2011, p.95.

24 Ivi.

(20)

(armate) repubblicane vengono abbattute ovunque con sconcertante rapidità: entro il dicembre 1799 la presenza francese è limitata alla sola Genova26>>. […]

Nel resto d’Italia ritornano gli antichi sovrani

.

Una città vivace

Il grosso dell’esercito francese, forse 20.000 uomini, era arrivato a Pistoia il 24 giugno del 1796. A seguire, il giorno dopo, i carriaggi, i cannoni, la cavalleria. Il Generale Bonaparte, comandante in capo dell’esercito francese, sarà in città la mattina del 26 luglio e si stabilirà nel palazzo vescovile.

La truppa alloggerà nel campo di Porta al Borgo mentre agli ufficiali saranno riservate le case dei possidenti.

Il passaggio è breve perché già il giorno dopo, il 27, l’esercito si dirige a Livorno dove si intende sottrarre il porto al controllo della marina britannica: a Pistoia resterà un piccolo presidio della cavalleria.

L’esercito di Napoleone è un esercito moderno e organizzato con sistemi meritocratici. Chi, in Toscana, aveva conosciuto soltanto la truppa scalcinata ne resta affascinato: i giovani soprattutto: <<Il giovane poeta mugellese Filippo Pananti vide proprio a Pistoia, nel giugno 1796, sfilare l’Armée e non seppe sottrarsi al fascino di un esercito composto da uomini “liberi” e con “sentimenti” repubblicani27>>. […]

Non tutti erano però predisposti a sostenere l’anelito rivoluzionario. <<Il basso popolo, invece, era tendenzialmente ostile alla rivoluzione, in virtù dell’attaccamento alla religione e alla tambureggiante azione del clero28>>, infatti madonne contrariate e fiori che non volevano fiorire furono utilizzati per dimostrare quanto fosse malvista dal cielo la bieca propensione al sovvertimento.

L’arrivo di Napoleone aveva scompigliato un apparato che aveva già dato prova di vitalità e <<aveva fatto crescere il partito dei simpatizzanti delle massime francesi29>>. I sospetti su alcuni pistoiesi si fecero incalzanti, furono lanciate accuse di

26 Ibidem, p.99.

27 Giorgio Petracchi (a cura di), Storia di Pistoia. IV, Nell’età delle rivoluzioni, Le Monnier, Firenze 2000, p.17.

28

Ibidem, p.18. 29 Ivi.

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incontri e di scambi epistolari con il poeta Giovanni Fantoni, furono inviate lettere anonime che puntavano il dito su sacerdoti in sospetto di corrispondenza con ufficiali francesi democratici e antimonarchici. Il clima si scaldò in quella piccola città che non poteva certo essere tacciata di immobilismo: se le sue mura potevano far pensare ad un ambiente esclusivo, essa era ben disposta ed abituata ad accogliere le innovazioni e ne aveva dato prova allorquando il granduca Pietro Leopoldo l’aveva coinvolta nella sua azione riformatrice.

Volendo curiosare nel vivace periodo leopoldino, un passo indietro ci porta al 1765 tempo in cui il granduca, desiderando modificare la società feudale per avviare un graduale processo innovativo verso la modernità, iniziò con la trasformazione dell’economia produttiva auspicando la formazione di una classe borghese.

Nuove tecniche di coltivazione nell’agricoltura, sistemazioni fondiarie, mobilizzazioni di fondi ecclesiastici e laici, allivellazioni e, soprattutto, la libertà di commercio e l’abolizione delle strutture corporative furono le prime ad essere attivate e non era certo poco, anche perché, incentivando il processo produttivo, si alimentava la formazione di un nuovo ceto agricolo, un nuovo ceto che, partecipando al governo delle amministrazioni comunitarie, avrebbe bilanciato la casta nobile.

Qualche parere contrario sugli scopi raggiunti dal granduca, non ci distoglie da quanto afferma Petracchi: <<L’area pistoiese fu fra quelle zone in cui il programma ebbe uno sviluppo più positivo che altrove, se non in tutto il territorio, almeno in alcune parti di esso, segnatamente nella Valdinievole, nella montagna e anche nella pianura30>>. […]

La crescita demografica, l’incremento della produzione del grano, assecondato anche dalla felice attitudine del territorio, furono trainanti per l’attività manifatturiera e commerciale. Il vecchio edificio amministrativo fu scardinato e ricostruito <<su basi più razionali e solide31>>.

L’attività di riforma di Pietro Leopoldo che Petracchi ci racconta con dovizia e alla quale io accenno soltanto <<dette un nuovo assetto politico-sociale al territorio pistoiese, volto a favorire la parità fra la città e la campagna. […] Nuovi proprietari, creati con le alienazioni dei patrimoni nobiliari, o ecclesiastici o del demanio statale, scalfirono la preponderanza della nobiltà latifondista nel governo delle Cortine.

30

Ibidem, p.4. 31 Ibidem, p.6.

(22)

La nobiltà a Pistoia era numerosa e, secondo il giudizio di Pietro Leopoldo, “ignorante”, “prepotente” e “tutta inclinata per le cose di Roma”. Ma era ancora divisa in fazioni da faide ereditarie e antiche discordie32>>, […] il che, non può che evocarci suggestioni fatte di rivalità, sotterfugi e contrasti.

Nuovi ceti crescono

Dalle memorie di Pietro Contrucci (biografo di Niccolò Puccini), che avremo in seguito, occasione di conoscere meglio, veniamo a sapere che all’inizio del XIX secolo la maggior parte delle famiglie magnatizie aveva ampio censo ed un alto tenore di vita e coloro <<minori in ricchezza>> e <<diverse nella fortuna, […] non erano pari nella cultura della mente33>>. <<Tra quelli per cui l’intelligenza ha il sopravvento sulla ricchezza, sul falso orgoglio di nascita e di posizione34>>, Contrucci ne cita alcune tra cui quella di Giuseppe Puccini.

C’era, poi, un ceto intermedio in fase nascente formato dalle professioni liberali, medici e professori e un numero ristretto di possidenti e salariati. <<Ma non era solo questione di numeri. La consistenza di un ceto si misura anche in termini di cultura e di consapevolezza politica a svolgere il proprio ruolo storico. La borghesia pistoiese, tra cui molti erano laureati in diritto (”il ceto legale”), presentava nel 1803, per il vicario regio Pietro Mazzini, tutte le qualità e i difetti di “curia numerosa e subalterna… portata al litigio e all’intrigo”. La nobiltà riusciva perciò, meglio che in altre realtà, a mantenere il potere con il metodo tipico di tutte le caste: la cooptazione, la distribuzione di favori, la politica matrimoniale. La riforma comunitativa aveva, tuttavia, accentuato il declino della nobiltà pistoiese. Vi erano nobili che abbracciavano le professioni liberali […], e borghesi che avevano acquisito da non molto lo status di nobiltà, come i Puccini. Il processo di borghesizzazione della nobiltà era iniziato. Il vuoto di coscienza politica, dovuto a una borghesia, ancora alla fine del secolo XVIII, debole o latitante, sarebbe stato riempito in vario modo e misura dal numeroso clero pistoiese, microcosmo di tutte

32 Ibidem, p.10. 33

Ivi. 34 Ivi.

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le posizioni e sfumature politiche, che avrebbe agitato tutta l’epoca risorgimentale35

>>. […]

L’imprescindibile Scipione de’ Ricci

Dal 1780 al 1791 era stato vescovo, a Pistoia, il giansenista Scipione de’ Ricci la cui riforma della Chiesa si era intrecciata con gli entusiasmi riformisti di Pietro Leopoldo.

La riforma di Ricci con il sinodo diocesano del 1786 toccò la vetta massima (fu data al sinodo la rilevanza di un grande concilio). Imprescindibile, per Petracchi, <<recuperare la genesi e il valore morale (più che dogmatico) del riformismo ricciano. Richiamare le idee ricciane, gianseniste o piuttosto “giansenizzanti”, e l’operato del vescovo giova ad “illuminare la preistoria così del cattolicesimo democratico e giacobino del periodo francese come quello liberale della Restaurazione e del Risorgimento”36

>>. […] Convinti come siamo dell’importanza dell’argomento lo seguiamo con interesse.

Il sinodo ricciano ebbe un’eco europea. <<La riforma (ricciana) ripensava dalle fondamenta le basi liturgiche, territoriali, amministrative, il ruolo del clero nella diocesi e la funzione della Chiesa nella società37>>. Tutti provvedimenti davvero sconvolgenti tra cui possiamo ricordare la diminuzione delle parrocchie di città a favore della creazione di quindici parrocchie di montagna, l’incamerazione nel patrimonio ecclesiastico delle rendite delle eliminate congregazioni per potere, così, <<”mettere i preti a salario” eliminando la sperequazione economica esistente fra l’alto ed il basso clero, legata ai benefizi e ai “diritti di stola”. Si voleva che il clero, liberato dalle preoccupazioni economiche fosse totalmente dedito alla cura delle anime38>>. […]

Lo scossone che impose il de’ Ricci andò di pari passo con l’esigenza di Pietro Leopoldo di modernizzare lo Stato anche attraverso il ridimensionamento del potere pubblico della Chiesa <<È difficile stabilire un confine tra consonanza di vedute e convergenza di programmi tra vescovo e granduca. Pietro Leopoldo cercò di servirsi del vescovo per realizzare la riforma dello Stato, Scipione de’ Ricci si appoggiò all’autorità

35 Ibidem, p.11. 36 Ivi. 37 Ivi. 38 Ibidem, p.12.

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governativa per realizzare la riforma religiosa. Il vescovo, in altre parole, non fu uno zelante esecutore dell’operato laicizzante del principe; al contrario credette veramente che il principe fosse inviato da Dio con lo scopo di riformare la Chiesa. La discriminante religiosa è evidente. “Scipione de’ Ricci, se usò della politica granducale per le sue riforme, mai le avrebbe avallate in una dialettica d’immanenza esclusivamente politica”. Il regalismo del vescovo si esaurisce in questa convergenza, anche se il Ricci guardava al modello gallicano di chiesa nazionale, volto a superare il dilemma della “doppia appartenenza”, o della fedeltà al papa e al principe. […]

Gli esponenti dell’“illuminismo cattolico”, ovverosia i ricciani, coloro che si rifacevano al giansenismo, erano in Toscana una piccola élite di alti prelati […]. A Pistoia il “partito” ricciano contava nel clero seguaci numerosi, in parte guadagnati alla politica di proselitismo propiziata dal de’ Ricci con promozioni e incarichi, ma nella maggior parte si trattava di convinti sostenitori, come dimostra il larghissimo e quasi unanime consenso con cui furono approvate le proposizioni sinodali39>>. […]

Rispetto ai clericali, invece, l’adesione dei laici al pensiero ricciano fu minore. Fra gli aderenti rammentiamo Aldebrando Paolini <<conoscitore dei philosophes40>> che, negli anni francesi, svolse un ruolo politico di primo piano.

La scelta dell’uso di <<”buoni libri” di cui ogni parrocchia doveva essere fornita, e nella diffusione popolare della raccolta di opuscoli interessanti la religione41>>, tipica della matrice illuminista ricciana, l’abolizione di certe immagini proprie della religiosità e dell’immaginario popolare, l’introduzione del volgare al posto del latino per alcune preghiere e formule sacramentali e il richiamo al clero e ai fedeli ad una maggiore austerità, colpirono in pieno un’utenza che non solo non corrispose, ma che fu anche plagiata e manipolata a scopo di sollevazioni come ci dimostrano i vari tumulti tra cui quello scoppiato, proprio a Pistoia, nel 1790.

Gli eventi che travolsero il de’ Ricci sono noti: in una miscela di malcontento popolare tra cui, non certo ultimo, il disagio sociale, il vescovo fu costretto a lasciare la città e addirittura, nel maggio del 1805 dovette sostenere la sconfessione della propria azione, mentre, nel 1794, con la bolla Auctorem Fidei emessa da Papa Pio VI, erano state condannate le conclusioni del sinodo.

39 Ibidem, p.13. 40

Ivi. 41 Ivi.

(25)

È naturale, a questo punto, chiedersi se siamo di fronte soltanto ad un sussulto, quello ricciano, fine a sé stesso, oppure se, anche silenziato, esso produsse effetti postumi. <<Monsignor Benvenuto Matteucci, biografo del de’ Ricci, ha supposto che il giansenismo abbia esercitato un influsso sul Risorgimento, influsso beninteso più pedagogico che religioso, giurisdizionale e non teologico. L’esplorazione dell’archivio vescovile di Pistoia offre la prova di una influenza culturale e psicologica esercitata dal clero ricciano sulle vicende politiche pistoiesi, dagli anni francesi al compimento del Risorgimento.

Diverse generazioni di pistoiesi concorsero, in successione tra loro, a sviluppare il “canone risorgimentale”. La prima, quella dei ricciani e dei municipalisti, creò i presupposti dell’azione unitaria diffondendo nei cattolici la mentalità anticuriale e antiromana e gli ideali di uguaglianza e libertà. Questa generazione, che aveva impegnato sé stessa nei piani di riforma politico-costituzionali, e che si ritrovò ben presto estromessa da ogni potere civile ed ecclesiastico, non ebbe altro modo di riversare il suo impegno intellettuale se non nei circuiti culturali, o nelle riunioni settarie. Questi uomini poterono esprimersi in modo veramente libero solo nella Accademia di Scienze, Lettere ed Arti, ribattezzata imperiale, con decreto del 5 dicembre 1811 controfirmato da Napoleone, che volle fosse trasferita dal palazzo civico, dove era stata ospitata dal 1803, nella sontuosa sede del soppresso convento del Carmine 42>>. […]

Ancora i francesi

Come già abbiamo visto, l’armée di Napoleone che era passata per Pistoia nel 1796 aveva suscitato curiosità e simpatie. Quando però i francesi erano tornati a Pistoia nel marzo del 1799, si era manifestato immediatamente il passaggio di ruolo da liberatori ad occupanti. Le avanguardie che arrivarono <<il 30 aprile del 1799 presero la città picchettando le porte e sigillando le casse. I francesi furono accolti con notevole preoccupazione dai membri della comunità civica, ma non dal popolo, che affollava le

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strade. Il diarista Civinini dice che “una moltitudine di pistoiesi sono andati per la città gridando evviva la libertà a tutti i cittadini e uguaglianza”43>>. […]

Se la liberté e l’égalité di spirito rivoluzionario avevano contagiato il popolo (che la fraternité è ben più difficile da propagarsi), lo stesso non si poteva dire per la Comunità la quale <<dovette provvedere al mantenimento dell’esercito a spese dell’erario, che ben presto fu prosciugato, né fu sufficiente ricorrere ai prestiti del Monte Pio; perciò vi furono imposizioni straordinarie. Il clima di emergenza e di arbitrarietà della città comunicò un senso di inquietudine e di ribellione nel contado quando si diffuse la voce che nei giorni 14 e 15 aprile sarebbero state estese alla campagna le requisizioni dei cavalli già effettuate a Pistoia il giorno 12 aprile. La reazione contro l’occupante si manifestò all’improvviso in “una rivoluzione a forma di ribellione” il 13 aprile, un giorno di mercato44

>>. […]

Finito, dunque, rapidamente l’inneggiare ai francesi da parte dei contadini e, decisi, questi, a portare avanti il loro moto (che pare richiamasse quello antiricciano del 1790), acquisendo le armi requisite dai francesi ai volontari toscani, distruggendo simboli, randellando chiunque fosse in sospetto giacobino, toccò ai borghesi e ai nobili calmare le acque <<non per amore dei francesi, ma per timore delle conseguenze del tumulto. Preoccupava tutti l’ipotesi che Pistoia fosse sorpresa in mano ai rivoltosi dalla truppa francese di ritorno dalla montagna e dalla truppa cisalpina richiamata da Firenze45>>.[…]

Il Petracchi, a questo punto, dà una lettura in chiave antropologica di questi fenomeni violenti; la riportiamo: <<La genesi di queste sollevazioni richiama comportamenti collettivi, che hanno valenze più simboliche che economiche e si spiegano alla luce dell’antropologia culturale. Le sollevazioni contadine in epoca premoderna accentuano l’immagine di uno scontro tra un ordine morale che si presenta eterno ed immutabile e un mondo nuovo, che introduce in una collettività dai codici stabili, i caratteri della novità e, dunque, dell’aleatorio. È la paura conseguente di perdere la propria identità. La contrapposizione è espressa bene dalle parole d’ordine dei contadini: “non più libertà, non più cittadini, non più coccarde”46

>>. […] Si spiega così il correre dei contadini al palazzo vescovile allorché, privi di riferimenti, <<vollero

43 Ibidem, p.19. 44 Ivi. 45 Ibidem, p.20. 46 Ivi.

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che il vescovo si affacciasse; in pratica consegnarono nelle sue mani la città che avevano conquistata […]. L’autorità religiosa, perciò, era sentita intrinseca all’immagine che il mondo rurale conservava di sé, perciò era considerata anche più legittima47>>.

Così, con l’obbedienza alle parole suadenti del vescovo, terminò quel 17 aprile che, però, come vedremo, non passò sotto silenzio.

Il vero volto dei francesi

Su quell’evento i francesi non potevano glissare, Pistoia era un punto logistico da salvaguardare (fra l’altro nel 1781 era stata inaugurata la via Modenese che congiungeva il Ducato di Parma ed il Granducato di Toscana tramite il valico dell’Abetone) ed essi, mostrando il loro volto da invasori, presero subito provvedimenti tra cui, significativa, fu l’introduzione della Municipalità che <<stabilì (a Pistoia) il collegamento tra il riformismo leopoldino e ricciano e la politica del Direttorio48>>. […] Fra le rimembranze gianseniste e gli spiriti riformisti leopoldini furono cercati i municipalisti che appartenevano alle più disparate professioni; fra i simpatizzanti leopoldini si legge il nome del cavalier Giuseppe Puccini, definito, per la verità, <<uomo in bilico, fratello di Tommaso e padre di Niccolò49>>. […] Non commentiamo la carente personalità del cavaliere il quale, per questo alone di simpatia verso i francesi dovette in seguito lasciare la città per trasferirsi al poderino di Scornio, ma accenniamo all’inserimento di uomini nuovi e di talento che completò la rosa dei nominati alla Municipalità.

L’importanza dei simboli

Ancestrali, palpabili o impalpabili, frutti che la mente conserva con cura, i simboli fanno intimamente parte di noi, influenzando la nostra realtà ed il nostro immaginario e i francesi non furono i primi e nemmeno gli ultimi a farne un largo uso.

47 Ivi. 48

Ibidem, p.21. 49 Ivi.

(28)

<<Appena insediata, la Municipalità sentì il bisogno di allargare il consenso e di diffondere la conoscenza politica del nuovo potere repubblicano. (Fu indetta) la festa patriottica con la contemporanea erezione dell’albero e della statua della libertà […] per ribadire la rivincita del “potere dei lumi” sulla rivolta “oscurantista”50

>>. […] Seguiamo l’illustrazione di questa coreografia che, per Petracchi ha più i caratteri di una cerimonia che di una festa. Innanzi tutto la distribuzione di pani ai poveri poi <<La coreografia della cerimonia (che) fu curata nei particolari per suggestionare il pubblico con choc estetico ed effetto solenne; la statua, una figura di donna intesa come la “dea ragione”, fu collocata sotto la loggia del palazzo comunale; l’albero fu trasportato su di un cocchio in corteggio lungo le vie della città e poi innalzato in una piazzola opportunamente recintata, in mezzo a piazza del Duomo, ribattezzata Foro Nazionale. I municipalisti rizzavano i pennacchi tricolori, i componenti e i donzelli della Comunità portavano nastri tricolori al braccio sinistro. Quando l’albero fu innalzato, sei paia di piccioni si levarono in volo. Seguirono poi i discorsi ufficiali. […] La manifestazione si concluse a teatro, in una grande festa da ballo, alla quale parteciparono nobili e borghesi: l’ingresso fu gratuito51

>>. […]

Ci fu chi non accolse benevolmente questa iniziativa giudicandola uno spreco di soldi, ma il messaggio, invece, come dimostra la testimonianza scritta del diarista Tommaso Civinini, passò:

Libertà si intende di far tutto ciò che non nuoce al nostro prossimo. Eguaglianza s’intende in quanto alla legge che non avrà riguardo né a ricchi, né a plebej: punirà egualmente, e così sarà fatta la ragione a chi la meriterà. Non può essere buon cittadino chi non è buon padre, buon marito, buon figlio: questo è quanto si è veduto nel presente giorno52.

<<In queste poche efficaci espressioni, il diarista condensò gli articoli principali della famosa dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, il vangelo del liberalismo moderno, che afferma i diritti naturali e sociali dell’uomo, consacra la nuova borghesia e getta le premesse del moderno individualismo, fondato sul merito e sulle virtù personali. Ma

50 Ibidem, p.22. 51

Ivi. 52 Ivi.

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non dimentica neppur la responsabilità e la socialità contenute nella concezione di “cittadino” partecipe di un tutto che è la sua città, la comunità, la famiglia.

Questi nuovi elementi di conoscenza politica non lasciarono inerte l’ambiente pistoiese. Anzi, essi suscitarono i primi fermenti di una socializzazione politica di nuovo tipo, accesa dal gusto di ritrovarsi nei luoghi della socialità democratica, in particolare nel “Caffè dei patrioti” di Andrea Zucani, sulla Porta Vecchia, per discutere le idee democratiche diffuse dalle gazzette, dai libelli o anche dalle rappresentazioni teatrali, a sfondo propagandistico. […] L’acculturazione politica fu, certamente, l’eredità più importante lasciata dai “cento giorni” francesi a Pistoia, anche se ai municipalisti non fu consentito di rilanciare il riformismo leopoldino in modo che essi potessero qualificare in senso politico e amministrativo la loro volontà di cambiamento53>>. […]

I francesi si servirono dei municipalisti per mantenere l’ordine pubblico e per garantirsi contribuzioni, <<le chiese, i monasteri, i conventi, i luoghi pii, tanto ecclesiastici quanto laicali, esclusi soltanto gli ospedali furono spogliati dell’argento e degli ori per coniare moneta54>>, il mantenimento delle truppe richiese urgenti provvedimenti, i costi delle granaglie salirono, il popolo si predispose alla ribellione: nobili e sacerdoti furono dichiarati garanti della pubblica sicurezza e della riottosità in campagna, in città era pieno di spie.

Nel 1799, a giugno, i soldati napoleonici passavano diretti verso Lucca, <<Tra il 5 e 6 luglio le residue truppe francesi lasciarono Pistoia portandosi dietro i municipalisti, eccetto il cavalier Puccini55>>. […]

Alea iacta erat

Sì, il dado era ormai tratto e, in tutta Italia, l’occupazione francese offerse nuovi input alle organizzazioni rivoluzionarie. <<Anche prima del 1796, il giacobinismo si era diffuso in Italia attraverso logge massoniche. A partire dall’invasione francese, crebbe rapidamente il numero di gruppi di “patrioti” e di club democratici che si richiamavano a una Repubblica italiana indipendente e che dettero vita a cospirazioni contro i regimi

53 Ibidem, p.23. 54

Ivi.

(30)

esistenti. Alle repubbliche giacobine si dovette la creazione in campo politico di nuovi modi di pensare, simboli e forme di appartenenza e identità. Milano, la prima grande città ad essere occupata dai francesi, divenne ben presto un centro di agitazione politica, di innovazione culturale e di attività editoriale. Qui e in altri centri urbani, i giacobini introdussero un nuovo vocabolario politico basato su termini quali “nazione” e “patria”, creando un linguaggio capace allo stesso tempo di fondersi con una tradizione culturale elitaria che esprimeva un condiviso senso di italianità e di acquisire grande vigore e centralità nel dibattito intellettuale e politico contemporaneo56>>. […]

Stuart Woolf definisce i giacobini “una nuova generazione” destinata a essere una importante componente della vita politica italica post napoleonica anche se non sempre vincente: <<A cominciare dalla cospirazione di Filippo Buonarroti in Piemonte nel 1796, i giacobini italiani progettarono una serie di sommosse e tentarono di guadagnare il sostegno popolare per la Repubblica. Per un’ironia della storia, tuttavia, questo fervore rivoluzionario portò i giacobini stessi a entrare in conflitto con il governo d’ oltralpe e “la loro azione fu sempre condizionata dal pesante controllo francese” […] e già dal 1797 Napoleone iniziò a reprimere le organizzazioni giacobine nell’Italia settentrionale57>>. […]

A questo ostracismo si deve la frammentazione dei vari gruppi di pensiero che impedì la formazione di un insieme compatto che definisse una linea politica ed una linea di condotta da seguire. La stessa Repubblica cisalpina presentava patrioti divisi in giacobini che volevano una riforma sociale radicale e giacobini più moderati che seguivano la scia dell’Illuminismo lombardo. Il sostegno popolare, poi, era debole nonostante i richiami dei giacobini fossero espliciti.

Gli esempi della Repubblica napoletana e di quella romana ci mostrano quanto blando fosse il sostegno popolare e quanto fu facile tornare al ‘prima’: scoppiarono sommosse in tutta Italia contro la Francia e i patrioti.

Al seguito del cardinale Ruffo, guidati spesso da notabili locali e preti, si trascinò una folla di contadini inferociti; lo stesso successe in Toscana dove, sotto le insegne della Madonna, si consumarono sanguinosi massacri e a Livorno e Siena furono assaltati anche i ghetti ebraici.

56

Riall, Il Risorgimento, pp.7-8. 57 Ivi.

(31)

L’Esercito della Santa Fede, del resto, partendo dalla Calabria al comando del Ruffo, aveva proclamato il bisogno di difendere la religione dai giacobini senzadio facendo pressione anche sulle <<paure popolari e sul risentimento contro le nuove tasse e gli sconvolgimenti che avevano accompagnato l’avvento della Repubblica58

>>, così i timori dilagarono, le carneficine continuarono e le conseguenze di tali luttuosi avvenimenti furono di importanza determinante per la caduta della Repubblica giacobina.

Anche nella piccola Pistoia il dopo Napoleone fu all’insegna della caccia all’ untore. Si iniziò con il ribaltare quei simboli che erano così cari ai francesi cominciando con una processione che ebbe il compito di annullare il rito dell’albero e, sotto la guida di Luigi Cremani, <<zelante funzionario granducale […], [si] condusse una capillare persecuzione politica in via cosiddetta “economica”: un sospetto, una denuncia anonima, una spiata da parte dei birri, bastavano a convalidare l’arresto dell’indagato, senza possibilità per costui di difendersi, né di essere informato del procedimento a suo carico se non al momento dell’arresto59>>. […]

Una prima ondata di fermi si ebbe quando Giuseppe Franchini, comandante della piazza, assunse il potere politico in nome del comando di Firenze; gli arrestati <<sospetti di novità60 […]>> furono quattordici pistoiesi e tre piemontesi.

La seconda ondata di fermi si ebbe sotto la pressione di cittadini e contadini ma, nel giro di pochi giorni, tutti i fermati furono liberati con gran rammarico dei fautori degli arresti. Il rimedio ai malumori fu però ben presto trovato <<il nuovo comandante della piazza, il capitano austriaco barone di Zechmeister, fu opportunamente istruito di concertare con il vicario l’azione di repressione. Il 21 luglio (1799) ventotto cittadini “fedeli sudditi dell’amatissimo sovrano Ferdinando III” diressero una petizione al vicario regio perché destituisse dai pubblici uffici tutti coloro che si fossero compromessi con l’amministrazione francese61

>>. […]

Il procedimento ebbe luogo l’indomani e questo stato di cose si protrasse: <<La città non appariva tranquilla, né pacificata. I nobili e i possidenti avrebbero preferito eclissarsi alla vista dei francesi, ritirandosi nelle loro dimore di campagna. Ma quei

58 Ibidem, p.9.

59 Petracchi, Storia di Pistoia IV, Nell’età delle rivoluzioni, 1777-1877, Le Monnier, Firenze 2000, p.25. 60

Ivi.

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nobili che vivevano appartati erano pure accusati di “spirito antipartitico” e fatti oggetto di richiamo62>>. […]

Alla ricerca di stabilità

Mancava, ai pistoiesi, un ordine che mettesse fine a quell’instabilità politica così estenuante che li aveva accompagnati nel triennio, tant’è vero che moderati, conservatori e reazionari si erano compattati in nome di un equilibrio che prevedeva l’allontanamento dei “giacobini” i quali, con un ultimo sussulto del febbraio 1802, avevano cercato invano di resistere ed invece, erano stati tutti arrestati e <<trasferiti nelle carceri del supremo tribunale di giustizia63>>; chi era rimasto non aveva avuto altra possibilità che oscurarsi nelle ‘logge’.

Il trattato di Lunéville, con la trasformazione del Granducato di Toscana in Regno d’Etruria, avrebbe cambiato nuovamente le carte in tavola.

Voci di corridoio. Dal Granducato ai Borboni

Nonostante circolassero voci <<del prossimo passaggio del Granducato ad una monarchia borbonica64>>, una vasta parte dell’opinione pubblica qualificata, restava incredula. Giuseppe Pelli, funzionario granducale e scrittore, che possedeva un estratto del trattato dai “fogli pubblici di Genova”, scrive: <<Ecco il trattato di pace stipulato a Lunéville il di’ 9 stante per l’art. V del quale noi passiamo al Duca di Parma, (come dissi). Perché vi sono delle persone non del volgo, che per varie non spregevoli ragioni lo credono apocrifo, io aspetterò ad esternare le molte mie riflessioni sopra il medesimo tanto più che il nostro attual governo non lo ha fatto ancora formalmente pubblicare e non lo farà se non dopo la ratifica65>>.

62 Ibidem, p.28. 63 Ibidem, p.29.

64 Francesco Romano Coppini, Il Granducato di Toscana - dagli anni francesi all’Unità, UTET, Torino 1993, p.3.

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Questa novità (forse potremmo chiamarlo anche stravolgimento) aveva preso forma dalle bramosie della regina di Spagna Maria Luisa di Parma che accarezzava l’idea di vedere finalmente un Borbone sul trono di Toscana. <<Tale scopo poteva essere raggiunto attraverso la cessione dei ducati di Parma e Piacenza alla Cisalpina, obiettivo desiderato da Napoleone I, in cambio di “un aumento di potere in Italia” dell’infante di Parma Ludovico, che aveva sposato Maria Luigia di Spagna66>>.

Anche se gli Stati italiani non erano nuovi ai giochi di scacchiera effettuati spesso e volentieri durante i tourbillons politici, questo passaggio repentino alla Spagna, che determinò parecchi cambiamenti, fu accolto con novello stupore.

Per chiarire bene le circostanze che comportarono le diverse mosse e coinvolsero diversi territori, leggiamo parola per parola ciò che ci dice Coppini a tal proposito: <<Fin da ottobre le truppe di Murat invadevano la Toscana. Le vittorie militari permisero alla Francia di costringere l’Austria alla pace di Lunéville (9 febbraio 1801) con cui l’imperatore conveniva (in base all’art: V) che “il Granduca di Toscana rinunzia per sé e i suoi successori e pretendenti al Granducato di Toscana, e alla parte dell’isola d’Elba che ne dipende (come pure a tutti i diritti e i titoli risultanti da questi diritti su detti stati), i quali saranno posseduti d’ora in avanti in tutta sovranità e proprietà da S.A.R., l’Infante Duca di Parma. Il Granduca ottenne in Germania una indennità piena ed intera de’ suoi stati d’Italia”.

Attraverso il controllo del porto di Livorno e di parte dell’Elba, per mezzo di un governo fantoccio, o almeno amico, il Direttorio sperava di poter bloccare i traffici commerciali inglesi verso il resto d’Italia e veder agevolare le proprie rotte per il Medio Oriente. Il nuovo Regno d’Etruria veniva in seguito indennizzato per mezzo del “Pays de Piombino, qui appartient au Roi de Naples”, della parte dell’Isola d’Elba toscana che rimaneva “dans la possession de la République française”. Queste disposizioni furono possibili dal successivo trattato di Firenze (27 febbraio) fra la Francia e Ferdinando IV di Napoli, che rinunziava ai possessi napoletani in Toscana: a Portolongone, “agli Stati dei Presidi della Toscana”, cedendoli tutti assieme al principato di Piombino al Governo francese che ne potrà disporre a suo piacimento”67>>. […]

66

Ibidem, p.4. 67 Ivi.

(34)

Quando, alla fine di marzo, fu reso noto il trattato <<Il malcontento continuava a serpeggiare nei diversi ceti e partiti toscani68>> e gli ingenti contributi che il governo doveva pagare alle truppe francesi erano sicuramente uno dei motivi di contrapposizione. Intanto, briganti e rivoluzionari continuavano i loro attentati contro la milizia francese, il tutto, in quel clima di spossatezza che aveva pervaso la gente ormai satura di irrequietezze. I problemi economici continuavano ad assillare il governo provvisorio dei quadrunviri di fresca nomina murattiana (giacché il generale aveva sostituito i triunviri <<hommes ardens et à principes rivoluttionaires69>>), con giustappunto, i quadrumviri già ben disposti , secondo lui, ad accogliere il nuovo sovrano. Nonostante il loro impegno, i risultati furono esigui anche perché Murat continuava a chiedere sovvenzioni ad una Toscana sempre più dissanguata.

Le Roi d’Etrurie

La coppia reale che a Parigi, era stata festeggiata da Napoleone con grande fasto, non ebbe stessa sorte all’arrivo (12 agosto) a Firenze.

Del resto, già il 29 luglio, alla venuta dell’appena nominato commissario Ventura, nonostante la buona accoglienza di molti, numerosi furono gli animi che dettero segni di insofferenza. Sempre il Pelli, in una delle sue meticolose note, ci partecipa eloquentemente la situazione del momento: la nomina del Ventura anziché placare le acque le aveva molto agitate.

Il sovrano cercò di farsi benvolere; aveva provato a mantenere i funzionari toscani anziché portarne da Parma, aveva promosso un indulto, aveva “pensionato” membri del governo provvisorio sostituendoli con altri che riteneva più adatti ma le soluzioni adottate non erano servite a conquistargli il plauso. La sua precoce morte, era il 1803, non lasciò rimpianti.

Intanto le casse continuavano ad essere vuote ed i debiti ingenti. (inserimento piantina della Toscana, Coppini p.16)

Non ci furono rammarichi anche quando Maria Luigia lasciò il trono toscano: <<Maria Luigia aveva distolto i toscani dall’affezione alla monarchia con i favori

68 Ivi 69 Ivi.

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