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Gestione della cronicità: nuovi assetti organizzativi e operativi

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Academic year: 2021

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SOMMARIO

PREMESSA ... 3

CAP 1, L’EVOLUZIONE DEI BISOGNI ... 5

1.1 Invecchiamento della popolazione ... 5

1.2 Malattie cronico – degenerative... 7

1.3 Nuova idea di salute ... 8

CAP 2, RIASSETTO DEL SSR TOSCANO ... 9

2.1 Nuovo assetto delle aziende USL ... 10

2.2 Nuovo modello di programmazione ... 11

2.3 Organizzazione del territorio ... 13

2.4 Dipartimenti delle professioni sanitarie ... 14

2.5 Riordino della rete ospedaliera ... 15

CAP 3, SANITA’ PER PROCESSI E PERCORSI ... 16

3.1 Processi e percorsi ... 16

3.2 Breve storia dei percorsi assistenziali... 18

3.3 Vantaggi e svantaggi dei percorsi assistenziali ... 19

4 PROJECT: IL MACROPROCESSO DELLA GESTIONE DELLA CRONICITA’ ... 23

4.1 Premessa ... 23

4.2 Obiettivi generali ... 26

4.3 Metodologia ... 26

4.4 Il macroprocesso di gestione del paziente con patologia cronica ... 27

4.4.1 FASE 1: STRATIFICAZIONE ED INDIVIDUAZIONE DELLA POPOLAZIONE TARGET ... 27

4.4.1.1 Macroattività ... 27

4.4.1.2 Obiettivi proposti ... 28

4.4.1.3 Criticità ... 28

4.4.1.4 Linee di intervento proposte ... 29

4.4.1.5 Risultati attesi ... 29

4.4.2 FASE 2: PROMOZIONE DELLA SALUTE, PREVENZIONE E DIAGNOSI PRECOCE ... 30

4.4.2.1 Macroattività ... 30

4.4.2.2 Obiettivi proposti ... 31

4.4.2.3 Alcune criticità ... 31

4.4.2.4 Linee di intervento proposte ... 32

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2 4.4.3 FASE 3: PRESA IN CARICO E GESTIONE DEL PAZIENTE ATTRAVERSO IL

PIANO DI CURA ... 33

4.4.3.1 PRESA IN CARICO E GESTIONE DEL PAZIENTE ATTRAVERSO IL PIANO DI CURA: ORGANIZZAZIONE DEI SERVIZI ... 33

4.4.3.1.1 Macroattivita’ ... 35

4.4.3.1.2 Obiettivi proposti ... 39

4.4.3.1.3 Alcune criticità ... 39

4.4.3.1.4 Linee di intervento proposte ... 39

4.4.3.2 FASE 3: PRESA IN CARICO E GESTIONE DEL PAZIENTE ATTRAVERSO IL PIANO DI CURA: INTEGRAZIONE SOCIOSANITARIA ... 40

4.4.3.2.1 Macroattività ... 41

4.4.3.2.2 Obiettivo proposto ... 43

4.4.3.2.3 Linee di intervento proposte ... 43

4.4.3.3 FASE 3: PRESA IN CARICO E GESTIONE DEL PAZIENTE ATTRAVERSO IL PIANO DI CURA: ORGANIZZAZIONE DELL’ASSISTENZA OSPEDALIERA ... 43

4.4.3.3.1 Obiettivi proposti ... 45

4.4.3.3.2 Linee di intervento proposte ... 45

4.4.4 FASE 4: EROGAZIONE DI INTERVENTI PERSONALIZZATI PER LA GESTIONE DEL PAZIENTE ATTRAVERSO IL PIANO DI CURA ... 45

4.4.4.1 Macroattività ... 46

4.4.4.2 Obiettivi proposti ... 49

4.4.4.3 Alcune criticità ... 49

4.4.4.4 Linee di intervento proposte ... 49

4.4.4.5 Risultato atteso ... 50

4.4.5 FASE 5: VALUTAZIONE DELLA QUALITA’ DELLE CURE EROGATE ... 50

4.4.5.1 Macroattivita’ ... 51

4.4.5.2 Obiettivi proposti ... 52

4.4.5.3 Linee di intervento proposte ... 53

4.4.5.4 Risultati attesi ... 53

4.5 Valutazione della performance ... 53

CONCLUSIONE ... 64

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PREMESSA

Il riequilibrio e l’integrazione tra assistenza ospedaliera e territoriale costituisce oggi uno degli obiettivi prioritari di politica sanitaria verso cui i sistemi sanitari più avanzati si sono indirizzati per dare risposte concrete ai nuovi bisogni di salute determinati dagli effetti delle tre transizioni (epidemiologica, demografica e sociale) che hanno modificato il quadro di riferimento negli ultimi decenni portando ad un cambiamento strutturale e organizzativo. In Toscana, come nel resto d’Italia e d’Europa, continua ad aumentare il numero di anziani e le varie previsioni demografiche permettono di stimare che tale aumento sarà ancora più marcato nei prossimi decenni, quando diventeranno anziane le coorti di nascita successive alla seconda guerra mondiale, caratterizzate da alta natalità. Continua purtroppo, a causa della crisi economica, la contrazione della natalità e di contro diminuisce il tasso di mortalità. I progressi in ambito medico hanno infatti contribuito largamente alla progressiva diminuzione della mortalità generale.

Possiamo dunque dedurre che in una popolazione prevalentemente anziana si verificherà un’incidenza sempre più alta di patologie croniche e delle loro complicanze, la maggior parte delle quali assolutamente prevenibili, patologie che hanno un peso finanziario davvero imponente sul Servizio sanitario nazionale.

I Sistemi Sanitari europei puntavano inizialmente alla cura delle patologie acute, sviluppando quindi modelli assistenziali e gestionali adatti all’acuzie, che richiede un intervento rapido e puntuale; tuttavia, per le patologie croniche, che rappresentano attualmente la fetta più larga degli assistiti, serve invece un modello di assistenza diverso, che sposti le risorse sul territorio, per evitare non solo che le persone si ammalino, ma anche che chi è già malato vada incontro a ricadute, aggravamenti e disabilità, aumentando il carico di spesa del SSN.

Negli ultimi decenni il SSN è stato caratterizzato da una costante e rapida crescita del peso dei servizi territoriali, sia dal punto di vista delle risorse investite che dal punto di vista dell’offerta di servizi. Rispetto all’assistenza ospedaliera, focalizzata sulla necessità di superare il momento acuto di cura del paziente con una tendenza alla riduzione dei tempi di permanenza negli istituti di ricovero, l’assistenza territoriale si basa sul principio della presa in carico stabile del paziente per la cura della cronicità. Da questa prospettiva, anche le scelte strategiche dei decisori si sono spostate verso la ricerca di strumenti di gestione innovativa dell’assistenza, quali la continuità assistenziale e la definizione di percorsi assistenziali di cura. Anche la regione Toscana si è mossa in questo senso con la legge regionale 84/2015, dando risalto alla rete territoriale

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mediante il potenziamento della zona-distretto. Essa è l’ambito territoriale ottimale di valutazione dei bisogni sanitari e sociali delle comunità, nonché di organizzazione ed erogazione dei servizi inerenti alle reti territoriali sanitarie, socio-sanitarie e sociali integrate. I percorsi diagnostico-terapeutici ed assistenziali (PDTA) rappresentano, in questa prospettiva, il disegno logico ed organizzato dell’insieme dei “prodotti” erogati dalle aziende sanitarie individuati secondo una strategia condivisa fra tutte le componenti sanitarie coinvolte e permettono di identificare i ruoli e le competenze di ognuna di queste parti.

In quest’ottica, l’ospedale va quindi concepito come uno snodo di alta specializzazione del sistema di cure per la cronicità, che interagisca con la specialistica ambulatoriale e con l’assistenza primaria, attraverso nuove formule organizzative che prevedano la creazione di reti multispecialistiche dedicate e “dimissioni assistite” nel territorio, finalizzate a ridurre il dropout dalla rete assistenziale, causa frequente di riospedalizzazione a breve termine e di outcome negativi nei pazienti con cronicità. Tale orientamento è in linea con quanto previsto dal Regolamento n. 70 del 2 aprile 2015 recante la definizione degli standard ospedalieri. Tale regolamento prevede che le iniziative di continuità ospedale - territorio possano anche prevedere la disponibilità di strutture intermedie, la gestione della fase acuta anche a domicilio mediante gruppi multidisciplinari, programmi di ospedalizzazione domiciliare per particolari ambiti clinici, centri di comunità/poliambulatori, strutture di ricovero nel territorio gestite dai medici di medicina generale.

È quindi proprio il territorio il setting migliore per affrontare e gestire tutte le complessità e le eventuali comorbilità, anche grazie alla possibilità di avvalersi di competenze specialistiche multidisciplinari articolate, per quanto possibile, in sistemi “a rete” di tipo ambulatoriale (ambulatori protetti, ambulatori specialistici multidimensionali e multidisciplinari, day service) o ospedaliero diurno (day hospital, day surgery), o in ospedali di comunità, riservando i ricoveri ordinari a casi limitati o di grande severità e complessità.

Si vuole in questa sede proporre un PDTA che illustri il macroprocesso di gestione ottimale del paziente affetto da patologia cronica. Per vincere la sfida contro queste “nuove epidemie” è necessario coinvolgere e responsabilizzare tutte le componenti, dalla persona con cronicità al “macrosistema-salute”, formato non solo dai servizi ma da tutti gli attori istituzionali e sociali che hanno influenza sulla salute delle comunità e dei singoli individui.

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CAP 1, L’EVOLUZIONE DEI BISOGNI

Negli ultimi anni, il quadro epidemiologico italiano ha subito profondi cambiamenti dal punto di vista socio-demografico ed economico a causa della crescente complessità ed eterogeneità della popolazione e dei relativi bisogni. In particolare, si è assistito a una progressiva diversificazione dei bisogni umani sia a livello quantitativo che a livello qualitativo: la causa di tale evoluzione risiede nelle caratteristiche, altrettanto mutevoli e complesse, della società di riferimento.

La domanda di assistenza socio-sanitaria è quindi diventata sempre più esigente, personalizzata e non pienamente soddisfatta; il sistema sanitario deve pertanto essere rimodellato e plasmato per venire incontro ai nuovi bisogni (Fondazione Sicurezza in Sanità, 2013). Analizzeremo di seguito i principali fattori che hanno stimolato il cambiamento dei bisogni e delle necessità della popolazione italiana, prendendo come riferimento elaborazioni dei dati Istat.

1.1 Invecchiamento della popolazione

E’ ormai noto come lo sviluppo di nuovi stili di vita abbia aumentato nel tempo il benessere generale della comunità. La conseguenza di tale benessere si è riversata nel quadro demografico della popolazione, sempre più anziana e con un’aspettativa di vita sempre più alta. Dai dati Istat degli ultimi anni è stato registrato un incremento del numero delle persone anziane in Italia e tale fenomeno è stato rafforzato dalla diminuzione del numero di nascite annuali. Al 1° gennaio 2015, l’età media della popolazione supera in Italia i 44 anni. La percentuale di popolazione per fasce di età è distribuita come segue: 13,8% fino a 14 anni di età, 64,4% dai 15 ai 64 anni e 21,7% dai 65 anni e più (Istat, 2015). La percentuale di persone con 65 anni e più, se confrontata ad anni precedenti, è quella che ha subìto il cambiamento più rilevante, passando da una percentuale del 19% nel 2003 a un 21,2% nel 2013.

Inoltre, dall’analisi di previsioni demografiche per i prossimi anni, l’innalzamento dell’età media e la presenza di ultrasessantacinquenni sono fenomeni che interesseranno tutte le regioni d’Italia, così come la riduzione del numero di giovani.

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Come è possibile osservare dalla Tabella 1.1, il numero di giovani tra gli zero e i quattordici anni subirà un brusco calo, mentre la quota di persone in età compresa dai sessantacinque anni e più aumenterà in maniera progressiva, fino a raggiungere un totale di 20 milioni di persone nel 2065. Persone in età compresa tra i quindici e i sessantaquattro anni, invece, subiranno una diminuzione che secondo le stime passerà da 39,8 milioni di persone nel 2011 a 33,5 nel 2065. La conclusione di tali disposizioni è che l’Italia diventerà un Paese sempre più vecchio, con una crescita della speranza di vita sia alla nascita che a sessantacinque anni e con un innalzamento dell’età media.

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Il Grafico 1.1 descrive invece la distribuzione della popolazione anziana nelle regioni Italiane nel 2013, facendo una distinzione per fasce di età comprese tra 65 e 74 anni, tra 74 e 84 anni e da 85 e più anni.

Il fenomeno delle migrazioni è decisivo per la crescita demografica: sono in numero sempre minore le donne italiane in età feconda e le cittadine straniere stanno in parte colmando tale mancanza. Come rilevano i dati riportati dall’Istat a novembre 2014, i bambini iscritti in anagrafe per nascita nel 2013 sono 514.308, circa 20 mila in meno rispetto all’anno precedente (Istat, 2014). La presenza della popolazione straniera all’interno delle dinamiche del Paese è un elemento determinante per garantire un positivo bilancio demografico: è previsto che gli stranieri aumentino in modo esponenziale, con una previsione che oscilla tra i 7,3 milioni di stranieri nel 2020 e 9,5 milioni nel 2030 (Istat, 2011).

La presenza di una società multietnica e l’insorgere di nuove e croniche patologie rappresentano degli elementi precursori per lo sviluppo di nuove forme di assistenza sanitaria.

1.2 Malattie cronico – degenerative

I bisogni sanitari e sociali sono legati allo sviluppo di malattie croniche e alle conseguenze che ne derivano. Come conseguenza dell’invecchiamento, le patologie cronico-degenerative interessano soprattutto le persone anziane, con frequenza maggiore tra le persone ultra-settantacinquenni, raggiungendo un’incidenza su tali soggetti pari all’86,4 %. I soggetti compresi tra i 55-59, invece, sono interessati da patologie cronico-degenerative per una quota pari al 55% (Istat, 2013). Tuttavia, dagli studi elaborati dall’Istat, emerge che le donne, in particolare dopo i 44 anni, sono i soggetti più esposti al rischio di contrarre malattie croniche. Tra le patologie con un indice di frequenza in aumento bisogna menzionare i tumori maligni, il diabete e le demenze senili.

Rispetto ad anni precedenti, è aumentata la percentuale sia di persone affette da almeno una patologia cronica grave sia di persone anziane esposte al rischio di contrarre malattie, come illustra la Tabella 1.2.

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1.3 Nuova idea di salute

Cambia la società, cambiano i valori e le idee; anche il concetto di salute cambia, andando a toccare la sfera emotiva e non più solo fisica dell’individuo. Fino a non molto tempo fa, infatti, il concetto di salute era basato sul semplice significato di “assenza di malattia”; ora, esso assume un significato più ampio. La salute rappresenta uno stato di benessere completo e generale della persona, un benessere di carattere sociale e mentale, e non solo fisico. Una visione di questo tipo ha costretto la medicina a ripensare alla sua organizzazione, da sempre dedita alla diagnosi e allo studio delle varie patologie. Subentra una nuova prospettiva di promozione e prevenzione della salute, a interesse di tutti i cittadini.

Il concetto di salute nel tempo si è evoluto a causa delle caratteristiche sociali e demografiche della popolazione, quali cambiamenti negli stili di vita, l’invecchiamento progressivo e l’aumento delle malattie croniche. Il “benessere” generale dell’individuo diventa l’obiettivo cardine da raggiungere, realizzabile attraverso interventi di orientamento e di governo della domanda sanitaria.

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CAP 2, RIASSETTO DEL SSR TOSCANO

Questi fattori (l’invecchiamento della popolazione, l’aumentare costante delle patologie cronico-degenerativa e la definizione di un nuovo concetto di salute), a fronte dei costi crescenti dei processi di diagnosi e cura, hanno ovviamente reso necessarie delle continue modifiche del sistema sanitario per poter promuovere il miglioramento della qualità dei servizi e contemporaneamente assicurare la sostenibilità e il carattere pubblico ed universale del sistema sanitario stesso. È stato quindi necessario elaborare una riorganizzazione profonda e radicale dell’assetto del sistema sanitario regionale: nasce così la Legge Regionale n. 84/2015, che ha modificato le linee dell’organizzazione della sanità toscana con la riduzione del numero delle Aziende sanitarie locali, con il rafforzamento della loro integrazione con le Aziende ospedaliere universitarie nell’Area vasta e nel coordinamento delle Aree vaste fra di loro. La maggiore efficienza attesa consentirà di sostenere il maggior carico di malattia e di bisogno di cure che la crisi e la transizione epidemiologica e demografica determinano in una società come quella toscana, sempre più anziana, anche in ragione dei successi ottenuti sulle cause di malattia e morte nelle fasce di età giovanili e adulte.

Il riassetto del Sistema Sanitario Regionale Toscano ha degli obbiettivi di principio che attraversano in modo trasversale le aree del sistema socio sanitario, sintetizzati nei seguenti punti:

• Perseguire la salute come risorsa e non come problema: risorsa per l’individuo nella scelta di stili di vita più sani, per la comunità nella creazione di un ambiente di vita e di lavoro più salubre, di un contesto sociale ricco di opportunità in particolare per le persone svantaggiate, per il sistema regionale in toto nell’individuare direttrici di sviluppo innovative ed economicamente rilevanti.

• Mettere al centro la persona nella sua complessità: le trasformazioni sociali ed epidemiologiche degli ultimi anni hanno reso la domanda di salute sempre più complessa e difficile da inquadrare in un ambito preciso. Produrre risposte risolutive è possibile soltanto attraverso il coordinamento di tutti gli interventi necessari e la partecipazione di tutti gli attori coinvolti, in un sistema che metta al centro la persona e non la sommatoria dei suoi problemi, trovando soluzioni più attente al reale vissuto della persona interessata

• Aumentare l’equità: le diseguaglianze socio-economiche nella società hanno prodotto diseguaglianze nella salute. È quindi inevitabile la volontà di eliminare buona parte delle

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differenze fra i servizi offerti, garantendo l’acceso e lo stesso livello di qualità e sicurezza.

• Perseguire sicurezza, efficacia e appropriatezza come valore del sistema: per rispondere alla crescita esponenziale della domanda di salute evidenziata negli ultimi anni, diventa fondamentale che un Sistema Sociale e Sanitario efficace e sostenibile persegua l’erogazione di prestazioni efficaci e appropriate, in contesti in cui la sicurezza possa essere assicurata, attraverso la ricerca continua della qualità dei servizi forniti.

• Semplificare e sburocratizzare l’accesso ai servizi: mettere la persona al centro significa agevolare il percorso dell’individuo attraverso scelte innovative tese a semplificare l’organizzazione dei servizi sociali e sanitari.

Nonostante la riduzione significativa delle risorse a disposizione, assolutamente inadeguate rispetto all’aumento altrettanto significativo dei bisogni, il sistema socio sanitario toscano reagisce rinnovandosi, partendo da alcuni elementi irrinunciabili: anzitutto, l’obiettivo finale è l’erogazione di “salute” e non di servizi, quindi la salute stessa è intesa come diritto del singolo e contemporaneamente come dovere della collettività. Sono infatti proprio i cittadini e associazioni dei malati, insieme ai professionisti e ad una adeguata programmazione, gli elementi fondanti del sistema sanitario regionale, che è basato sull’uguaglianza, l’umanizzazione e la personalizzazione delle cure. Altro elemento importante è la valorizzazione e integrazione delle risorse umane, elementi preziosi e insostituibili nei servizi alla persona, della professionalità e delle competenze in ogni ruolo e profilo professionale; questi, assieme ad un’organizzazione dell’assistenza per processi e alla multidisciplinarietà delle cure, danno una spinta continua verso il miglioramento attraverso il riferimento costante al livello di qualità e alla sicurezza delle persone e la trasparenza nei processi di verifica dei risultati.

I punti salienti della riforma sono essenzialmente 5 e verranno esaminati nel dettaglio.

2.1 Nuovo assetto delle aziende USL

Dal punto di vista macroscopico della gestione territoriale, la riorganizzazione prevede l'accorpamento delle aziende sanitarie locali, che da 12 diventano 3, una per ogni area vasta:

• Azienda Usl Toscana Centro, che riunisce Asl 3 di Pistoia, Asl 4 di Prato, Asl 10 di Firenze, Asl 11 di Empoli;

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• Azienda Usl Toscana Nord Ovest, che riunisce Asl 1 di Massa Carrara, Asl 2 di Lucca, Asl 5 di Pisa, Asl 6 di Livorno, Asl 12 di Viareggio

• Azienda Usl Toscana Sud Est, che riunisce le Asl 7 di Siena, Asl 8 di Arezzo, Asl 9 di Grosseto.

Nulla cambia, invece, per quanto riguarda le quattro aziende ospedaliero-universitarie: AOU Careggi, AOU Meyer, AOU Pisana e AOU Senese.

In questa maniera, vengono ovviamente riconfigurate anche le stesse aree vaste:

• Area Vasta Toscana Centro: comprende la AUSL Toscana Centro e l’AOU Careggi; • Area Vasta Toscana Nord-ovest: comprende la AUSL Toscana Nord-ovest e l’AOU

Pisana;

• Area Vasta Toscana Sud-est: comprende la AUSL Toscana Sud-est e l’AOU Senese.

La riduzione del numero delle Asl è dettata da molteplici necessità: anzitutto ha senso nell’ottica dell’uniformare la sanità toscana nell'organizzazione e nelle risposte ai bisogni della popolazione. Dal punto di vista prettamente economico evita invece duplicazioni e sprechi e porta alla realizzazione di economie di scala, che si traducono in un recupero di risorse da investire in sanità. Da qui la necessità di avere una programmazione più efficace e incisiva a livello di area vasta, tra le 3 grandi Asl e le aziende universitarie.

2.2 Nuovo modello di programmazione

La programmazione di Area Vasta è uno dei punti cardine della riforma; essa deve armonizzare e integrare, su obiettivi unitari di salute ed in coerenza con i piani regionali, i livelli di programmazione dell’Azienda unità sanitaria locale e quelli dell’Azienda ospedaliera universitaria. Questi, pur con mission differenti, devono agire in maniera integrata nella definizione unitaria dei percorsi assistenziali. La riforma, con la programmazione di Area Vasta, riorienta il sistema sanitario regionale verso l’appropriatezza, la qualità e la sostenibilità del servizio sanitario pubblico. Al centro di tali percorsi ci sono i cittadini con i loro differenti bisogni, che devono trovare nella rete assistenziale dell’Area Vasta una risposta coordinata, appropriata, omogenea e di qualità.

Nello specifico, la Regione garantisce e sovraintende all’attuazione della programmazione strategica regionale attraverso dei piani di area vasta. Gli attori della programmazione sono essenzialmente le aziende ospedaliero-universitarie, le aziende unità sanitarie locali e gli altri

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enti del sistema sanitario regionale, che assieme concorrono, nella specificità propria del ruolo e dei compiti di ciascuna, allo sviluppo a rete del sistema sanitario regionale stesso. I contenuti e gli obiettivi principali sono ovviamente definiti dal piano sanitario e sociale integrato regionale. Per poter perseguire gli obiettivi prefissati (appropriatezza degli interventi, integrazione dei servizi assistenziali in rete, ottimizzazione delle risorse e sviluppo delle competenze), la Regione ha attivato i Dipartimenti Interaziendali di Area Vasta (DIAV), che si configurano quale strumento di coordinamento tecnico professionale, finalizzato al supporto della programmazione strategica di area vasta, alla promozione della qualità e dell’appropriatezza delle cure, dell’omogeneità sui territori e dell’efficienza delle attività. I DIAV sono costituiti dai direttori di Dipartimento e dai direttori delle U.O. mediche della Asl e delle AOU, delle U.O professionali (Infermieri, fisioterapisti, tecnici di radiologia, tecnici di laboratorio, ecc.), dai rappresentanti dell’Università per la didattica e ricerca, da un rappresentante dei medici di medicina generale, un rappresentante dei pediatri di libera scelta, un rappresentate degli specialisti ambulatoriali. Ne faranno parte anche i rappresentanti del Privato accreditato, del Terzo settore no profit, delle associazioni dei malati e dei rappresentanti delle Società scientifiche, per garantire la partecipazione di tutti gli attori alla definizione di percorsi assistenziali condivisi che utilizzino al meglio e in maniera integrata e centrata sui pazienti tutte le risorse disponibili su un territorio: sarà così possibile ridurre consistentemente la variabilità, nella rete ospedaliera e nei territori, degli stessi processi assistenziali, con recupero di efficienza (riduzione dei costi) e aumento della qualità e appropriatezza, omogeneità ed equità di accesso ai servizi.

Il DIAV ha varie funzioni:

• formula proposte, ai fini della realizzazione degli obiettivi del piano di area vasta, finalizzate a garantire l’omogeneità territoriale dei servizi, la predisposizione dei percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali, la qualità e appropriatezza delle cure, l’efficienza organizzativa, tenuto conto di soglie, volumi e parametri di qualità e sicurezza definiti a livello regionale;

• Rappresentano il luogo in cui si definiscono le forme di governo clinico nei punti di interfaccia che si trovano nel percorso assistenziale, ospedale - territorio – cure intermedie - domicilio;

• contribuisce alla definizione del fabbisogno formativo e di sviluppo delle competenze; • fornisce al direttore per la programmazione di area vasta contributi per il monitoraggio

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Il Piano operativo di Area Vasta (POAV) è lo strumento principale del direttore della programmazione. In esso si esplicitano le azioni e gli obiettivi strategici a carattere socio sanitario integrato, tenendo conto delle indicazioni del Piano sociosanitario integrato e degli indirizzi della Conferenza dei sindaci di Area Vasta. Si tratta di un documento complesso e articolato le cui azioni e progettualità strategiche trovano un puntuale riscontro nel Piano attuativo locale (PAL) della Usl e nel Piano attuativo ospedaliero (PAO) dell’Azienda ospedaliera universitaria e dell’AOU Mayer, oltre che nei documenti di programmazione dell’Ispo e della Fondazione Gabriele Monasterio per le parti di specifica competenza.

Il Piano operativo di Area Vasta ha una valenza temporale 2016-2020, coincidente con le indicazione del Piano regionale di sviluppo e con Il Piano sociosanitario Integrato Regionale, ma ha uno scorrimento ed aggiornamento annuale in base alle necessità, agli obiettivi di efficienza e di efficacia, e alla compatibilità economica stabilita dalla Giunta regionale.

Quindi la legge 84/2015 dà finalmente all’Area Vasta una chiara connotazione organizzativa gestionale, attraverso il POAV, per riallineare tutti i soggetti del sistema attorno ai percorsi e bisogni dei pazienti, in un processo globale di reingegnerizzazione che sul lungo periodo può portare fino ad un valore di -20% dei costi assistenziali: questo processo può quindi portare a liberazione di risorse da reinvestire verso settori strategici come l’innovazione, la prevenzione e l’assistenza dei non autosufficienti gravi.

2.3 Organizzazione del territorio

La grande novità di questa riforma è proprio la rilevanza che viene data al territorio. A fianco della riduzione delle Asl, infatti, è stato stabilito il potenziamento delle zone distretto, alle quali verrà affidata la programmazione sanitaria. L’organizzazione territoriale ed il processo di governance multilivello sono resi più efficaci dalla ridefinizione complessiva delle funzioni della zona distretto, del responsabile di zona-distretto e del sistema delle conferenze, anche al fine di ottimizzare le risposte territoriali dell’integrazione sociosanitaria.

La zona-distretto è l’ambito territoriale ottimale di valutazione dei bisogni sanitari e sociali delle comunità, nonché di organizzazione ed erogazione dei servizi inerenti alle reti territoriali sanitarie, socio-sanitarie e sociali integrate.

Tenendo conto dei bisogni di salute della popolazione afferente, nel rispetto delle zone disagiate e di confine, delle risorse messe a disposizione dall'azienda e dai comuni, la zona distretto

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organizza e gestisce la continuità e le risposte territoriali dell’integrazione sociosanitaria, compresi i servizi per la salute mentale e le dipendenze e della non autosufficienza. Inoltre, sulla base degli obiettivi e delle risorse messe a disposizione dall'azienda e nel rispetto degli atti di programmazione locale, sulla base dei protocolli di cura e delle indicazioni dei bisogni espressi anche dalla medicina generale, governa e coordina i percorsi inerenti le cure primarie, la specialistica territoriale, l'attività dei consultori e la continuità assistenziale ospedale- territorio.

Il potenziamento delle zone distretto, come livello di organizzazione e gestione dei servizi sanitari e socio sanitari, rappresenta uno degli assi strategici organizzativo della legge di riforma del Servizio sanitario toscano. Infatti, di fronte a un processo di concentrazione delle Unità sanitarie locali a livello di Area Vasta, parallelamente si assiste a un riassesto delle zone sociosanitarie. In questa maniera, esse assumono una dimensione geografica che consente una adeguata attribuzione di risorse umane, strumentali ed economiche e un livello ottimale di erogazione dei servizi. La zona distretto diventa quindi il livello di prossimità gestionale ed organizzativo, vicino ai territori e ai cittadini, per allineare i servizi ai bisogni dei cittadini, e nello stesso tempo governare tutti i processi della continuità assistenziale, nelle sue varie forme (strutture intermedie, ospedali di comunità, assistenza domiciliare), e le prestazioni specialistiche in una stretta interrelazione con gli stabilimenti ospedalieri di riferimento territoriale.

2.4 Dipartimenti delle professioni sanitarie

All’interno delle varie Aziende Unità Sanitarie Locali si istituiscono i dipartimenti delle professioni sanitarie (infermieristico-ostetriche, sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione, del servizio sociale), per la valorizzazione delle competenze delle relative figure professionali. Questi dipartimenti hanno funzioni di tipo programmatorio e funzioni di tipo gestionale allocativo e operativo. Essi, all'interno delle aree organizzative di presidio e delle unità funzionali dei distretti e della prevenzione, organizzano e gestiscono le attività e le risorse assistenziali e umane nel rispetto delle linee guida generali e della programmazione della direzione aziendale. Inoltre, promuovono le integrazioni e le sinergie necessarie allo sviluppo delle risorse professionali ed il loro impiego più efficiente ed appropriato, e la responsabilità ed autonomia professionale nei percorsi assistenziali e nel processo di presa in carico del paziente. In questo modo vengono valorizzate le competenze sia di base che specialistiche, anche

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attraverso la formazione permanente, la ricerca, la diffusione delle conoscenze e l'applicazione di standard qualitativi nella pratica professionale.

2.5 Riordino della rete ospedaliera

La rete ospedaliera viene riorganizzata, valorizzando le specificità di ciascun presidio, con la garanzia di un coordinamento forte tra i vari presidi ospedalieri: ciò nasce da una necessità di garantire una maggiore sinergia tra le aziende USL e le AOU attraverso il rafforzamento della programmazione integrata di area vasta, riconosciuto come ambito istituzionalmente forte per la capacità di coordinamento tra aziende con “mission” diversa che concorrono entrambe alla costruzione dell’offerta complessiva.

La nuova organizzazione del presidio ospedaliero è ridefinita alla luce dell’istituzione dell’organizzazione dipartimentale, al fine di perseguire la maggiore efficienza tecnica e gestionale ed uniformare specifiche linee di produzione, attraverso una gestione più ampia e flessibile, nella quale le risorse sono messe in comune (posti letto, sale operatorie, ambulatori, strutture logistiche). Gli ospedali presenti nello stesso ambito zonale sono accorpati nel presidio ospedaliero di zona, che costituisce la struttura funzionale dell'azienda unità sanitaria locale finalizzata all'organizzazione ed all'erogazione delle prestazioni specialistiche di ricovero e delle prestazioni specialistiche ambulatoriali, intra ed extra-ospedaliere erogate al di fuori delle unità funzionali dei servizi territoriali di zona-distretto, ad esclusione del servizio psichiatrico di diagnosi e cura. Le attività ospedaliere sono organizzate in modo da favorire la necessaria multidisciplinarietà dell'assistenza e la presa in carico multi professionale, superando l'articolazione per reparti differenziati secondo la disciplina specialistica, ove ancora esistente, e favorendo la condivisione delle risorse. Inoltre, le stesse attività ospedaliere sono strutturate in aree organizzative di presidio, quali articolazioni del presidio ospedaliero al cui interno gli spazi, le tecnologie e i posti letto sono organizzati secondo le modalità assistenziali, l'intensità delle cure, la durata della degenza ed il regime di ricovero e messi a disposizione dei dipartimenti e delle unità operative al fine di un utilizzo condiviso, negoziato e integrato.

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CAP 3, SANITA’ PER PROCESSI E PERCORSI

3.1 Processi e percorsi

La revisione degli assetti e dei processi organizzativi e di erogazione dei servizi sanitari e socio-sanitari è volta a dare una risposta alla crescita inesorabile dei bisogni assistenziali legati alla cronicità, che assorbe oltre l’80 per cento del fondo sanitario e che impatta sullo sviluppo economico e sul benessere della comunità regionale. Che la gestione per processi possa rappresentare una risposta importante nel favorire il governo clinico ed economico della sanità, è testimoniato anche dal rilevante interesse che la tematica ricopre nell'ambito dei programmi internazionali sulla qualità e della pianificazione di sistema definita dalle regioni italiane. Negli ultimi anni la Regione Toscana ha dedicato crescente attenzione al tema della valutazione dei risultati e della misurazione delle performances. Alle esperienze ormai consolidate di valutazione dei risultati economico finanziari ed alla valutazione multidimensionale si è accompagnato lo sviluppo di metodologie orientate alla misurazione dei risultati sotto i profili clinico-assistenziale e professionale, in stretto collegamento con le logiche di governo clinico. La gestione per processi in campo clinico-assistenziale appare ad oggi la metodologia più adeguata per affrontare, in modo sistemico, i temi della misurazione e valutazione dei risultati e per l'avvio del ciclo di miglioramento continuo.

Con il concetto di gestione per processi si identifica un ventaglio di approcci, metodi e strumenti, nati in ambito ospedaliero, e oggetto di importante diffusione dall'inizio degli anni novanta in un contesto internazionale, che permettono la rappresentazione e il monitoraggio delle attività svolte per il paziente e dei risultati di salute attesi, con una specifica attenzione alla loro articolazione temporale. I processi come strumenti di gestione in sanità sono identificati in ambito internazionale con i termini “critical pathways” o “clinical paths” e nell'esperienza italiana con i termini più comuni “percorso” o “profilo”. Il motivo che ha spinto e spinge ancora oggi un numero sempre maggiore di organizzazioni sanitarie a introdurre questi strumenti è riconducibile non solo al desiderio di disporre per la prima volta di elementi informativi su come si sviluppano effettivamente i processi (cosa oltretutto in molti casi non consentita da strumenti così semplici nel disegno, stante l'elevata variabilità e complessità che caratterizza il processo assistenziale di ciascun paziente), ma a quello di garantire il monitoraggio, la motivazione (controllo di qualità) e la valutazione periodica (audit) degli scostamenti delle prassi e dei risultati rispetto ad esso. Attraverso questi metodi, all'interno dei quali gli strumenti di gestione dei processi trovano collocazione, risulta evidente come il loro

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scopo sia quello non solo di descrivere ma di permettere una continua valutazione e riallineamento dei comportamenti dei professionisti sanitari alle pratiche che sono valutate come migliori. Questo spiega perché essi sono considerati uno dei pilastri del Governo Clinico. La gestione per processi, abbinata ad un sistema di standard, consente di individuare punti di forza e debolezza e di intervenire successivamente, attraverso azioni di riprogettazione dei processi, al fine di garantire risultati efficaci e coerenti con le esigenze dei pazienti/utenti. La gestione per processi rappresenta un importante presupposto per promuovere interventi di riprogettazione organizzativa (servizi sanitari territoriali, ospedale e reti ospedaliere, reti di offerta sociosanitaria) e favorisce sistemi di gestione e sviluppo dei professionisti sanitari (gestione per competenze, ciclo di sviluppo continuo della professionalità).

La gestione per processi (qui il termine “processo” è usato nella accezione dell’economia aziendale) comporta che l’analisi, la valutazione e la programmazione dell’organizzazione aziendale siano incentrate su insiemi di attività collegate che danno luogo a determinati risultati. Si stabilisce una catena fornitore – cliente, che si chiude con il cliente finale che riceve il prodotto finale. In un processo così inteso si tiene conto che ogni attività genera un output di prodotti e di informazioni, che rappresentano l’input di una attività successiva. Secondo l’approccio di processo, di ogni attività vanno quindi individuati i fornitori e i clienti; il responsabile di ogni fase del processo dovrebbe chiarire le caratteristiche dell’input (che cosa dovrebbe aver fatto il fornitore) e tenere presenti i bisogni sia del cliente immediatamente successivo sia quelli del cliente finale. Raramente il processo relativo alla diagnosi e al trattamento di un problema di salute in una organizzazione sanitaria è trattato da un solo professionista o da professionisti di una sola disciplina. Per lo più vi contribuiscono più professionisti della stessa disciplina, più discipline, più categorie professionali, più unità organizzative e talvolta anche più organizzazioni. Più aumentano la varietà e la specializzazione dei contributi, più sono le “interfacce” tra organizzazioni, più quindi aumenta il rischio di difetti di continuità e di integrazione, più diventa utile l’approccio per processi. Un semplice esempio di processo in un ospedale è il seguente: il clinico di una unità organizzativa clinica è il cliente interno che richiede un’indagine ematochimica; il laboratorio è il fornitore interno e, a sua volta, è il cliente interno della farmacia o del servizio di approvvigionamento, i quali sono, a loro volta, fornitori interni del laboratorio e clienti di fornitori esterni che li riforniscono di reagenti, farmaci, vetrerie, ecc. Il clinico è il cliente interno che riceve il referto con il risultato, referto che per questo processo limitato (la sola esecuzione di un’indagine ematochimica) è il risultato finale. Possiamo quindi accostare il concetto di processo ad una matriosca russa. Può essere

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considerato un processo o meglio un macroprocesso l’intera gestione di una malattia, dal primo contatto fino alla fine del follow-up; ma può essere considerato un processo, o meglio un microprocesso, una piccola parte di essa, come la semplice accettazione in reparto; questo processo a sua volta può essere suddiviso in attività elementari o compiti, ad esempio l’accompagnamento dei nuovi ingressi al loro letto o la prescrizione dei primi esami diagnostici. Il percorso assistenziale è il macroprocesso che corrisponde all’intera gestione di un problema di salute. Idealmente la gestione dei percorsi assistenziali dovrebbe riguardare sia la componente territoriale, sia quella ospedaliera. La natura dell’azienda sanitaria, le risorse disponibili, le maggiori o minori possibilità di coinvolgimento dei professionisti portano però spesso a limitarsi al campo ospedaliero o territoriale, almeno inizialmente. Va sempre comunque presa in esame l’interfaccia tra i due.

I percorsi assistenziali possono essere definiti come piani multidisciplinari ed interprofessionali relativi ad una specifica categoria di pazienti in uno specifico contesto e la cui attuazione è valutata mediante indicatori di processo e di esito. Li si potrebbe anche considerare linee guida clinico-organizzative. I percorsi assistenziali hanno lo scopo di eliminare il più possibile i ritardi e gli sprechi, contenere le variazioni non necessarie nei trattamenti, assicurare la continuità e il coordinamento dell’assistenza, ridurre al minimo i rischi per i pazienti e migliorare gli esiti. Essi inoltre possono essere considerati gli strumenti di coordinamento ed integrazione auspicati da Zangrandi (2003) per “favorire la continuità nel trattamento, la formazione degli operatori e l’individuazione delle migliori modalità per l’utilizzazione delle risorse”.

L’opportunità dello sviluppo e dell’applicazione di percorsi assistenziali è stata sostenuta recentemente anche dal comitato di esperti (Commettee on the Quality of Health Care in America) convocato dal prestigioso Institute of Medicine americano (Institute of Medicine, 2001). La relazione sottolineava che in soli 10 anni più di 70 pubblicazioni su riviste mediche prestigiose avevano documentato l’esistenza di grosse variabilità e di gravi problemi di qualità nei servizi sanitari americani e raccomandava lo sviluppo di percorsi assistenziali il più possibile basati sulle evidenze scientifiche, almeno per le patologie più comuni.

3.2 Breve storia dei percorsi assistenziali

I percorsi assistenziali sono comparsi in un periodo relativamente recente, insieme all’affermarsi della managed care. La managed care nasce negli Stati Uniti intorno agli anni trenta del secolo scorso, quando le compagnie petrolifere, le società per la realizzazione di opere pubbliche, l’industria estrattiva mineraria, ecc. cominciarono ad avvertire la necessità di

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contrattare con le organizzazioni sanitarie pacchetti predefiniti di prestazioni per i propri dipendenti. I primi percorsi assistenziali si ispirarono alla tecnica dei critical pathways (percorsi critici) usata nel mondo industriale per ottimizzare i tempi di lavoro. Il percorso critico è la sequenza di attività, dall’ordine dei materiali ai fornitori alla consegna del prodotto, che dà luogo ad una durata minima del processo produttivo. Ci si è resi presto conto che i percorsi assistenziali potevano servire non solo a migliorare l’efficienza e la continuità delle cure e a ridurre la variabilità, ma anche a favorire l’applicazione delle conoscenze scientifiche sull’efficacia degli interventi.

Allo sviluppo dei percorsi assistenziali hanno dato un notevole contributo gli studi sulla variabilità delle prestazioni sanitarie. Cominciò Glover, che nel 1938 notò come in alcuni distretti scolastici inglesi più della metà dei bambini fosse sottoposta ad interventi di tonsillectomia mentre in altri fosse inferiore al 10%. Un altro classico lavoro è quello di Wennberg, che si chiese se gli interventi chirurgici fossero troppi a Boston o troppo pochi a New Haven (1987).

Tra i fattori principali di variabilità vi sono:

• la diversa disponibilità di risorse sanitarie (in gergo economico, di offerta), ad esempio di professionisti o di reparti, che però non sempre è maggiore dove le prestazioni sono più frequenti,

• l’influenza delle “scuole mediche”

• l’incertezza professionale, ossia l’assenza di certezze sulla superiorità di un intervento su un altro. Su questo punto, si sono fatti notevoli progressi dal 1981, quando l’Institute of Medicine stimò che non più del 15% degli interventi sanitari fosse basato su prove di efficacia. Attualmente questa percentuale si aggira probabilmente attorno al 70%.

3.3 Vantaggi e svantaggi dei percorsi assistenziali

I percorsi assistenziali hanno il vantaggio di favorire la continuità degli interventi e l’integrazione tra unità organizzative ed anche talvolta tra organizzazioni diverse e di diminuire così gli inconvenienti per i pazienti alle interfacce. La ricostruzione e l’analisi dei percorsi assistenziali, come di qualunque processo, permette di identificare lentezze e attese riducibili, attività poco utili o troppo costose, ripetizioni, rischi evitabili. La scomposizione dell’intero percorso assistenziale in fasi obbliga a chiarire i criteri clinici e organizzativi applicati per inserire o “arruolare” l’utente in una fase e per “trasferirlo” alla fase successiva. Rispetto ad altre forme di gestione per processi, i percorsi assistenziali hanno il vantaggio di dare

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importanza fondamentale ai criteri di appropriatezza professionale degli interventi e agli esiti di salute e quindi di richiamare l’attenzione sul fatto che il vero prodotto di un’organizzazione sanitaria non sono le prestazioni (i prodotti o output), ma gli esiti (gli outcome). In effetti la diffusione dei percorsi assistenziali è stata favorita dalla diffusione dell’EBM che ha reso più disponibili e più accettabili rassegne sistematiche e linee guida che tengono conto delle evidenze scientifiche.

I percorsi assistenziali sembrano anche capaci di influenzare la pratica clinica e di influenzarla in modo esteso, più ad esempio delle linee guida, per tre motivi:

1. La metodologia dei percorsi, che coinvolge nel loro sviluppo i professionisti che li dovranno applicare, il che favorisce la loro adesione.

2. La multidisciplinarietà dei gruppi di lavoro, che comprendono rappresentanti di tutte le professionalità (assistenziali e non) che sono implicate nel trattamento della condizione in questione. Lo scambio di informazioni e di punti di vista tra i partecipanti porta ad una maggiore comprensione dei ruoli e delle responsabilità di ciascuno nel processo assistenziale, oltre a dare occasioni di apprendimento. Inoltre la partecipazione integrata di personale medico, infermieristico, amministrativo/organizzativo, sociale, ecc. protegge dal rischio che la stesura del percorso assistenziale possa essere manipolata in modo corporativo da un unico gruppo professionale.

3. L’orientamento multiassiale, che tiene presenti contemporaneamente esigenze di appropriatezza, efficacia, efficienza, continuità, tempestività, equità, integrazione, soddisfazione degli utenti.

Inoltre, il percorso assistenziale può essere considerato uno strumento di governance, perché si costruisce attraverso l’individuazione e la valorizzazione di tutti i componenti delle filiera assistenziale, indipendentemente dal loro posizionamento nel percorso, contrastando logiche di centralità di servizi e di professionisti, esaltando la multicentricità ed il valore dei contributi di ognuno. I percorsi assistenziali favoriscono anche lo sviluppo di sistemi informativi verso la rilevazione di indicatori relativi non solo non solo ai volumi di attività e ai costi, ma anche ai processi professionali e agli esiti. Possono facilitare il benchmarking se gli indicatori di processo e di esito sono comunicati ad una sede di coordinamento che mette a disposizione le loro distribuzioni.

Ci sono vantaggi anche medicolegali ed assicurativi: alcune aziende hanno ottenuto una riduzione dei premi assicurativi per avere adottato percorsi assistenziali attinenti alla gestione

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dei rischi ed esempi di medici assolti da accuse di imperizia e negligenza perché sono stati in grado di dimostrare di avere seguito un percorso assistenziale.

Dall’applicazione dei percorsi assistenziali ci si può ragionevolmente attendere una rilevante diminuzione della variabilità ingiustificata nei comportamenti dei professionisti sanitari, un aumento della produttività ed anche un miglioramento della sicurezza per i pazienti e degli esiti. In conclusione, i percorsi assistenziali possono essere considerati uno strumento per migliorare l’efficienza nell’uso di risorse scarse senza compromettere la qualità professionale dell’assistenza, che anzi può migliorare. Va detto che un buon percorso assistenziale va continuamente ripensato alla luce delle difficoltà di applicazione, dei risultati ottenuti e di nuove eventuali acquisizioni e quindi implica il suo continuo aggiornamento.

Esistono anche tuttavia degli svantaggi legati all’utilizzo dei percorsi assistenziali. La principale limitazione dei PDTA nelle malattie croniche è legata ad una intrinseca rigidità in conflitto con il bisogno di personalizzazione delle cure. Tale limite si manifesta nella definizione di obiettivi di salute non contestualizzati nel soggetto, particolarmente nel paziente con multimorbidità, in cui la comorbidità interferisce con l’applicazione del percorso ideale e devia la traiettoria principale verso un percorso alternativo diverso da quello ideale, ma egualmente appropriato per il paziente specifico. La crescente complessità dei malati cronici rende spesso non applicabili i percorsi di cura al singolo paziente. La prevalenza della multimorbidità, pur variando a seconda della casistica considerata e degli studi condotti, è presente nella popolazione generale, in una quota del 20-30%; il dato però cresce drammaticamente dal 55% al 98% se consideriamo la popolazione anziana o le classi sociali disagiate.

Il malato cronico affetto da più patologie incidenti contemporaneamente, presenta quindi un fenotipo clinico risultante che è determinato e influenzato non solo da fattori biologici (malattia-specifici) ma anche da determinanti non biologici (status socio-familiare, economico, ambientale, accessibilità delle cure ecc.), che interagiscono fra di loro e con i fattori malattia-specifici in maniera dinamica a delineare la tipologia del "malato complesso". Un’assistenza ottimale non può prescindere dalla capacità del medico di indagare e riconoscere il fenotipo e in prospettiva l’associazione genotipo-fenotipo attraverso un complesso pattern di parametri clinico-anamnestici al fine di gestire con una visione olistica il percorso di salute del paziente. Affrontare quindi un paziente con condizioni cliniche multiple fa emergere lo spinoso problema della gestione clinica di pazienti per cui si renderebbe necessario seguire le indicazioni di due

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o più linee guida (una per ogni singola malattia) con la conseguenza di far fronte ad eventuali incompatibilità o eventuali scelte da compiere tra i vari percorsi diagnostico-terapeutici presentati singolarmente ma non nella loro complessità interazionale.

Un approccio organico alla gestione del paziente multiproblematico sul territorio deve essere saldamente ancorato al riconoscimento degli elementi di complessità che connotano sia l’individuo con il suo fenotipo e i suoi specifici bisogni, che il contesto nel quale questo si colloca e interagisce con persone, servizi e strutture sanitarie e sociosanitarie. Su tale base acquisisce valore il concetto di “medical generalism”, in cui la conoscenza della persona nel suo intero e dei suoi bisogni, la visione continua degli eventi (non solo) sanitari del singolo soggetto – integrate con le conoscenze basate sulle evidenze - determinano scelte più appropriate e fattibili per il singolo paziente (evidence based practice).

La crescente diffusione di dati in campo sanitario offre la possibilità di analizzare pragmaticamente i percorsi di cura effettivamente realizzati attraverso l’estrazione di pattern di prestazioni sanitarie programmate o erogate per le diverse condizioni morbose e le loro combinazioni, da cui ricavare gli elementi per definire un PDTA il più vicino possibile al bisogno ideale di un paziente in quelle condizioni. Tale approccio può rappresentare uno strumento di analisi della reale implementazione della evidence based practice come elaborazione e contestualizzazione individuale della evidence based healthcare.

Altri ostacoli nell’adozione dei percorsi assistenziali dipendono da carenze organizzative: limitatezza delle risorse disponibili, difficoltà di adeguare i sistemi informativi, ritardi nell’allineare gli incentivi economici e di carriera in modo che favoriscano l’applicazione dei percorsi.

La “storia naturale” di malattia è il binario-guida della programmazione degli interventi perché è grazie alla sua conoscenza che si è in grado di avere nozione degli snodi più critici nella gestione della patologia stessa e di stratificare i pazienti in sottoclassi, in base alla loro storia clinica. Le altre variabili, individuali e sociali, fanno parte di un ulteriore specifico approfondimento sul singolo “paziente-persona”, che include tutti gli aspetti in grado di incidere, negativamente o positivamente, nella storia personale di ogni individuo con la propria cronicità. Il “Percorso Assistenziale” che verrà proposto qui di seguito rappresenta lo strumento di traduzione della storia naturale e dei suoi snodi critici in prassi assistenziale. Esso permette di evidenziare le fasi dell’assistenza e, all’interno di queste, i principali “prodotti assistenziali” che i diversi attori del sistema salute dovranno garantire attraverso le loro attività.

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4 PROJECT: IL MACROPROCESSO DELLA GESTIONE DELLA

CRONICITA’

4.1 Premessa

Il mondo della cronicità è, come abbiamo visto, un’area in progressiva crescita che comporta un notevole impegno di risorse, richiedendo continuità di assistenza per lunghi periodi e una forte integrazione dei servizi sanitari con i servizi sociali e necessitando di servizi residenziali e territoriali finora non sufficientemente disegnati e sviluppati. La legge Regionale n. 84/2015 preme su questo punto potenziando il territorio, in particolare le zone distretto, che appunto gestiscono la continuità e le risposte territoriali dell’integrazione sociosanitaria, compresi i servizi per la salute mentale e le dipendenze e per la non autosufficienza (strutture intermedie, ospedali di comunità, assistenza domiciliare). Il territorio si fa quindi carico dei percorsi inerenti le cure primarie, la specialistica territoriale, l'attività dei consultori e la continuità assistenziale ospedale- territorio.

Secondo le stime ISTAT (Indagine Multiscopo Aspetti della vita quotidiana 2015) i malati cronici in Toscana sono circa 1 milione e 400mila, pari al 37,6% della popolazione e leggermente al di sotto della media italiana (38,3%) (tabella 1). Tra quelle censite, le patologie più frequenti in Toscana sono l’ipertensione (15,2%) e l’artrosi/artrite (15%).

Il paziente cui ci si riferisce è una persona, la maggior parte delle volte anziana, spesso affetta da più patologie croniche incidenti contemporaneamente (comorbidità o multimorbidità), le cui esigenze assistenziali sono determinate non solo da fattori legati alle condizioni cliniche, ma

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anche da altri determinanti (status sociofamiliare, ambientale, accessibilità alle cure ecc.). La presenza di pluripatologie richiede l’intervento di diverse figure professionali ma c’è il rischio che i singoli professionisti intervengano in modo frammentario, focalizzando l’intervento più sul trattamento della malattia che sulla gestione del malato nella sua interezza, dando talvolta origine a soluzioni contrastanti, con possibili duplicazioni diagnostiche e terapeutiche che contribuiscono all’aumento della spesa sanitaria e rendono difficoltosa la partecipazione del paziente al processo di cura. Inoltre, la prescrizione di trattamenti farmacologici multipli, spesso di lunga durata e somministrati con schemi terapeutici complessi e di difficile gestione, può ridurre la compliance, aumentare il rischio di prescrizioni inappropriate, interazioni farmacologiche e reazioni avverse. Inoltre, questi pazienti hanno un rischio maggiore di outcome negativi, quali aumento della morbidità, aumentata frequenza e durata di ospedalizzazione, aumentato rischio di disabilità e non autosufficienza, peggiore qualità di vita e aumento della mortalità. La cronicità, infine, è associata al declino di aspetti della vita come l’autonomia, la mobilità, la capacità funzionale e la vita di relazione con conseguente aumento di stress psicologico, ospedalizzazioni, uso di risorse (sanitarie, sociali, assistenziali) e mortalità.

Nonostante gli investimenti nello sviluppo di un sistema di cure integrate e di risposte ai bisogni sanitari distribuite nel territorio, case della salute e una nuova organizzazione della medicina generale, gli accessi ai reparti di Pronto Soccorso ospedalieri hanno mostrato un incremento del 2,9% nel periodo 2013-2014, passando da poco più di 1,34 milioni di accessi dei residenti in Toscana a circa 1,38 milioni (figura 2). Il fenomeno, anche se in modo ridotto (+ 0,1%), si è riconfermato anche nel 2015.

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Tuttavia sono progressivamente diminuiti i ricoveri ad alto rischio d’inappropriatezza (allegato B, Patto per la salute 2010-2012), vale a dire per quelle patologie o interventi che è preferibile risolvere in day-hospital o addirittura in regime ambulatoriale. La Toscana, che era già terza, dopo Sicilia e Abruzzo e Liguria (a pari merito), nel monitoraggio nazionale degli adempimenti LEA (Ministero della salute, verifica Adempimenti LEA 2013 su dati 2012), ha fatto ancora meglio, passando da un punteggio di 0,18 a 0,17 (LEA 2014 - indicatore “rapporto tra ricoveri attribuiti a DRG ad alto rischio di inappropriatezza e i ricoveri attribuiti a DRG non a rischio di inappropriatezza in regime ordinario”).

Oltre ai ricoveri inappropriati, pesano sul numero di ricoveri effettuati anche quelli evitabili, specialmente le riacutizzazioni di patologie croniche. L’ospedalizzazione evitabile è una valida misura della qualità dell’assistenza territoriale. Molti ricoveri in medicina infatti sono evitabili tramite strategie di:

• prevenzione primaria, cioè programmi che evitano l’insorgenza delle malattie (ad esempio, la polmonite per mezzo di vaccinazioni virus influenzali e anti-pneumococco negli adulti oltre i 65 anni);

• prevenzione secondaria, cioè interventi che controllano i fattori di rischio ai quali sono già esposti cittadini e pazienti (ad esempio, la promozione della cessazione del fumo in pazienti con enfisema e bronchiti croniche; il controllo della pressione arteriosa tramite dieta, esercizio fisico, controllo del peso ed eventualmente terapia farmacologica nei pazienti ipertesi; tali misure contribuiscono a bloccare o almeno rallentare l’evoluzione di malattie cerebro-vascolari e coronariche, e insufficienze cardiache);

• gestione di episodi acuti in regime domiciliare e ambulatoriale, ad esempio la polmonite e gli squilibri idro-elettrolitici possono essere in molti casi diagnosticati e curati fuori del contesto ospedaliero;

• gestione della cronicità nell’ambito della medicina territoriale, cioè lo stabilire diagnosi precoci e il formulare un piano terapeutico promuovendo il coinvolgimento attivo dei pazienti e dei loro familiari, riduce la severità di molte patologie che compaiono frequentemente nella tabella, ad esempio scompenso cardiaco e insufficienza respiratoria. Diagnosi e terapie tempestive e di elevata qualità possono ridurre sostanzialmente il ricorso all’ospedalizzazione.

Il riequilibrio e l’integrazione tra assistenza ospedaliera e territoriale costituisce oggi uno degli obiettivi prioritari di politica sanitaria verso cui i sistemi sanitari più avanzati si sono indirizzati

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per dare risposte concrete ai nuovi bisogni di salute determinati dagli effetti delle tre transizioni (epidemiologica, demografica e sociale) che hanno modificato il quadro di riferimento negli ultimi decenni portando ad un cambiamento strutturale e organizzativo. L’ospedale va quindi concepito come uno snodo di alta specializzazione del sistema di cure per la cronicità, che interagisca con la specialistica ambulatoriale e con l’assistenza primaria, attraverso nuove formule organizzative che prevedano la creazione di reti multispecialistiche dedicate e “dimissioni assistite” nel territorio, finalizzate a ridurre il dropout dalla rete assistenziale, causa frequente di riospedalizzazione a breve termine e di outcome negativi nei pazienti con cronicità. Il percorso del paziente con patologia cronica:

➢ deve essere pianificato nel lungo periodo e gestito in modo proattivo e differenziato, per rispondere in maniera efficace ed efficiente ai bisogni specifici e prevenire l’insorgenza di complicanze evitabili;

➢ deve essere condiviso e gestito da un team composto da diverse figure (MMG, PLS, Infermiere, specialista territoriale e ospedaliero, assistente sociale, etc.) in una logica di collaborazione e corresponsabilità, individuando il soggetto responsabile della gestione del percorso di cura;

➢ il Follow up dovrà essere gestito con una maggiore o minore presenza dell’uno o dell’altro attore assistenziale, a seconda delle fasi e del grado di complessità, che mantiene sempre e comunque la propria “appartenenza” al Team integrato ed a tutta la rete assistenziale.

4.2 Obiettivi generali

L’obiettivo è quello di superare la modalità frammentata che caratterizza molti servizi e improntare l’assistenza territoriale a nuovi principi di tutela delle persone: CCM, presa in carico, garanzia della continuità dell’assistenza, utilizzo di equipe multidimensionali, con conseguente riduzione degli accessi impropri in pronto soccorso e attuazione di una vera e propria assistenza H24.

4.3 Metodologia

Nella declinazione degli obiettivi specifici e delle linee intervento si è ritenuto opportuno utilizzare una metodologia che, disegnando il percorso del malato cronico suddiviso in fasi, ne

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descrive gli aspetti peculiari e le macroattività, proponendo uno o più obiettivi con le relative linee di intervento e i risultati attesi.

4.4 Il macroprocesso di gestione del paziente con patologia cronica

4.4.1 FASE 1: STRATIFICAZIONE ED INDIVIDUAZIONE DELLA

POPOLAZIONE TARGET

La stratificazione è un processo di fondamentale importanza per definire le strategie di intervento e personalizzare il percorso assistenziale; questo processo deve tener conto non solo dei criteri clinici ma anche di tutti quei fattori individuali e socio-familiari che possono incidere sulla effettiva capacità del paziente di gestire la propria patologia.

4.4.1.1 Macroattività

• IDENTIFICAZIONE DELLE POPOLAZIONI TARGET E REGISTRAZIONE DEI DATI: Affinché sia possibile gestire efficacemente ed efficientemente la cronicità è di fondamentale importanza lo sviluppo di un sistema informativo per identificare la popolazione target, per svolgere una funzione proattiva di coinvolgimento delle persone

FASE 1

• STRATIFICAZIONE ED INDIVIDUAZIONE DELLA POPOLAZIONE TARGET

FASE 2

• PROMOZIONE DELLA SALUTE, PREVENZIONE E DIAGNOSI PRECOCE

FASE 3

• PRESA IN CARICO E GESTIONE DEL PAZIENTE ATTRAVERSO IL PIANO DI

CURA

FASE 4

• EROGAZIONE DI INTERVENTI PERSONALIZZATI PER LA GESTIONE DEL

PAZIENTE ATTRAVERSO IL PIANO DI CURA

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all’interno del processo, per aiutare gli operatori coinvolti a condividere efficacemente e tempestivamente le informazioni necessarie per la gestione di un percorso di cura strutturato.

• APPROCCIO DI POPULATION-MANAGEMENT E STADIAZIONE DEI PAZIENTI: L'approccio di Population-Management è un caposaldo della letteratura sulle patologie croniche; esso ha lo scopo di suddividere la popolazione affetta in subpopolazioni (sub-target) identificate sulla base della complessità assistenziale (disease staging) in relazione allo stadio di sviluppo della malattia, all'esistenza o meno di complicanze, di specifici fabbisogni legati a coesistenza di altre patologie, necessità di devices, scarsa risposta alle terapie, etc. Questa suddivisione è di fondamentale importanza per definire le strategie e gli interventi specifici più efficaci per i singoli subtarget di pazienti e "personalizzare" l'assistenza e il Piano di cura, nel rispetto del principio di centralità del paziente e delle sue scelte, ma è anche requisito di efficacia e di efficienza attraverso la riduzione degli interventi inappropriati.

4.4.1.2 Obiettivi proposti

• Programmare e realizzare una gestione efficace ed efficiente della cronicità sulla base di adeguate conoscenze epidemiologiche.

• Integrare in rete le strutture operanti garantendo la condivisione delle informazioni, secondo le necessità dell’assistenza e del governo clinico.

• Promuovere la valutazione dei risultati su base nazionale, in una logica di congruenza e omogeneità rispetto alle singole realtà regionali.

• Stratificare la popolazione attraverso modelli che tengano conto dei bisogni sanitari e socioeconomici.

4.4.1.3 Criticità

Lo sviluppo di un sistema informativo dovrebbe essere coerente con le politiche sanitarie regionali già esistenti: la soluzione ottimale dovrebbe essere un intervento strategico complessivo, mirato a tutte le principali problematiche della cronicità. Infatti, i piani d’azione su singoli problemi o su singole procedure amministrative/operative, rischiano di creare una frammentazione tra i relativi sistemi informativi, che ne ridurrebbe drasticamente l’efficacia. È

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necessario, inoltre, pur rispettando e valorizzando le decisioni e le esperienze effettuate in contesti clinici e territoriali eterogenei, garantire una coerenza tra i diversi sistemi informativi, da concordare nelle sedi opportune in ambito nazionale.

4.4.1.4 Linee di intervento proposte

1. Integrare e potenziare le banche dati ed i flussi informativi esistenti con i dati dei sistemi di sorveglianza e le indagini campionarie, tenendo conto delle diverse modalità organizzative esistenti, a sostegno di un modello di gestione integrata della cronicità non solo basato sul consumo di prestazioni sanitarie, ma anche sui determinanti di salute socioeconomici e culturali e su stili ed abitudini di vita.

2. Misurare l’incidenza e la prevalenza delle malattie croniche, delle loro complicanze e del loro andamento nel tempo, condividendo metodologie e principi per la conduzione di studi epidemiologici.

3. Promuovere la costruzione di registri di patologia in accordo con la normativa nazionale.

4. Definire, attraverso l’istituzione di gruppi di lavoro (nazionali e regionali), una lista di indicatori condivisi per misurare la qualità degli interventi di prevenzione e assistenza sanitaria (in termini di valutazione continua delle strutture, dei processi di diagnosi e cura e degli esiti degli stessi), tenendo anche conto di quanto definito a livello internazionale e nazionale.

5. Identificare e sperimentare modelli prospettici di stratificazione della popolazione, basati sul bisogno di assistenza, che consentano di disegnare specifiche azioni per ciascun gruppo con particolare attenzione ai soggetti che soffrono di più patologie.

4.4.1.5 Risultati attesi

• Incremento del numero dei programmi di stratificazione della popolazione attivati, in accordo con i rischi clinici e i bisogni di salute e sociosanitari.

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4.4.2 FASE 2: PROMOZIONE DELLA SALUTE, PREVENZIONE E

DIAGNOSI PRECOCE

Le patologie croniche principali, particolarmente malattie cardiovascolari, tumori, diabete mellito e malattie respiratorie croniche, sono caratterizzate dalla presenza di alcuni fattori di rischio comuni modificabili (fumo di tabacco, abuso di alcol, scarso consumo di frutta e verdura, sedentarietà) e alcuni cosiddetti fattori di rischio intermedi (ipercolesterolemia, ipertensione arteriosa, intolleranza ai carboidrati, sovrappeso/obesità). Questi fattori di rischio, da soli, sono responsabili del 60% della perdita di anni di vita in buona salute in Europa e in Italia.

4.4.2.1 Macroattività

• MODIFICA DEGLI STILI DI VITA E CONTRASTO AI FATTORI DI RISCHIO: Il metodo più efficace per ridurre i fattori di rischio comuni modificabili è chiaramente la modifica degli stili di vita della popolazione, per ottenere la quale, tuttavia, è necessario il supporto di settori della società diversi da quello sanitario, che deve, comunque, mantenere il ruolo di promotore e coordinatore delle azioni. È possibile realizzare questo obiettivo mediante programmi di promozione di corretti stili di vita e ambienti favorevoli alla salute della popolazione: tutto ciò è finalizzato a creare le condizioni per rendere facile l’adozione di comportamenti salutari, attraverso un approccio multi-componente (trasversale ai determinanti di salute), per ciclo di vita (life-course), per setting (scuole, ambienti di lavoro, comunità locali, servizio sanitario) e intersettoriale (politiche educative, sociali, di pianificazione urbana, dei trasporti, dell’agricoltura, ecc.), con il coinvolgimento di tutti i diversi “portatori di interesse”, dai responsabili politici alle comunità locali (empowerment di comunità). La collaborazione intersettoriale permette lo sviluppo di azioni sui determinanti di salute secondo modalità più efficaci, efficienti e sostenibili rispetto a quelle che potrebbero essere intraprese dal solo settore sanitario.

• DIAGNOSI PRECOCE: Per quanto riguarda la prevenzione dei fattori di rischio comportamentali e intermedi, si può agire mediante la loro diagnosi precoce, la modifica degli stili di vita e l’attivazione di interventi trasversali, integrati con i percorsi terapeutico-assistenziali di presa in carico, in modo da poter prevenire o ritardare

Riferimenti

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