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INDICE
INTRODUZIONE 6
CAPITOLO PRIMO
DALLA RIABILITAZIONE ALL’ESDEBITAZIONE
1. L’antecedente storico dell’istituto dell’esdebitazione: la RIABILITAZIONE CIVILE 111.1 Premessa 11
1.2 Il trattamento del debitore insolvente nella nostra tradizione giuridica 12
1.3 L’istituto della riabilitazione civile 15
2. Il tramonto della Riabilitazione civile 23
2.1 Le cause e i principi ispiratori della Novella 23
2.2 La ratio della riforma alla luce della nuova realtà socio-economica e il cambiamento di prospettiva nell’approccio al fallimento 27
3. L’ingresso dell’esdebitazione nel nostro ordinamento giuridico 28
3.1 La legge delega n. 80/2005 e il D. Lgs. n. 5/2006 28
4. La ratio e la portata innovativa dell’esdebitazione 30
4.1 La funzione del recupero dell’attività economica del fallito 30
4.2 L’esdebitazione e il problema del bilanciamento di interessi contrapposti 32
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5. L’interazione tra la riabilitazione e l’esdebitazione:
i confini applicativi dei due istituti 36 5.1 I problemi di diritto intertemporale della riabilitazione 38 5.2 Problemi applicativi: il mancato coordinamento
dell’abrogazione della riabilitazione con
l’art. 241 l. fall. e con l’art. 24 T.U. 313/2002 44
CAPITOLO SECONDO
I PROFILI SOSTANZIALI DELL’ESDEBITAZIONE
1. L’ambito soggettivo di applicazione:il fallito persona fisica 48 2. Il presupposto oggettivo: la chiusura del fallimento 55 3. I presupposti soggettivi dell’esdebitazione:
la meritevolezza del debitore 58 4. La precondizione oggettiva: la parziale soddisfazione
dei creditori 73 4.1 L’art. 142, co. 2°, l.fall. e i dubbi interpretativi 73 4.2 La teoria estensiva e la teoria restrittiva a confronto 74 4.3 La soluzione proposta dalle Sezioni Unite
della Corte di Cassazione
e la giurisprudenza successiva 83
CAPITOLO TERZO
I PROFILI PROCESSUALI DELL’ESDEBITAZIONE
1. Il procedimento: rito, competenza, domanda e3
2. La fase istruttoria: la funzione del curatore e
del comitato dei creditori 92 3. La legittimazione passiva e la sentenza della Corte
Costituzionale 30-5-2008 n.181: il rispetto del
diritto di difesa e del contraddittorio 98 4. Il decreto diesdebitazione e i suoi effetti
nei confronti dei creditori concorsuali
concorrenti: inesigibilità o estinzione dei crediti? 106 5. I debiti esclusi dall’esdebitazione 110 6. La sorte degli interessi e delle garanzie reali 112 7. Gli effetti dell’esdebitazione nei confronti
dei fideiussori, dei coobbligati del debitore ed
obbligati in via di regresso 114 8. Gli effetti dell’esdebitazione per i creditori concorsuali
non concorrenti: l’articolo 144 l. fall. 115 9. Vicende impugnatorie: il reclamo 120
CAPITOLO QUARTO
QUESTIONI DI DIRITTO INTERTEMPORALE
E DI LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE
DELL’ESDEBITAZIONE
1. Problemi di carattere applicativo ed interpretativo 130 2. La questione di legittimità costituzionale
dell’art. 142 l.fall. con riferimento all’ambito
soggettivo di applicazione 133 3. La disciplina transitoria ex art. 150 e 153 del
D. Lgs. n.5/2006: contrasti in dottrina e giurisprudenza sull’applicabilità
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4. Il Decreto correttivo n. 169/2007: l’art. 19 e la relativa
questione di legittimità costituzionale 139 5. L’ulteriore estensione temporale dell’ambito
applicativo dell’esdebitazione 144 6. L’esdebitazione come espropriazione del
diritto di credito 145 7. Cenni ad altre sentenze di merito 147
CAPITOLO QUINTO
IL SOVRAINDEBITAMENTO E
L’ESDEBITAZIONE DEL DEBITORE CIVILE
E DEL CONSUMATORE
1. Il sovraindebitamento: un problema sempre più
attuale ed emergente 150 2. Dall’esecuzione individuale del debitore ad una
procedura concorsuale: un’esigenza
sempre più impellente 155 3. Il D.L. n. 212/2011, la L. n. 3/2012
e le ulteriori modifiche con la L. n. 221/2012: da una procedimento di carattere negoziale all’introduzione di tre procedure
di natura concorsuale 158 4. Il presupposto oggettivo: il sovraindebitamento 161 5. Le condizioni soggettive 163 6. L’ambito soggettivo di applicazione: il debitore
non fallibile e il consumatore 164 7. Cenni alle tre procedure di risoluzione della crisi da
sovraindebitamento: l’accordo, il piano del
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8. L’articolo 14 terdecies, l. n. 3/2012: l’esdebitazione su richiesta del debitore dopo la chiusura
della liquidazione 178
CONCLUSIONI 186
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INTRODUZIONE
Il presente lavoro si pone l’obiettivo di mettere in luce, mediante un’analisi a tutto campo, storica, interpretativa, sostanziale e processuale, le peculiarità e le principali questioni applicative emerse sia in dottrina che in giurisprudenza, di un istituto dai tratti fortemente innovativi, quale è l’esdebitazione, introdotto con la riforma della legge fallimentare del 2006, con riferimento al solo imprenditore fallito, esteso, poi, con la l. n.3/2012 anche all’imprenditore non fallibile, al non imprenditore ed al consumatore. Come emerge nel primo capitolo dell’elaborato, esso evidenzia a pieno titolo la nuova realtà economica e sociale, a cui la Novella ha inteso dare seguito, concependo non più l’insolvenza come illecito, ed il fallimento che ad essa consegue come sanzione, avente l’obiettivo di punire il debitore, reo di aver tradito la fiducia commerciale e i valori nazionali dell’economia, bandendolo dal contesto sociale ed economico. Ma, al contrario, si parte dal presupposto che l’economia moderna si fonda sul rischio di impresa ed in questa prospettiva il fallimento fa parte del medesimo rischio, diventa un evento fisiologico, connaturato all’esercizio dell’attività imprenditoriale, almeno quando non vi siano comportamenti fraudolenti che vadano puniti sul diverso piano della legge penale. Di conseguenza non ha più senso punire il fallito con la privazione dei diritti personali che permanevano anche dopo la chiusura della procedura fino a quando non fosse intervenuta la riabilitazione, anzi, bisogna assicurargli una seconda opportunità, garantitagli proprio dall’esdebitazione che consiste nella liberazione dai debiti residui non soddisfatti integralmente con la procedura concorsuale, tutelando così sia l’interesse prettamente personale del debitore, non essendo più schiacciato dal peso della debitoria pregressa, sia l’interesse generale della collettività, in quanto si
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recupera al mercato il soggetto sia come produttore sia come consumatore. Ciò spiega l’introduzione dell’istituto di nuovo conio e l’abrogazione della riabilitazione civile, connessa alla vecchia disciplina fallimentare. Nel capitolo introduttivo si è, quindi, evidenziato il cambiamento del trattamento del debitore insolvente, partendo dal periodo arcaico del diritto romano, in cui vi era una sorta di “schiavitù per debiti”, continuando con gli Statuti Comunali, i codici preunitari che sancivano la cd. morte civile del debitore, per giungere al R.D. n. 267 del 1942 il quale, su una concezione altrettanto negativa, prevedeva pesanti conseguenze di natura personale che permanevano anche dopo la chiusura del fallimento, e potevano essere superate solo facendo ricorso all’istituto della riabilitazione civile. Si sono, dunque, esposte le caratteristiche sostanziali e processuali di quest’ultimo, le ragioni che hanno portato alla sua abrogazione e i conseguenti problemi di diritto transitorio, in merito ai quali, ci si chiedeva se fosse possibile un’ultrattività della riabilitazione per i fallimenti che continuavano ad essere disciplinati dalla previgente normativa ed anche alla luce del difetto di coordinamento con alcune disposizioni che ancora oggi continuano a prevedere detto istituto. Si è passati poi, mediante un breve cenno all’iter legis, a delineare le ragioni che hanno introdotto l’istituto dell’esdebitazione, e la riforma più in generale, inquadrando la sua funzione principale di beneficio, di premio per il fallito e di incentivo. Problema particolare che la prima pone è la contrapposizione tra due situazioni giuridiche attive: da un lato quella del debitore alla liberazione dai vincoli obbligazionari, dall’altro il diritto di credito dei creditori, dando preminenza al primo, in attuazione del principio del
favor debitoris, ma purché egli rispetti determinate condizioni soggettive ed oggettive disciplinate dalla legge che ne limitino l’applicazione al soggetto meritevole, evitando che il favor si tramuti in un mero privilegio in danno dei creditori ed in generale del
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mercato. Infatti una concessione troppo disinvolta dell’esdebitazione indurrebbe i creditori a fare meno credito o meglio a concederlo a condizioni più rigorose ed in generale verrebbero ridotti tutti i rapporti economici con l’imprenditore rallentando, così, il progresso ed il mercato. Ed è proprio sull’analisi di queste condizioni che si basa il secondo capitolo del lavoro. La mancanza di una di esse è causa ostativa al beneficio. Si è inoltre evidenziato l’ambito soggettivo di applicazione, con riferimento esclusivo al debitore fallito persona fisica e la presenza di una precondizione oggettiva, che ha suscitato notevoli contrasti sia in dottrina che in giurisprudenza, quale quella del parziale soddisfacimento dei creditori concorsuali, risolta dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Tutti questi requisiti devono essere valutati dal Tribunale in un procedimento in camera di consiglio, azionato su ricorso del debitore, come evidenziato nel terzo capitolo, il quale si concentra, in parte, sull’analisi dell’art. 143 l.fall. che disciplina, appunto, il procedimento, prevedendo una fase di primo grado ed una di secondo ossia il reclamo ed in parte sull’analisi degli effetti del decreto di esdebitazione nei confronti di tutti i soggetti che sono incisi dal provvedimento, quali il debitore, i creditori concorsuali, concorrenti e non, i fideiussori, i coobbligati del debitore e gli obbligati in via di regresso. Con riferimento al procedimento, in particolare, ci si è concentrati sulla questione di legittimità costituzionale dell’articolo suddetto, per violazione del diritto di difesa e del rispetto del contraddittorio nei confronti dei creditori concorsuali che subendo un effetto pregiudizievole col decreto, secondo la novella del 2006, non venivano posti nella condizione di conoscere l’avvio del procedimento e quindi di difendersi, questione accolta dalla Corte Costituzionale con la nota sentenza n. 181 del 2008. Con riferimento agli effetti del provvedimento, è stato sottolineato il dubbio in merito alla sua effettiva portata, se di mera inesigibilità o di estinzione vera e propria dei debiti residui. Non solo,
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l’istituto di nuovo conio ha posto numerose altre questioni, esposte nel quarto capitolo, che pongono in luce quanto esso deroghi ad alcuni principi civilistici del nostro ordinamento, quali quello della responsabilità patrimoniale illimitata ed il principio per cui l’inadempimento non estingue l’obbligazione. Ci si è soffermati sulla questione di carattere intertemporale dell’esdebitazione, in considerazione del fatto che la disciplina originaria della novella non prevedeva l’ambito di applicazione temporale dell’istituto, per cui si discuteva sull’opportunità di una retroattività di esso anche ai fallimenti disciplinati dalla previgente normativa, risolta dal Decreto Correttivo del 2007. Ulteriore tematica di ampio dibattito, è stata quella di legittimità costituzionale con riferimento all’ambito soggettivo di applicazione riservato al solo debitore fallito, con esclusione di un notevole numero di soggetti, contrastante quindi con il principio di uguaglianza e di parità di trattamento, in quanto, essendo l’esdebitazione un beneficio non si comprendeva la ratio della restrizione. Situazione oggi risolta, almeno teoricamente, dalla L. n. 3/2012, oggetto di trattazione del quinto capitolo, che disciplinando apposite procedure concorsuali anche per il debitore civile e per il consumatore sovraindebitati (i quali in precedenza potevano essere sottoposti solo alle esecuzioni individuali), ha previsto la liberazione dai debiti residui anche per questi ultimi, beneficio che è effetto automatico, per l’accordo di risoluzione della crisi da sovra indebitamento e per il piano del consumatore, invece per la terza procedura, quale la liquidazione del patrimonio, è un effetto che discende dall’attivazione di un’apposita procedura che ricalca, per molti versi, l’esdebitazione fallimentare. Con quest’ultimo capitolo si vuole evidenziare l’introduzione del meccanismo concorsuale anche per il soggetto non fallibile, che va di pari passo con il dilagare della condizione di sovra indebitamento, la quale genera per il medesimo numerosi rapporti di credito-debito che giustificano, appunto, il
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concorso, peraltro alla luce dei suoi vantaggi rispetto alle procedure esecutive individuali. Si è fatto cenno alle cause del sovraindebitamento e alla disciplina delle menzionate procedure, al fine di sottolinearne la natura concordataria, piuttosto che quella negoziale. Infine ci si è soffermati sulla disciplina dell’esdebitazione, sulla sua funzione, anche in questo caso di beneficio e di natura premiale, ma soprattutto di tutela dell’interesse generale al consumo, in quanto consente, mediante la liberazione dai debiti residui, il recupero al mercato di nuovi acquirenti.
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CAPITOLO PRIMO
DALLA RIABILITAZIONE
ALL’ESDEBITAZIONE
1.L’antecedente storico dell’istituto dell’Esdebitazione: la
Riabilitazione Civile
1.1 Premessa
Il Decreto legislativo 9 Gennaio 2006 n.5 recante “La riforma organica delle procedure concorsuali di cui al Regio Decreto 16 Marzo 1942 n. 267” all’articolo 128 introduce per la prima volta nell’ordinamento giuridico italiano l’istituto dell’esdebitazione come disciplina autonoma, una novità assoluta che consiste nel beneficio della liberazione del debitore fallito da tutti i debiti residui non soddisfatti con l’esecuzione concorsuale. Tale espressione era adottata nella prassi dalla dottrina e dalla giurisprudenza per indicare esclusivamente l’effetto conseguente all’avvenuta esecuzione da parte del debitore degli obblighi assunti con il concordato preventivo e fallimentare, a differenza di quanto, invece, era disposto per il fallimento, la cui disciplina a norma del’art. 120, co. 3, l. fall., prevedeva, dopo la chiusura del procedimento, il riacquisto per i creditori del libero esercizio delle azioni verso il debitore per la parte non soddisfatta dei loro crediti. L’istituto in questione sostituisce quello della riabilitazione, anch’esso avente natura premiale, di beneficio nei confronti del fallito, ma sostanzialmente divergente per gli effetti, in quanto la riabilitazione rimuoveva le incapacità personali che colpivano il debitore con la dichiarazione di fallimento, invece oggi, dall’esdebitazione, come si può intuire, conseguono vantaggi di
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natura patrimoniale. Quest’ultima si inserisce, appunto, in una riforma più ampia che interessa tutta la disciplina fallimentare e le procedure concorsuali, riforma che riflette la nuova realtà economica e sociale,il nuovo modo di vedere il fallimento, e prima ancora l’insolvenza, nonché la figura del fallito. Per comprendere le ragioni della novella e del nuovo istituto è opportuno analizzare la disciplina antecedente e il contesto nel quale essa è sorta e si è radicata per così lungo tempo. Infatti fino al 16 Luglio 2006, data dell’entrata in vigore della riforma,il fallito era considerato un soggetto pericoloso per la società ed il mercato, il fallimento un’infamia adoperata per punire l’imprenditore insolvente ed eliminarlo dal novero dei soggetti economici, in quanto reo di aver attentato ai valori nazionali dell’economia e di aver tradito la fiducia commerciale che costituiva uno dei cardini del progresso economico. La sua condotta, necessariamente dolosa, sanzionata con la procedura fallimentare, comportava sia la capitolazione dell’impresa che quella del debitore dichiarato fallito e, altresì, una condanna etica: egli veniva controllato a vista, veniva emarginato dalla sfera sociale ed economica per evitare il diffondersi della sua “terribile malattia”: l’insolvenza, una malattia infettiva capace di coinvolgere tutte le imprese che entravano in contatto con il “malato”.1
1.2 Il trattamento del debitore insolvente nella nostra
tradizione giuridica
La concezione sanzionatorio-afflittiva ed infamante ha le sue origini storiche agli albori della nostra tradizione giuridica. Quasi sempre, infatti, le norme giuridiche inquadrano e regolamentano fattispecie
1L. Ghia, “L’esdebitazione. Evoluzione storica, profili sostanziali, procedurali e
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che presentano sedimentazioni profonde nella storia dei comportamenti dei popoli, fatte di consuetudini, di costumi, di osservanza di regole, che nella loro ripetizione nel tempo creano radici antiche sulle quali si innesta la regola giuridica, traendone linfa ed efficacia.2 Facendo un breve excursus storico sul trattamento del debitore insolvente notiamo come la considerazione negativa dello stesso venga da lontano e come nei suoi confronti non venisse predisposto alcun tipo di vantaggio, quale quello dell’esdebitazione, a cui si è giunti solo di recente. Nelle cd. “Dodici Tavole”, risalenti al periodo arcaico del diritto romano, il debitore che non aveva soddisfatto il suo debito era sottoposto ad un’incisiva azione personale e penale: la manus iniectio. Con essa il creditore, una volta acquisita la certezza dell’esistenza del suo credito mediante sentenza o confessione, decorsi trenta giorni senza ottenere la somma dovuta dal debitore, poteva promuovere un giudizio innanzi al magistrato affinché quest’ultimo lo dichiarasse addictus e il creditore potesse condurlo in “catene” presso di sé.3Rappresentava, quindi, un mezzo legale di esecuzione privata, in forza del quale il creditore s’impossessava d’autorità della persona del debitore, ma aveva l’obbligo di portarlo a tre mercati consecutivi, dichiarando l’ammontare dei debiti, affinché qualcuno potesse riscattarlo e se ciò non avveniva, poteva venderlo come schiavo al di là del Tevere o, addirittura, ucciderlo. Si trattava, come è evidente, di una procedura
avente carattere afflittivo e vendicativo, piuttosto che satisfattivo. A partire dall’età preclassica, a tale procedimento si affiancò quello
della “Bonorum venditio”, con la quale ebbe inizio l’esecuzione
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L.Ghia, “L’esdebitazione”, cit., 17
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Nel procedimento il creditore pronunciava di fronte al giudice determinate parole sacrali-certa verba- con cui indicava la causa del credito e del suo ammontare. Il debitore poteva indicare un garante che lo avrebbe sottratto alla manus iniectio (vindex). Se quest’ultimo negava l’esistenza del debito si istaurava un altro procedimento per accertarlo, al termine del quale, se il vindex risultava soccombente, avrebbe dovuto pagare il doppio del debito. Se nessuno pagava o si costituiva vindex il giudice pronunciava l’addictio.
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patrimoniale, il cui oggetto era dunque il patrimonio e non la persona del debitore.4Il creditore istante, infatti, veniva immesso dal giudice nel possesso dei beni dell’insolvente, con funzioni di custode e si dava avviso (proscriptio) agli altri creditori che potevano intervenire. Se il debitore non pagava entro trenta giorni dalla proscriptio, la procedura proseguiva mediante la designazione di un magister bonorum, il quale organizzava la vendita all’asta del patrimonio: doveva inventariare i beni e verificare i crediti. I concorrenti comunicavano le percentuali offerte ai creditori e i beni venivano aggiudicati al miglior acquirente (bonorum emptor) che, proponeva il maggior grado di soddisfacimento per essi. I creditori non pagati nella percentuale offerta dall’emptor potevano agire contro di lui e, decorso un anno, potevano agire contro il primo debitore. È evidente che i debiti originari non venivano meno, restando l’insolvente ad essi vincolato. L’acquirente diveniva il successore del debitore che era, con finzione giuridica, considerato defunto. Ecco quindi il consolidarsi del concetto di “morte civile” che connotava la condizione di fallito. Infatti se il debitore non pagava entro trenta giorni dalla proscriptio era colpito da infamia che comportava la massima riprovazione sociale e l’incapacità a ricoprire qualsiasi carica pubblica: il venir meno alla parola data e alle obbligazioni assunte non poteva essere tollerato in un’economia ove la lotta per la sopravvivenza era dura e quotidiana, il fallimento era giudicato quasi sempre come il tentativo di sottrarsi con la frode e l’inganno alla realtà di quei tempi e sempre in danno ai creditori.5La procedura fallimentare come esecuzione attuata dalla pubblica autorità nasce nel Basso Medioevo con gli Statuti Comunali e le corporazioni mercantili. Inizialmente essa era rivolta a tutti i soggetti, poi venne ristretta ai soli commercianti. Il fallito perdeva i diritti del cives: veniva messo al “bando” ovvero espulso dal consesso
4 Era una procedura a carattere universale, colpiva cioè tutti i beni del debitore, e
concorsuale: riguardava tutti i creditori.
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civile, conseguendone l’interdizione dai pubblici uffici, l’esclusione dall’esercizio della mercatura e dell’impresa e veniva sottoposto ad una serie di sanzioni penali che variavano di Comune in Comune, in quanto il fallimento era considerato un “crimen publicum”, perpetrato contro lo Stato. Alcuni statuti Comunali prevedevano la tortura, altri l’obbligo di portare un berretto bianco o verde, ancora la perdita della cittadinanza, in particolare la legge fiorentina prevedeva l’affissione in luogo pubblico della raffigurazione caricaturale del fallito e tutti
prevedevano l’iscrizione in un apposito albo. Le legislazioni preunitarie mantennero,poi, la medesima concezione
negativa dell’insolvente che è stata protagonista della nostra tradizione giuridica fino alla citata novella. Il codice Albertino del 1842, primo codice preunitario, sulla scia del Code du commerce francese del 1807, prevedeva, per la prima volta in Italia, come esclusiva via d’uscita da quella condizione deplorevole la riabilitazione, ma solo in presenza dell’integrale pagamento di tutti i debiti ed interessi. Così anche il successivo Codice del Commercio del 1882, confluito poi nel Codice Civile del 1942, il quale si caratterizzava per l’applicazione della disciplina ai soli commercianti ossia coloro che compivano per professione abituale atti di commercio.
1.3 L’istituto della Riabilitazione civile
La disciplina del fallimento, dopo l’unificazione del codice del commercio con il codice civile nel 1942 divenne oggetto di una normativa a sé stante, il R.D. 16 Marzo 1942, n. 267, la cui impostazione originaria, come accennato innanzi, risente fortemente della concezione afflittivo-sanzionatoria infamante. Infatti alla dichiarazione di fallimento, oltre allo spossessamento dei beni del
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fallito6, alla perdita della capacità processuale7, alla limitazione della corrispondenza8 e della libera circolazione9, conseguivano molteplici stringenti limitazioni che derivavano, per la maggiore, dall’iscrizione del fallito ad apposito registro pubblico previsto dall’ art 50 della legge fallimentare ante riforma, registro conservato presso la cancelleria di ogni Tribunale.10Tra le restrizioni che la normativa in vigore fino al 2006 sanciva, ricordiamo:
- Artt. 350, n.5; 355 e 393 c.c.: il fallito non poteva essere tutore, protutore o curatore e, se già nominato, decadeva; - Artt. 2382 e 2399 c.c. : il fallito non poteva essere nominato
amministratore e sindaco di società di capitali e, se nominato, decadeva;
- Art. 2417 c.c.: il fallito non poteva essere nominato rappresentante comune degli obbligazionisti;
- Art. 812 c.p.c.: il fallito non poteva essere arbitro;
- Art. 28, comma 1, lett. c),l.fall. : non poteva svolgere funzioni di curatore colui che era stato dichiarato fallito;
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V. art. 42, co. 1°, l.f.: “La sentenza che dichiara il fallimento, priva dalla sua data il fallito dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento”.
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V. art. 43, co. 1°, l.f.: “Nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di
diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento, sta in giudizio il curatore”.
8V. art 48, co.1°, l.f.: “La corrispondenza diretta al fallito deve essere consegnata al
curatore, il quale ha diritto di trattenere quella riguardante interessi patrimoniali”
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V. art. 49, l.f.: “Il fallito non può allontanarsi dalla sua residenza senza il
permesso del giudice delegato, e deve presentarsi personalmente a questo, al curatore o al comitato dei creditori, ogni qualvolta è chiamato, salvo che, per legittimo impedimento, il giudice lo autorizzi a comparire per mezzo di mandatario. Il giudice può far accompagnare il fallito dalla forza pubblica, se questi non ottempera all’ordine di presentarsi.”
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V. art. 50, l.f.: “Nella cancelleria di ciascun Tribunale è tenuto un pubblico
registro nel quale sono iscritti i nomi di coloro che sono dichiarati falliti dallo stesso Tribunale, nonché di quelli dichiarati altrove, se il luogo di nascita del fallito si trova sotto la giurisdizione del Tribunale.
Le iscrizioni dei nomi dei falliti sono cancellate dal registro in seguito a sentenza del Tribunale.
Finché l’iscrizione non è cancellata, il fallito è soggetto alle incapacità stabilite dalla legge.
Le norme per la tenuta del registro saranno emanate con decreto del Ministro per la grazia e giustizia. Fino all’istituzione del registro dei falliti le iscrizioni previste nel presente articolo sono eseguite nell’albo dei falliti attualmente esistente.”
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- Art. 38, comma 1bis,D.Lgs. 8 Luglio 1999, n. 270 : non poteva essere nominato commissario straordinario chi fosse stato dichiarato fallito;
- D.p.r. n. 223/1967 : prevedeva la cancellazione del fallito dalle liste elettorali, con effetto immediato dalla sentenza anche non passata in giudicato.
Altre restrizioni sono individuate in disposizioni normative ancora in vigore11:
- Art. 5, comma 2, lett. a),D.Lgs. n. 114/1998: non possono esercitare l’attività commerciale, salvo che abbiano ottenuto la riabilitazione,coloro che sono stati dichiarati falliti12 ;
- Art. 5, lett. c), legge 3 maggio 1985, n. 204: divieto di iscrizione nel ruolo di agente e rappresentante di commercio; - Art. 110, comma 1, lett. c),D.Lgs. n. 209/2005: divieto di
iscrizione al registro degli intermediari assicurativi e riassicurativi;
- Art. 5,lett. c), legge 12 marzo 1968, n. 316: divieto di esercizio della professione di agente e rappresentante di commercio; - Art. 6, n. 4 legge 22 dicembre 1957, n. 1293: è precluso al
fallito di gestire esercizi di vendita di generi di monopolio. Secondo la normativa ante riforma, le suddette incapacità personali potevano essere rimosse esclusivamente facendo ricorso all’istituto giuridico della Riabilitazione, regolamentato nel Capo IX della vecchia legge fallimentare, rubricato per l’appunto “Della
riabilitazione civile” e sviluppato in quattro articoli che ne specificavano gli effetti, le condizioni, il procedimento e le cause ostative. L’art 142,primo comma, disponeva “La riabilitazione civile
fa cessare le incapacità personali che colpiscono il fallito per effetto
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Restrizioni che, ad oggi, vengono meno con la chiusura del fallimento.
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Quest’inciso può ritenersi tacitamente abrogato, in seguito al venir meno dell’istituto della riabilitazione.
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della sentenza dichiarativa di fallimento” e al comma terzo “la
sentenza che pronunzia la riabilitazione ordina la cancellazione del nome del fallito dal registro previsto dall’art 50 ed è comunicata all’ufficio del registro delle imprese per l’iscrizione”.Essa mirava, quindi alla sola riqualificazione morale e sociale del fallito, essendo il fallimento considerato come una sorta di macchia indelebile. Non vi erano, invece, conseguenze patrimoniali favorevoli al debitore, sul piano dei rapporti sostanziali con i creditori quali la liberazione dai debiti residui non soddisfatti integralmente, tanto è che secondo quanto disciplinato dall’articolo 120, terzo comma, della legge fallimentare ante riforma, alla chiusura del fallimento i creditori riacquistavano il diritto di agire individualmente per la parte di credito non soddisfatta sui beni del fallito ritornato in bonis. Effetti patrimoniali favorevoli al debitore si avevano solo con l’adempimento regolare del concordato preventivo e fallimentare, in quanto tali istituti integravano un accordo tra debitore e creditori, in base al quale, se il concordato veniva eseguito, i secondi rinunciavano a pretendere il pagamento di una parte del loro credito nei confronti del primo, sull’assunto che il consenso su cui si basava il concordato giustificava l’effetto novativo sui singoli rapporti obbligatori, soggetti ai nuovi patti convenuti tra creditori e debitore. L’effetto era poi agevolato dalla concezione di un concordato-beneficio, a cui era ammesso solo l’imprenditore meritevole di ottenere la liberazione dai debiti. Il provvedimento di riabilitazione non era una conseguenza automatica della chiusura della procedura fallimentare, ma avveniva solo all’esito di un giudizio, da svolgersi in camera di consiglio,promosso su ricorso del debitore o dei suoi eredi, sentito il Pubblico Ministero, in cui il giudice doveva constatare la presenza di una delle tre condizioni previste dall’articolo 143 e l’assenza delle cause ostative di cui all’articolo 145. Queste ultime erano individuate nella condanna penale per bancarotta fraudolenta o per delitti contro il patrimonio, la
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fede pubblica, l’economia pubblica, l’industria e il commercio, salvo che per tali reati fosse intervenuta la riabilitazione prevista dalla legge penale. La Suprema Corte, nella vigenza di quell’istituto, aveva chiarito che l’art. 145 L.F. non faceva riferimento unicamente ai reati previsti dal codice penale, ma anche a quelli descritti nella legislazione speciale,tenuto conto della genericità della norma e del riferimento all’oggetto specifico dei singoli reati. Invece, non doveva ritenersi ostativa,la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti. Dottrina e giurisprudenza, infatti, ritenevano, la non equiparabilità della sentenza di patteggiamento ad una condanna, non comportando la prima un positivo accertamento di colpevolezza. Considerato che la Legge Fallimentare espressamente prevedeva la sentenza di condanna come motivo ostativo, l’applicazione della pena a norma degli artt. 444-445 c.p.p. non doveva ritenersi ostativa alla concessione della riabilitazione civile. L’imprescindibilità dell’assenza di un provvedimento di tal genere per questi reati era poi confermata dal fatto che, qualora fosse in corso un procedimento per la constatazione di uno di essi, il Tribunale doveva sospendere la pronuncia sull’istanza di riabilitazione. Alla mancanza di queste condanne penali, come accennavo, si affiancava la verifica della presenza di una delle tre condizioni, che confermavano la meritevolezza del fallito, imprescindibile per ottenere la riabilitazione ed erano: 1) il pagamento integrale di tutti i crediti ammessi nel fallimento,13 compresi gli interessi e le spese; 2) l’adempimento regolare del concordato, quando il Tribunale riteneva il fallito meritevole del beneficio, tenuto conto delle cause e circostanze del fallimento, delle condizioni del concordato e della misura della percentuale, misura che non poteva essere inferiore al 25 % per i creditori chirografari, oltre gli interessi se la percentuale doveva essere
13 Va precisato che per crediti ammessi, si intendeva quelli che risultavano dallo
stato passivo reso esecutivo, ma non quelli per i quali non sia stata presentata domanda o che non siano stati inseriti nello stato passivo.
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pagata in un termine maggiore di sei mesi; 3) la prova costante ed effettiva di buona condotta per un periodo di almeno cinque anni dalla chiusura del fallimento. L’istanza di riabilitazione, formulata dal debitore o dai suoi eredi, doveva essere pubblicata mediante affissione alla porta esterna del Tribunale, ma per garantirne la conoscibilità effettiva potevano essere disposte altre forme di pubblicità. Dalla data di affissione decorreva il termine di trenta giorni 14 per fare opposizione, opposizione che poteva essere presentata da chiunque, a tutela dell’interesse generale, non essendo prescritta la dimostrazione di un interesse specifico dell’opponente e che innescava un procedimento innanzi al Tribunale competente all’esito del quale si accordava o negava la riabilitazione con sentenza in camera di consiglio, suscettibile di reclamo alla Corte di Appello da parte del debitore istante o dei suoi eredi, degli opponenti e del Pubblico Ministero. Dall’analisi della normativa emerge quanto l’istituto fosse legato sempre ad una logica penalizzante e repressiva del fallimento e ad una valutazione negativa del fallito, che giustificavano la presenza del Pubblico Ministero nel procedimento15, il quale esercitava una funzione inquisitoria sulla condotta del fallito che appariva volta maggiormente ad accertare la presenza di cause ostative al beneficio piuttosto che quelle favorevoli allo stesso e quanto questo avesse avuto una scarsa applicazione per la difficile realizzazione delle tre condizioni previste. Basti pensare alla prima: è evidente che detta condizione fosse più unica che rara, infatti, se il debitore avesse ab
origine avuto la possibilità di adempiere tutti i suoi debiti, non avrebbe fatto ricorso alla procedura fallimentare. Era però possibile, anche se si ripete raro, che la condizione si presentasse quando, ad esempio, il fallito ricevesse una cospicua eredità o potesse vincere al
14 Il Tribunale non poteva decidere prima che fosse trascorso tale termine. Esso
aveva carattere ordinatorio e non perentorio, per cui se il Tribunale non aveva ancora deciso doveva tenere conto delle eventuali opposizioni tardive.
15 Infatti il Tribunale emanava la sentenza, sentito il pubblico ministero ex art. 142,
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gioco o quando durante la procedura concorsuale i beni immobili che costituivano l’attivo vedessero incrementare il loro valore di mercato o in seguito all’esito positivo di azioni revocatorie o di risarcimento danni. Il problema che si poneva in questo contesto era quello di capire se, una volta soddisfatta tale condizione, il fallito avesse acquisito un diritto alla riabilitazione civile, ovvero se il Giudice avesse mantenuto ancora dei poteri discrezionali. Pare corretto propendere per quest’ultima soluzione e quindi considerare l’alternatività delle condizioni menzionate nell’art. 143 come “imperfetta”, poiché comunque era necessaria l’indagine sulla meritevolezza del fallito da parte del Tribunale. Il debitore fallito non aveva un diritto soggettivo alla riabilitazione e quindi la concessione del beneficio rimaneva sempre una facoltà per il Giudice che non era mai obbligato a concederlo.16Anche qualora il fallito avesse pagato tutti i suoi debiti, al Giudice restava sempre la facoltà di non ritenerlo meritevole rispetto alle cause del dissesto, ovvero al suo contegno nel corso della procedura: quindi la valutazione della buona condotta non si sarebbe risolta in un generico comportamento da “buon cittadino”, ma avrebbe dovuto estendersi allo specifico svolgimento di un’attività volta alla riparazione del danno prodotto col fallimento. Anche in merito alla seconda condizione l’organo giudicante non avrebbe potuto prescindere dal giudizio di meritevolezza.17 Essa era la più diffusa, ma comunque di non semplice realizzazione, in quanto prevedeva obiettivi economici particolarmente elevati da assicurare ai creditori, stabiliti senza alcuna flessibilità in relazione alle singole fattispecie. Per cui anche se per la validità del concordato fallimentare non era prevista una percentuale minima di soddisfacimento dei creditori chirografari, ai fini della riabilitazione questa soglia veniva
16Ciò appariva confermato dalle parole dell’ art. 143, l.fall. ante riforma: “La
riabilitazione può essere concessa”.
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Basato, in questo caso, sulla percentuale di soddisfazione dei creditori, nonché sul sacrificio che questi avrebbero potuto subire a causa del concordato e sulle cause e circostanze del fallimento.
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fissata. Va ricordato che il concordato preventivo prevedeva che la percentuale offerta ai creditori chirografari non potesse essere inferiore al 40 % dei loro crediti, ma ciò solo nel concordato con assuntore o con garanzia. Nel caso di concordato con cessione dei beni la percentuale proposta dipendeva da quanto il debitore credeva di ottenere dalla cessione dei beni, per cui gravava sui creditori il rischio di una sopravvalutazione del valore degli stessi. Quindi il debitore ammesso al concordato con cessione non essendo dichiarato fallito, non necessitava di un provvedimento di riabilitazione e per di più veniva liberato dai debiti residui in virtù dell’accordo negoziale con i creditori, a prescindere dalla percentuale di soddisfacimento dei creditori. Il debitore fallito invece, per ottenere la riabilitazione doveva pagare integralmente i privilegiati e al 25 % i chirografari. Questa disparità di trattamento tra debitore insolvente non fallito e debitore insolvente fallito conferma la negatività con cui veniva visto quest’ultimo e la ratio punitiva della vecchia disciplina fallimentare. Anche la terza condizione era particolarmente onerosa, in quanto il Giudice doveva tenere conto non solo del comportamento del fallito prima e durante la procedura fallimentare, ma anche nei cinque anni successivi, comportamento che doveva dimostrare un ravvedimento effettivo, concreto del soggetto ed era con riferimento a questo terzo presupposto che la discrezionalità del Giudice era più accentuata, in quanto, in questo caso l’indagine sulla meritevolezza non era legata a nessuna circostanza oggettiva.
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2.Il tramonto della Riabilitazione Civile
2.1 Le cause e i principi ispiratori della Novella
Fu proprio la scarsa applicazione della riabilitazione, dovuta alle condizioni particolarmente stringenti, di cui supra, alle quali era subordinata,a costituire uno dei motivi della sua abrogazione e della sostituzione con l’esdebitazione. Militavano a sostegno della rimozione dell’istituto anche le ingiustificate compressioni dei diritti fondamentali del fallito per un periodo di tempo troppo lungo, dovute sia al fatto che essi potevano essere riacquistati esclusivamente con la riabilitazione, appunto di difficile realizzazione e alla durata eccessiva dell’intera procedura fallimentare, la quale poteva superare anche i venti anni18,con violazione della normativa comunitaria in termini di ragionevole durata del processo, nell’ambito della tutela dei diritti fondamentali dell’uomo. Notevole è in questo senso la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali che più volte ha sanzionato l’Italia per le violazioni che derivavano alla Carta Europea dalla nostra legge fallimentare, per il protrarsi e l’aggravarsi delle violazioni che la lunghezza della procedura fallimentare comportava. Ricordiamo, in particolare la sentenza N. 4778/99R che sanzionò l’Italia per un procedimento durato più di ventiquattro anni, ritenendo che un tale termine comportasse “la
rottura del giusto equilibrio tra l’interesse generale al pagamento dei creditori del fallimento e gli interessi individuali del ricorrente, cioè il suo diritto al rispetto dei propri beni, al rispetto della propria corrispondenza e alla propria libertà di circolazione. Le ingerenze nei diritti e nelle libertà del ricorrente si sono rivelate sproporzionate
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Non a caso la normativa prevedeva la possibilità di una richiesta di riabilitazione del fallito da parte degli eredi, sintomo della particolare lunghezza della procedura che non permetteva al debitore di raggiungere questo risultato a sé favorevole in vita.
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all’obiettivo perseguito”; la sentenza n. 32190/96, caso Luordo c. Italia, nella quale si legge “la natura automatica delle incapacità in
cui il fallito incorre e il lasso di tempo tra la data di dichiarazione del fallimento e quella della riabilitazione sono elementi per sostenere che il fallito subisce, per effetto del fallimento, un’ingerenza nel diritto alla vita privata”; ancora, la sentenza n. 10644/02 del 2006 in cui ”la natura automatica dell’iscrizione, l’assenza di valutazione e di
controllo giudiziario in ordine all’applicazione delle relative incapacità nonché il lasso di tempo previsto dalla legge per ottenere la riabilitazione civile non è necessario in una società democratica”.L’intolleranza verso la restrizione dei diritti fondamentali dell’uomo viene così manifestata dal nostro legislatore nella legge delega 14 Maggio 2005 n. 80, la quale, all’art 1, comma 6, n.4 ha previsto, tra i punti principali che la riforma doveva attuare, la “modifica della disciplina delle conseguenze personali del fallimento,
eliminando le sanzioni personali e che le limitazioni alla libertà di residenza e di corrispondenza del fallito fossero connesse alle sole esigenze di procedura”, cosa che è avvenuta con il decreto legislativo del 2006.19Anche l’esigenza di adeguarsi alle normative internazionali giocò a favore della riforma ed in specie dell’introduzione dell’esdebitazione, che, non a caso, la relazione illustrativa al Decreto definisce “istituto omologo a quello già presente nella legislazione
europea ed americana”. Tanto è che esso è frutto di importazione del cd. Discharge di matrice anglo-americana. 20 Alla luce delle
19Questa direzione è stata confermata anche dalla sentenza n. 39 del 27 Febbraio
2008 della Corte Costituzionale, la quale ha dichiarato l’incostituzionalità degli articoli 50 e 142 R.D. n.267 del 1942 ante riforma, secondo i quali le incapacità personali derivanti dalla dichiarazione di fallimento sopravvivrebbero alla chiusura dello stesso e sarebbero superate solo con il provvedimento di riabilitazione, ritenendo che la legge fallimentare italiana era lesiva dei diritti della persona perché incidente sulla possibilità di sviluppare le relazioni con il mondo esteriore.
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Si può definire come la liberazione del fallito da tutti i debiti sorti prima della data dell’order for relief e da quelli che, pur essendo sorti dopo l’inizio del procedimento, sono dalla legge parificati a quelli sorti prima dell’inizio del procedimento. Con l’inizio del procedimento fallimentare si crea un patrimonio separato, comprendente tutti i beni del debitore interessati dalla procedura, ed è
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regolamentazioni straniere, era del tutto irrazionale ed ingiustificato il trattamento (negativo sotto ogni punto di vista: socio-economico, commerciale e normativo) riservato dalla nostra legislazione ai falliti, il quale si doveva conformare al panorama internazionale, che prevedeva, con una disciplina che variava di Stato in Stato, un recupero totale dei diritti fondamentali e il beneficio della liberazione dai debiti residui in presenza di certe condizioni. Ad ispirare la riforma italiana fu anche la constatazione che la procedura concorsuale non raggiungeva quasi mai l’obiettivo della massima realizzazione degli interessi dei creditori. Infatti la legge, non prevedendo per il fallito la possibilità di un esito vantaggioso ed essendo quasi irrealizzabile la riabilitazione, non incentivava il debitore a comportarsi bene durante la procedura per la sua massima soddisfazione, anzi accadeva spesso che egli la ostacolasse, non collaborasse, ne causasse ritardi, addirittura nascondesse i propri residui assets con grave pregiudizio per i creditori; per non parlare di quanto la stessa appetibilità di fare impresa diminuiva notevolmente data l’assenza di una via d’uscita per lo status di fallito. Inoltre, spesso quest’ultimo, alla chiusura della procedura concorsuale, finiva per vivere in aree di sostanziale illegalità, producendo reddito occulto, agendo mediante terze persone, accettando coperture simulate e ciò costituì un altro fattore decisivo per la modifica legislativa. Infatti, la circostanza che il debitore alla chiusura del fallimento potesse essere nuovamente oggetto delle azioni esecutive individuali promosse dai singoli creditori per la parte del credito non soddisfatto
proprio questa segregazione patrimoniale che fa si che sia possibile esdebitare il debitore eliminando i debiti residui, perché tali debiti non appartengono più al debitore, ma al patrimonio separato. Essa costituisce un vero e proprio diritto in capo al soggetto debitore, che si attua automaticamente, in quanto ogni dichiarazione di fallimento viene considerata come domanda implicita di ammissione al discharge. Inoltre produce effetto solamente sulla responsabilità personale del debitore, rimanendo la possibilità di escutere il condebitore solidale o il fideiussore. Inoltre al debitore resta sempre la possibilità di adempiere spontaneamente l’obbligazione.
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concorsualmente21, azioni che incombevano su tutti i suoi beni presenti e futuri in virtù della responsabilità patrimoniale personale illimitata ex art 2740 c.c. 22, e le forti limitazioni sul suo status giuridico economico e sociale, gli impedivano di intraprendere con successo una nuova attività lavorativa e produttiva: ogni nuova entrata era soggetta all’azione dei creditori, anche a distanza di molti anni dalla chiusura della procedura. Quindi il fallito, diventava un soggetto inevitabilmente improduttivo e parassitario, costretto a produrre reddito, per far fronte alle esigenze più elementari proprie e della sua famiglia, in modo occulto. Ma ciò che costituì la svolta, fu la nuova visione della crisi dell’impresa e del conseguente fallimento che si sviluppò nel contesto economico e sociale, internazionale e poi italiano, secondo cui essi non derivavano necessariamente dal cattivo operato dell’imprenditore, ma potevano essere la conseguenza di fattori imprevisti e/o non prevedibili nonché incolpevoli. La sorte di molte imprese, oggi, dipende da una serie di variabili quali le politiche dei vari Paesi, i loro “aiuti”, le diverse condizioni di produzione, ambientali, di sicurezza, il costo del lavoro, i cambi repentini al vertice di complessi industriali, l’incapacità di rispettare l’esigenza di adeguamenti tecnologici sempre più necessari. In un simile contesto è accettabile considerare tutti i falliti indistintamente come colpevoli che vanno necessariamente puniti e definitivamente estromessi dal contesto produttivo e consumeristico? Evidentemente no.23
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V. art. 120, co. 2°, l.fall. (ante riforma): “I creditori riacquistano il libero
esercizio delle azioni verso il debitore per la parte non soddisfatta dei loro crediti per capitale ed interessi”.
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V. art. 2740, c.c.: “Il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con
tutti i suoi beni presenti e futuri.
Le limitazioni della responsabilità non sono ammesse se non nei casi stabiliti dalla legge”.
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2.2 La ratio della riforma alla luce della nuova realtà
socio-economica e il cambiamento di prospettiva
nell’approccio al fallimento
Allontanandosi dall’idea che la fine dell’impresa derivi sempre e comunque dalla colpevolezza dell’imprenditore, ma anzi considerando questa, spesso, come l’epilogo sfortunato della sua esperienza professionale, connaturato al rischio d’impresa, il fallimento doveva di necessità perdere quel carattere punitivo ed infamante che lo aveva caratterizzato fino alla riforma, esigenza questa espressa nella relazione illustrativa all’art 151 D.Lgs. n. 5/2006 in cui si afferma che le previgenti limitazioni personali di carattere sanzionatorio poste a carico del fallito poggiavano “su di una lunga tradizione storica,
ormai priva di fondamento sostanziale, la cui funzione sembra essere quella di attribuire al fallimento un carattere infamante” .24 Esso, nel nuovo contesto viene visto come un evento neutro, un accadimento quasi fisiologico nella vita dell’imprenditore, come uno strumento di pura e semplice regolazione dei rapporti debitore-creditori,che cerca di conservare l’utilità e il valore economico del soggetto fallito, non determinandone l’espulsione dal tessuto economico, produttivo e sociale nel quale era inserito ma anzi, laddove ve ne siano i presupposti, traducendosi in un vantaggio, in una nuova partenza. Viene considerato come un giudizio non più sulla persona, ma sul suo operato, un incidente di percorso che non deve negare al fallito la possibilità di avere una seconda chance e di rientrare, così, nel mercato.
Come emerge dalla relazione illustrativa al decreto legislativo 2006, la disciplina ante riforma, dando primaria importanza allo scopo sanzionatorio del fallimento, piuttosto che a quello recuperatorio del
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G.B. Nardecchia, “La riabilitazione civile: incerte soluzioni interpretative”, Fallim., 2007, 11, 1331, cit., 1.
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patrimonio imprenditoriale “non risultava più adeguata alle finalità
che l’evoluzione socio-economica intende realizzare nelle situazioni di insolvenza: finalità ispirate ad una maggiore sensibilità verso la conservazione delle componenti positive dell’impresa(beni produttivi e livelli occupazionali)”. E ancora: “qualunque tentativo di riforma
della materia deve ispirarsi ad una nuova prospettiva di recupero delle capacità produttive dell’impresa, nelle quali non è più individuabile un esclusivo interesse dell’imprenditore, ma confluiscono interesse economici e sociali più ampi”. Quindi è lampante l’esigenza di scongiurare la dispersione dei valori aziendali e l’utilità di conservare con ogni mezzo la vitalità dell’impresa affinché questa non venga esclusa dalla produttività e dal mercato. Si realizza un’inversione di rotta: è l’aspetto sanzionatorio del fallimento ad essere accantonato, in favore di quello recuperatorio. Ed è proprio questo nuovo approccio al fallimento a giustificare la riforma e l’introduzione dell’istituto dell’esdebitazione, il cui percorso legislativo non è stato dei più facili, ancorché fosse voluto da tutte le forze politiche.
3.L’ingresso dell’esdebitazione nel nostro ordinamento
giuridico
3.1 La Legge Delega n. 80/2005 e il Decreto Legislativo n.
5/2006
Premessa indispensabile all’introduzione dell’esdebitazione nell’ordinamento italiano fu il D. L. 14 Marzo 2005 n. 35 recante le “Disposizioni urgenti nell’ambito del piano di azione per lo sviluppo
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quale, pur intervenendo esclusivamente sul concordato preventivo e sulla revocatoria fallimentare, divenne fondamentale per accettare l’ingresso del nuovo istituto. Con esso il Governo constatava che la legge fallimentare costituiva un vero e proprio ostacolo allo sviluppo economico del Paese e che si doveva, appunto, superare l’idea del fallimento come male ingiusto e abbandonare un impianto normativo, prevalentemente processuale,che appariva non più atto a superare crisi irreversibili,bensì dedito a consumare lentamente l’attivo dell’impresa fallita in un succedersi di snodi processuali e perdendo di vista il reale scopo di tale procedura,consistente nella soddisfazione dei creditori. La ratio del decreto era quella di porre tempestivamente rimedio alla crisi di impresa,di stimolare gli accordi fra debitore e creditori,di riconoscere e tutelare il diritto all’errore del debitore “onesto”, restituendolo il prima possibile al mercato. Ma fu con la legge delega n. 80 del 2005 che si parlò per la prima volta di esdebitazione25, in cui all’articolo 1 venne disposta la delega al governo per l’emanazione del decreto legislativo di Riforma del fallimento e delle altre procedure concorsuali e tra i suoi principi e criteri direttivi vi era proprio l’introduzione dell’istituto. Il testo del decreto legislativo, attuativo della delega, fu approvato dal Consiglio dei Ministri nel settembre 2005 e trasmesso alle Camere per essere esaminato dalle Commissioni competenti26. Si arrivò, così, all’approvazione definitiva del testo da parte del Consiglio dei Ministri il 22 Dicembre 2005, pubblicato il 9 Gennaio 2006 con il numero 5, che modificò ampiamente la vecchia legge fallimentare, rendendola appunto attuale ed adeguata alla nuova realtà economica e sociale. Uno degli aspetti rilevanti della novella,
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La legge delega riprende, a sua volta, il contenuto del disegno di legge Trevisanato (dal nome del presidente della Commissione che lo propose) il quale, per primo, ha disciplinato l’esdebitazione fallimentare e che fu travolto dalla fine della legislatura.
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In particolare la Commissione Giustizia approva l’introduzione dell’istituto dell’esdebitazione, così come previsto dal testo del decreto, pur non mancando di rilevare qualche riserva sull’applicazione del beneficio, di cui parlerò diffusamente in seguito. Anche il Senato emette un parere favorevole, suggerendo alcuni accorgimenti.
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oggetto di analisi del presente lavoro, è la revisione del capo IX della medesima, i cui articoli: il 142, 143 e 144 (il 145 viene abrogato) trattano, finalmente, dell’esdebitazione come disciplina autonoma e la conseguente abrogazione della riabilitazione civile. È un procedimento, attivabile dopo la chiusura del fallimento, che consente al debitore di liberarsi dei debiti che, a seguito di quest’ultima, sono rimasti insoddisfatti. Egli viene, così, liberato dai vincoli connessi al mancato pagamento dei creditori, vincoli che, in assenza dell’istituto di nuovo conio, tornerebbero a gravare sul debitore alla chiusura del fallimento in virtù del già citato articolo 120 della legge fallimentare, impedendogli di poter iniziare una nuova attività economica, se non tramite prestanome: infatti, in base a tale ultima disposizione, egli è sottoposto all’azione perpetua dei creditori individuali, per cui ogni possibile entrata è potenzialmente aggredibile da essi (sarebbe quindi impossibile per il fallito rifarsi una vita)ed è comunque altamente improbabile che al termine della procedura sia in grado di liberarsi da tutti i debiti residui. Oggi l’azione individuale può ancora essere esercitata da parte dei creditori, essendo essa la regola generale e l’esdebitazione una sua deroga, che non è suscettibile di applicazione automatica, per cui l’art. 120 rimane in vigore, ma viene ad esso aggiunto l’inciso finale “salvo quanto previsto dagli artt.142 e
seguenti”.
4. La ratio e la portata innovativa dell’esdebitazione
4.1 La funzione del recupero dell’attività economica del
fallito
L’istituto, qualificato come beneficio, costituisce l’applicazione del principio del favor debitoris, il cui scopo principale è il recupero dell’attività economica del fallito come emerge dalla relazione
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ministeriale al Decreto: ”L’obiettivo dell’esdebitazione è quello di
recuperare l’attività economica del fallito per permettergli un nuovo inizio, una volta azzerate tutte le posizioni debitorie”. Quindi il debitore torna in bonis e riacquista la possibilità di esercitare l’attività di impresa, consentendogli un nuovo inizio, un “new fresh Start in
life”, che lo recupera all’economia nazionale. Da ciò si desume che la fine dell’impresa non deve determinare la fine dell’imprenditore: l’insolvenza, quale esito negativo della sua attività, non deve essere preclusiva della possibilità di rientrare nel mercato. Notiamo, dunque, come l’esdebitazione concretizzi la nuova concezione alla base della riforma, volta (come si diceva prima) al recupero produttivo, ove possibile, dell’impresa in crisi e dell’imprenditore e come essa confermi la nuova visione del fallimento, il quale, attraverso il suo svolgimento fisiologico, non produce più, esclusivamente, effetti sfavorevoli a carico di chi vi è sottoposto, ma procura allo stesso la possibilità giuridica di ottenere un beneficio, che si proietta sul suo patrimonio, al di là della procedura medesima. Pertanto il fallimento, viene a costituire per il fallito, anche un effetto favorevole, la fonte di una posizione giuridica di vantaggio, che opera per il futuro, agendo sul piano dei rapporti sostanziali e modificando la propria situazione patrimoniale27.Non v’è concordia sulla funzione tipica dell’istituto in esame; mentre da una parte si afferma che detta funzione è la realizzazione dell’interesse squisitamente privato del debitore alla liberazione dai vincoli obbligatori sopravvissuti al fallimento, potendo, così, sviluppare quelle potenzialità che altrimenti sarebbero state condizionate dalle pretese rivendicatorie dei creditori; dall’altra sembra individuarsi una funzione prevalentemente pubblicistica, volta ad ottenere un reinserimento del fallito, libero dai debiti, nel contesto socio-economico, sia come consumatore, sia come “nuova pianta economica produttiva di frutti, considerata parte seppur infinitesimale
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dell’ingranaggio che mantiene vivo il volano dell’economia”28. Non v’è concordia neppure sul fondamento teorico dell’istituto: secondo alcuni autori costituirebbe un atto di clemenza da parte della società motivato da esigenze etiche e morali; secondo altri troverebbe la sua giustificazione nei limiti dell’agire umano, sarebbe cioè un correttivo alla natura impulsiva degli essere umani e alla loro tendenza a sottovalutare il rischio del ricorso al credito; altri ancora ne individuano una misura premiale, volta ad incoraggiare la partecipazione del debitore al processo di liquidazione e distribuzione dei propri beni ai creditori; qualcun altro ravvisa nell’istituto in esame una forma di responsabilità limitata a disposizione delle persone fisiche29.
4.2 L’esdebitazione e il problema del bilanciamento di
interessi contrapposti
L’istituto pone un’importante questione: la concorrenza di due interessi contrapposti quello privatistico del debitore a liberarsi dai residui vincoli obbligatori e quello della massa dei creditori alla persistenza dei medesimi. Nella valutazione tra i due, con l’esdebitazione il legislatore dà preminenza al primo,purché egli si sia comportato correttamente, abbia, cioè, fatto di tutto per procurare ai creditori la massima soddisfazione possibile attraverso l’esecuzione collettiva, abbia collaborato alla medesima e sempreché, anche prima del fallimento abbia agito correttamente nella gestione dell’impresa e nei rapporti coi creditori. Come si legge dalla relazione illustrativa infatti “l’istituto dell’esdebitazione viene strutturato in modo tale da
28 E. Frascaroli Santi, “L’esdebitazione del fallito: la prima bocciatura della Corte
Costituzionale”, Nuove Leggi Civ. Comm., 2008, 6, cit. , 3.
29 R. Guidotti, “L’esdebitazione del fallito: profili sostanziali”, Contr. e Impr., 2015,
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evitare, attraverso impedimenti e/o preclusioni, utilizzi impropri della procedura in danno ai creditori”, prevedendo così determinate condizioni oggettive che rendono il debitore fallito meritevole di ottenerla.
Essesono: a) l’avere cooperato con gli organi della procedura ai fini dell’accertamento del passivo e del proficuo svolgimento della procedura, evitando di provocare o contribuire a provocare ritardi nella stessa;
b) il non avere beneficiato di altra esdebitazione nei dieci anni precedenti;
c) il non avere tenuto comportamenti penalmente rilevanti, quali la distrazione dell’attivo o l’esposizione di passività inesistenti, la causazione o l’aggravamento del dissesto rendendo difficile la ricostruzione del patrimonio e degli affari, il ricorso abusivo al credito ovvero il non avere riportato condanne per bancarotta fraudolenta o per delitti contro l’economia pubblica, l’industria o il commercio,
salvo che per tali reati sia intervenuta la riabilitazione. Dalla presenza di queste condizioni indispensabili di “meritevolezza”
desumiamo che solo l’imprenditore onesto che tiene, cioè, una condotta giusta e corretta sia prima che durante l’esecuzione fallimentare, ma sfortunato poiché viene dichiarato fallito non per sua colpa, gode di questo beneficio, venendo preferito il suo interesse, a quello dei creditori e le medesime costituiscono, appunto, una protezione per i creditori: “l’istituto è stato strutturato in modo tale da
evitare che, nell’applicazione pratica, possa incentivare distorsioni nei comportamenti del debitore insolvente. Altrimenti il sistema si sbilancerebbe a danno dei creditori, in un’ottica di un vero privilegio per il debitore, in stridente contrasto rispetto alla finalità di sviluppo dell’economia. Una previsione meramente e totalmente liberatoria per il debitore irrigidirebbe il sistema creditizio producendo una
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contrazione non solo del credito bancario e finanziario ma anche del sistema delle forniture, così rallentando il ciclo economico. L’ammissione all’esdebitazione, è stata quindi ancorata a parametri e limitazioni che ne evitino speculazioni dannose per il mercato.” 30 L’interesse del singolo imprenditore deve essere subordinato a quello del mercato, per cui si vuole evitare che una sua concessione troppo disinvolta provochi un dissesto sul generale piano economico e di conseguenza altri fallimenti di eventuali imprenditori fornitori non soddisfatti. Non è concepibile che per salvarne uno, se ne mandino in rovina tanti altri ed in questo senso agirebbe un’esdebitazione arbitraria, finalizzata al solo interesse del singolo imprenditore. Quindi,essa appare improntata a criteri rigorosi, introdotti al fine di conciliare la prioritaria esigenza di recuperare l’attività economica del fallito con quella di scongiurare il rischio che un’applicazione generalizzata e libera dell’istituto si risolva in un danno per i creditori e per il ciclo economico in generale.
4.3 La funzione incentivante dell’esdebitazione
Altro obiettivo che si desume dalla disciplina complessiva è quello coerente con la qualificazione di beneficio, che è quella di premiare il fallito onesto, ma sfortunato e dunque di incentivare31 l’imprenditore assoggettabile a fallimento a tenere sia prima che durante la procedura una condotta irreprensibile tesa a salvaguardare le aspettative di soddisfacimento dei creditori. È evidente che la prospettiva dell’esdebitazione, dovrebbe indurre l’imprenditore fallibile a tenere,
30 Relazione illustrativa al D. Lgs. n. 5/2006.
31Non a caso la relazione illustrativa parla di” incentivante liberazione”, in quanto
tra i motivi che hanno spinto il legislatore ad introdurre la nuova procedura, vi è la volontà di creare un significativo incentivo al fallito a ricorrere alla procedura concorsuale, poiché essa può condurre ad un rilevante vantaggio; l’imprenditore è poi incentivato a collaborare attivamente con gli organi della procedura, poiché il beneficio può essere concesso solo a quei soggetti che si sono comportati in modo onesto e collaborativo.
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durante tutto l’iter della procedura una condotta onesta e collaborativa con gli organi della procedura e ad attivarsi proficuamente per la sua buona riuscita, con un beneficio indiretto anche per i creditori concorsuali. L’effetto premiale deve infatti essere contemperato con il corrispondente interesse dei creditori al massimo recupero dei crediti. Quindi, in sintesi, a fondamento dell’istituto stanno l’interesse privato alla temporaneità dei rapporti obbligatori, in vista di un possibile reinserimento del fallito nel mondo della produzione e del consumo e l’interesse pubblico a stimolare la correttezza dell’imprenditore-debitore nella gestione della sua impresa e la collaborazione dello stesso nello svolgimento della procedura concorsuale. Ne risulta, così, indirettamente tutelato anche l’interesse della collettività dei creditori alla migliore riuscita della stessa procedura32.
Per una parte minoritaria della dottrina l’esdebitazione non è accettabile, anzi pare più ragionevole la ratio che ha da sempre informato e giustificato le norme del diritto fallimentare italiano: liquidare velocemente la massa attiva al fine di soddisfare i creditori, in par condicio tra loro, per poi “spazzare” via dal mercato la c.d. “mela marcia”. Inoltre secondo la medesima dottrina, con detto istituto, non ci si interroga a sufficienza sull’enorme costo sociale che determinano norme contenenti misure premiali per chi sbaglia: a parte il fatto che costui, anche non dolosamente, potrebbe commettere nuovamente gli stessi errori che l’hanno portato al primo fallimento, danneggiando così, ancora una volta, un’infinità di soggetti di diritto; anche il grave danno arrecato alla certezza del diritto, alla fiducia nella Giustizia civile: si pensi al discredito per le stesse istituzioni pubbliche di fronte a tutti quei cittadini che adempiono le proprie obbligazioni regolarmente33.
32 E. Norelli, “L’esdebitazione del fallito”, cit. , 2.
33F.Fradeani, “L’esdebitazione del fallito: quale tutela per i creditori?”, Dir.Fall.,