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Empatia e forme di socialita contemporanea tra mondo reale e virtuale

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PISA

Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN FILOSOFIA E FORME DEL

SAPERE

Empatia e forme di socialità contemporanea tra mondo reale e virtuale

Relatore: Chiarissimo Professor Carlo Marletti

Co-relatore: Dottor Giacomo Turbanti

Candidato: Jacopo Aglioti

Matricola 470603

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Sommario

Capitolo 1: La via verso la comprensione degli altri ... 8

Eterogeneità dei fenomeni innescati da reattività interpersonale ... 11

Disaccordi di definizione a livello terminologico ... 11

Forme di reattività interpersonale nei dintorni dell’empatia ... 15

La parola empatia ... 16

Filogenesi ed ontogenesi delle varie forme di reattività interpersonale ... 17

Reattività interpersonale nelle varie specie ... 18

Tappe maturative della reattività interpersonale nell’uomo ... 24

Empatia per gli stati positivi ... 28

Misurazione dell’empatia ... 29

Capitolo 2: Fisiologia e neurologia della reattività interpersonale ... 30

Corpo e reattività interpersonale ... 30

Basi neurochimiche della reattività interpersonale ... 31

Ossitocina & Vasopressina ... 33

Cervello e reattività interpersonale ... 37

La comprensione delle emozioni altrui ... 37

Empatia per il Disgusto ... 39

Empatia per il dolore ... 42

Il dolore proprio e quello degli altri ... 43

Dall’empatia alla schadenfreude ... 48

Dallo stress empatico alla compassione ... 52

Dissociabilità comportamentale e neurale dei vari sotto-costrutti empatici ... 56

Correlati neurali dell’empatia positiva ... 57

La reattività interpersonale in condizioni “non tipiche” dello sviluppo e nelle malattie psichiatriche e neurologiche ... 58

Disturbi dello spettro autistico & sindrome di Williams ... 58

Disturbi psicopatologici ... 60

Schizofrenia ... 61

Modulabilità farmacologica dei disturbi empatici ... 61

Capitolo 3: Empatia e virtualità ... 63

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Facebook ... 65

Twitter ... 69

Instagram ... 72

Virtualità videoludica: Giochi off ed on-line ... 74

Videogiochi online & E-Sports ... 77

Moba & League of Legends ... 79

MMORPG: Mondi virtuali & Communities ... 86

World of Warcraft ... 95

Virtualità ed Empatia: un quadro generale ... 101

Risposta alla domanda A ... 105

Risposta alla domanda B ... 112

Risultati ... 114

Empatia e Social Network: conoscersi ed interagire nel nuovo millennio ... 117

Metodi di trasmissione empatica all’interno dei social media ... 124

Empatia e Videogame: Comportamento ed intrattenimento ... 129

La meta-analisi di Anderson ... 133

Premesse e Parametri d’indagine ... 133

Risultati ... 139

Il General Aggression Model ... 143

Inputs ... 145

Routes ... 147

Outcomes ... 148

Pro-socialità videoludica: l’altruismo virtuale ... 151

Il lato oscuro dell’empatia: esperimenti di induzione empatica ... 161

Un punto di vista personale: videogiochi e communities ... 173

Conclusione e sviluppi futuri ... 178

Ringraziamenti ... 185 Bibliografia ... 187 Bibliografia capitolo 1 ... 187 Bibliografia capitolo 2 ... 193 Bibliografia capitolo 3 ... 200 Sitografia ... 209

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A mio padre, che ogni giorno mi mostra pregi e difetti, costi e benefici di una vita basata sulle proprie passioni ed i propri interessi, capace di farci affrontare l’esistenza con rispetto e dignità e colmare i vuoti dell’anima…

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“If we hope to meet the moral test of our times, then I think we're going to have to talk more about the "empathy deficit". The ability to put ourselves in somebody else's shoes, to see the world through somebody else's eyes . . .”

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Introduzione

Questo lavoro di tesi specialistica, nasce da una domanda che nel corso della mia vita, in maniera diretta o meno, mi è stata posta molta volte: come si può essere amici, o anche solo conoscere adeguatamente una persona attraverso un computer, senza averla mai incontrata di persona? Fin dalle sue prime formulazioni, la questione ha suscitato in me non poche difficoltà, sia nel suo contenuto, sia nella possibilità di fornire di volta in volta a genitori, familiari o amici una risposta che fosse in grado non solo di soddisfare loro, ma me in primis.

Delle varie sfaccettature della questione, quella che sicuramente nei miei interlocutori creava maggiore perplessità, e in alcuni casi addirittura timore, era senza dubbio la mancanza di contatto diretto tipica della vita in rete, che in più di un’occasione si traduceva nell’apparente paradossale situazione (almeno per alcuni) di persone che, pur trascorrendo molto tempo a parlare e condividere esperienze insieme anche giornaliera mente, non si fossero mai incontrare direttamente. Proprio questo particolare nella mia infervorata mente di adolescente/giovane uomo, prona a sentirsi giudicata ed attaccata dal mondo intero, risiedeva la principale forme di incoerenza dei detrattori della mia passione: infatti a mio parere la storia, ed in particolare quella degli ultimi due secoli, era piena di esempi di individui che pur essendosi incontrati saltuariamente (o addirittura mai) erano stati in grado di stringere solidi rapporti epistolari che nei posteri avevano ispirato reverenza, ammirazione e studio. Come mai nel caso delle corrispondenze tra Freud e i suoi vari interlocutori, o Voltaire e Caterina la Grande, nessuno aveva da ridire alcunché, mentre nel “mio” caso tutti erano pronti a mostrarsi scettici o a bollare le relazioni ivi instaurate come superficiali o semplicemente di serie B?

Nel corso degli anni però, una volta messa da parte la stizza del bambino capriccioso e risentito, mi ritrovai a chiedermi, se questa opinione così diffusa e condivisa non fosse quella giusta, e che la mia incapacità di vedere ragione a riguardo non fosse dovuta ad una mia totale mancanza di obbiettività a riguardo o ancora peggio allo spettro della dipendenza da virtualità.

Con lo scopo di scogliere i dubbi sia personali che degli altri, ho deciso di intraprendere questa ricerca, con lo scopo non tanto di creare un’apologia del virtuale o una sua condanna, ma di attenersi con certosino rigore scientifico (per quanto possibile ad un

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umanista del mio stampo) a risultati sperimentali ed a studi approfonditi e di riconosciuta credibilità, cercando di mettere in luce non solo eventuali pregi della vita virtuale, ma anche in egual misura i rischi ai quali essa ci espone e i costi che essa richiede.

Partendo quindi, dalla domanda “Esiste empatia nel mondo virtuale, e se sì come essa funzioni e si distingua da quella propria della vita di tutti i giorni” ho impostato il mio lavoro di tesi in due sezioni principali: una prima che si occupasse di stabilire con il maggior grado di chiarezza possibile, a che cosa facciamo riferimento parlando di empatia, e una seconda che invece si occupasse direttamente di affrontare l’applicazione del concetto al mondo virtuale.

Nella prima parte del lavoro lo studio del concetto di empatia si è declinato nell’arco di due capitoli: il primo dei quali si è occupato di metterne in luce la sua multidimensionalità, le sue articolazioni filosofiche, psicologiche e sociali prestando particolare attenzione non solo ai suoi antecedenti filogenetici, ma anche alle sue tappe ontogenetiche; il secondo capitolo invece ha focalizzato la propria attenzione sulle basi fisiologiche delle espressioni di reattività interpersonale sia in condizioni di socialità ordinaria che straordinaria includendo all’interno di quest’ultima condizioni atipiche sia in difetto (come i disturbi dello spettro autistico) che in eccesso (Sindrome di Williams).

La sezione successiva invece, si è e dedicata direttamente all’analisi degli studi che si sono occupati di accostare l’empatia alla virtualità nelle sue forme più popolari e comuni, da un lato il mondo della socialità on-line dei social networks e dall’altra quella dell’intrattenimento videoludico. Per entrambi i fenomeni, delineati sommariamente nelle fasi iniziali del capitolo terzo, si è cercato di mettere in luce non solo l’innegabile presenza di una componente emotivo-emozionale all’interno di essi, ma anche in che modo e in sulla base di quali meccanismi essa funzionasse e si differenziasse dall’empatia standard del mondo reale. Di pari passo, come da intenzioni, ci si è soffermati su limitazioni e rischi offerti da tali mezzi, pur cercando di sottolineare come essi siano dovuti (almeno secondo il sottoscritto) maggiormente ad un’incapacità (almeno al momento) del mezzo virtuale di reggere il confronto con la complessità e la poliedricità dell’interazione umana reale, piuttosto che un’intrinseca negatività dello strumento.

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Capitolo 1: La via verso la comprensione degli altri

Lo studio della mente, del cervello e dei comportamenti che di essi sono espressione riveste fondamentale importanza per gli individui e per le società. In questa chiave si comprende il grande interesse di studiosi provenienti da varie discipline (e.g., filosofia, teologia, antropologia, etologia, psicologia sociale e dello sviluppo, e recentemente neuroscienze) per il complesso tema di come gli esseri umani, sociali per antonomasia, comprendano e rappresentino i co-specifici ed i loro stati fisici e mentali. Il processo di “lettura degli altri” – intendendo con questo termine sia gli stati mentali che quelli intenzionali, emozionali e sensorimotori- può basarsi su due diversi tipi di meccanismi riassunti da due diversi approcci vale a dire quello della Teoria della Teoria (TT) e quello della teoria della simulazione (TS) (Gallese e Goldman, 1998). Secondo il primo approccio, - supportato da filosofi della mente quali Sellars (1963) and Churchland (1988), e da psicologi dell’età evolutiva quali Wellman (1990) e Gopnik, A. (1993) - la lettura delle menti altrui si basa su regole inferenziali acquisite nel corso dello sviluppo, in virtù delle quali si apprende a mettere in relazione stimoli esterni di varia complessità (ad esempio un’espressione facciale di minaccia) con un comportamento (ad esempio la decisione di attaccare o fuggire). In altri termini, l’attribuzione all’altro di determinati stati mentali si baserebbe sulla nozione che determinati ragionamenti teorici implicano tacitamente regole causative conosciute razionalmente. I sostenitori della TS – specialmente i teorici dell’eliminativismo come Paul and Patricia Churchland, sostengono che la psicologia ingenua (intesa come l’insieme di capacità cognitive che ci permetterebbero di predire e spiegare il comportamento) è fallacemente falsa perché costruita su informazioni parziali o errate (ad esempio quelle possedute dall’uomo medio su un argomento specifico) e dunque priva di potere esplicativo. Secondo questa teoria, per comprendere gli stati altrui vengono utilizzati i propri. Ad esempio, l’osservazione (o l’immaginazione) di una persona impaurita comporterebbe la riproduzione interna (simulazione appunto) di come ci si potrebbe sentire se si fosse al posto della persona osservata (o immaginata). In pratica la differenza fondamentale tra la TT e la ST è che secondo la prima “leggiamo gli altri” sulla base di regole astratte, mentre la seconda assume -in linea con i principi della cognizione situazionalmente incarnata (grounded/embodied

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cognition, Barsalou, 2008) - che il processo abbia luogo tramite incorporazione (a

livello emozionale e sensorimotorio) di quello che ‘oggettivamente’ osserviamo nell’altro e tramite confronto con quello che si sta provando. Quindi per la TT non c’è alcun bisogno di provare quello che l’oggetto della nostra “lettura” sta provando mentre per la ST deve esserci una corrispondenza tra il soggetto che effettua l’atto simulativo e l’oggetto che lo ha innescato. A sostegno della predominanza della simulazione, è l’interpretazione dell’esempio di esperimento mentale, effettuato in tutt’altro contesto da Kahneman and Tversky (1982). Ai partecipanti allo studio viene raccontata la storia dei due viaggiatori che stanno andando in aeroporto sullo stesso taxi e che a causa del traffico arrivano in ritardo di 30 minuti sull’orario previsto per entrambi i voli. Il primo viaggiatore apprende che il suo volo è partito all’ora prevista. Il secondo che il volo aveva 25 minuti di ritardo e che non l’ha preso per solo 5 minuti. A questo punto gli sperimentatori chiedono ai partecipanti secondo loro che dei due era maggiormente stressato dalla circostanza. Il risultato dello studio è stato che il 95% dei partecipanti non ha avuto dubbi nel rispondere che il più stressato era il secondo. Dal punto di vista puramente logico, entrambi avevano perso l’aereo. Secondo i teorici della simulazione, il risultato si spiega con il fatto che i partecipanti avevano risposto mettendosi nei panni dei viaggiatori e “provato” il loro stato.

Strettamente inerente alla rappresentazione dell’altro, e parzialmente sovrapposta al dibattito sopra delineato, è l’accesissima discussione -all’intersezione tra psicologia sociale e dello sviluppo, neuroscienze cognitive e cognizione animale - sui diversi costrutti psicologici in gioco quando un individuo è chiamato a “rappresentare” gli stati mentali di un co-specifico. In un tentativo di semplificazione non da tutti accettato, termini come teoria della mente, presa di prospettiva cognitiva, mentalizzazione e “mind-reading” sono stati usati come sinonimi per indicare la capacità di rappresentare le intenzioni, le credenze ed i desideri altrui, mentre il termine empatia è stato usato facendo riferimento alla capacità di condividere il sentire altrui (Singer, 2008). In realtà la questione è decisamente più complessa e studiosi di ambiti diversi usano questi termini con accezioni differenti. Il problema di trovare un accordo sul significato da attribuite ad alcuni costrutti/processi/fenomeni si pone specialmente nel caso dell’empatia, parola utilizzata sia in contesti specialistici che nella vita di tutti i giorni. Come riportato dal celebre psicologo sociale Daniel Batson

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(2009), il termine empatia viene utilizzato per indicare almeno otto fenomeni diversi e la stessa viene chiamata in gioco nell’affrontare due grandi domande vale a dire: 1) come si può comprendere cosa un individuo pensa e “sente” nel vedere o immaginare gli stati altrui e 2) che cosa induce l’individuo a rispondere agli stati degli altri mettendo in atto comportamenti “sintonici” (ad esempio di aiuto ove necessario). Raggruppare i fenomeni presi in considerazione da Batson (2009), come farò nel seguito, ha il grande vantaggio di potersi collegare a concettualizzazioni sviluppate sulla base di dati sperimentali. In quest’ottica il processo di conoscenza degli stati interni dell’altro, ivi includendo pensieri/percezioni/sentimenti, può basarsi su uno dei fenomeni sottoelencati 1) il trasferimento (involontario) su sé stessi di quello che si pensa/immagina/percepisce stia provando l’altro con conseguente stress in caso l’altro stia soffrendo; 2) il provare (nel senso di to feel) quello che l’altro sta provando o il sentire la sofferenza altrui; 3) proiettare sé stessi nei panni altrui per immaginare cosa l’altro pensa o prova. Un tale raggruppamento ricorda molto da vicino a studi di psicologia sociale contemporanea che hanno sviluppato questionari per valutare i tratti empatici. Ad esempio, uno dei questionari più usati allo scopo, cioè l’indice di reattività interpersonale (Davis, 1980; 1996) descritto in maggior dettaglio nella sezione riguardante le procedure per misurare la tendenza empatica, prevede che nell’ambito del costrutto multidimensionale dell’empatia siano individuabili almeno quattro sotto-costrutti – vale a dire il distress personale, la preoccupazione empatica, la presa di prospettiva e la fantasizzazione- che descrivono componenti separabili del processo di immaginare come si reagirebbe a una certa esperienza provata da un co-specifico. Lasciando da parte il quarto sotto-costrutto –che come ammesso dallo stesso autore ha minore validità psicometrica- gli altri tre ricorrono in varia declinazione nell’innumerevole lista di concetti per descrivere la relazione interpersonale e la sintonizzazione con e la rappresentazione dell’altro. Il primo sotto-costrutto, vale a dire il distress personale, misura l’influenza negativa sul soggetto indotta dalla visione/immaginazione dello stato di disagio (e.g. dolore) del suo simile. Si tratta quindi di una forma di reattività derivata dall’altro ma centrata sul sé. In questo senso può essere considerata come una forma relativamente primitiva, ‘egoistica’ di empatia. Il secondo sotto-costrutto, la preoccupazione empatica (che come vedremo è da taluni considerato sinonimo di empatia) fa riferimento alla risposta emozionale innescata

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dalla percezione/immaginazione dell’emozione attribuita all’altro. In questo senso la reazione è orientata all’altro ed è dunque più propriamente ascrivibile al concetto di empatia come legame con quest’ultimo stabilito dalla congruenza emozionale (negativa o positiva sia nel soggetto che nell’oggetto). Il terzo sotto-costrutto, la presa di prospettiva, si riferisce al processo cognitivo con il quale ci si mette nei panni altrui. Non implica condivisione emozionale (ed è per questo da taluni definita empatia fredda) e consente di mantenere una netta separazione tra soggetto ed oggetto. La relativa semplicità della definizione di cui sopra la rende attraente. Tuttavia, essa non è unanimemente accettata per almeno due ordini di motivi. Il primo è la completezza, nel senso che i concetti sviluppati da Davis non includono tutti i possibili fenomeni innescati dalla relazione interpersonale. Il secondo è il disaccordo tra le varie discipline interessate al tema di cosa il termine empatia debba/possa indicare. Un disaccordo tassonomico già palese al livello semantico-lessicale.

Eterogeneità dei fenomeni innescati da reattività interpersonale

È effettivamente vero che la concettualizzazione di Davis – non avendo lo scopo di includere l’intera gamma di possibili fenomeni intersoggettivi – è silente su aspetti importanti delle reazioni auto-orientate. Non viene ad esempio distinto il fenomeno della imitazione spontanea dei movimenti altrui (il cosiddetto fenomeno del

mimicry o l’effetto camaleonte, Chartrand & Bargh, 1999) da fenomeni forse ancora

più basilari quali la diffusione degli stati emozionali (e.g. la felicità, Fowler e Christakis, 2008) o delle abitudini che portano all’obesità sui social networks (Christakis e Fowler, 2007). Né viene presa in considerazione la differenza tra il contagio emozionale (e.g. il pianto o la risata di un neonato innesca il pianto o la risata negli altri) e la condivisione estrema delle emozioni altrui nell’adulto. Infine non vengono menzionati importanti concetti/fenomeni quali quello della simpatia e della compassione, specie in relazione ai comportamenti pro-sociali.

Disaccordi di definizione a livello terminologico

Il tipo di emozione innescato dall’altro, e però orientato ad esso, che nell’idea di Davis corrisponde alla preoccupazione empatica, viene da alcuni chiamato Empatia

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tout court e da altri pietà (“pity”) o compassione (“compassion”, Hume, 1740/1896;

Smith, 1759/1853), stress simpatico (“sympathetic distress” , Hoffman, 1981, 2000) o semplicemente simpatia (Darwall, 1998; Eisenberg & Strayer, 1987; Sober & Wilson, 1998; Wispé, 1986).

Il tentativo di classificare specifici sotto-fenomeni che consentano di operazionalizzare i costrutti in vista dell’analisi quantitativa di ciascuno di essi, ha portato a definizioni più restrittive - ribadisco, non da tutti accettate - secondo le quali l’empatia implica che un individuo sia in uno stato affettivo isomorfo a quello di un altro, che lo stato di cui sopra sia indotto dalla percezione/immaginazione delle emozioni altrui e che si abbia consapevolezza della relazione causa-effetto vale a dire che lo stato affettivo dell’altro sia la causa del proprio (De Vignemont e Singer, 2006). Inoltre, nello stesso contesto le autrici suggeriscono che al pari dell’empatia, la simpatia implica la presenza di stati emozionali senza però comportare isomorfismo tra soggetto ed oggetto (e.g. si può provare dispiacere nel vedere una persona arrabbiata senza provare rabbia). Inoltre, cruciale per alcuni degli sviluppi di cui si parlerà nell’immediato seguito, l’empatia differisce dal contagio emozionale unicamente perché in quest’ultimo non si ha consapevolezza della distinzione sé-altro (De Vignemont e Singer, 2006). In quest’ottica, l’empatia non indica più il costrutto multidimensionale sopra descritto ma una sotto componente di esso a grandi linee coincidente con la preoccupazione empatica. Adottando questo tipo di approccio Paul Bloom, psicologo con spiccati interessi filosofici, ha recentemente dato avvio ad un infuocato dibattito pubblicando il volume di provocatoriamente intitolato “Against Empathy: The Case

for Rational Compassion” (2016) non ancora tradotto in Italiano ma che, visto il

grande successo editoriale, probabilmente lo sarà presto. Nel volume, che riprende in parte varie interviste in giornali di ampia diffusione come il New York Times, e che ha avuto uno spazio forse esagerato anche in riviste specialistiche di scienze cognitive (Bloom, 2017) contrasta nettamente le tesi di altri autori (Rifkin, 2011; Bazalgette, 2016) che attribuiscono all’empatia –quasi sempre differentemente definita- un ruolo importante nel promuovere una società migliore. Secondo Bloom (2016) invece, data la sua natura eminentemente emozionale, l'empatia ci rende ciechi rispetto alle conseguenze a lungo termine delle nostre azioni perché ci spinge a guardare le cose solo da una angolatura e quindi a scotomizzare l’interezza degli scenari. Un

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atteggiamento di questo tipo avrebbe ovvie conseguenze negative ad esempio nel caso in cui le decisioni morali (e.g. un giurato bianco che condivide maggiormente il dolore del suo simile non sarebbe adatto a fornire giudizi imparziali). Quindi l’autore propone che l’empatia (che nella sua definizione include il sotto-costrutto di codifica emozionale automatica) sia dannosa in quanto emozione e che solo il ragionamento possa fungere da bussola morale. Al di là delle argomentazioni retoriche, che in parte spiegano il successo del libro, l’intera polemica sembra nascere proprio dalla definizione “ristretta” dell’empatia che in questa ottica però includerebbe anche aspetti di contagio.

Per riassumere, nel linguaggio comune il termine empatia fa riferimento alla capacità di condividere con altri individui stati fisici e mentali quali sensazioni, azioni, intenzioni, emozioni con valenza positiva o negativa (Preston e de Waal, 2002) e sembra far riferimento ad un unico costrutto. In realtà come già intuibile a questo punto dalle distinzioni sopra descritte, l’empatia fa riferimento ad un costrutto multidimensionale e l’indagine scientifica di essa richiede precise distinzioni terminologiche. Non essendo praticabile la proposta di abolire il termine empatia ed usare direttamente i sotto-costrutti, è importante cercare di definire nel seguito le varie posizioni raccomandando che nell’esame dei vari studi sulla reattività interpersonale, sia chiaro quale specifico (sotto)costrutto viene indagato. Cercherò pertanto di fare riferimento, ove possibile, ad uno schema teorico che pur tenendo conto della necessità di considerare di volta in volta i fenomeni esplorati. Si possono individuare tre principali componenti dell’empatia come forma complessa di reattività interpersonale vale a dire l’empatia cognitiva (tramite la quale riconosciamo cosa gli altri provano), quella emozionale (grazie alla quale proviamo quello che gli altri provano) e l’empatia compassionevole (che ci induce a comportamenti pro-sociali), (Ekman, 2003, p. 180). L’empatia cognitiva fa riferimento alla capacità di percepire e descrivere accuratamente gli stati altrui, siano essi cognitivi o affettivi. Questo tipo di capacità sembra predire comportamenti di aiuto (Marjanovic, Struthers, & Greenglass, 2012), sensitività alle ingiustizie (Decety & Yoder, 2016) e compassione per gli altri (Batson, Early, & Salvarani, 1997). Utilizzare l’empatia cognitiva (detta anche presa di prospettiva) riduce il carico emozionale e quindi minimizza lo stress che comporta il condividere esperienze emotive negative (Einolf, 2012). Va tuttavia notato che questa

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abilità si ritrova in grado elevato in individui appartenenti alla cosiddetta “dark triad” (triade oscura), vale a dire narcisisti, Machiavellici e sociopatici che sono privi di simpatia e compassione (Baron-Cohen, 2012). La nozione di empatia affettiva, che secondo alcuni sembra includere il contagio emozionale, e.g. Hatfield et al., 2009), indica la condizione in cui si “risuona” con il sentire (feelings) altrui. Potendo aver luogo sia a livello consapevole che implicito, questa abilità presenta chiari legami con processi ancora più elementari -quali il mimicry- che promuovono legami sociali (Stel & Vonk, 2010) e potrebbe giocare un ruolo nel modulare l’empatia cognitiva aggiungendo come elemento ulteriore la rappresentazione fisica delle conseguenze di una determinata azione (e.g., Jolliffe & Farrington, 2006). Va però sottolineato che condividere emozioni fortemente negative può risultare molto stressante per l’empatizzante e non è auspicabile in condizioni in cui si deve mantenere un certo distacco (e.g. in caso di trattamenti psicologici e medici non è funzionale la condivisione assoluta dell’emozione negativa perché comporterebbe l’incapacità di intervenire efficacemente, Exman, 2003). È quindi necessario immaginare una sorta di equilibrio tra i due tipi di empatia. In altre parole, per reagire agli stati altrui (ad esempio di sofferenza) in maniera socialmente appropriata è necessario non perdere la calma e non farsi travolgere dalle emozioni. Essere dotati di empatia cognitiva, consente a coloro che ne sono provvisti di gestire al meglio specifiche situazione (ad esempio ad un manager di motivare ottimalmente i dipendenti). Essere privi di empatia emozionale però espone al rischio di rimanere freddi temendo il coinvolgimento, e di non essere pertanto in grado di fornire l’aiuto che servirebbe. Nonostante il possibile effetto collaterale dell’incapacità di controllare lo stress personale indotto dalle emozioni negative dell’altro con conseguente rischio di sfinimento psicologico, l’empatia emozionale rende possibile la sintonizzazione profonda con l’altro come mostrano alcune categorie di persone che ne sono dotate per ragioni professionali (e.g. infermieri ed assistenti sociali) o personali (genitori, partner).

L’empatia compassionevole (per alcuni simpatia e compassione -Goetz et al., 2010-, per altri, e.g. Klimecki e Singer, 2014, semplicemente compassione) è uno stato affettivo pro-sociale che porta naturalmente a conseguenze positive per gli altri quali il supporto caritatevole (Weng et al., 2013) e che è probabilmente il tipo di condizione migliore dal punto di vista della desiderabilità sociale.

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Da menzionare è l’interessante categorizzazione della reattività interpersonale del celebre primatologo Franz de Waal, che ha peraltro ispirato alcuni degli studi scientifici che saranno discussi nel capitolo 2, e che si basa su una sorta di gerarchia evolutiva e maturativa (illustrata nella filogenesi ed ontogenesi) delle principali componenti della reattività interpersonale (vedere figura sottostante).

Forme di reattività interpersonale nei dintorni dell’empatia

Fortemente legata all’esperienza della reattività interpersonale è la presenza di emozioni complesse con polarità e dinamiche di segno opposto. Si pensi ad esempio alle circostanze nelle quali l’empatia viene soppressa dalle comparazioni sociali che portano al sentimento dell’invidia (caratterizzata da emozioni negative- e.g. rabbia o sofferenza- per il successo altrui) o della schadenfreude (da Schaden danno + Freude gioia, vale a dire la gioia per le disgrazie altrui, van DijK and Ouwerkerk, 2014). La figura sottostante può essere letta come una rappresentazione di invidia (la bimba di sinistra che guarda i regali dell’altra) e di schandefreude (la bimba di destra che mostra una espressione allegra nel vedere che l’altra ha ricevuto un misero regalino in confronto ai suoi).

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(http://uproxx.com/life/schadenfreude-neurons/)

La soppressione empatica indotta da queste due emozioni riveste un ruolo importante nel sostenere il pregiudizio contro gruppi sociali diversi dal proprio (Cikara and Fiske, 2013; Cikara et al, 2014) ed ha, come si vedrà nel capitolo 3, un ruolo modulatorio anche in contesti virtuali.

La parola empatia

Il termine “Einfühlung” (letteralmente “immedesimazione”, “sentir-rsi dentro”), è stato usato per la prima volta dal filosofo Robert Vischer nella sua tesi dottorale intitolata “Sul senso ottico della forma: un contributo all’estetica” (1873). Il termine è stato è stato fin da subito utilizzato per connotare una forma di trasposizione sé-altro con specifico riferimento all’esperienza estetica: se vi è piacere estetico, vi è un rapporto di sintonia tra noi e l’oggetto osservato. L’applicazione del concetto di “Einfühlung” al dominio dell’intersoggettività è attribuita al filosofo e psicologo tedesco Theodor Lipps che nella sua traduzione del trattato sulla ragione umana di Hume, trasse la nozione che il concetto di simpatia rifletta il processo che rende possibile ai contenuti delle menti degli uomini di diventare specchio per gli altri. Interessante notare come Lipps non solo abbia esteso il concetto di “Einfühlung” oltre il dominio delle cose inanimate, ma abbia teorizzato la cruciale relazione tra “il sentirsi-in” e l’imitazione interna del movimento percepito dell’altro (“When I am

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watching an acrobat walking on a suspended wire, I feel myself inside of him”1), un aspetto che mettere in relazione concetti antichi con altri derivati da scoperte neuroscientifiche quali ad esempio quella dei neuroni “specchio”, neuroni motori che risultano anche coinvolti in funzioni squisitamente percettive (citato in Gallese, 2001). La traduzione di “Einfühlung” (sentire-rsi dentro) nell’inglese “empathy” è attribuita allo psicologo E. B. Titchener in aggiunta alla parola già esistente di simpatia (tradotta come tale da “Mitgefühlung”, sentire-rsi con). Anche se non completamente sovrapponibile ai vari termini utilizzati oggi, è chiaro che già all’inizio del ventesimo secolo la nozione di empatia come condizione in cui si entra nelle emozioni altrui cambiando dunque la relazione tra soggetto ed oggetto, era distinta da quella di simpatia nella quale la suddetta relazione rimane invariata.

Filogenesi ed ontogenesi delle varie forme di reattività

interpersonale

Anche il tema della comparsa delle varie forme di empatia attraverso le specie (filogenesi) così come la comparsa di esse nel corso dello sviluppo (ontogenesi) ha catturato l’attenzione di varie categorie di studiosi. Le complicatezze tassonomiche cui abbiamo accennato rendono plausibili concezioni apparentemente opposte. Sostenere che sia una caratteristica dei primati, soprattutto quelli umani, è ragionevole se si fa riferimento alle forme più evolute e mature quali la presa di prospettiva o la simpatia (Decety, 2002; Hobson, 1989; Tomasello, 1999). È però altrettanto plausibile dire che la capacità di empatizzare deve necessariamente esistere in tutti i gruppi viventi animali con “istinto di gregarietà”, che già alla nascita risultano reattivi alle emozioni dei loro conspecifici (McDougall 1908/1923, citato in Preston & de Wall, 2002), va però precisato quando si stanno prendendo in considerazione forme di empatia relativamente primitive quali il contagio emozionale o l’effetto camaleonte. È quindi ragionevole esaminare la reattività sociale sia nell’uomo che in altri animali e lo sviluppo di essa considerando una sorta di continuum da forme relativamente rudimentali di partecipazione a forme più sofisticate basate ad esempio sul mantenimento di chiare distinzioni sé-altro (Gonzalez-Liencres et al, 2013).

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Reattività interpersonale nelle varie specie

Che le sofisticate forme di empatia mostrate dalle specie altamente sociali abbiano precursori evolutivi relativamente semplici, è opinione largamente condivisa. Il concetto di contagio emozionale ad esempio è chiaramente presente in etologia (il termine “Stimmungsübertragung” era già utilizzato da Lorenz, 1935) per far riferimento ai fenomeni di congregazione tipici delle greggi, dei banchi di pesci o degli stormi di uccelli (vedere la figura sottostante).

Questo tipo di comportamento dall’indubbio significato (consente ad esempio una miglior difesa del singolo dai predatori, spesso confusi dal comportamento collettivo) è altamente istintivo e non richiede le elevate computazioni necessarie per la distinzione sé-altro o la deliberata strategia di supporto altruistico. A differenza dello sbadiglio spontaneo che si ritrova in moltissime specie e sembra riflettere variazioni termo-regolatorie nel singolo organismo, lo sbadiglio da contagio, vale a dire provocato dal vedere o udire altri sbadigliare, è considerato un indice di risonanza con i co-specifici. Questo fenomeno, filogeneticamente più recente rispetto al primo, è molto diffuso nella specie umana e in primati non umani (Massen et al, 2015) ma si ritrova anche in altri mammiferi quali pecore (Yonezawa et al 2017), lupi (Romero et al, 2014), cani (Romero et al 2013, per una trattazione più dettagliata si veda il paragrafo successivo) e persino in alcuni uccelli quali il pappagallino ondulato (budgerigar, Melopsittacus undulatus) che presenta una forte attitudine sociale (Gallup et al, 2016). Dati i suoi strettissimi rapporti con l’uomo, il cane domestico è un modello molto interessante per indagare la condivisione emozionale non solo nella

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specie ma attraverso le specie. L’analisi dei movimenti facciali imitativi involontari (mimicry) durante interazioni di gioco in due cani, hanno mostrato che la quantità di mimicry era maggiore in concomitanza con movimenti legati al gioco (tipo annuire) che movimenti non legati al gioco (tipo saltare) suggerendo la relazione tra legame sociale dovuto al gioco e risonanza motoria, una forma basilare di empatia (Palagi et al, 2015). Al fine di esaminare le relazioni ‘intersoggettive’ uomo-cane, Romero e collaboratori (2013) hanno fatto osservare a 25 cani domestici lo sbadiglio di una persona famigliare (i.e. il loro padrone) e quello di una persona sconosciuta (lo sperimentatore) effettuando negli stessi registrazione video per vedere il numero di sbadigli, e registrazione del battito cardiaco per esaminare un eventuale differente livello di stress indicato dall’interazione con il padrone e con l’estraneo. Come condizione di controllo sia il padrone che lo sconosciuto effettuavano movimenti della bocca. I risultati hanno mostrato che il numero di sbadigli era significativamente più alto quando i cani guardavano i modelli umani sbadigliare rispetto a quando li vedevano semplicemente muovere la bocca. Inoltre, il numero di sbadigli era maggior quando si guardava la persona famigliare. Èimportante notare che non si è registrata nessuna differenza di battito cardiaco suggerendo quindi che l’effetto sullo sbadiglio è probabilmente legato alla consonanza “emozionale” piuttosto che allo stress. Importante menzionare, infine, una ricerca in cui è stato esaminato sia l’effetto delle relazioni intra-specie (cane-cane) che cross-specie (cane-uomo). Albuquerque et al (2016) hanno sviluppato un paradigma in cui la variabile utilizzata come indice di lettura delle espressioni altrui era il tempo di permanenza dello sguardo (preferential

looking) su un determinato stimolo, che si fissa più a lungo quando maggiormente

saliente/interessante. Gli stimoli da osservare erano facce di uomo o di cane, ciascuna con due possibili valenze emozionali, vale a dire contenta/espressione oppure arrabbiata/aggressiva. Ciascuno stimolo era appaiato ad un tipo di vocalizzazione (Per la descrizione delle condizioni sperimentali si veda la figura sottostante).

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(Romero e collaboratori, 2013)

I cani guardavano significativamente più a lungo le espressioni congruenti, sia dei co-specifici che degli etero-co-specifici, con la vocalizzazione cui erano appaiati suggerendo che i cani domestici possiedono sofisticate abilità di distinguere gli stati emozionali altrui, una abilità che sappiamo essere di fondamentale importanza per forme più complesse di empatia.

Una delle prime ricerche sulla reattività alle esperienze altrui è stata condotta allenando dei ratti a premere una leva per ottenere del cibo (Church, 1959). La pressione della leva era però associata ad una scossa elettrica erogata ad un secondo ratto visibile dal primo. Assistere allo stress dell’altro ha indotto il primo ratto a non premere la leva, anche a costo di rimanere senza cibo per lunghi periodi (fino a 22 ore). L’effetto era influenzato dal fatto che il primo ratto avesse partecipato a sua volta ad esperimenti in cui aveva subito shock elettrici simultaneamente allo stesso

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co-specifico cui, premendo la leva, avrebbe procurato dolore. Una importante implicazione di questo antico lavoro è che già i ratti riescono ad identificare che la propria esperienza emozionale è coordinata a quella dei co-specifici. Un secondo importante studio, anche questo effettuato in periodi antecedenti alla moderna concettualizzazione dell’empatia, ha esplorato la capacità di ratti di ridurre tramite specifici comportamenti lo stress percepito in un co-specifico (Rice and Gainer, 1962). Nella prima parte del protocollo sperimentale il ratto imparava a non premere una leva per evitare che il co-specifico – visibile al primo ratto- ricevesse stimoli elettrici dolorosi. Nella seconda parte del protocollo, lo stesso ratto vedeva e sentiva un co-specifico molto stressato (che si agitava ed emetteva lamenti) perché sospeso nell’aria tramite una carrucola e doveva imparare a premere la leva (quindi il comportamento opposto a quello della prima parte) per far avvicinare il co-specifico al pavimento e quindi ridurne lo stress. Il numero di pressioni della barra (per ridurre lo stress altrui) aumentava rispettivamente di più di 10 volte e di più di 3 volte rispetto ad una condizione di controllo (visione di un blocco di polistirolo sospeso in aria) a seconda che il ratto sospeso in aria fosse o meno conosciuto dal primo ratto. Questi risultati indicano che persino i roditori riescono a mettere in atto comportamenti di aiuto verso i co-specifici sia conosciuti che sconosciuti. L’argomento dell’empatia nei roditori è stato nuovamente affrontato alla luce degli studi nell’uomo, a distanza di vari decenni rispetto alle due ricerche sopra descritte (Panksepp e Lahvis, 2011). La ricerca di Langford et al. (2006), prima della serie “contemporanea” ha il merito di aver incluso una chiara componente sociale nell’esame della reazione di un topo testimone del dolore di un co-specifico. Questi ricercatori hanno somministrato stimoli dolorosi di due tipi, vale a dire acido acetico intraperitoneale che procura dolori addominali e formalina nella zampa che induce dolori locali. Il comportamento di contorcimento e quello di leccamento della zampa iniettata con formalina sono stati considerati indici del dolore provato dai topi. Rilevante per l’argomento del contagio emozionale è che osservare la sofferenza di un topo, specie se affettivamente prossimo, induce nell’osservatore comportamenti tipici di chi sta provando dolore in prima persona esacerbando l’eventuale dolore indotto da sostanze algogene. In particolare, Smith et al (2016) hanno dimostrato che questa iperalgesia da “testimone” è trasferita da segnali olfattivi indicando che il contagio sociale del dolore è modulato da moltissime

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componenti. Altrettanto interessante il fatto che il comportamento conseguente a iniezioni dolorose è ridotto (come se ci fosse analgesia) in presenza di un maschio non familiare che non prova alcun dolore come se sentirsi minacciati (dal maschio estraneo) induca a non mostrare la propria debolezza. Questo tema è stato approfondito dallo stesso gruppo (Langford et al., 2010), testando l’effetto in condizioni diadiche e triadiche se un topo libero di muoversi tende ad approcciare o ad evitare un topo in gabbia in cui viene indotto dolore. I risultati hanno dimostrato che le femmine approcciano un topo familiare che mostra dolore molto più frequentemente dei maschi. Inoltre, il comportamento indicante dolore del topo in gabbia era mitigato dalla frequenza con cui i familiari si avvicinavano, suggerendo, oltre a un possibile effetto di genere nell’empatia, la presenza di comportamenti di soccorso sociale già a questo livello della filogenesi. In questa stessa direzione è lo studio nel quale ratti imparano ad aprire una gabbia per liberare un loro co-specifico intrappolato in essa. Particolarmente istruttivo il fatto che per liberare l’intrappolato (e non sentirne i lamenti) il ratto rinuncia ad aprire un’altra gabbia contenente cioccolato di cui è particolarmente ghiotto (Bartal et al, 2011). Se da un lato l’atteggiamento del ratto liberatore indica una forma di comportamento altruistico (nel quale per definizione si rinuncia a qualcosa pur di aiutare l’altro), rimane la possibilità – applicabile peraltro anche alle specie più evolute- che il comportamento sia dettato dalla necessità di ridurre il proprio stress conseguente al sentire i lamenti dei co-specifici.

L’esistenza di forme avanzate di empatia in delfini ed elefanti è stata ritenuta una logica conseguenza della loro capacità di riconoscimento allo specchio (Plotnik et al, 2006; Reiss e Marino, 2001). Studi osservazionali indicano l’esistenza di forme avanzate di empatia in queste due specie, di veri e propri comportamenti pro-sociali quali cercare di far rialzare utilizzando la coda un compagno ferito; spingere con il muso un co-specifico per aiutarlo a liberarsi da una rete (de Waal, 2009).

L’interesse dei primatologi verso le reazioni fisiologiche e comportamentali alle esperienze altrui risale agli anni sessanta anche se, considerato il dominio del comportamentismo, la concettualizzazione degli studi sul tema facevano riferimento più al condizionamento che all’affettività. Utilizzando l’approccio sopra esposto parlando dei roditori Church (1959), in una ormai classica serie di studi Masserman et al. (1964) hanno allenato paia di scimmie “Rhesus”, visibili l’una all’altra, a scegliere

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tra due catene quella associata al rilascio della maggior quantità di cibo. Una volta appresso il compito, lo sperimentatore apportava una modifica della situazione consistente nel fatto che tirare la catena per ottenere la maggior quantità di ricompensa per sé stessi comportava l’erogazione di una scossa elettrica all’ altra. Vedere la sofferenza e sentire i lamenti dei co-specifici ha comportato che circa il 66% delle scimmie tirava la catena associata al dimezzamento della quantità di cibo. Ancora più stupefacente è che alcune scimmie hanno smesso di procurarsi il cibo, in un caso per un periodo di tempo fino a 12 giorni. Ancorché non sia facile parlare di personalità della singola scimmia, va notato che le scimmie che hanno scelto di digiunare erano quelle che avevano esperienza di stimoli dolorosi e conoscevano la scimmia cui avrebbero inflitto dolore scegliendo di tirare una delle due catene. Alla vista di video di co-specifici cui il veterinario fa delle iniezioni, gli scimpanzé reagiscono con abbassamenti di temperatura cutanea (indicatori di stress) non presenti quando vedono video di co-specifici che aggrediscono il veterinario (Parr, 2001). In pratica, gli scimpanzé reagiscono ad una situazione dolorosa per l’altro con la stessa reazione di paura che avrebbero trovandosi al posto dei soggetti nel video, mostrando quindi evidenza fisiologica di contagio emozionale (Hatfield et al., 2009). Nei primati antropoidi (apes) la gamma di comportamenti nella sfera dell’intersoggettività sono ancora più complessi e ricordano da vicino quelli umani. Sembra ad esempio che a differenza delle scimmie, gorilla e scimpanzé siano in grado di mettere in atto veri e propri comportamenti consolatori che si manifestano con veri e propri abbracci (vedere foto sottostante) del tutto simili a quelli che si vedono nella specie umana (Preston and de Waal, 2002; de Waal, 2009).

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(Preston e De Waal, 2002)

I comportamenti consolatori negli scimpanzé riducono le risposte comportamentali indicanti stress e vengono messe in atto soprattutto nei confronti di individui con i quali si hanno relazioni positive consolidate (Fraser et al., 2008). Va inoltre detto che comportamenti di vera e propria consolazione sembrano messi in atto dai primati antropoidi ma non dalle scimmie (De Waal, 2009).

Per riassumere, gli studi sugli antecedenti animali dell’empatia umana, per quanto largamente incompleti, indicano l’esistenza di forti legami tra forme basilari (contagio, mimicry etc.) e forme più sofisticate (preoccupazione empatica, compassione e presa di prospettiva, comportamenti pro-sociali) di reattività interindividuale. Indicano inoltre che le componenti fondativi delle relazioni empatiche non sono una prerogativa dei primati ma si ritrovano in molte altre specie.

Tappe maturative della reattività interpersonale nell’uomo

In linea con le evidenze filogenetiche, gli studi sullo sviluppo nella specie umana indicano che le forme più complete di empatia sono precedute e probabilmente emergono a partire da forme più elementari come ad esempio la capacità di inviare e ricevere segnali emotivi anche molto semplici (ad esempio il pianto o lo sbadiglio). Per quanto alcuni autori ipotizzino l’esistenza di un sistema innato che rende possibile già alla nascita una transazione intersoggettiva sé-altro (e.g., la simpatia intersoggettiva “intersubjective sympathy” di Trevarthen, 1979), altri suggeriscono

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che a partire dal secondo mese di vita, i bambini instaurano una “consonanza affettiva” (“affective attunement”): ciò che è riprodotto in modo sincronizzato è “…qualche

aspetto del comportamento che riflette lo stato affettivo della persona”2. Certo è che gli esseri umani sembrano biologicamente predisposti a risuonare affettivamente con gli stati affettivi –sia positivi che negativi- dei co-specifici. Probabilmente al livello più basilare di questa risonanza va considerato il contagio emozionale, vale a dire la condizione nella quale segnali vocali, facciali e gestuali provenienti dagli altri influenzano lo stato di colui che li percepisce. Il classico esempio di questo processo è l’immediata reazione di pianto dei neonati quando sentono il pianto altrui (Simmer, 1971; Sagi and Hoffman, 1976; Geangu et al., 2010). In questo ambito, un tema di grande importanza è se una tale reazione implica la comprensione che l’origine del proprio pianto è quello di un altro oppure si tratta di una semplice reazione circolare ad uno stimolo stressante. Particolarmente interessante a questo proposito è lo studio nel quale vengono esaminate le reazioni di bambini appena nati (un giorno di età) all’ascolto del proprio pianto, di quello di altri neonati della stessa età o di età maggiore, e di quello di uno scimpanzé della stessa età (Martin and Clark, 1987). L’ascolto proposto a neonati in stato di pianto comportava che si calmassero ascoltando il proprio e continuassero a piangere ascoltando quello altrui. L’ascolto proposto a neonati in stato di calma non comportava alcuna reazione all’ascolto del proprio pianto, al pianto di un bambino più grande ed a quello dello scimpanzé suggerendo che il contagio era specie-specifico ed età specifico. Questi studi suggeriscono che i neonati hanno la capacità di effettuare delle forme primitive di distinzione sé-altro pur non implicando la presenta di auto-consapevolezza corporea che compare, in forme più esplicite, intorno al secondo anno di età (Rochat and Striano, 2000). Anche i fenomeni di imitazione automatica sembrano comparire molto presto nello sviluppo. I celebri esperimenti effettuati negli anni ‘70 (Meltzoff and Moore, 1977) nei quali si mostrava che neonati di poche ore effettuavano movimenti di protrusione della lingua o di apertura della bocca in corrispondenza temporale con gli stessi movimenti fatti da un adulto, suggeriscono che esista una sorta di predisposizione innata all’imitazione, effetto recentemente confermato addirittura nel macaco (Ferrari et al, 2006). La presenza precoce di fenomeni automatici quali il

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mimicry, ha fatto ipotizzare che questi processi possano facilitare il riconoscimento e la comprensione delle emozioni. A supporto di questa ipotesi vi sono gli studi nei quali si dimostra come l’accuratezza del riconoscimento emozionale è facilitata sia dal mimicry facciale che dalla condivisione empatica (Blairy et al.,1999). In aggiunta alle evidenze che già i neonati presentano evidenze di contagio emozionale, è stato dimostrato che all’età di circa due anni e mezzo i bambini mostrano empatia (nel senso di provare esattamente quello che provano gli altri ma a differenza che nel contagio, distinguono chiaramente soggetto ed oggetto). Questo effetto è stato messo in relazione con l’acquisizione della capacità di riconoscere sé stessi come indicato dal test allo specchio che si considera superato quando bimbi con delle macchie di colore sulla fronte (fatte senza che lo avessero notato, ad esempio mentre dormivano), messi davanti allo specchio, toccano la propria fronte e non quella dell’immagine riflessa. Inoltre, i bambini a tre anni cominciano a comprendere relazioni causali tra eventi e ad assumere che le altre persone hanno aspettative, pensieri, sensazioni ed intenzioni nettamente separate dalle proprie. A conferma della complessità crescente dei vari costrutti per descrivere l’intersoggettività, sono le ricerche sullo sviluppo della simpatia (provare preoccupazione per gli altri senza isomorfismo emozionale) e della

schadenfreude (gioia per le sofferenze altrui). Queste due emozioni sono in un certo

senso complementari ed opposte con la prima che suscita comportamenti pro-sociali e di approccio, e la seconda al contrario comportamenti antisociali di evitamento o di aggressione. Paradossalmente, ancorché opposte, queste due emozioni complesse possono avere la stessa causa scatenante (la sofferenza altrui) con il senso del “ben gli stà” come dimensione cruciale che indirizza verso il primo o il secondo sentire. (Rudolph et al, 2004) hanno dimostrato che non avere responsabilità della sfortuna capitata ed essersi comportato in maniera morale (Rudolph et al, 2013) indirizzano verso la simpatia invece che la schadenfreude. Di rilievo per l’argomento di questa sezione (ontogenesi dei costrutti intersoggettivi), è la chiara percezione di queste emozioni sembra comparire intorno ai 4 anni, quindi ben più tardi rispetto al contagio emozionale. La figura sottostante fornisce una semplificatissima rappresentazione visiva di questo gradiente maturativo.

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Un recente studio (Schindler et al, 2015) ha esaminato 346 bambini nel compito di osservare storie figurate nelle quali il protagonista poteva comportarsi in modo moralmente corretto, aveva fatto il proprio dovere aveva responsabilità di quello che gli sarebbe poi capitato, poteva presentare una relazione emotiva con i partecipanti. Al protagonista della storia capitava un incidente (tipo cadere nel fango). Alla fine della storia veniva chiesto a ciascun partecipante se fosse stato disponibile a sedersi accanto al protagonista o fargli un favore. Lo studio indica che già all’età di quattro anni i bambini provano simpatia e schadenfreude. Anche i partecipanti di 4 anni, infatti mostravano simpatia o schadenfreude a seconda che il protagonista della storia avesse fatto o meno il suo dovere, si fosse comportato moralmente o meno e fosse stato responsabile o meno della sua sfortuna.

(ps://www.google.it/search?q=schadenfreude&client=firefox-b&source=lnms&tbm=isch&sa=X&ved=0ahUKEwiDiJ3mm93TAhVICsAKHQQZAq4Q_AUICigB &biw=1261&bih=716#imgrc=vGAbRy1j5DlvfM:)

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Considerando il tipo di abilità emozionali e cognitive necessarie per provare

schadenfreude, è implausibile che il bambino di sinistra (nella foto a sinistra) stia

provando, data la giovanissima età, questa complessa emozione.

Empatia per gli stati positivi

Come si vedrà nel capitolo successivo, numerosi studi hanno esplorato le risposte comportamentali, fisiologiche e neurali evocate dalla percezione di emozioni negative (tipo disgusto e dolore) osservate o immaginate negli altri. Molte meno informazioni sono disponibili riguardo a come il piacere, per esempio una carezza – (che è un’importante connessione tra le persone, un veicolo di emozioni e sentimenti positivi che favoriscono legami di attaccamento e reti sociali, Morrison et al., 2011)- è percepito o osservato su altre persone. Lo studio dell’empatia per gli stati positivi (ad esempio la felicità) registra un crescente interesse ma non c’è ancora un corpus di ricerche comportamentali, fisiologiche e neurologiche che possano sostenerlo (Morelli et al, 2015). Lo stesso costrutto di empatia positiva (EP) è al momento non del tutto definito neppure a livello terminologico essendo indicato in modi differenti da vari autori (e.g. gioia empatica, Smith et al., 1989; risposta alle espressioni emozionali positive degli altri, Gable et al., 2006; Reis et al., 2010; ricompensa vicaria Mobbs et al., 2009; Morelli et al., 2015). Da un punto di vista generale, EP si riferisce alle condizioni in cui una persona entra in uno stato positivo nell’ immaginare, ricordare, osservare o apprendere che qualcosa di buono è accaduto ad altri. Dal punto di vista operativo lo stato di EP ha tre principali componenti vale a dire: i) l’allegria empatica che indica la capacità di mostrare emozioni positive quando invece si è in uno stato negativo, con lo specifico compito di alleviare la propria negatività e indurre anche negli altri uno stato positivo (Light et al., 2014), ii) la felicità empatica, vale a dire la capacità di condividere la gioia per un evento positivo che riguarda altri (Batson et al., 1995) e iii) la benevolenza verso gli altri che indica il desiderio di vedere gli altri felici (Light et al., 2015) e può essere un indice della disposizione a promuovere comportamenti pro-sociali.

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Misurazione dell’empatia

In riferimento a quanto descritto nei successivi capitoli, sembra utile elencare qui alcuni dei principali indici per misurare vari aspetti del costrutto empatia. La maggior parte degli indici soggettivi di empatia sono ottenuti tramite questionari che possono indagare i tratti (vale a dire le caratteristiche personologiche stabili) empatici (e.g. come si reagirebbe ad una situazione in astratto) oppure lo stato (e.g. come si reagisce in realtà davanti alla situazione, ad esempio la foto di una persona sofferente). Quindi in aggiunta ai fattori individuali stabili nel tempo (Leiberg & Anders, 2006), è importante valutare i possibili cambiamenti di reattività in specifici momenti dal momento che l’empatia influenza (ed è influenzata da) eventi specifici che possono, se particolarmente traumatici, superare un determinato tipo di reattività personologica che in astratto, ad esempio, ci farebbe reagire poco. Mentre per una trattazione esaustiva si rimanda al recentissimo volume “Valutare l’empatia” (Segal et al, 2017), si descrive nel seguito uno dei più diffusi questionari per la valutazione dei tratti empatici, l’indice di reattività interpersonale (IRI) (Davis, 1980 1996), tradotto in moltissime lingue incluso l’Italiano (Lo Coco, Albiero et al, 2006). Si tratta di un questionario self-report con 28 affermazioni a cui rispondere esprimendo il grado di accordo su una scala Likert a 5 punti (1: mai d’accordo, 5: sempre d’accordo). Per quanto riguarda l’empatia di stato i questionari sono in genere adattati alla circostanza chiedendo, ad esempio, di giudicare le emozioni suscitate da un determinato stimolo (e.g. persone che si feriscono) o da una determinata situazione (persone che gioiscono). I molteplici indici “oggettivi” possono essere distinti a seconda che diano informazioni su aspetti impliciti (non coscienti) o espliciti del comportamento.

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Capitolo 2: Fisiologia e neurologia della reattività

interpersonale

Nel capitolo precedente abbiamo considerato i principali comportamenti che rientrano nel grande ambito della reattività interpersonale. Lo studio dei loro correlati fisiologici e cerebrali ha negli ultimi dieci anni attratto l’interesse anche al di fuori dello specifico ambito della ricerca scientifica, probabilmente per le importanti implicazioni che la conoscenza dei meccanismi alla base dei comportamenti, può certamente contribuire all’intervento psicologico e medico nelle condizioni di alterata reattività interpersonale (e.g. sociopatie). Come precedentemente menzionato, gli studi sull’empatia positiva sono molto meno numerosi rispetto a quelli che esaminano gli stati negativi quali le forme di stress da reattività empatica che possono portare ad esempio un burn-out lavorativo (e.g. infermieri o medici testimoni ed operatori in condizioni estreme quali terremoti, tsunami, attività assistenziali in oncologia pediatrica etc.). La tendenza ad intrattenere relazioni interpersonali così tipica delle specie sociali è influenzata dallo stato fisiologico e neurologico del singolo individuo.

Nella sezione successiva verranno discussi studi riguardanti il ruolo che gli stati corporei e cerebrali hanno nei comportamenti sociali. Pur tenendo in considerazione le distinzioni tra le varie forme di reattività descritti nel primo capitolo (e.g. i vari sotto-costrutti dell’empatia o le forme più sofisticate di interazione quali la compassione o la schadenfreude), in questo capitolo utilizzeremo il termine “omnicomprensivo” di reattività interpersonale specificando di volta in volta i sotto-costrutti considerati nei vari studi.

Corpo e reattività interpersonale

Reagire agli stati positivi o negativi, percepiti o immaginati, degli altri individui comporta dei cambiamenti fisiologici che a loro volta inducono variazioni corporea. Testimoniare uno scontro fisico violento tra due o più individui, ad esempio, attiva il sistema ortosimpatico, vale a dire quella parte del sistema nervoso autonomo non controllabile con la volontà), che mobilizza risorse per predisporci all’attacco o alla

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fuga, a differenza della branca parasimpatica che invece predispone al riposo e alla digestione. L’attivazione del sistema nervoso ortosimpatico induce cambiamenti appariscenti quali aumento della frequenza respiratoria e cardiaca, aumento del flusso sanguigno ai muscoli, aumento del diametro pupillare. Nonostante questi cambiamenti siano indicatori generali di attivazione-stress e non sono dunque peculiari delle interazioni con i co-specifici, è stato dimostrato che cambiamenti di temperatura (Cooper et al, 2014) e di diametro pupillare (Harrison et al, 2006) possano essere espressione di contagio emozionale.

Basi neurochimiche della reattività interpersonale

Nelle specie sociali, uno dei più potenti meccanismi inter-attivi è quello alla base delle cure parentali, ragionevolmente per l’ovvia implicazione che riveste al fine della sopravvivenza del proprio gruppo e di quelli affini. Sulla base di questa considerazione molti studi si sono concentrati sulla relazione neurochimica fra tali meccanismi e la reattività empatica. L’attenzione si è focalizzata su due neuro-ormoni non-apeptidici (formati da 9 aminoacidi), ossitocina e vasopressina (vedere figura sottostante), classicamente conosciuti per le loro funzioni di controllo relativamente semplice di organi periferici, vale a dire utero/mammella la prima e sistema renale per il controllo della diuresi la seconda.

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(Mader, SS, Zanichelli, 2012. Immagini e concetti della biologia)

Ossitocina e vasopressina (parte sinistra della figura) sono secreti da neuroni ipotalamici e trasportati tramite gli assoni nell’ipofisi posteriore da cui vengono rilasciati nel sangue come gli ormoni classici.

Dal punto di vista della funzione fisiologica di base, l’Ossitocina, prodotta nel corpo cellulare di neuroni ipotalamici, trasportata lungo gli assoni fino alla neuroipofisi (o ipofisi posteriore) e poi liberata nel sangue come un ormone classico, ha come organo bersaglio la muscolatura dell’utero e il mioepitelio delle ghiandole mammarie. Pertanto, l’ossitocina è responsabile della stimolazione delle contrazioni della muscolatura liscia dell’utero nel travaglio e nel parto oltre che dei miociti dei dotti mammari che contraendosi consentono l’emissione del latte. Nell'ultimo periodo della gravidanza la responsività dell'utero all'ossitocina aumenta notevolmente e l'ormone esercita un ruolo importante nell'inizio e nel mantenimento del travaglio e del parto. In virtù di queste proprietà, l’OXT (ossitocina) esogena è impiegata in terapia per stimolare e regolare le contrazioni uterine o per arrestare le emorragie post-partum. La vasopressina (ADH) è un ormone e neurotrasmettitore strettamente collegato all’ossitocina. La principale funzione della vasopressina è quella di regolare il riassorbimento dell’acqua a livello renale: i tubuli renali vengono resi più permeabili

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all’acqua cosicché questa possa essere assorbita e non escreta completamente con le urine, per questo motivo viene anche definita ormone antidiuretico. Altra funzione della vasopressina è quella di innalzare la pressione arteriosa, meccanismo che acquista straordinaria importanza nei casi in cui compensa lo shock ipo-volemico dovuto ad emorragie, regolare la temperatura corporea ed intervenire nei comportamenti aggressivi di alcune specie animali.

Tuttavia, è largamente acclarato che in aggiunta alle loro funzioni fisiologiche di base, OXT che ADH hanno un ruolo fondamentale in comportamenti complessi come quelli affiliativi ed emozionali. Nei vertebrati, ad esempio, regolano comportamenti come l’apprendimento e l’attaccamento sociale e sono responsabili di differenze individuali nei comportamenti socio-sessuali (e.g. elevati livelli di ossitocina favoriscono la monogamia), nell’attaccamento ed accudimento materno (e.g. i livelli di ossitocina influenzano la capacità delle madri di non respingere il proprio neonati nonostante i recenti dolori da parto). Per una revisione recente della letteratura si veda Johnson e Young, 2017.

Ossitocina & Vasopressina

Riguardo al coinvolgimento di questa sostanza nei comportamenti sociali, una accurata e recente revisione (Bachner-Melman ed Ebstein, 2014) segnala come questa sostanza aumenti empatia e comportamenti pro-sociali. Ad esempio, i livelli di empatia suscitati dall’osservazione di scene emotive sono associate all’aumento di ossitocina e all’aumento di generosità verso gli stranieri, testimoniato dal comportamento in un gioco economico. È noto che le donne hanno maggiori risposte empatiche suscitate da ossitocina rispetto agli uomini. Interessante notare che la somministrazione intra-nasale di ossitocina spray aumenta le risposte emozionali nell’uomo fino a portarle ai livelli femminili. Inoltre, l’ossitocina influenza l’empatia emozionale e non quella cognitiva (Hurlemann et al., 2010). Un altro importante fenomeno nel quale questo neuro-ormone sembra avere un ruolo rilevante è quello sulla fiducia interpersonale, che sembra maggiore dopo somministrazione intra-nasale di ossitocina, e quello del miglioramento della comunicazione nelle coppie, che sembra influenzato dai livelli di questa sostanza: molto più elevati nelle persone innamoratesi da poco, come se fosse importante nell’avvio di una relazione romantica. Interventi di supporto sociale e terapeutico basati su un tocco piacevole portano ad aumento dei livelli di ossitocina

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salivare nelle persone in coppia rispetto a quelle singole. Di grande interesse sono gli studi (in doppio cieco controllato) nei quali coppie potevano assumere ossitocina intra-nasale (vs placebo) prima di avviare una discussione su temi potenzialmente conflittuali. La registrazione video (e la successiva analisi) ed il controllo dei livelli di cortisolo (ormone dello stress) dopo la discussione, hanno mostrato che il gruppo che aveva preso ossitocina esibiva una comunicazione positiva molto più sviluppata di quella negativa e livelli di cortisolo ridotti rispetto al gruppo placebo. Questi dati sono in accordo con il fatto che i livelli salivari di ossitocina sono associati positivamente con i livelli di attaccamento parentali e negativamente con lo stress psicologico da distacco o da depressione.

Sono riportate evidenze a favore del ruolo dell’ossitocina nel promuovere generosità ed altruismo. È stato ad esempio dimostrato (Zak et al. 2007) che la somministrazione di ossitocina aumenta la quantità di soldi offerti in classici giochi economici quali il gioco dell’ultimatum, nel quale il giocatore designato come offerente pur potendo offrire percentuali piccolissime offre in media più del 30% della somma disponibile, contraddicendo così la teoria dell’uomo economico secondo la quale i rapporti umani sono regolati dal puro interesse personale.

Se da un lato le caratteristiche sopra elencate supportano la visione “pop” per cui l’ossitocina sarebbe l’ormone dell’amore, la molecola delle coccole, importanti studi comportamentali hanno recentemente mostrato che la forte spinta affiliativa dell’ossitocina implica l’aderenza assoluta al proprio gruppo con le possibili conseguenze del caso. In una serie di studi basati su assunzione di ossitocina vs placebo, De Dreu e collaboratori hanno dimostrato il “lato oscuro” dell’ossitocina che si può manifestare come: 1) una forma di parrocchialismo che promuove fiducia e cooperazione all’interno del proprio gruppo (religioso, politico, familiare, professionale etc) ma genera aggressività verso gruppi diversi dal proprio (De Dreu et al, 2010); 2) etnocentrismo, il fenomeno per cui il proprio gruppo viene considerato superiore agli altri con la conseguenza di creare pregiudizio, xenofobia e violenza inter-gruppo. E’ stato infatti dimostrato in una serie di esperimenti, che l’assunzione di ossitocina (rispetto al placebo) favorisce la creazione, a livelli non coscienti, di favoritismo verso il proprio gruppo e tendenza a sminuire i componenti di gruppi diversi dal proprio ed addirittura forme di infra-umanizzazione, suggerendo che

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l’ossitocina possa portare a conflitto e violenza inter-gruppo (De Dreu et al, 2011); 3) disonestà, nel senso che le persone che hanno assunto ossitocina sono state più favorevoli (di quelle che avevano assunto placebo) a mentire per ottenere un maggior guadagno in un gioco economico. Interessante notare che la tendenza a mentire non era presente quando si trattava di ottenere un guadagno personale ma solo quando si trattava di portare un beneficio al proprio gruppo.

Bachner-Melman ed Ebstein, (2014) forniscono una lista esaustiva degli studi – comunque assai meno numerosi di quelli che riguardano l’ossitocina- che vedono la vasopressina modulare empatia e comportamenti pro-sociali. Il ruolo di questa sostanza è relativamente poco compreso e gli studi di somministrazione intra-nasale sono molto meno numerosi di quelli con ossitocina. In generale sembra che gli effetti di queste due sostanze siano complementari ed opposti. Ad esempio, la vasopressina negli animali non aumenta la vicinanza con gli altri ma fa aumentare la territorialità e la difesa aggressiva di esso. Nell’uomo tende a far percepire facce neutre come minacciose e meno amichevoli, come se la sostanza prepari l’individuo alla difesa aggressiva del territorio. Sembra tuttavia che questo effetto si ritrovi solo nei maschi e che la vasopressina sia affiliativa nelle donne nelle quali la percezione di amicalità di facce neutre aumenta per effetto della vasopressina. In uno dei pochi studi di somministrazione intra-nasale di vasopressina in uomini adulti, Uzefovsky et al (2012), dimostrano che la vasopressina riduce la capacità di riconoscere le emozioni, ma soltanto quelle veicolate da volti di uomo e solo quelle con valenza negativa. Questo risultato sarebbe in linea con gli studi che indicano la vasopressina come coinvolta nell’induzione di emozioni aggressive solo nel maschio. Notiamo inoltre che in uno studio in cui la somministrazione nasale di vasopressina si accompagnava alla registrazione dell’attività cerebrale evocata dalla visione di immagini emotivo-sociali (Brunnlieb et al 2013), si è registrata l’influenza di questa sostanza come riduzione del controllo che le aree corticali superiori (“razionali”) esercitano sull’amigdala, una regione legata all’emozione della paura (“non razionale”). Questo risultato conferma il ruolo della vasopressina nella aggressività.

Citiamo infine uno studio volto ad esplorare l’effetto della somministrazione intra-nasale sia di ossitocina che di vasopressina sull’attività cerebrale indotta in padri dalla vista di foto dei loro bambini (rispetto a foto di bambini sconosciuti o di adulti

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