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Fisiologia e neurologia della reattività interpersonale

Nel capitolo precedente abbiamo considerato i principali comportamenti che rientrano nel grande ambito della reattività interpersonale. Lo studio dei loro correlati fisiologici e cerebrali ha negli ultimi dieci anni attratto l’interesse anche al di fuori dello specifico ambito della ricerca scientifica, probabilmente per le importanti implicazioni che la conoscenza dei meccanismi alla base dei comportamenti, può certamente contribuire all’intervento psicologico e medico nelle condizioni di alterata reattività interpersonale (e.g. sociopatie). Come precedentemente menzionato, gli studi sull’empatia positiva sono molto meno numerosi rispetto a quelli che esaminano gli stati negativi quali le forme di stress da reattività empatica che possono portare ad esempio un burn-out lavorativo (e.g. infermieri o medici testimoni ed operatori in condizioni estreme quali terremoti, tsunami, attività assistenziali in oncologia pediatrica etc.). La tendenza ad intrattenere relazioni interpersonali così tipica delle specie sociali è influenzata dallo stato fisiologico e neurologico del singolo individuo.

Nella sezione successiva verranno discussi studi riguardanti il ruolo che gli stati corporei e cerebrali hanno nei comportamenti sociali. Pur tenendo in considerazione le distinzioni tra le varie forme di reattività descritti nel primo capitolo (e.g. i vari sotto- costrutti dell’empatia o le forme più sofisticate di interazione quali la compassione o la schadenfreude), in questo capitolo utilizzeremo il termine “omnicomprensivo” di reattività interpersonale specificando di volta in volta i sotto-costrutti considerati nei vari studi.

Corpo e reattività interpersonale

Reagire agli stati positivi o negativi, percepiti o immaginati, degli altri individui comporta dei cambiamenti fisiologici che a loro volta inducono variazioni corporea. Testimoniare uno scontro fisico violento tra due o più individui, ad esempio, attiva il sistema ortosimpatico, vale a dire quella parte del sistema nervoso autonomo non controllabile con la volontà), che mobilizza risorse per predisporci all’attacco o alla

fuga, a differenza della branca parasimpatica che invece predispone al riposo e alla digestione. L’attivazione del sistema nervoso ortosimpatico induce cambiamenti appariscenti quali aumento della frequenza respiratoria e cardiaca, aumento del flusso sanguigno ai muscoli, aumento del diametro pupillare. Nonostante questi cambiamenti siano indicatori generali di attivazione-stress e non sono dunque peculiari delle interazioni con i co-specifici, è stato dimostrato che cambiamenti di temperatura (Cooper et al, 2014) e di diametro pupillare (Harrison et al, 2006) possano essere espressione di contagio emozionale.

Basi neurochimiche della reattività interpersonale

Nelle specie sociali, uno dei più potenti meccanismi inter-attivi è quello alla base delle cure parentali, ragionevolmente per l’ovvia implicazione che riveste al fine della sopravvivenza del proprio gruppo e di quelli affini. Sulla base di questa considerazione molti studi si sono concentrati sulla relazione neurochimica fra tali meccanismi e la reattività empatica. L’attenzione si è focalizzata su due neuro-ormoni non-apeptidici (formati da 9 aminoacidi), ossitocina e vasopressina (vedere figura sottostante), classicamente conosciuti per le loro funzioni di controllo relativamente semplice di organi periferici, vale a dire utero/mammella la prima e sistema renale per il controllo della diuresi la seconda.

(Mader, SS, Zanichelli, 2012. Immagini e concetti della biologia)

Ossitocina e vasopressina (parte sinistra della figura) sono secreti da neuroni ipotalamici e trasportati tramite gli assoni nell’ipofisi posteriore da cui vengono rilasciati nel sangue come gli ormoni classici.

Dal punto di vista della funzione fisiologica di base, l’Ossitocina, prodotta nel corpo cellulare di neuroni ipotalamici, trasportata lungo gli assoni fino alla neuroipofisi (o ipofisi posteriore) e poi liberata nel sangue come un ormone classico, ha come organo bersaglio la muscolatura dell’utero e il mioepitelio delle ghiandole mammarie. Pertanto, l’ossitocina è responsabile della stimolazione delle contrazioni della muscolatura liscia dell’utero nel travaglio e nel parto oltre che dei miociti dei dotti mammari che contraendosi consentono l’emissione del latte. Nell'ultimo periodo della gravidanza la responsività dell'utero all'ossitocina aumenta notevolmente e l'ormone esercita un ruolo importante nell'inizio e nel mantenimento del travaglio e del parto. In virtù di queste proprietà, l’OXT (ossitocina) esogena è impiegata in terapia per stimolare e regolare le contrazioni uterine o per arrestare le emorragie post-partum. La vasopressina (ADH) è un ormone e neurotrasmettitore strettamente collegato all’ossitocina. La principale funzione della vasopressina è quella di regolare il riassorbimento dell’acqua a livello renale: i tubuli renali vengono resi più permeabili

all’acqua cosicché questa possa essere assorbita e non escreta completamente con le urine, per questo motivo viene anche definita ormone antidiuretico. Altra funzione della vasopressina è quella di innalzare la pressione arteriosa, meccanismo che acquista straordinaria importanza nei casi in cui compensa lo shock ipo-volemico dovuto ad emorragie, regolare la temperatura corporea ed intervenire nei comportamenti aggressivi di alcune specie animali.

Tuttavia, è largamente acclarato che in aggiunta alle loro funzioni fisiologiche di base, OXT che ADH hanno un ruolo fondamentale in comportamenti complessi come quelli affiliativi ed emozionali. Nei vertebrati, ad esempio, regolano comportamenti come l’apprendimento e l’attaccamento sociale e sono responsabili di differenze individuali nei comportamenti socio-sessuali (e.g. elevati livelli di ossitocina favoriscono la monogamia), nell’attaccamento ed accudimento materno (e.g. i livelli di ossitocina influenzano la capacità delle madri di non respingere il proprio neonati nonostante i recenti dolori da parto). Per una revisione recente della letteratura si veda Johnson e Young, 2017.

Ossitocina & Vasopressina

Riguardo al coinvolgimento di questa sostanza nei comportamenti sociali, una accurata e recente revisione (Bachner-Melman ed Ebstein, 2014) segnala come questa sostanza aumenti empatia e comportamenti pro-sociali. Ad esempio, i livelli di empatia suscitati dall’osservazione di scene emotive sono associate all’aumento di ossitocina e all’aumento di generosità verso gli stranieri, testimoniato dal comportamento in un gioco economico. È noto che le donne hanno maggiori risposte empatiche suscitate da ossitocina rispetto agli uomini. Interessante notare che la somministrazione intra- nasale di ossitocina spray aumenta le risposte emozionali nell’uomo fino a portarle ai livelli femminili. Inoltre, l’ossitocina influenza l’empatia emozionale e non quella cognitiva (Hurlemann et al., 2010). Un altro importante fenomeno nel quale questo neuro-ormone sembra avere un ruolo rilevante è quello sulla fiducia interpersonale, che sembra maggiore dopo somministrazione intra-nasale di ossitocina, e quello del miglioramento della comunicazione nelle coppie, che sembra influenzato dai livelli di questa sostanza: molto più elevati nelle persone innamoratesi da poco, come se fosse importante nell’avvio di una relazione romantica. Interventi di supporto sociale e terapeutico basati su un tocco piacevole portano ad aumento dei livelli di ossitocina

salivare nelle persone in coppia rispetto a quelle singole. Di grande interesse sono gli studi (in doppio cieco controllato) nei quali coppie potevano assumere ossitocina intra- nasale (vs placebo) prima di avviare una discussione su temi potenzialmente conflittuali. La registrazione video (e la successiva analisi) ed il controllo dei livelli di cortisolo (ormone dello stress) dopo la discussione, hanno mostrato che il gruppo che aveva preso ossitocina esibiva una comunicazione positiva molto più sviluppata di quella negativa e livelli di cortisolo ridotti rispetto al gruppo placebo. Questi dati sono in accordo con il fatto che i livelli salivari di ossitocina sono associati positivamente con i livelli di attaccamento parentali e negativamente con lo stress psicologico da distacco o da depressione.

Sono riportate evidenze a favore del ruolo dell’ossitocina nel promuovere generosità ed altruismo. È stato ad esempio dimostrato (Zak et al. 2007) che la somministrazione di ossitocina aumenta la quantità di soldi offerti in classici giochi economici quali il gioco dell’ultimatum, nel quale il giocatore designato come offerente pur potendo offrire percentuali piccolissime offre in media più del 30% della somma disponibile, contraddicendo così la teoria dell’uomo economico secondo la quale i rapporti umani sono regolati dal puro interesse personale.

Se da un lato le caratteristiche sopra elencate supportano la visione “pop” per cui l’ossitocina sarebbe l’ormone dell’amore, la molecola delle coccole, importanti studi comportamentali hanno recentemente mostrato che la forte spinta affiliativa dell’ossitocina implica l’aderenza assoluta al proprio gruppo con le possibili conseguenze del caso. In una serie di studi basati su assunzione di ossitocina vs placebo, De Dreu e collaboratori hanno dimostrato il “lato oscuro” dell’ossitocina che si può manifestare come: 1) una forma di parrocchialismo che promuove fiducia e cooperazione all’interno del proprio gruppo (religioso, politico, familiare, professionale etc) ma genera aggressività verso gruppi diversi dal proprio (De Dreu et al, 2010); 2) etnocentrismo, il fenomeno per cui il proprio gruppo viene considerato superiore agli altri con la conseguenza di creare pregiudizio, xenofobia e violenza inter-gruppo. E’ stato infatti dimostrato in una serie di esperimenti, che l’assunzione di ossitocina (rispetto al placebo) favorisce la creazione, a livelli non coscienti, di favoritismo verso il proprio gruppo e tendenza a sminuire i componenti di gruppi diversi dal proprio ed addirittura forme di infra-umanizzazione, suggerendo che

l’ossitocina possa portare a conflitto e violenza inter-gruppo (De Dreu et al, 2011); 3) disonestà, nel senso che le persone che hanno assunto ossitocina sono state più favorevoli (di quelle che avevano assunto placebo) a mentire per ottenere un maggior guadagno in un gioco economico. Interessante notare che la tendenza a mentire non era presente quando si trattava di ottenere un guadagno personale ma solo quando si trattava di portare un beneficio al proprio gruppo.

Bachner-Melman ed Ebstein, (2014) forniscono una lista esaustiva degli studi – comunque assai meno numerosi di quelli che riguardano l’ossitocina- che vedono la vasopressina modulare empatia e comportamenti pro-sociali. Il ruolo di questa sostanza è relativamente poco compreso e gli studi di somministrazione intra-nasale sono molto meno numerosi di quelli con ossitocina. In generale sembra che gli effetti di queste due sostanze siano complementari ed opposti. Ad esempio, la vasopressina negli animali non aumenta la vicinanza con gli altri ma fa aumentare la territorialità e la difesa aggressiva di esso. Nell’uomo tende a far percepire facce neutre come minacciose e meno amichevoli, come se la sostanza prepari l’individuo alla difesa aggressiva del territorio. Sembra tuttavia che questo effetto si ritrovi solo nei maschi e che la vasopressina sia affiliativa nelle donne nelle quali la percezione di amicalità di facce neutre aumenta per effetto della vasopressina. In uno dei pochi studi di somministrazione intra-nasale di vasopressina in uomini adulti, Uzefovsky et al (2012), dimostrano che la vasopressina riduce la capacità di riconoscere le emozioni, ma soltanto quelle veicolate da volti di uomo e solo quelle con valenza negativa. Questo risultato sarebbe in linea con gli studi che indicano la vasopressina come coinvolta nell’induzione di emozioni aggressive solo nel maschio. Notiamo inoltre che in uno studio in cui la somministrazione nasale di vasopressina si accompagnava alla registrazione dell’attività cerebrale evocata dalla visione di immagini emotivo-sociali (Brunnlieb et al 2013), si è registrata l’influenza di questa sostanza come riduzione del controllo che le aree corticali superiori (“razionali”) esercitano sull’amigdala, una regione legata all’emozione della paura (“non razionale”). Questo risultato conferma il ruolo della vasopressina nella aggressività.

Citiamo infine uno studio volto ad esplorare l’effetto della somministrazione intra-nasale sia di ossitocina che di vasopressina sull’attività cerebrale indotta in padri dalla vista di foto dei loro bambini (rispetto a foto di bambini sconosciuti o di adulti

sconosciuti) o dal pianto di bambini sconosciuti (Li et al, 2017). I risultati hanno mostrato che l’ossitocina (ma non la vasopressina) faceva aumentare la reattività dei padri alla vista dei propri bambini. Gli effetti venivano riscontrati in regioni cerebrali legate alla gratificazione (sistema striatale), all’empatia (corteccia cingolata), e all’attenzione (corteccia visiva) suggerendo che l’ossitocina predispone i padri ad essere empatici verso la propria prole, una informazione potenzialmente importante nei casi in cui la motivazione alla paternità non sia sufficiente.

Anche se la maggior parte degli studi sui “modulatori chimici sociali” riguarda ossitocina e vasopressina, robuste evidenze endocrinologiche suggeriscono che anche altre sostanze possono avere un ruolo modulatorio in comportamenti sociali affiliativi ed empatici. Gli oppioidi ad esempio, per una serie di ragioni, sembrano avere un ruolo nell’attaccamento. La prima è che oppioidi endogeni vengono rilasciati durante il contatto sociale, un fenomeno spiegato con il noto effetto gratificante delle interazioni sociali non conflittuali. La seconda è che gli oppioidi esogeni somministrati in modelli animali, riducono il bisogno di attaccamento mentre il blocco dei loro recettori aumenta la ricerca del contatto sociale (Panskepp, 1998). Anche se gli oppiodi sembrano essere coinvolti più nell’attaccamento che nell’empatia, è stato dimostrato che le persone dipendenti da queste sostanze sembrano non mostrare alcuna empatia verso gli altri. Va però detto che gli studi specifici sono questo argomento sono sorprendentemente scarsi e non forniscono evidenze univoche di un effetto diretto degli oppioidi sull’empatia. Vanno inoltre, sia pur brevemente, citati due classici neurotrasmettitori (le molecole rilasciate nello spazio sinaptico come conseguenza della depolarizzazione della membrana) vale a dire la dopamina e la serotonina. I livelli di dopamina, ad esempio, sembrano influenzare specificamente l’empatia cognitiva e le interazioni di questi neurotrasmettitori con i sistemi ossitoninergici possono alterare la salienza di stimoli sociali modificando la reattività empatica verso di essi (Shamay- Tsoory and Abu-Akel, 2016). E’ dunque importante sottolineare che, nonostante in alcuni casi cambiamenti di specifiche sostanze sembrino causativamente coinvolte nei cambiamenti di reattività interpersonale (ad esempio, la somministrazione di ossitocina intra-nasale riduce il disinteresse dei soggetti con autismo ad alto funzionamento in compiti sociali, Andari et al, 2010), la relazione tra singole sostanze

ed interazioni sociali è tutt’altro che lineare, gli attori in gioco sono molteplici ed il quadro generale è a tutt’oggi largamente incompleto.

Cervello e reattività interpersonale

L’influente modello neuroscientifico proposto Preston e de Waal (2002) e da loro denominato percezione-azione, si basa sulla nozione, influenzata dagli studi del comportamento motorio “mirror”, che l’osservazione e persino l’immaginazione di un’altra persona in un particolare stato sensoriale od emotivo possano automaticamente evocare nell’osservatore la rappresentazione di quello stesso stato e così portare alla messa in atto di specifiche risposte comportamentali e fisiologiche (ad esempio variazioni di diametro pupillare). Il modello ha ispirato un elevato numero di ricerche volte ad esaminare l’ipotesi che le esperienze in prima persona e quelle vicarie attivassero delle rappresentazioni neurali almeno in parte condivise (così come nel dominio motorio i neuroni specchio avevano mostrato la co-esistenza dei due processi).

La comprensione delle emozioni altrui

Storicamente le prime informazioni sul cervello sociale hanno riguardato le emozioni e sono ascrivibili a studi lesionali. Una prima importante serie di ricerche ha indagato questo aspetto studiando il riconoscimento di emozioni facciali, in quanto esse costituiscono uno stimolo particolarmente rilevante per la comunicazione sociale e contribuiscono in modo significativo alla nostra rappresentazione delle altre persone (Adolphs, et al., 1994, 2000; Adophs, 2001, 2002). Uno studio lesionale condotto su un ampio campione di cerebrolesi, ha mostrato come un danno alle cortecce somato- sensoriali destre (comprendenti l’area di rappresentazione del viso in SI, ma anche SII, l’insula e il giro sopra-marginale anteriore) comprometta la valutazione dello stato emotivo di una persona in base alla visione del suo viso (Adophs et al., 2000). Sembra quindi che per riconoscere gli stati emozionali negli altri sia richiesta l’integrità di strutture che elaborano l’informazione legata al proprio corpo. Gli autori interpretano questi dati ipotizzando che durante il riconoscimento dell’espressione facciale di un’emozione, sarebbe attivo un meccanismo di simulazione interna della stessa che

farebbe uso delle rappresentazioni somato-sensoriali associate a tale espressione (Adolphs, et al., 1994, 2000; Adolphs, 2001).

Nei primi anni dello scorso decennio però, un importante contributo al tema è arrivato dalle neuroimmagini funzionali, vale a dire una serie di tecniche diverse (ad esempio risonanza magnetica funzionale, elettro-encefalografia, magneto-encefalografia e moltissime altre) che consentono di inferire l’attività cerebrale in vivo durante specifici compiti, in questo caso di natura interpersonale.

Uno dei primi studi di questo filone ha utilizzato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) (tecnica basata sul principio che il consumo di ossigeno è maggiore nelle zone del cervello che svolgono una determinata attività al momento della misurazione) in soggetti ai quali veniva chiesto in alcune prove semplicemente di guardare dei volti (o parti di essi tipo occhi o bocca) con espressioni emozionali e, in altre di imitare le stesse espressioni. (Carr et al, 2003). I risultati mostrano che l’attività cerebrale in regioni coinvolte nell’imitazione di azioni (cortecce frontali bilateralmente) ed emozionali (insula) (vedere la figura sottostante) segue lo stesso andamento nell’osservazione e nella imitazione, suggerendo la parziale sovrapposizione delle due condizioni e confermando, in accordo con la teoria percezione-azione, che la semplice visione attivi regioni simili a quelle che sarebbero chiamate in gioco durante la riproduzione dello stesso stato.

(Carr et al, 2003)

L’insula di sinistra è rappresentata in verde. La corteccia frontale inferiore di destra e di sinistra sono rappresentate rispettivamente in blu’ e in rosso.

Empatia per il Disgusto

In uno studio di Wicker e collaboratori (2003) è stato chiesto a soggetti sani di inalare odori che evocavano un’esperienza di disgusto e di osservare la stessa emozione nell’altro attraverso la somministrazione di brevi video-clip (la parte sinistra della figura mostra dei singoli frames dei filmanti nelle varie condizioni). I risultati (parte destra della figura sottostante) hanno mostrato che essere spettatori dell’esperienza del disgusto nell’altro, produce l’attivazione della stessa struttura nervosa implicata nell’esperienza soggettiva, ovvero l’insula anteriore di sinistra.

(Wicker et al, 2003)

Interessante fare qui il parallelo del risultato degli studi di fMRI con studi clinici che sembrano confermare il coinvolgimento dell’insula nell’esperienza soggettiva del disgusto e nella capacità di riconoscere tale emozione nell’altro. Calder e collaboratori (2000) riportano il caso di un paziente NK, che in seguito ad emorragia cerebrale mostrava danni evidenti a strutture corticali e sottocorticali quali l’insula e il putamen.

(Calder et al. (2000)

Nell’immagine di Risonanza Magnetica (accanto) si vedere la lesione emisferica sinistra che coinvolge la parte posteriore dell’insula anteriore, l’insula posteriore, la capsula interna e il globo pallido. (a) immagine assiale. (b) una sezione coronale ove è evidente anche un danno alla testa del nucleo caudato. Tra le strutture intatte, sono evidenziate: (a) il putamen (P), il globo pallido (GP) destri; (b) la testa del nucleo caudato destra. La freccia bianca mostra la lesione all’insula (I).

In seguito a queste lesioni il paziente era incapace di identificare il disgusto, indipendentemente dalla modalità sensoriale con cui questa emozione gli era trasmessa, come espressioni facciali, suoni non verbali oppure la prosodia. Lo stesso paziente di fronte a stimoli inducenti, era anche selettivamente incapace di provare soggettivamente disgusto e perciò di reagire in maniera appropriata a quegli stessi stimoli, al contrario poteva facilmente riconoscere altre emozioni dal loro suono caratteristico, come la risata. Allo stesso tempo, il riconoscimento di altre espressioni facciali non era minimamente compromesso e la sua abilità a riconoscerne alcune, come la paura, era adeguatamente conservata. La maggiore implicazione derivata da questo studio è che la deficitaria percezione multimodale del disgusto osservato in NK si rispecchia in un’equivalente incapacità ad esperire in prima persona la stessa emozione (Calder, et al., 2000).

Un caso simile è stato riportato da Adolphs e collaboratori (2003). Gli autori descrivono un paziente B. il quale, in seguito ad un danno bilaterale dell’insula, mostrava notevoli deficit nel riconoscimento dell’espressione facciale del disgusto ma una preservata capacità nel riconoscimento di altre espressioni facciali. L’incapacità del paziente ad esperire tale emozione è ulteriormente avvalorata dal fatto che egli ingeriva cibo in modo indiscriminato (Adolphs et al., 2003). In pratica, l’esperienza soggettiva del disgusto e l’osservazione della stessa emozione nell’altro per mezzo della mimica facciale attiva la stessa struttura neurale, l’insula anteriore. Il danno a questa struttura compromette sia l’esperienza soggettiva del disgusto che il suo riconoscimento nell’altro. Questo suggerisce che l’esperienza in prima e in terza persona di una data emozione avviene grazie all’attività di uno stesso substrato neurale: in altre parole, quando guardiamo un’espressione facciale la comprensione dello stato affettivo dell’altro avviene tramite una simulazione incarnata dello stato

corporeo. È proprio l’esistenza di questo stato corporeo condiviso tra l’osservatore e l’osservato che consente la comprensione diretta dell’emozione altrui (Gallese, 2005). Il concetto della sovrapposizione di attività neurale per eventi esperiti in prima persona o osservati in altri è ulteriormente confermato in uno studio (sempre del gruppo di ricercatori che avevano studiato il disgusto) in cui i soggetti venivano toccati oppure vedevano, tramite video-clip, lo stesso tocco somministrato ad un altro individuo (Keysers et al, 2004). Il confronto dell’attività nervosa evocata nelle due condizioni è

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