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L’ermeneutica giuridica come tecnica

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Academic year: 2021

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Angela Condello e Maurizio Ferraris

L’ERMENEUTICA GIURIDICA COME TECNICA

Abstract

In this paper we argue that hermeneutics acquires additional relevance in the era of technology. In particular legal hermeneutics offers examples of how the use of specific instruments aimed at constituting legal objects (like the digital instruments used by notaries) demonstrate that legal professions will never be entirely delegated to machines. The capacity to use the instruments and the very functioning of those instruments can never be detached from comprehension, and from legal savoir.

1. Hermeneutikè tèchne

Cosa accade all’ermeneutica giuridica (l’ermeneutica «per eccellenza», come ha ritenuto Gadamer) nell’era della rivoluzione delle tecnologie digitali? Al con-trario di quanto si potrebbe pensare intuitivamente, l’ermeneutica giuridica non perde valore nell’era della tecnologia 4.0. L’interprete resta insostituibile e, anzi, il continuo aumento del numero degli strumenti per la produzione di oggetti giuridici (per esempio gli smart contracts) dimostra che tutte le grandi rivoluzioni richiedono teorie e riflessioni altrettanto importanti (Rodotà 2004; Ferraris 2015). L’introduzione di pratiche informatizzate in professioni come quelle giuridiche, in cui il ruolo dell’interprete è sempre stato centrale, invita infatti a una riflessione sul rapporto tra ontologia, epistemologia e tecnologia. Le nuove tecnologie partecipano della gestione quotidiana della vita e caratterizzano ormai molti aspetti operativi delle professioni giuridiche. Molte operazioni sono delegabili ai calcolatori. Eppure, il fatto che attualmente disponiamo di strumenti complessi che archiviano dati e informa-zioni, così come di oggetti che ci permettono di fare ciò che prima non saremmo stati in grado di fare, non implica affatto che ci sia meno bisogno di mediazione tra realtà e sapere. Resta necessario, fondamentale, comprendere ciò che facciamo, come lo facciamo, e soprattutto attraverso quali strumenti: l’automatizzazione e

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la moltiplicazione delle competenze – spesso, appunto, delegabili a calcolatori, algoritmi, robot – non implicano il dissolversi della necessità della comprensione, cioè di quei processi in cui il sapere specialistico permette di riempire di senso le operazioni automatizzate, prevedendo errori, lacune, vuoti, contraddizioni. La tec-nologia ci avvicina molto di più alla nostra natura incompleta e mostra quanto sia necessario integrare lo sguardo umano nell’uso dei dispositivi tecnologici. Proprio perché si può concludere un contratto attraverso un computer (smart contract), e perché si può firmare una compravendita di un immobile telematicamente (atto notarile informatico), il sapere ermeneutico deve essere rivolto non solo al conte-nuto dell’oggetto giuridico che viene costituito, estinto, modificato, ma anche allo strumento per mezzo del quale questa costituzione, estinzione o modifica vengono realizzate. Una capacità che appunto suggerisce di prendere sul serio il senso più profondo del lemma hermeneutikè tèchne, e che testimonia della natura anzitutto «tecnica» e «pratica» dell’ermeneutica, che è appunto un saper fare: dunque pure saper manovrare e utilizzare correttamente uno strumento.

Com’è noto, in ambito filosofico l’ermeneutica ha conosciuto una fase, che ha coinciso all’incirca con gli ultimi due decenni del secolo scorso, di grande diffusione (Ferraris 2008: 8). Una fase che ha finito per molti versi per coincidere con il pensiero postmoderno, e durante la quale l’ermeneutica ha assunto un carattere nichilistico che ha portato a dissolvere tutta la realtà del mondo, e del testo, nell’interpretazione. Ci sono stati numerosi tentativi di prendere le distanze dai progetti di nichilismo ermeneutico. Questi tentativi sono partiti in genere dalla distinzione concettuale tra ontologia ed epistemologia. Una distinzione che ha permesso di recuperare l’ermeneutica e la sua indiscutibile necessità in moltissimi campi, primo fra tutti quello giuridico, senza però rischiare afferma-zioni false come quella secondo cui non esistono fatti ma solo interpretaafferma-zioni o rappresentazioni. Spesso si è fatta confusione tra il livello del fare e il livello del sapere; quando l’ermeneutica ha insistito sull’importanza delle teorie per la comprensione del mondo – e persino per la stessa esistenza, del mondo – ha confuso la realtà con ciò che sappiamo sulla realtà. Ciò è vero per gli oggetti fisici, ma lo è ancora di più per gli oggetti sociali e per quella particolare categoria di oggetti sociali che sono gli oggetti giuridici. Una volta presa coscienza della distinzione essenziale tra oggetti sociali e oggetti naturali, e una volta dunque compresa la centralità del soggetto in alcuni casi e la sua totale irrilevanza in altri, si può fare ermeneutica: pretendere che quando inciampiamo su un sasso stiamo interpretando è un errore tanto quanto lo è sostenere che chi stipula un atto come una compravendita (facendolo, come è ormai possibile, grazie a dispositivi digitali e automatizzati) può fare a meno dell’interpretazione.

Su questa serie di brevi premesse è opportuno soffermarsi e ripartire da un esempio. Da qualche anno ormai è in atto un processo di informatizzazione delle professioni giuridiche e quella notarile ci sembra offrire un esempio par-ticolarmente interessante. Attraverso gli strumenti informatici si sta realizzando una semplificazione della redazione degli atti notarili, che da cartacei diventano

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informatici. La documentazione cartacea viene gradualmente sostituita dalla documentazione digitale: questo fenomeno ha investito inizialmente soprattutto i settori bancario e assicurativo, ma riguarda ormai anche la compravendita di immobili. Questa rivoluzione è resa possibile da una serie di software che consentono la redazione e la sottoscrizione di atti notarili tramite firma digitale e firma grafometrica. Gli atti dematerializzati così prodotti si trasmettono più rapidamente e si conservano in modo più sicuro. La fondamentale questione teorica che emerge è se l’attività ermeneutica volta a interpretare la legge al fine della stesura degli atti sia dunque delegata a un calcolatore. La nostra ipotesi è che proprio l’aumento degli strumenti che permettono di distribuire la stessa competenza anche a dispositivi automatizzati, quindi in sintesi alla tecnologia, rende necessario il filtro della comprensione da parte di un soggetto che dispone di competenze specifiche e che sia in grado di conoscere sia il diritto sia il fun-zionamento dello strumento attraverso cui si opera. Dunque, proprio laddove il filtro ermeneutico del giurista potrebbe sembrare superfluo, esso diviene invece ancora più rilevante poiché anche lo strumento tecnico deve funzionare (ed essere pensato e realizzato) secondo certi criteri, e deve inoltre essere conosciuto e adoperato correttamente e in relazione al sistema giuridico nella sua interezza. Per cui, se da un lato assistiamo a una semplificazione della professione giuridica, dall’altro questa semplificazione richiede più competenze e non meno.

Per comprendere il nostro argomento si deve partire da una concezione del diritto in quanto linguaggio (Benedetti 1999: 137-152). Il linguaggio è la materia fondativa del diritto. Senza trasposizione di concetti da un ambito all’altro non vi sarebbe diritto. Questa operazioni di trasposizione, traduzione e reinterpretazione sono evidentemente operazioni ermeneutiche svolte attra-verso il linguaggio ordinario, laddove si comunichi verbalmente o attraattra-verso la scrittura, e attraverso sistemi di linguaggi, laddove si comunichi attraverso lo strumento informatico. Per cui l’avvento dell’informatica nelle operazioni giuridiche non implica un declassamento dell’operazione ermeneutica ma, al contrario, una sua distribuzione su più livelli: non solo il giurista-interprete deve infatti conoscere il diritto, ma deve anche saper usare lo strumento informatico (come I-Strumentum, il programma attraverso cui si realizzano gli atti notarili informatici). Ciò che conferma l’idea bettiana per cui l’ermeneutica giuridica non può costituirsi soltanto come metodo o strumento di interpretazione, ma deve definirsi come una vera e propria filosofia che indichi come muoversi, quali criteri adoperare e come agire nel mondo. Il carattere performativo del linguaggio giuridico, grazie a cui il notaio crea un proprietario o trasferisce un diritto da un soggetto a un altro, emerge in modo ancora più evidente laddove il medium universale (linguaggio) viene depositato, a sua volta, su un medium come quello tecnologico, che dunque richiede competenza per essere utilizzato ma ancora prima richiede la comprensione delle ragioni per cui esso può essere utilizzato. Nel circolo ermeneutico-giuridico, potremmo dire, si aggiunge un livello: l’instrumentum con cui si realizza, si trasferisce e si archivia l’atto. La

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moltiplicazione di livelli e dispositivi di produzione, trasferimento e archiviazio-ne di documenti (non solo giuridici, ovviamente) rende archiviazio-necessario un ritorno sull’ermeneutica intesa in quanto tèchne: cioé arte della connessione tra il sapere e il fare, e dunque anche tra ciò che si sa (epistemologia) e ciò che c’è (ontologia). 2. Saper fare

In latino, il termine instrumentum indica un oggetto che permette di instruere: costruire, disporre secondo un criterio, apparecchiare, ordinare. Lo strumento è ciò per mezzo di cui si opera, che dunque non deve necessariamente essere il martello che l’artigiano usa per forgiare un oggetto, ma può anche essere un con-tratto, una scrittura autentica, un documento che serve a testimoniare la validità di un accordo tra due o più soggetti e che aggiunge dettagli su quell’accordo. La parola tèchne non si riferisce soltanto alla dimensione del fare ma indica anche un sapere, per cui la tecnica è un saper fare: è l’arte nel senso della capacità di trovare un accordo tra più dimensioni, quella concettuale-progettuale e quella concreta e tangibile, come testimonia la radice comune dei concetti di arte e armonia. Fare giustamente, con equilibrio, con sapere. Spesso tèchne è stato contrapposto a episteme, al sapere e alla conoscenza; questa distinzione è in realtà sconosciuta nel mondo antico, dove appunto quello della tecnica è un campo semantico vasto che include anche la conoscenza teoretica: dove è, appunto, saper fare finalizzato (perché si distingue dalla praxis che è invece un saper fare fine a stesso).

Il rapporto tra diritto e tecnologia è stato discusso e gestito in modi spesso molto discordanti, basti infatti pensare che Uncitral ha affermato il principio della neutralità tecnologica, in base a cui il legislatore non dovrebbe interferire nello sviluppo della tecnologia – rischiando di condizionarla favorendo alcune tecnologie rispetto ad altre (Finocchiaro 2012: 831-840). Il modo in cui lo stru-mento viene progettato e utilizzato è dunque fondamentale. L’instrumentum, in questo caso il programma che permette di realizzare l’atto notarile informatico, dovrà contenere e conservare la volontà delle parti: per cui si costituirà sia come intenzione sia come traccia documentale dell’atto. Il fatto che la traccia si crei, si depositi e conservi sullo strumento e grazie allo strumento spiega anche perché la dimensione tecnica, cioè come il programma funziona e si struttura, abbia anche delle conseguenze giuridiche. Le norme giuridiche e la conformazione tecnica dello strumento devono essere quindi lette nella loro relazione reciproca. Le novità introdotte dalla tecnologia nel quadro dell’esperienza giuridica non invitano soltanto a ripensare la funzione degli strumenti attraverso cui lavora l’operatore del diritto: la transizione di cui siamo testimoni investe nel profondo la relazione tra soggetto e oggetto e dunque la struttura circolare del processo ermeneutico. Non è un caso che sia un organo del Consiglio Nazionale del Notariato (la Commissione informatica), ad aver lavorato insieme a un gruppo di programmatori per la progettazione e la realizzazione di I-Strumentum.

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L’in-dividuazione degli strumenti necessari per operare con i dati e per trasmetterli è centrale: si tratta di un’operazione che compete in parte al tecnico e in parte al giurista. Solo il giurista dispone infatti delle strutture concettuali rispetto alle quali lo strumento deve essere pensato e quindi solo una progettazione fedele al sistema giuridico nella sua interezza può garantire il rispetto dei diritti individuali e al contempo l’interesse della comunità. La logica sottesa allo strumento può condizionare il comportamento degli uffici e anche gli errori e la riuscita delle operazioni giuridiche. Proprio perché il modo di trasmissione dei dati è così importante, lo strumento attraverso cui si opera diventa centrale, ben più della penna e della carta usate dal notaio prima dell’atto notarile informatico. In un certo senso, con lo sviluppo delle nuove tecnologie l’ermeneutica ha ampliato la sfera del saper fare specifico dal soggetto anche allo strumento attraverso cui il soggetto opera, rendendo nuovamente interessante lo scambio tra Betti e Gadamer sull’ermeneutica giuridica, che oggi acquista una rilevanza nuova. Come il giurista non deve inventarsi tecnologo, benché debba comprendere a fondo la tecnologia, analogamente al tecnico non spetta la scelta dei valori né l’interpretazione del diritto. Si può rischiare di commettere un errore piuttosto diffuso, cioè immaginare l’evo-luzione tecnologica come una dimensione autonoma rispetto alla sfera giuridica, che è invece isolata in un proprio sistema che non avrebbe nulla a che fare con il mondo esterno al diritto. Non è naturalmente questo il caso, e l’esempio dell’atto notarile informatico – la delicatezza e la difficoltà dell’operazione, che richiede competenze specifiche, nonché la complessità degli oggetti sociali che attraverso questo atto pos-sono essere creati – dimostra che diritto, tecnica e tecnologia pos-sono in una relazione costante (Ferraris 2016). Inoltre, un uso così “fondamentale” della tecnica nello svolgimento delle operazioni del diritto invita a ripensare lo spazio dell’ermeneutica giuridica attraverso l’inclusione dei mezzi con cui l’interpretazione e l’applicazione delle norme prendono forma. Per spiegare il modo in cui diritto e tecnica sono in relazione nel mondo contemporaneo, si dovrebbe dunque ritornare su quanto affer-mato da Rodotà a proposito del rapporto tra la politica e la tecnica: «il rapporto tra la politica e la tecnica non può essere descritto solo in termini strumentali, come se la tecnica si limitasse a mettere a disposizione della politica dei mezzi di cui questa si serve senza per ciò veder modificate le proprie caratteristiche. Ma, nella fase che stiamo vivendo, l’innovazione tecnologica ha inciso profondamente sul modo in cui la sfera della politica non solo si presenta ma si struttura» (Rodotà 2009). Una rivoluzione come quella informatica introdotta nelle professioni forensi (tutte) e in quella notarile (in maniera particolare) invita a tracciare un parallelo tra politica e diritto e a pensare dunque nei termini di un tecnodiritto: un fenomeno per cui le tecnologie dell’informazione e della comunicazione danno forme inedite al diritto, mutando la natura delle transazioni e la natura dei soggetti e delle organizzazioni sociali. La transizione segnata dall’uso del mezzo informatico modifica il modo stesso di essere del diritto, che va dunque ripensato attraverso una teoria generale che includa la rivoluzione tecnologica in atto. Sulla scia della distinzione tra il diritto e la tecnica suggerita da Natalino Irti (2001), secondo cui la differenza tra la regola

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(diritto) e il regolato (tecnica) non è mai discutibile, il mutamento in atto invita a ritornare su alcuni temi tradizionali dell’ermeneutica giuridica come per esempio la relazione tra soggetto interpretante e oggetto interpretato.

3. Dover fare. Normatività del medium

La volontà di ritornare sulla «circolarità ermeneutica» viene da più direzioni (Canale 2006): in primo luogo, come discusso, dall’impatto della rivoluzione tecnologica sulle professioni giuridiche. In secondo luogo, dal modo in cui le informazioni sono registrate attraverso questi nuovi archivi digitalizzati come I-Strumentum. Per analizzare questo secondo aspetto è necessario riflettere sulla funzione della forma. Perché un atto sia valido e perché esso produca un oggetto sociale (un matrimonio, una società) deve essere rispettata una forma. Da questa forma derivano la forza e la continuità temporale dell’oggetto sociale costituito attraverso un atto ilocutorio (nell’esempio tipico di Searle, dal pronunciare la frase “sì, lo voglio”). La forza illocutoria dell’atto risulta dunque dipendente dalla forma, e deriva dalla iterazione di un rituale (cioè delle forme che iterano un certo schema). La forza dell’atto deriva dalla iterazione, quindi dalla ripetizione di un gesto, di una competenza, e non soltanto dalla comprensione: si potrebbe essere un professore di diritto civile, e sapere tutto sul matrimonio, ma si potreb-be ugualmente fallire nel tentativo di sposarsi se non si ripetesse con esattezza la formula, ossia la forma codificata dell’atto. Dunque, i livelli in gioco non sono semplicemente due, quello che si sa e quello che c’è, ma tre: quello che si sa, quello che si fa e come lo si fa (e dunque anche gli strumenti attraverso cui lo si fa). Il livello in cui ontologia ed epistemologia interagiscono è quello della tecnologia.

Per sintetizzare questa prospettiva si possono immaginare tre sfere concentriche. La prima è appunto l’epistemologia, molto piccola, perché ciò che sappia-mo – anche negli ambiti specialistici come il diritto – non è molto. La seconda sfera, intermedia, è la tecnologia, ciò che facciamo e gli strumenti attraverso cui lo facciamo: una sfera più ampia, poiché il nostro ambito d’azione è certamente maggiore del nostro ambito di conoscenza. La terza sfera, infine, rappresenta l’onto-logia, ovvero quello che c’è, nel mondo sociale ma, ancor più, nel mondo naturale. La sfera dell’azione, la sfera della tecnologia, garantisce il transito dall’ontologia all’epistemologia (e viceversa). Nel caso del mondo naturale, il passaggio ha luogo tra l’ontologia e l’epistemologia, e non ce ne occuperemo in questa sede. Nel caso del mondo sociale, l’interazione ha luogo dalla epistemologia alla ontologia. Questo è il caso del diritto, per cui procedure formalizzate e convenzionali permettono di costituire oggetti sociali e di questa doppia relazione tra forma e forza e tra ontologia ed epistemologia la professione notarile è paradigmatica.

La tecnologia nel diritto è l’insieme dei dispositivi su cui si deposita la volontà, dei modi e degli strumenti attraverso cui questa viene formalizzata e per cui di conseguenza acquista una forza. La teoria della documentalità spiega perfettamente

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questa relazione tra forma e forza; nella prospettiva documentale, il notaio emerge come soggetto capace di costituire oggetti sociali perché raccorda contenuti e forme del diritto con istanze, volontà e situazioni contingenti. La capacità tecnica di un soggetto mediatore come il notaio consiste proprio nel raccordare l’esercizio erme-neutico con le competenze tecniche. A seguito della rivoluzione informatica, inoltre, il raccordo si svolge non soltanto tra interpretazione della legge e casi proposti dagli individui (i clienti), ma anche attraverso la competenza tecnica: cioè attraverso l’uso dello strumento informatico (come appunto nel caso di I-Strumentum).

La relazione tra performatività e documentalità in relazione al diritto è piutto-sto intuitiva, ma è comunque utile decostruirla nel dettaglio. Quando firmiamo per accettazione un documento per una compravendita o per la costituzione di una società, non descriviamo semplicemente qualcosa che c’è già, ma stiamo costruendo qualcosa che comincia a esistere in quel preciso momento. Questa intuizione (già formalizzata da Austin) ha trovato una dimensione sistematica nell’opera di Searle (Searle 1969), che non si è limitato a classificare gli atti linguistici, avendo infatti inoltre riconosciuto anche la presenza di oggetti che possono nascere da quei peculiari atti che sono i “performativi”: appunto, un matrimonio, un mutuo. Secondo la teoria di Searle, per costituire un oggetto sociale è sufficiente l’intenzionalità dei soggetti, espressa appunto attraverso formule che hanno l’effetto di costruire il mondo sociale.

La prospettiva intenzionalista va integrata con la teoria della documentalità (Ferraris 2009), secondo cui gli oggetti sociali risultano strettamente dipendenti dalle forme della loro iscrizione e registrazione. La teoria della documentalità, a differenza della teoria intenzionale sugli oggetti sociali, presta attenzione a tutto il sistema di supporti e dispositivi che accompagnano la nostra esistenza. Perché vi sia un oggetto sociale, è infatti necessario un supporto fisico; poi, una iscrizione, che è naturalmente più piccola del supporto e che ne definisce il valore sociale; infine, serve qualcosa di idiomatico, tipicamente una firma (con tutte le sue varianti: la firma elettronica, il codice del bancomat, il pin del telefonino), che garantisce l’autenticità dell’oggetto. Da questo sistema di registrazioni dipendono obblighi, azioni, omissioni, doveri, responsabilità: la documentalità è dunque una forza costitutiva del sociale e tale carattere deriva dal fatto che il documento e la traccia esistono e hanno una forma, una durata e un validità capace di mobilitarci, di farci sentire obbligati, di spingerci ad agire, di avere dei doveri e delle responsabilità. In questa prospettiva non solo il documento ma anche lo strumento attraverso cui questo viene creato, trasmesso e conservato diventa fondamentale. Per cui lo strumento stesso richiede di essere compreso ed entra a far parte di quella relazione circolare tra oggetto e soggetto che è tipica di ogni ermeneutica.

Tramite il documento su cui, per esempio, viene registrato un mutuo, si fissa inoltre il rapporto tra norma in senso statico e norma in senso dinamico. Il di-ritto non è un semplice ente che si sostanzia in alcune relazioni, e non è neanche una entità che esiste una volta per tutte e che pertanto si possa afferrare come un oggetto qualsiasi. Il diritto viene continuamente «realizzato» attraverso la messa

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in forma della relazione tra norme e fatti, tra normatività e realtà. Per questo, la riflessione su tecnologia e tecnica che ci è suggerita dal mutamento delle professioni giuridiche invita a tornare sulla funzione centrale dell’ermeneutica giuridica in quanto metodo che porta a concepire il diritto non come dato da interpretare, ma come serie di pratiche che si concretizzano attraverso saperi e strumenti. Inoltre, sempre la tradizione dell’ermeneutica giuridica dimostra che il diritto muta ogni volta che una norma viene interpretata e applicata, e dunque ogni volta che viene fissata in una forma come ad esempio un atto. Il diritto muta con il mutare delle soluzioni che sono adottate, ha un carattere aperto: perciò la forma del documento è costitutiva della sua forza poiché è proprio nella forma e nello strumento in cui (e con cui) questa forma viene fissata che si determina la forza di legge. L’ermeneutica dispone una coerenza del sistema che altrimenti sarebbe irraggiungibile; qualunque sia lo strumento attraverso cui si formalizza e qualunque sia il dispositivo attraverso cui questa operazione ermeneutica viene compiuta, l’oggetto su cui l’azione giuridicamente rilevante si deposita è centrale. Anzi: maggiori sono i livelli per la formalizzazione, maggiori saranno i passaggi per l’interpretazione e applicazione e dunque maggiore lo sforzo ermeneutico.

La documentalità è quindi la condizione necessaria e sufficiente della realtà sociale in generale e della realtà giuridica in particolare. Ma l’ontologia sociale e giuridica non comprendono soltanto quelle forze che presiedono alla genesi dei documenti e alla formazione della intenzionalità. Un conto è dire che i pezzi di carta ci fanno imparare a leggere e a scrivere, o che i riti ci insegnano a stare al mondo; altra cosa è spiegare da cosa deriva il potere che una istanza qualsiasi (Dio, totem, pezzo di carta che registra il trasferimento della proprietà di un immobile, o dispositivo elettronico che compie la stessa operazione) esercita su una intenzionalità individuale. Spiegare questa derivazione porta a riflettere sul potere dei documenti. Cosa produce questo potere e questa forza che fa agire le persone, le costringe e le fa sentire obbligate? La filosofia ha dato due risposte a questa domanda. La prima: l’autorità deriva una forza trascendente. La seconda risposta, più verosimile, è di tipo contrattualistico: l’autorità deriva dalla volontà della nazione, cioè, in termini contemporanei, dalla intenzionalità collettiva. Forza trascendente e volontà della nazione (o intenzionalità collettiva) sono le personificazioni mitologiche di una legittimità che non spiega ancora l’efficacia (il fondamento mistico) dell’autorità. La risposta della teoria documentale è invece la seguente: l’autorità, la normatività, la forza di legge (proprio come l’intenzionalità) non precedono la documentalità, ma ne derivano. Norme e autorità vengono dall’esterno (e questa esteriorità è una componente essenziale della loro efficacia), e impongono delle azioni che precedono la comprensione istituendo dei canoni, degli obiettivi e delle regole. I documenti, siano essi su carta o in formato elettronico, perché siano vincolanti devono avere una carat-teristica comune: devono essere registrazioni capaci di fissare un atto. Questa registrazione permette di evocare una dimensione di autorità che trascende l’immanenza del documento e della singola azione.

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4. Conclusione. Competenza e comprensione nel diritto

La centralità assunta dalla tecnologia nello svolgimento di operazioni giuridiche come quelle notarili suggerisce di (ri)considerare la differenza tra la competenza, cioè la capacità agire, ossia la praxis che porta a un risultato - e la comprensione, cioè l’insieme dei saperi e dei processi e dei risultati dell’interpretazione. La competenza è una praxis che può avere un risultato anche senza che vi sia alcuna comprensione: può essere attitudine pratica che porta a un risultato. L’azione può anche essere senza perché, come dimostrano le persone che compiono azioni in maniera quasi automatica (come disegnare su un foglio, o usare un telefonino). Senza la compe-tenza difficilmente ci potrebbe essere comprensione. La tecnologia (intesa come l’insieme degli strumenti che usiamo per fare le cose e la capacità che abbiamo di usarli), in questa prospettiva, non è un principio alienante o disumanizzante. Al contrario, proprio dagli oggetti come I-Strumentum derivano la forma delle azioni e la loro forza vincolante. L’uomo non è anzitutto un animale razionale, né un animale sociale (la socialità sembra una imposizione, sempre precaria, dettata da esigenze evolutive), ma un animale tecnico, che ama per esempio muovere le mani – l’unica attività in cui eccelle rispetto agli animali non umani – per non stare con le mani in mano o per produrre qualcosa. La tecnologia ha a che fare con le realizzazioni intellettuali più elevate: nella matematica e nella logica, nella creazione degli esperimenti scientifici e delle opere artistiche, nelle azioni e nei riti che accompagnano la nostra vita sociale – come dimostra quanto detto finora intorno ai cambiamenti subiti dalla professione notarile.

Proprio la tecnologia permette il passaggio dal concetto all’oggetto ed è in questa sua capacità che intendiamo leggerla come una estensione dell’erme-neutica: la tecnologia permette la mediazione, proprio come fa l’ermeneutica, poiché traduce una intenzione in un segno che significa qualcosa nel tempo. La tecnologia intesa come mediazione ricorda alcuni caratteri dell’idea kantiana di schema: un processo che dal particolare risale all’universale e che permette la sussunzione sotto categorie degli oggetti di esperienza. Per questo suo carattere di strumento di mediazione, la tecnologia si presta a essere intesa come filosofia che raccorda epistemologia e ontologia, poiché implica un saper fare, una capacità di agire che è anche conoscenza.

In conclusione, vorremmo dunque proporre una lettura dell’ermeneutica giuri-dica che includa la tecnica per applicarla alle nuove tecnologie. A nostro avviso, la tecnologia restituisce centralità all’interprete. Sebbene infatti le nuove tecnologie abbiano semplificato e possano ulteriormente semplificare alcune operazioni del diritto, il calcolatore non potrà mai sostituire completamente l’uomo, né (tanto-meno) il giurista, che possiede la dose necessaria di comprensione per esercitare la competenza. Prendiamo per esempio l’interpretazione del contratto che può essere necessaria per redigere un atto. Spesso la vaghezza del linguaggio giuridico funzio-na come fattore di indetermifunzio-nazione nei processi di identificazione degli oggetti

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(Calderai 2008). Sebbene infatti vi siano alcuni oggetti tipicamente riconoscibili, come la casa paradigmatica o il terreno ideale, le funzioni svolte da questi oggetti possono variare e con esse le loro caratteristiche. Queste variazioni significano auto-maticamente variazioni nei processi di categorizzazione dell’ontologia giuridica che dunque è tutt’altro che completamente automatizzabile. Proprio la funzione svolta dagli oggetti nelle nostre vite è uno degli elementi usati per correggere i risultati erronei della categorizzazione primaria degli oggetti giuridicamente rilevanti. Un albero può essere parte di una piantagione, un edificio che sembra autonomo può appartenere a un complesso che comprende più edifici. I dati primitivi, le cose che popolano la realtà, emergono con le loro funzioni. Attributi e funzioni nella loro interezza non possono essere tenuti in conto da un calcolatore, o comunque sarebbe assai difficile immaginare un calcolatore in grado di definire, ridefinire, costituire, estinguere, modificare le funzioni, spostare un oggetto da una categoria a un’altra. Per cui, la comprensione degli oggetti condiziona la comprensione del testo e l’ermeneutica è un processo che comporta serie successive di passaggi da un livello a un altro del senso. L’uso della tecnologia aggiunge un livello, sebbene «soltanto» tecnico, in cui le parole possono essere poste in un certo modo, e dun-que lette e interpretate di conseguenza. La comprensione dei fatti si radica nella comprensione del mondo ma è parte del sistema giuridico la cui funzione è essere scrigno a protezione delle istituzioni fondamentali della società civile: tutelare la vita, il diritto di proprietà, la libertà di contrarre. La trasposizione delle volontà individuali è il fondamento e la ragion d’essere dei rapporti giuridici: il testo (sia esso di legge, o un accordo privato tra due o più parti) dev’essere valutato e compreso come un evento in stretta relazione con tempo, luoghi e bisogni, consuetudini e usi ermeneutici. Il testo formulato dal notaio, per il suo carattere performativo, ha una funzione evenemenziale: è qualcosa che accade e, accadendo, modifica la realtà. Per questa ragione in particolare, nella funzione notarile l’ermeneutica ha un valore centrale che difficilmente può demandarsi a una pura (e mera) competenza senza comprensione. Sebbene l’orizzonte dell’ermeneutica giuridica comprenda molte tecniche, e la tecnologia informatica di cui si è detto si aggiunga ad esse, non viene spostata di molto la funzione centrale del soggetto-interprete. Pur trovandosi nel pieno dell’era della riproducibilità tecnica anche di un mutuo – che viene fatto ormai, all’americana, anche da banche e assicurazioni – il circolo ermeneutico non è sbilanciato completamente sull’oggetto, né sul soggetto, ma mantiene il suo caratteristico dinamismo.

Le sole regole dell’ermeneutica giuridica – ha ritenuto Luigi Mengoni – non pos-sono garantire la certezza del diritto secondo il concetto positivistico, ma soddisfano le aspettative per un esito corretto e giusto dell’atto del giudicare, esito che è in stret-tissima relazione con gli strumenti attraverso cui si realizza il processo di traduzione da istanza individuale a atto-norma (Mengoni 1999). Oltre dunque alla centralità dello strumento (come I-Strumentum) e del suo modo di operare, va recuperata la necessità della interpretazione per la costruzione e la comprensione degli oggetti giuridici in particolare e di quelli socali in generale: soprattutto, va evitato il rischio

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di cadere nella fallacia secondo cui l’in-terpretazione è infinita. Essa al contrario deve avere come obiettivo l’ottenimento di qualcosa, di una oggettività, di un ri-sultato giusto e corretto: l’interpretazione dunque intesa non come pura esegesi (ciò che era proprio dell’interpretazione dei testi sacri) ma come procedura dal carattere molteplice che si svolge su più livelli e attraverso più strumenti, secondo il significato autentico dell’ermeneutica, da ricercare in tre direzioni differenti: asserire (esprimere), interpretare (spiega-re), e tradurre (far da interprete). Tutte varianti di un tema principale: condurre alla comprensione grazie a un processo di mediazione.

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recensioni

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Ontologia dell’arte

L’ontologia dell’arte è la disciplina filosofica che si occupa di stabilire a quali categorie ontologiche apparten-gono determinate famiglie di opere d’arte. Si consideri innanzitutto la distinzione fra individui e tipi, che ricalca la distinzione aristotelica fra particolari e universali.

Un individuo è qualcosa che ha una sua precisa localizzazione nello spazio e nel tempo, qualcosa che potremmo indicare con un gesto o con un dimo-strativo come “questo” o “quello”: questa persona, questo tavolo, quell’albero, quel sasso. Un tipo è invece qualcosa che non ha una sua precisa localizzazione nello spazio e nel tempo, e può invece trovarsi in vari posti diversi nello stesso momento. Questo perché un tipo, a differenza di un individuo, non esiste autonomamente; esiste soltanto mediante degli individui che lo esemplificano. Dal fatto che un tipo può essere esemplificato da vari individui a un dato istante, consegue che un tipo, a differenza di un individuo, può trovarsi in vari luoghi diversi allo stesso istante; per esempio il tipo “Albero” si trova, ad un certo istante, nei vari posti in cui c’è un albero.

Applicata al dominio dell’arte, la distinzione ontologica fra individui e tipi ci permette di distinguere fra

for-me d’arte cofor-me la pittura o la scultura (purché non a calco), che producono individui, e forme d’arte come la let-teratura o la musica, che producono invece tipi. Se vogliamo apprezzare appropriatamente un dipinto o una scultura, dobbiamo recarci nell’unico posto specifico, solitamente la sala di un museo, in cui quell’individuo si trova. Se invece vogliamo apprezzare appropriatamente un romanzo o una sinfonia, non c’è un posto specifico in cui dobbiamo recarci. Ci sono vari posti che possono andare tutti ugual-mente bene, purché in quei posti ci sia un individuo che esemplifica l’opera come tipo. Nel caso della letteratura, dobbiamo recarci in un posto in cui ci sia una copia che esemplifica il romanzo che vogliamo leggere, nel caso della musica dobbiamo recarci in un posto dove ci sia un’esecuzione che esemplifica la sinfonia che vogliamo ascoltare. Ontologia dell’architettura: tipi e individui

Il caso dell’architettura pone dei problemi significativi alla distinzione fra tipi e individui. Da una parte, l’o-pera architettonica sembra possedere la stessa unicità dei dipinti e delle sculture: se voglio visitare la cattedrale di Notre-Dame devo recarmi in un posto ben preciso, a Parigi sull’Île de la Cité. Dall’altra, l’architettura sembra condividere con la musica una strut-tura tale per cui l’autore non produce direttamente l’opera, come avviene in pittura, bensì un sistema di indicazioni che permettono di realizzare l’opera. Nel caso della musica, il sistema di

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indicazioni costituisce uno spartito; nel caso dell’architettura, un progetto. Lo spartito, in quanto sistema di indicazio-ni, permette varie esecuzioni della stessa opera musicale; analogamente – si potrebbe inferire – il progetto architet-tonico permette varie esecuzioni della stessa opera architettonica. Dal che seguirebbe che l’opera architettonica, al pari dell’opera musicale, non è un individuo bensì un tipo.

C’è dunque un’importante tensione al cuore dell’ontologia dell’architettura. Sebbene le nostre pratiche di apprez-zamento delle opere architettoniche favoriscano l’intuizione che queste sono individui, l’analogia fra progetto architettonico e spartito musicale sug-gerisce piuttosto che queste sono tipi. Tale tensione è stata esplicitamente tematizzata in due pietre miliari dell’e-stetica analitica, I linguaggi dell’arte di Nelson Goodman e L’arte e i suoi oggetti di Richard Wollheim.

Goodman parte della considerazione che ciò che permette a uno spartito musicale di funzionare come principio di costruzione di una varietà di esecu-zioni è il suo essere costituito da una “notazione”, cioè un sistema di segni e regole che stabilisce precisamente come l’opera musicale individuata dallo spartito vada eseguita. A questo punto, Goodman osserva che anche il progetto architettonico funziona in questo modo: «la particolare scelta di disegno e numerali in una piante architettonica conta […] come uno spartito» (1968: 189). Tuttavia, egli riconosce che, in musica, lo spartito conferisce all’opera un’autonomia dalle sue esecuzioni molto maggiore di quella normalmente conferita dal

progetto architettonico: «l’opera di architettura, nondimeno, non è sempre e con altrettanta sicurezza svincolata da un edificio particolare come un’opera musicale da un’esecuzione particolare» (1968: 190).

Wollheim evidenzia a sua volta il carattere problematico dell’ontologia dell’architettura ponendo esplicitamente la questione in termini di individui e tipi: Le opere architettoniche sono individui oppure tipi? Oppure, contrariamente a quanto siamo giunti a pensare, alcune sono individui e altre tipi, cosicché, ad esempio, la moschea di Ibn Tulun è un individuo mentre la Maison de Plaisir di Ledoux è un tipo? Questa incertezza rivela una più fondamentale incertezza sulla natura della teoria artistica che orienta generalmente il lavoro di un architetto, e l’argomen-tazione di questo saggio suggerisce che, se siamo incerti su questa teoria, allora siamo ugualmente ignoranti su che cosa risulti esteticamente rilevante per le opere architettoniche (1980: 117-118).

Ontologia dell’architettura: oggetti ed eventi

Più recentemente, un saggio di Do-minic Lopes intitolato Shikinen Sengu and the Ontology of Architecture in Japan ha rilanciato il dibattito sull’ontologia dell’architettura nell’ambito dell’este-tica analidell’este-tica, evidenziando la rilevanza di un’altra distinzione ontologica, quella fra oggetti ed eventi. Gli oggetti sono entità che risultano interamente presenti in un certo luogo a un certo instante, e pertanto hanno soltanto parti spaziali, non parti temporali; valer a dire che gli oggetti si estendono nello

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spazio ed eventualmente cambiano al passare del tempo. Gli eventi invece hanno parti temporali e si estendono nel tempo. Ad esempio un bicchiere o una conchiglia sono oggetti mentre una festa o un temporale sono eventi.

Filosofi come Alfred Whitehead (1929) e lo stesso Goodman (1951) hanno notoriamente argomentato che gli oggetti altro non sono altro che «eventi lenti», e dunque la distinzione fra oggetti ed eventi non ha rilevanza metafisica. Tuttavia per l’ontologia dell’arte, che si attiene al modo in cui trattiamo le entità nelle nostre esperien-ze condivise, la distinzione fra oggetti ed eventi resta rilevante. In particolare, nel campo dell’architettura, si ritiene tradizionalmente che le opere archi-tettoniche siano oggetti, non eventi. Questo indipendentemente dal fatto che si concepiscano le opere architet-toniche come individui o come tipi: se le si concepiscono come individui, allora sono gli individui stessi a essere oggetti; se invece le si concepiscono come tipi, allora questi tipi risultano esemplificati da oggetti.

Lopes mette in discussione questo presupposto mostrando che nell’archi-tettura giapponese vi sono opere che vanno intese non come oggetti, bensì come eventi. Egli considera per esempio il santuario di Ise Jingu, la cui parte cen-trale viene sistematicamente ricostruita ogni venti anni, a partire dall’ottavo secolo d.C. fino ai giorni nostri, secondo un ciclo di vita denominato «Shikinen Sengu» (da cui il titolo del saggio di Lopes). Nell’architettura giapponese, l’ontologia di Ise Jingu non costituisce un’eccezione ma piuttosto la regola.

Lopes menziona a tal proposito varie opere, fra cui The Nomad Restaurant di Toyo Ito, uno dei principali architetti giapponesi contemporanei, che ha concepito quest’opera in modo tale che durasse soltanto tre anni. La conclusione che Lopes ne trae è che, nel contesto della cultura giapponese, le opere ar-chitettoniche vadano concepite come eventi anziché come oggetti. Nel caso di Ise Jingu si tratta di un evento che si ripete ciclicamente ogni venti anni, nel caso di The Nomad Restaurant si tratta di un evento della durata di tre anni. Ontologia del progetto architettonico

Un libro pubblicato recentemente da due architetti italiani, Teoria del progetto architettonico di Alessandro Armando e Giovanni Durbiano, ci permette di introdurre una nuova significativa distinzione nel dibattito sull’ontologia dell’architettura. Come Lopes mette in discussione il presupposto per cui l’opera architettonica è un oggetto, proponendo di trattarla piuttosto come un evento, così Armando e Durbiano mettono in discussione il presupposto per cui il progetto architettonico è un oggetto, proponendo di trattarlo piut-tosto come un evento.

È opportuno ribadire che Arman-do e Durbiano sono architetti, non filosofi, e che il loro libro non ha per obiettivo di intervenire nel dibattito sull’ontologia delle opere di architet-tura, bensì – come recita chiaramente il titolo – proporre una teoria del pro-getto architettonico. Tuttavia, come si è visto procedendo nel solco di Goodman e Wollheim, il progetto è un aspetto

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cruciale dell’ontologia dell’architettura: considerare l’opera come tipo porta infatti a identificarla con il progetto, mentre considerarla come individuo porta a distinguerla dal progetto, che in questo caso contribuisce causalmente alla produzione dell’opera ma non la costituisce ontologicamente. Dunque la domanda «che cos’è un progetto archi-tettonico?» – affrontata da Armando e Durbiano – ha un legame cruciale con la domanda affrontata dall’ontologia dell’architettura: «che cos’è un’opera architettonica?». La parte restante del mio intervento si propone di rendere esplicito questo legame, mostrando come l’ontologia del progetto incida sull’ontologia dell’opera.

Tanto Goodman (in maniera espli-cita) quanto Wollheim (in maniera implicita) concepiscono il progetto architettonico come un sistema di istru-zioni per la costruzione di un edificio, in analogia con lo spartito musicale inteso come un sistema di istruzioni per l’esecuzione di un brano. L’architetto produce il suo progetto così come il musicista produce il suo spartito. Que-sto è proprio il presuppoQue-sto contro il quale Armando e Durbiano muovono all’attacco. Per loro, il progetto archi-tettonico appartiene a una categoria ontologica differente da quella in cui si trova lo spartito musicale. Il progetto architettonico non è infatti un mero sistema di prescrizioni che conduce direttamente dall’autore all’opera, bensì un evento che ha luogo nel quadro di una certa realtà sociale, comportando conflitti e negoziazioni, ed eventual-mente deviazioni e occasioni. L’obietti-vo polemico di Armando e Durbiano è quella che essi definiscono la «sovranità

autoriale del soggetto-architetto» (p. 26), e che in termini ontologici si può esprimere come analogia fra il musici-sta, che crea direttamente la sua opera compilando lo spartito, e l’architetto, che crea direttamente la sua opera di-segnando il progetto. Contro la conce-zione del progetto architettonico come emanazione dell’architetto in quanto autore sovrano, Armando e Durbiano propongono di concepire il progetto come un evento sociale: una «azione collettiva» (p. 372) che comporta «con-catenazioni costruite attraverso serie di negoziazioni tra diversi poteri» (p. 261), le quali si sedimentano in un reticolo di documenti o «nuvola documentale» (p. 274), al fine di «mettere d’accordo le parti coinvolte per produrre effetti» (p. 110).

L’analogia fra progetto e spartito su cui facevano leva le ontologie dell’ar-chitettura di Goodman e Wollheim è così messa fuori gioco: «in questo sce-nario negoziale, il progetto non viene più interpretato come mero insieme di descrizioni e prescrizioni finalizza-to a dare istruzioni per l’esecuzione» (p. 261). Il progetto architettonico si rivela invece un processo in cui si intrecciano azioni collettive, catene di negoziazioni e reticoli di documenti. Questo processo è un evento munito di una peculiare forma temporale, larga al centro e assottigliata agli estremi: una forma temporale che ha origine in una singolarità, l’architetto autore, per poi espandersi in una molteplicità di interazioni sociali, e infine contrarsi nuovamente in una singolarità, l’opera architettonica.

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Progetto e opera

Mentre la concezione del progetto come spartito lasciava irrisolta l’appar-tenenza dell’opera architettonica alla categoria ontologica dei tipi o a quella degli individui, la concezione del pro-getto come processo sociale comporta una netta presa di posizione a favore degli individui. Il progetto non è più infatti un sistema astratto di prescrizioni che può avere molteplici realizzazio-ni concrete, ma è esso stesso qualcosa di concreto, un evento che si dispiega in una determinata circostanza storica e in un determinato contesto sociale.

In quanto entità concreta, il progetto non può avere molteplici esemplifica-zioni, e dunque l’opera architettonica non può essere un tipo, e dovrà essere pertanto un individuo. Armando e Durbiano la concepiscono come una «trasformazione dello spazio fisico» (p. 27) che rappresenta il punto di arrivo del progetto come processo, il suo «effetto» (illuminante in tal senso il sottotitolo del volume: «Dai disegni agli effetti»).

Da una parte, questa concezione dell’opera architettonica è neutrale in rapporto alla distinzione fra oggetto ed evento messa in luce da Lopes: la trasformazione dello spazio fisico può consistere sia in un oggetto sia in un evento. Dall’altra, questa concezione non è neutrale in rapporto alla distin-zione fra individuo ed tipo discussa da Goodman e Wollheim: la trasformazio-ne dello spazio fisico che consegue da un particolare processo non può essere un tipo che può essere esemplificato non importa dove, e deve essere invece

il particolare esito di quel particolare processo, ossia la trasformazione del particolare spazio fisico verso il quale quel processo si è orientato.

A questo punto si potrebbe obiettare che l’ontologia dell’architettura che risulta dalla concezione del progetto di Armando e Durbiano è eccessivamente drastica, con la sua netta presa di posi-zione a favore degli individui, contro i tipi. Come può una tale ontologia tenere conto di opere architettoniche come ad esempio kitHaUs di Tom San-donato e Martin Wehmann, che sono intenzionalmente concepite come tipi esemplificabili da molteplici individui? Armando e Durbiano hanno tuttavia una strategia interessante per far fronte a questa obiezione, che consiste nel richiamarsi alla distinzione fra architet-tura e design. Vale a dire la distinzione fra una disciplina – l’architettura – che trasforma una particolare regione di spazio e un’altra disciplina – il design – che invece produce oggetti che possono essere situati in differenti regioni di spazio.

Un modo intuitivo per caratteriz-zare questa distinzione consiste nel dire che l’architettura produce cose che non si possono spostare mentre il design produce cose che si possono spostare. Ma un modo ontologicamen-te più rilevanontologicamen-te consisontologicamen-te nel dire che l’architettura produce direttamente individui (intesi come particolari trasformazioni dello spazio) mentre il design produce tipi, da ciascuno dei quali potranno essere ricavati vari individui, che potranno avere diverse collocazioni nello spazio. In questa prospettiva, opere come kitHAUS si rivelerebbero opere di design che per le

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loro funzioni competono con le opere di architettura, ma ontologicamente non rientrano nella categoria delle opere architettoniche.

Dall’ontologia alla definizione

Partendo della teoria del progetto di Armando e Durbiano risulta dun-que possibile ricavare un’ontologia dell’architettura che a sua volta ci dà la possibilità di tracciare una distinzione fra l’architettura e una disciplina affine come il design. Questo perché sussiste una relazione potenzialmente significa-tiva fra l’ontologia di una certa forma d’arte e il problema della definizione di questa stessa forma d’arte.

Se l’ontologia riesce infatti a circoscri-vere le opere prodotte da una certa forma d’arte a una categoria ben delimitata, allora si potrà compiere un primo passo in direzione della definizione di quella forma d’arte. Se per esempio l’ontologia della musica riuscisse a stabilire che le opere musicali sono tipi e non individui, allora una definizione della musica do-vrebbe essere strutturata così: «la musica è quella forma d’arte che produce tipi tali che…». La teoria del progetto di Armando e Durbiano ci permette di circoscrivere il progetto architettonico alla categoria degli eventi e le opere architettoniche alla categoria degli individui, offrendoci così l’abbozzo di una definizione dell’architettura: «quella forma d’arte che produce individui tali che… mediante processi tali che…». Certo, restano ancora degli spazi vuoti da riempire, ma sembra comunque un buon inizio.

[Enrico Terrone]

Bibliografia

Armando, A., Durbiano, G.

– (2017),Teoria del progetto architettonico, Roma, Carocci.

Goodman, N.

– (1985), The Structure of Appearance, 1951, trad. it. Le strutture dell’apparenza, Bologna, il Mulino.

– (1976), Languages of Art, 1968, trad. it. I linguaggi dell’arte, Milano, il Saggiatore. Lopes, D.M.

– (2007), Shikinen Sengu and the Ontology of Architecture in Japan, “Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 65, 1: 77-84.

Whitehead, A.N.

– (1965), Process and Reality. An Essay in Cosmology, 1929, trad. it. Il processo e la realtà. Saggio di cosmologia, Milano, il Saggiatore.

Wollheim, R.

– (2013), Art and its Objects: An Introduc-tion to Aesthetics (2nd ed. revised), 1980,

trad. it. L’arte e i suoi oggetti, Milano, Marinotti.

Riferimenti

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