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caratteristiche chimico-nutrizionali e stato di ossidazione del lardo di Colonnata prodotto con due diverse razze suine

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CORSO DI LAUREA IN SCIENZE E TECNOLOGIE AGRARIE

Caratteristiche chimico

ossidazione del Lardo di Colonnata

diverse razze suine

Relatore:

Chiar.mo Prof. Pier Lorenzo Secchiari

Correlatore:

Dr.ssa Roberta Nuvoloni

ANNO ACCADEMICO 2010

UNIVERSITÀ DI PISA

FACOLTÀ DI AGRARIA

CORSO DI LAUREA IN SCIENZE E TECNOLOGIE AGRARIE

Tesi di laurea

Caratteristiche chimico-nutrizionali e stato di

ossidazione del Lardo di Colonnata prodotto con due

diverse razze suine

Candidato:

Chiar.mo Prof. Pier Lorenzo Secchiari

Anna Francesca Palagi

Dr.ssa Roberta Nuvoloni

ANNO ACCADEMICO 2010-2011

CORSO DI LAUREA IN SCIENZE E TECNOLOGIE AGRARIE

nutrizionali e stato di

prodotto con due

Candidato:

Anna Francesca Palagi

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RINGRAZIAMENTI

Molte persone, in questi anni, mi sono state vicine, per cui sono tanti coloro che devo ringraziare.

Grazie infinite ai miei genitori e ad Andrea, che in tutti questi anni mi hanno sempre aiutata, sostenuta, incoraggiata ad andare avanti, ascoltata, sopportata. Senza di loro non mi sarei mai laureata.

Grazie ai miei nonni, ai miei suoceri, ai miei zii, soprattutto a mia zia Luisa, e ai miei cugini di Carrara, Massa, Pisa, Firenze e Ancona.

Un sentito ringraziamento al Prof. Pier Lorenzo Secchiari, per avermi dato la possibilità di svolgere questo lavoro di tesi e per la sua gentilezza. Un grazie al Dott. Andrea Serra per la sua disponibilità, la pazienza, e i consigli.

Mille grazie alla Dott.ssa Lucia Guidi e alla Dott.ssa Elena Degl’Innocenti per la fiducia che mi hanno concesso, e per avermi fatto apprezzare il lavoro di laboratorio.

Un immenso grazie a Tania, Davide e Costanza per il sostegno incondizionato e le cene del mercoledì; al gruppo dei supporter più agguerriti Teresa, Alessandro e Luca; a Michela, Pietro e Giovanni per averci sempre creduto e per i bei week-end al mare.

Grazie a Pina, Rosaria e Piero che mi hanno seguita e aiutata per tutto il lungo corso dei miei studi, dalla scuola elementare fino alla laurea.

Grazie ad Alessandro, Ilaria, Marta, Lucia, Pina, Alessio, Luigi, Simona, per l'aiuto e le risate che ci siamo fatti durante le giornate di studio.

Un grazie a Rosanna Bertozzi, ottima amica, solutrice di problemi e indispensabile bibliotecaria; a Barbara e Alessandro per i consigli e per avermi ascoltato in questo ultimo mese disperato.

Grazie agli amici di Carrara: Sara, Valentina, Elena, Massimo, Alessandro, Mario. Un sentito ringraziamento a Gino Batella, Fausto Guadagni, Vittorio Prayer, Paolo Pratali, Luca Del Frate, Lorenzo Corsi, Gino Vatteroni per le informazioni indispensabili che mi hanno fornito e per il tempo dedicatomi.

Grazie infine a coloro che non ci hanno mai creduto, o che nel tempo hanno smesso di farlo, perché hanno fatto sì che io ci credessi.

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SOMMARIO

1 IL LARDO DI COLONNATA ... 6

1.1 STORIA DEL LARDO: FRA IMMAGINAZIONE E FOLKLORE ... 6

1.1.1 Il maiale proibito ... 7

1.1.2 Buono da mangiare arrostito ... 9

1.1.3 Carne e potere ... 12

1.1.4 Il lardo che non c’è ... 14

1.1.5 Dal folklore alla storia... 23

1.2 “CONCHE”, MARMO E MICROCLIMA... 25

1.2.1 Il paese di Colonnata ... 27

1.2.2 Microclima e tradizione della lavorazione secondo il Regolamento (CE) N. 1856/2004 ... 30

1.2.3 Il marmo dei Canaloni ... 34

1.2.4 Dallo spopolamento al successo internazionale ... 38

1.3 LA SAGRA E LA PRIMA “GUERRA” DEL LARDO ... 44

1.3.1 L'Europa mette in pericolo i prodotti tipici ... 46

1.3.2 La lotta per il marchio europeo IGP ... 48

1.4 CONCLUSIONI... 58

2 IL TESSUTO ADIPOSO ... 67

2.1 TESSUTO ADIPOSO BIANCO ... 69

2.2 TESSUTO ADIPOSO BRUNO (MULTILOCULARE) ... 70

2.3 ORGANIZZAZIONE MORFOLOGICA DELL’ADIPOCITA ... 71

2.4 FISIOLOGIA DEL TESSUTO ADIPOSO ... 72

2.4.1 Lipidi provenienti dal circolo sanguigno ... 72

2.4.2 Lipidi sintetizzati dall'adipocita ... 74

2.5 GLI ACIDI GRASSI ... 75

2.6 IL COLESTEROLO ... 76

3 OSSIDAZIONE DEI LIPIDI ... 77

3.1 AUTOSSIDAZIONE: IRRANCIDIMENTO OSSIDATIVO ... 78

3.2 PRODOTTI DELL'OSSIDAZIONE DEGLI ACIDI GRASSI ... 82

3.2.1 Prodotti primari ... 82

3.2.2 Prodotti secondari dell'ossidazione degli acidi grassi ... 84

3.3 OSSIDAZIONE DEL COLESTEROLO ... 85

4 QUALITÀ DEL TESSUTO ADIPOSO ... 87

4.1 QUALITÀ NUTRIZIONALE ... 87

4.1.1 Acidi grassi saturi (SFA) ... 88

4.1.2 Acidi grassi monoinsaturi (MUFA) ... 89

4.1.3 Acidi grassi polinsaturi (PUFA) ... 90

4.1.3.1 Acidi eicosapentanoico (EPA) e docosaesanoico (DHA) ... 91

4.1.3.2 Acido arachidonico (AA) ... 92

4.1.4 Colesterolo ... 93

4.2 QUALITÀ ORGANOLETTICA ... 96

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5 PARTE SPERIMENTALE ... 99

5.1 INTRODUZIONE ... 99

5.2 MATERIALIEMETODI ... 101

5.2.1 Composizione in acidi grassi (FA) ... 102

5.2.2 Composizione in acidi grassi liberi (FFA) ... 103

5.2.3 Prodotti dell'ossidazione degli acidi grassi (TBARs) ... 104

5.2.4 Colesterolo totale e prodotti dell'ossidazione del colesterolo (COPs) ... 104

5.2.5 Analisi statistica ... 106

5.3 RISULTATIEDISCUSSIONE ... 107

5.3.1 Composizione in acidi grassi del lardo ... 107

5.3.2 Colesterolo e prodotti di ossidazione del colesterolo COPs ... 128

5.4 CONCLUSIONI ... 136

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1 Il lardo di Colonnata

1.1 Storia del lardo: fra immaginazione e folklore

Più che di storia, per il lardo di Colonnata, occorrerà parlare di geografia, di cronaca e di cultura popolare.

Affermazioni che vanno, ovviamente, giustificate.

Perché l’idea iniziale, di partire, per questa tesi, dalla storia di questo alimento si è rivelata poco praticabile, anche se non è detto che, con accurate ricerche di archivio e di altro genere, non sia possibile trovare documentazioni in merito, che possano far luce su questa realtà, la sua presenza e incidenza nella vita del paese, il suo peso economico, gli eventuali provvedimenti normativi e legislativi che l’abbiano, via via, nel tempo, riguardata.

La parola lardo esiste già sia nella Grecia antica ( - stèar) che a Roma (lardum), ma aveva significati diversi da quelli di oggi. “I vocabolari vivono e si

deformano... e devono deformarsi” scrive Braudel (1982 a) La parola lardo è

quindi presumibile che abbia una storia, tutta da ricostruire e che, nel corso dei secoli, abbia significato realtà diverse. La parola greca indica semplicemente il “grasso”, come quella latina, da cui è derivata la nostra attuale. E, almeno fino a tempi recenti, questo sembra il significato prevalente: grasso di origine animale da utilizzare come condimento, che poteva essere conservato anche sotto sale, non da mangiare crudo, ma dopo cottura in acqua in modo da dissalarlo.

Scorrendo la bibliografia relativa all’alimentazione dall’antichità ad oggi, all’allevamento e all’utilizzo dei maiali, ci si rende conto che di lardo si parla sempre come condimento e non sembra esistere nessuna documentazione, se non molto recente, su quel salume da consumarsi crudo e sotto sale, che definiamo con questa parola e quindi neanche su quello di Colonnata, mentre il maiale gode sicuramente di una larga presenza e considerazione, positiva o negativa che sia, oltre che negli studi agronomici e scientifici, anche nei documenti storici, letterari, religiosi e archeologici di vario genere.

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1.1.1 Il maiale proibito

Tra i testi antichi, per restare a quelli ancora presenti nella nostra cultura europea, la Bibbia, nel Levitico, nella parte dedicata alla leggi relative alla purità, lo considera immondo e proibisce di allevarlo e di mangiarne la carne, assieme ad altri animali. Nel caso del maiale, “perché ha l’unghia bipartita da una fessura,

ma non rumina, lo considererete immondo” (Lev. 11,7).

Il cristianesimo non detta tabù alimentari e non considera nessun cibo impuro, e quindi neanche il maiale, anche se non viene detto esplicitamente (Mt. 15,17-19) ma la sua immagine conserva un significato negativo e continua ad essere utilizzata per indicare il degrado umano e morale, come nel Vangelo di Luca (15,11 sgg) dove, per misurare lo stato di abiezione del “figliol prodigo”, se ne fa un guardiano di porci.

Presso gli ebrei il tabù resta invece assoluto nei confronti di questo animale, che viveva, in Palestina, allo stato brado e non era molto diverso dal cinghiale, nei tempi più antichi (il salmo 80 parla della vigna devastata dal cinghiale, da intendersi, sembra, come maiale allo stato brado) (Miegge e al., 1968). Al tempo dei Vangeli viene allevato in alcune regioni marginali della Palestina, abitate da non ebrei, nel territorio pagano di “Geràsa”, dove gli spiriti impuri di un indemoniato, vengono fatti entrare, da Gesù, nei porci di una mandria che si getta in mare (Mc. 5,10).

I motivi della proibizione, così assoluta, affondano le loro radici in prescrizioni risalenti sicuramente ad epoche remote, di cui si era già perso il senso in epoca israelitica, e avevano probabilmente poco a che fare con ragioni igienico-sanitarie, visto che il maiale veniva allevato e mangiato, in alcune zone pagane della Palestina ed è del tutto improbabile anche l’ipotesi che si allevassero maiali per i sacrifici di altre religioni.

Molto più realisticamente gli autori moderni concordano sul fatto che il maiale, monogastrico, onnivoro, si deve nutrire, dove mancano i boschi di querce, a differenza di vacche e buoi, di alimenti di cui si nutre anche l’uomo.

Secondo Marvin Harris (1990), il maiale era molto diffuso, durante il neolitico in Palestina e nel Medio Oriente in genere, come sembrano dimostrare gli scavi

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quelli relativi all’età del bronzo (4000 a.C. fino al 2000 a. C.) di molti villaggi mediorientali, dove sono state reperite molte ossa di maiali che rivelano anche il passaggio dalle specie selvatiche a quelle addomesticate.

La sua tabuizzazione sarebbe dovuta alla scomparsa delle foreste, in seguito all’aumento della densità della popolazione e all’avvento dell’agricoltura che, dopo aver eliminato le foreste e degradato il territorio, sarebbe stata sostituita dalla pastorizia. Questa, a sua volta, avrebbe favorito la desertificazione. Il maiale, dopo queste modifiche ambientali, diventato dannoso per l’agricoltura, avrebbe assunto queste caratteristiche di animale paria e impuro, da evitare ( Harris, 1990). Il tabù sarebbe, quindi, il risultato di un calcolo costi-benefici da un punto di vista economico e ambientale e del riconoscimento del vantaggio rappresentato dai ruminanti, perché erbivori e capaci di produrre non tanto carne, ma latte e prodotti derivati, concime e forza lavoro1.

Questo spiegherebbe perché anche altre civiltà e altre religioni, precedenti agli ebrei, avessero tra le loro credenze, la proibizione di allevare e consumare maiali: i fenici, gli egiziani e i babilonesi. Così come, dopo gli ebrei, lo stesso tabù è stato ereditato dall’Islam.

1 Il fatto che il consumo di carne di un determinato animale possa venire colpito da proibizioni e tabù, non sarebbe perciò il risultato di pregiudizi irrazionali, ma risponderebbe a ragioni economiche e si verificherebbe, secondo Marvin Harris (1990), anche in età moderna ogni volta che l’allevamento di un determinato animale diventa diseconomico e dannoso. Agli inizi del 1700 la diffusione dell’allevamento di pecore da lana determina la forte riduzione delle foreste e dell’agricoltura in Scozia e in Irlanda e l’abbandono dell’allevamento dei maiali. Ma questo si accompagna anche alla crescita di un forte discredito del maiale e della sua carne, tanto che anche la sola vista di questo animale viene considerata causa di sfortuna, specie per i naviganti. Una superstizione che, pare, duri ancora oggi.

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1.1.2 Buono da mangiare arrostito

Omero, per andare a un’epoca anteriore di qualche secolo a quella del Levitico, nel canto XIV dell’Odissea, presenta il porcaro Eumeo, significativamente superiore nella gerarchia della reggia di Itaca, al bovaro e al pastore, che offre ospitalità, nella sua capanna, a Ulisse, trasformato in vecchio mendicante irriconoscibile e, per rifocillarlo, va nel porcile e prelevati due porcelli:

“... li uccise ambedue

li strinò e spezzettò, li infilzò agli spiedi.

E arrostitili portò i pezzi e li pose accanto ad Odisseo caldi, con i loro spiedi, li cosparse di bianca farina. Mescé in una ciotola vino dolcissimo,

si sedette di fronte e invitandolo disse:

“Mangia ora, o straniero, quello che posseggono i servi,

i porcelli: i porci grassi li mangiano i proci (Odissea 14, 74-81).

Da questi versi risulta evidente le differenze tra quanto apprezzavano i greci del tempo e noi: un piccolo maiale viene considerato cibo da servi, mentre quelli grossi e particolarmente grassi, sono cibo per gli aristocratici.

Sempre nello stesso canto Omero ci dà altre notizie di come venissero macellati e cucinati i maiali e come fossero particolarmente apprezzati il grasso e il dorso, che viene offerto, in segno di rispetto e onore, all’ospite sconosciuto.

“Essi dunque facevano questi discorsi tra loro, e arrivarono intanto le scrofe e i mandriani. Le chiusero nei loro porcili a dormire:

e dalle scrofe rinchiuse sorse uno strepito immenso. Poi egli ordinò ai compagni, il chiaro mandriano:

«Portate il maiale migliore, perché lo ammazzi per l’ospite venuto da fuori: ne trarremo profitto anche noi, che peniamo da sempre affannandoci per i porci dalle bianche zanne: e gli altri divorano il nostro lavoro senza fatica». Detto così, spaccò la legna col bronzo spietato:

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Al focolare lo tennero ritto, e il porcaro

non trascurò gli immortali, perché aveva un animo pio. Ma, cominciando, gettò nel fuoco peli del capo

del porco dalle bianche zanne e invocò da tutti gli dei che il saggio Odisseo tornasse nella sua casa.

Lo colpì, sollevatosi, con una scheggia di quercia lasciata

da parte; l’anima lo abbandonò. Lo scannarono e abbrustolirono, lo squartarono subito: il porcaro dispose su pingue grasso

i pezzi crudi presi per primi da tutte le membra.

Li gettava nel fuoco dopo avervi cosparsa farina di orzo : spezzettarono gli altri e li infilzarono in spiedi,

li arrostirono e sfilarono tutti con attenzione e li gettarono nei taglieri in un mucchio. Il porcaro si alzò per spartire: perché conosceva la retta maniera. E, spartendo, divise tutto in sette porzioni:

ne offrì una alle Ninfe e ad Ermete, il figlio di Mala, pregando; distribuì le altre a ciascuno;

onorò Odisseo con l’intiera schiena

del porco dalle bianche zanne...”(Odissea 14, 409-438).

La scena evoca un rituale sacro, con l’offerta e l’invocazione agli dei da parte di Eumeo, prima della macellazione. Dopo la cottura, il porcaro divide la carne in sette parti e ne offre una alle Ninfe e ad Ermes il figlio di Maia, prima di distribuirla ai commensali.

La sacralizzazione dell’uccisione, cottura e spartizione della carne del maiale, fa supporre che il consumo di carne avvenisse in particolari momenti, quando si sacrificava agli dei un animale. A Ulisse-mendicante viene offerta, in segno di rispetto, l’intera schiena, la parte da cui, oggi, si ricava il lardo, considerata, evidentemente, nella dieta “mediterranea” dell’epoca, la migliore, da offrire all’ospite, perché più grassa.

I pasti, nei poemi omerici, sembrano solo a base di carne e, ad eccezione del pane, non vengono mai citati prodotti di origine vegetale. Ma non se ne deve trarre la

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conclusione che i greci mangiassero solo carne, perché la società greca era molto più povera di quanto non facciano pensare i poemi omerici, ed era solo l’aristocrazia che si poteva permettere questo lusso e raramente. Eumeo, servo della reggia di Itaca, approfitta del fatto che i proci non lo controllino, per offrire un grosso maiale di 5 anni, un cibo riservato ai signori, al suo ospite.

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12 1.1.3 Carne e potere

Il consumo della carne rappresenta, perciò, uno status symbol dei ceti dominanti, è il cibo dei guerrieri, di quanti devono acquisire forza, coraggio, intraprendenza, superiorità, per combattere e comandare e, in quanto tale viene esibito nei poemi omerici, ma è anche vero che la carne o il cibo di origine animale, costituiscono una fonte di proteine maggiore rispetto ai cibi di origine vegetale.

Anche il “brodo nero” per cui erano famosi gli Spartani e che costituiva la base dei pasti in comune della casta dei dominatori, non sfugge a questa logica: non era affatto, come per tanto tempo si è pensato, un brodo di legumi come le lenticchie, ma una specie di spezzatino di maiale cucinato con sangue e vino, che gli conferivano il colore scuro. Per quanto di sapore pessimo, per cui si diceva che solo la fame, la sete e la fatica lo rendessero commestibile, di fatto si trattava di un cibo “aristocratico”, riservato ai guerrieri e alla casta dominante di Sparta e non certo destinato agli iloti. Consumare carne è segno e rigenerazione dell’appartenenza alla casta dei “belli e buoni”.

Nelle società arcaiche non si ha la stessa concezione del cibo che si ha oggi:

“mangiare - ha scritto André Varagnac, (1982) - non è semplicemente ... nutrirsi; è qualcosa di più: mantenere in sé la forza, la vita nel senso più generale. L’alimento è sacro... Il senso di venerazione per il cibo è così potente che sembra necessario ridurre, con atti appropriati, la forza occulta delle derrate alimentari, altrimenti … potrebbe essere pericolosa”.

Anche in epoca successiva, lo ricorda Massimo Montanari (2010), si riscontra questo rapporto esplicito tra consumo di carne, potere e sacralità. “Nella cultura

dei ceti dominanti” la carne viene concepita come “simbolo del potere, lo strumento per costruire energia fisica, vigore, capacità di combattere ... astenersi dalla carne è un segno di umiliazione, di emarginazione...” Perciò nei Capitolari

dei franchi, ad esempio, si stabilisce che chi deve rinunciare a portare e usare le armi, magari per un delitto grave, come l’omicidio di un vescovo, deve anche rinunciare all’alimentazione con la carne. Armi e carne sono quindi associati nel definire l’appartenenza alla feudalità e ai ceti privilegiati.

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Si tratta per certi versi di valori molto simili tra le classi aristocratiche greco-latine e “barbariche”, la carne è riservata ai guerrieri e alla aristocrazia, ma con alcune differenze di fondo. Per i greci e i latini la base dell'alimentazione sono il grano, il vino, l'olio e, in aggiunta, ci sono i latticini. Il consumo della carne è sporadico e quasi assente tra gli agricoltori e i lavoratori in genere. Il sistema di alimentazione “mediterraneo” - scrive ancora Massimo Montanari - è “a forte caratterizzazione vegetale, basato sulle farinate e sul pane, sul vino, sull'olio, sulle verdure: il tutto integrato da un po' di carne e soprattutto dal formaggio”. Mentre la carne costituisce il valore alimentare per eccellenza presso i “barbari”. “Le popolazioni celtiche e germaniche avvezze a percorrere le grandi foreste del Centro e del Nord Europa avevano sviluppato una forte predilezione per lo sfruttamento della natura vergine e degli spazi incolti. La caccia, la pesca, la raccolta dei frutti selvatici, l'allevamento brado nei boschi (soprattutto maiali, ma anche equini e bovini) erano attività centrali e caratterizzanti del loro sistema di vita” (Montanari, 2010). Non si beveva vino, ma il latte e i suoi derivati, il sidro derivato dalla fermentazione dei frutti selvatici e la cervogia, risultato della fermentazione dei pochi cereali che venivano coltivati nelle radure. Come condimenti per cucinare, vengono utilizzati burro e lardo. Si tratta perciò di due modelli di alimentazione molto diversi e, per lungo tempo contrapposti, per motivi materiali oggettivi e di identità culturale, ma che non si escludono totalmente. I romani si cibavano anche di carne di maiale e utilizzavano il lardo come condimento, mentre celti e germani avevano nella loro dieta anche avena e orzo (ma non il pane). La distinzione di fondo sta nel diverso peso e nel diverso senso che i singoli alimenti assumono nel regime alimentare di ciascun popolo. Se i popoli mediterranei hanno una loro “pianta di civiltà”, il grano, come altri il mais o il riso o il sorgo, intono a cui si sviluppa e organizza la loro storia, non si può dire altrettanto per i celti e i germani, per i quali Montanari parla invece di un “animale di civiltà”, il maiale appunto, intorno a cui si viene strutturando la loro cultura, i loro miti e la loro storia.

Quando a partire dal terzo secolo la civiltà del grano si incontra e scontra con la civiltà del maiale, non sono solo due sistemi alimentari che entrano in conflitto e

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concepire la vita. Montanari rileva che mentre gli imperatori romani vengono apprezzati per la sobrietà e la frugalità a tavola e per il predominio, nelle loro diete, di prodotti dell'agricoltura fino al limite dell'esclusione totale della carne, i modelli “barbarici” esaltano come segno di forza, nobiltà, capacità guerriere e virilità, la voracità del grande mangiatore e del bevitore smodato. Già Aristofane - ricorda ancora Montanari (2010) – aveva notato che “i barbari si credono uomini solo se sei capace di mangiare una montagna”. E sarà pure una leggenda, ma esprime bene i valori fondamentali di una cultura, quella che narra come mai, quando si estinse la dinastia carolingia, Guido, Duca di Spoleto, non riuscì a diventare re di Francia, perché si era dimostrato troppo sobrio nel mangiare e bere agli occhi dei suoi possibili sostenitori.

1.1.4 Il lardo che non c’è

Le citazioni di autori antichi e meno antichi che, a titolo diverso, si occupano del maiale, del suo grasso, del suo allevamento e della conservazione delle sue carni, si potrebbero moltiplicare, ma sostanzialmente non aggiungerebbero molto a quanto detto fin qui, per quanto riguarda l’argomento del lardo utilizzato come cibo e non solo come condimento2.

Già dalle poche citazioni fatte, si ricava che il maiale, allevato o allo stato brado o del tutto selvatico era, in Grecia e poi a Roma, l’animale più utilizzato per l’alimentazione (capre, pecore, vacche e buoi, che servivano per la produzione di latte e formaggio o come forza per il lavoro e il trasporto, non venivano allevati per la loro carne) e che la carne in genere veniva consumata solo da una piccola porzione della popolazione, probabilmente non spesso e in occasioni di feste e cerimonie religiose. Anche perché se, da una parte, l’abitudine di cibarsi di carne è

2 Solo nel trattatello De Observatione ciborum di Antimo, unica testimonianza dell’alimentazione giunta a noi di tutto il periodo altomedievale, si trova un riferimento al lardo consumato crudo. L’autore, medico della corte bizantina, nemico dei cibi crudi e propagandista della dieta mediterranea che culmina nel pane, è costretto, forse a causa di un tradimento, a passare al servizio di Teodorico, a Ravenna. Da lui, nel 511, viene inviato, come componente di una ambasceria, presso i Franchi. Conosce bene quindi l’ambiente germanico e le relative abitudini alimentari, a cui cerca di opporsi, in special modo per quanto riguarda il consumo di carne cruda. Nel suo soggiorno in Francia, sente dire che i franchi mangiano lardo crudo e che questo rappresenta, per loro, una specie di farmaco universale, utilizzato per curare ogni tipo di malattia. La notizia è di seconda mano e non viene verificata da Antimo, che mostra interesse soprattutto all’aspetto medico del consumo di lardo crudo, perché in diretto contrasto con la sua concezione che i cibi crudi siano nocivi alla salute. Su cosa poi si debba intendere per lardo crudo, non ci dà notizie, ma non sembrerebbe trattarsi di lardo conservato sotto sale o in salamoia o affumicato.

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un segno di potere e distinzione, da un’altra è condannata, in modo assoluto, da alcuni filosofi, come Pitagora, mentre la medicina la guarda con diffidenza.

Per quanto riguarda il medioevo, si trovano testimonianze del consumo crescente di carne e quindi, soprattutto di quella di maiale, a partire dal sesto secolo e fino al 1000 circa.

I “barbari” di origine germanica, che impongono il loro dominio, in Francia, Germania, Italia e nel nord Europa, sono grandi mangiatori di carne e quindi impongono i loro modelli alimentari nelle regioni che conquistano, anche se, nello stesso tempo, finiscono per venir influenzati a loro volta dai tipi di alimentazione e di produzione del cibo che vi trovano3. L’Italia in particolare, nel sesto secolo, conosce, prima, per le devastanti guerre tra ostrogoti e bizantini e, successivamente, per la conquista e il dominio militare da parte dei longobardi, dell’Italia settentrionale e di vaste zone di quella centrale e meridionale, una fortissima riduzione della popolazione a cui contribuiscono anche gravi pestilenze. Questo ha come conseguenza di lungo periodo la diffusione dei boschi e l’abbandono di molti degli spazi fino ad allora coltivati intensivamente, il ritorno di molte aree allo stato paludoso. Si delinea così un sistema di produzione del cibo composito in cui, accanto ad aree coltivate a cerali e ortaggi, ci sono terreni che vengono sfruttati solo estensivamente, prati naturali e i boschi che permettono la raccolta di frutti selvatici e la caccia, ma soprattutto l’allevamento brado di animali, in particolare maiali. A questo si aggiungono i proventi della pesca. La dieta alimentare è perciò relativamente ampia e diversificata e offre una maggiore difesa contro le carestie (che però possono colpire anche il bosco), in quanto accanto agli alimenti di origine vegetale, c’è la carne, il pesce, il latte, il formaggio, le uova.

A beneficiare di questo più ricco e differenziato regime alimentare, non sono solo i ceti dominanti, ma, sia pure con gradazioni diverse, anche i contadini, i servi, i

3 “Tra il tempo di Apicio e il XIV secolo” si sarebbe verificata una modificazione profonda nell’alimentazione italiana, “ senza dubbio, al momento delle invasioni barbariche che potrebbero essere responsabili, almeno in parte, dello sviluppo della cucina al lardo in Italia e Gallia”. (Flandrin J.L.,1983). Ma questo sarebbe anche dovuto all’influenza della Chiesa e all'imposizione in tutta Europa, della distinzione fra giorni e periodi in cui era possibile mangiare carne e quelli di magro, che avrebbe introdotto una certa unificazione alimentare in Occidente. In Italia, dove

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lavoratori, gli artigiani, perché, data la diminuzione della popolazione, il rapporto tra questa e le risorse è, rispetto al passato, molto migliore e consente “di raggiungere il livello di sopravvivenza anche con un sistema produttivo scarsamente redditizio, come quello basato sullo sfruttamento estensivo degli incolti”(Montanari, 2010).

Dopo il 1000, il consumo di carne diminuisce, almeno per le classi povere e i contadini, sia per l’aumento della popolazione, sia per la conseguente necessità di messa a coltura di nuovi terreni, e quindi del disboscamento, sia per l’appropriazione da parte delle classi dominanti dei diritti sui terreni aperti, fino ad allora a disposizione delle collettività, cosa che abbassa la qualità della vita e dell’alimentazione di contadini, artigiani, poveri.

E, sia pure con ondeggiamenti anche molto notevoli, questa tendenza al peggioramento delle condizioni alimentari della maggior parte della popolazione europea raggiunge il suo culmine, almeno secondo quanto afferma Flandrin, tra il 1700 e il 1800. Nonostante l’accresciuta produttività dell’agricoltura e i progressi della zootecnia, il frumento e la carne, per l’aumento demografico che caratterizza questo periodo della storia europea, sono sempre più scarsi nell'alimentazione di tutti i ceti medio-bassi. Pietro Camporesi (1978), che sembra anticipare al ‘600, questo momento catastrofico, in cui la disponibilità alimentare pro capite raggiunge il suo minimo storico, fornisce, nelle sue ricerche, un quadro molto drammatico delle “turbe cenciose di miserabili pitocchi”, di uomini-nulla che si aggirano affamati in ogni parte d’Europa, e costituiscono una costante così ampia del paesaggio umano, da alimentare un’intera corrente della pittura e dell’incisione, dedite alla loro raffigurazione.

C’è, però, un dato paradossale di cui, dice ancora Montanari, occorre tener conto nella ricostruzione di questa lunga epoca di fame e miseria. I ceti popolari che “vivono in condizioni di maggiore sicurezza (che non vuol dire migliori, ma solamente più stabili, meno soggette a crisi acute) non sono già nelle zone di intensa urbanizzazione e sviluppo agricolo, bensì in quelle marginali, meno coltivate, meno urbanizzate, meno coinvolte nei circuiti commerciali”. L’esempio che Montanari riporta è quello dell’Alvernia, dove, nelle zone pianeggianti e intensivamente utilizzate dall’agricoltura, con la coltivazione di cereali e vigna,

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l’alimentazione contadina risulta molto più monotona e povera di vitamine e di proteine animali, di quella della popolazione che vive in montagna, dove la pastorizia e la raccolta di castagne permette, nonostante l’isolamento dalla modernità, un’alimentazione più equilibrata e abbondante”(Montanari, 2010). E’ possibile pensare a qualcosa di analogo per Colonnata? Che l’allevamento del maiale e la conservazione del suo lardo in conche di marmo, abbiano rappresentato le forme di resistenza adottate da un paese marginale, mal collegato alla città, isolato tra i monti, di fronte alle crisi alimentari che caratterizzano ancora la seconda metà dell’800, quando, nel nostro Paese, la fame e la pellagra devastavano le campagne? Ma su questo tema delle resistenza del paese alla fame e alla povertà alimentare, tornerò alla fine di questo capitolo.

Le considerazioni fin qui fatte non pretendono affatto di essere definitive. Il fatto che sia molto difficile trovare dati e documenti, relativi all’argomento lardo, per quanto riguarda i secoli passati, non significa che non ce ne siano in archivi, biblioteche o altro ancora.

La storia dell’alimentazione potrà portare a nuove scoperte e a chiarire molte cose, dato che è una disciplina relativamente recente, che trova la sua collocazione all’interno della storia della vita e della cultura materiale e di lunga durata, quella attenta «“ai gesti ripetuti, alle storie silenziose e quasi dimenticate dagli uomini, alle realtà di lunga durata il cui peso è stato immenso e il rumore appena percettibile” (Braudel). La storia maggioritaria (cioè della maggioranza degli uomini. Ndr) è fatta dagli oggetti, dagli utensili, dai gesti dell’uomo comune; solo questa vita lo tocca nella sua quotidianità, assorbe i suoi pensieri e i suoi atti», (Pesez, 1980).

In sintesi: rispetto ai grassi, e a quello di maiale in particolare, l’atteggiamento dell’antichità fino a tutto il medioevo e l’età moderna fino al 1700, è ambivalente. Si va dall’incondizionato apprezzamento dei poemi omerici (dove però si definiscono gli uomini come “mangiatori di pane” (Montanari, 2010) e dall’esaltazione dei “mangioni barbarici”, alle riserve romane nei confronti del consumo delle carni e all’esaltazione della frugalità e delle diete vegetariane di molti imperatori; al trionfo della carne come fondamento dell’alimentazione,

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severe della Chiesa di mangiare carne e grassi di origine animale in molti periodi e giorni dell’anno. Le norme dietetiche dei “nutrizionisti”, tra il 1200 e il 1700, appaiono costantemente oscillare tra condanne e promozioni dei consumi della carne e dei grassi di origine animale. I grassi di origine animale, se consumati come cibo, produrrebbero sangue “umido e denso”, sarebbero di difficile digeribilità, nutrirebbero male e poco e determinerebbero la comparsa di molti disturbi per lo stomaco, il ventre e il cervello (Flandrin, 1983). Ma anche come condimento devono essere utilizzati in modo moderato e prudente, per cui, prima di bollire capponi, polli o montoni, - suggeriscono, ad esempio, i libri di cucina del 1600 - 1700 - le loro carni vanno sgrassate e la stessa sorte deve subire il brodo di carne, perché non ci sarebbe niente di più insopportabile che veder galleggiare del grasso sul “potage”. Nello stesso tempo, però, gli stessi libri di cucina, consigliano di mettere nella pentola più pezzi di lardo, per fare brodo, potage o intingoli, perché restano integri e non si trasformano in strato di grasso galleggiante sulla superficie. Allo stesso modo, si suggerisce di ricoprire abbondantemente di lardo, prima della cottura, il brasato e l’arrosto. Flandrin aggiunge che questo gusto per il lardo si è venuto accentuando dal medioevo al 1700, non solo perché i grassi erano allora meno diffusi e più cari, ma perché il gusto e la cucina medievale erano meno orientati per il grasso in generale4.

Dopo queste osservazioni storiche, si può ragionevolmente sostenere che il lardo sotto sale5, da consumare come companatico e non da utilizzare come condimento – come appunto anche quello di Colonnata -, non sembra avere antenati né in Grecia né a Roma né per molti dei secoli successivi e fino almeno a tutto il 1700. Per lo meno non sono ancora stati individuati, anche se continua ad esserci chi dà per scontata, senza prove, una discendenza diretta di quello attuale dai tempi di Roma, della conquista della zona apuana e dell’apertura delle prime cave, con l’utilizzo del lavoro degli schiavi, dopo il 180 a. C.

4 Flandrin (1983) commenta anche, riportando le sue analisi all’attualità, che “se oggi si va perdendo questo gusto per il lardo “grigliato”, non è solo come conseguenza di considerazioni dietetiche, ma anche perché non c’è più del buon lardo!”.

5 La scuola medica Salernitana ad esempio, prescriveva: “Il lardo se sarà affumicato, come si usa con i prosciutti, diverrà secco e chi lo mangerà non ne troverà giovamento, se invece verrà mangiato lessato e raffreddato sarà ben digerito”.

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Non è facile neanche o forse è impossibile, individuare il momento in cui il lardo abbia assunto la caratteristica di cibo a sé e non sia stato più considerato solo come condimento. Ci sono culture e aree geografiche che non hanno conosciuto o ancora non conoscono questa dimensione del lardo. Lo testimoniano, ad esempio, per l’800, Zola, che nel Ventre di Parigi, descrive i banchi dei salumieri nei mercati generali di Le Halles, in cui il lardo, che pure viene citato, sembra essere di complemento alla preparazione di altre vivande o il volume di Jean-Paul Aron (1978), “La Francia a tavola. Dall’Ottocento alla Belle Epoque”, che parlando del

successo della carne di montone nei ricettari dell’epoca, nota che il maiale non è quasi mai presente come piatto a sé, anche se è il protagonista degli antipasti. Nei quali però il lardo non viene mai citato.

E’ significativo, per venire ad oggi, che un’opera del 2003, “Il lardo nell’alimentazione toscana dall’antichità ai nostri giorni”, in cui è evidente l’intenzione di sostenere l'allargamento alla provincia dell’IGP richiesto da Colonnata, di fatto tradisca le attese dei lettori e non parli e non sia in grado di ricostruire la storia del lardo. Salvo le poche pagine iniziali della relazione “tecnica” sulle caratteristiche organolettiche del lardo, stesa da Carlo Galoppini, nelle altre relazioni si parla molto di allevamento, di conservazione e di consumo delle carni di maiale nel mondo romano, o a Massa, alla fine del medioevo e nei secoli successivi, si censiscono le conche più antiche della Lunigiana e della Garfagnana6, ma la storia del lardo non c’è e anche quando lo si nomina, di fatto, ci si riferisce a realtà molto diverse da quella attuale. Il senso delle parole appunto cambia, e di questo andrebbe reso conto.

6 Secondo Francesca Trecroci (2003) la più antica conca ritrovata risale al 1649 ed è conservata a Montignoso. Sul fronte presenta un “bassorilievo raffigurante il maiale, la mezza luna e la terra”. La presenza del simbolo della luna sarebbe da mettere in relazione con la pratica tradizionale della macellazione del maiale a luna calante.

Quando un gruppo di esportatori spagnoli di lardo sporge denuncia contro l’Associazione dei produttori di lardo di Colonnata, perché il riconoscimento di IGP, limitato al paese, avrebbe danneggiato le loro esportazioni verso la Provincia di Massa Carrara, svelando che esiste quindi, fuori del paese, produzione di lardo di Colonnata, con carni spagnole (area di provenienza non contemplata nel disciplinare) ne approfitta, sarcastico e sibillino, Fausto Guadagni, presidente dell’Associazione, per screditare “la famosa vasca da lardo, datata XVII secolo, rinvenuta nella Villa Schiff-Giorgini, prova irrefutabile della storicità della loro produzione, che a detta del Consorzio riportava un maiale sormontato dalla luna dell’antica Luni, si è scoperto che l’animale è

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La storia del lardo può essere anche immaginata, sognata, ipotizzata fantasticamente e questo forse è più dannoso che non il disinteresse che lo ha circondato, nel corso dei secoli, come materia non degna di essere ricordata e tramandata.

Ne è un esempio, l’opera “Il Lardo di Colonnata. La via bianca del gusto tra i marmi di Carrara”, (Barberis, 2003), importante, perché attraverso le fotografie, belle e numerose, documenta pienamente la vita di Colonnata, intorno al suo lardo, il modo di lavorarlo, le conche, le cave e l’escavazione, il paesaggio prodotto esclusivo del lavoro umano, i monumenti, i personaggi, le larderie e le cantine. Un vero e proprio archivio di documentazione per quella storia materiale e di lunga durata, attenta al quotidiano, che dovrebbe poter recuperare le vicende che hanno portato alla cultura e alla produzione del lardo tipico, da parte del paese di Colonnata. Ma, se dalle foto si passa ai testi, o, più nello specifico, a quello di maggior impegno storiografico, “Il Genius loci” di Orazio Olivieri (2003), i conti storici, per quanto si parli di lardo, non sono affatto convincenti. Perché l’autore vuole sostenere e dimostrare la tesi che il lardo di Colonnata ha i suoi quarti di nobiltà nell’epoca romana, da quando nella zona venne iniziata l’escavazione del marmo, anche se presenta, ma solo per dimenticarsene subito, altre ipotesi: che il metodo di produzione del lardo del paese sia stato portato dai longobardi, o sia stato invece “una performance di stretta marca indigena, da collocare nell’età

comunale, quando indubbiamente si sviluppò una intensa attività locale di allevamento dei maiali” (Olivieri, 2003). Affermazioni tutte plausibili, ma non

accompagnate da nessuna prova - non basta un sillogismo dalla logica incerta: il lardo è cibo energetico; i cavatori, che fanno un lavoro faticoso, hanno bisogno di cibi energetici, perciò a Colonnata venivano allevati maiali al fine di produrre il lardo in conca - per permettere una ricostruzione storica accettabile.

Nel tentativo di dare loro plausibilità, si aprono altre contraddizioni: “Presso gli

antichi romani l’alimentazione basata su vegetali o derivati del latte è molto diffusa e la carne non compare frequentemente nelle mense”... “Anche il lardo ha un’importanza che certamente la letteratura non lascia trasparire, ... emerge chiaramente come questo sia il nutrimento dei poveri, di coloro che sono soggetti

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a lavori pesanti...(Olivieri, 2003). La carne di maiale, quindi, come privilegio

degli schiavi in un epoca in cui la dieta è a base di prodotti vegetali e latticini?

“Ancora nel secolo IV (sic. Ma, citando, l’autore, il codice di Giustiniano, si tratta

di un errore di trascrizione e si deve leggere VI secolo, ndr) ... un giorno su tre ne

viene distribuita una razione ai soldati durante le spedizioni, a conferma del fatto che il lardo continua ad essere ritenuto insostituibile per l’organismo esposto a sforzi fisici intensi e prolungati”(Olivieri, 2003) come se cavatori (schiavi) o

contadini potessero essere equiparati, nel trattamento alimentare, ai soldati, categoria privilegiata e molto potente, nel periodo della decadenza di Roma. Che il lavoro alle cave potesse essere massacrante è più che probabile, ma che, per permettere, agli schiavi e ad altri eventuali lavoratori liberi, di sostenerlo, si desse loro del lardo, è difficile anche solo da immaginare. Non c’era e non c’era mai stata questa attenzione e sensibilità nei confronti dei lavoratori manuali e degli schiavi in particolare7.

“Su questa base di partenza” si sarebbe poi “innestato... - sempre secondo

l’autore - il fattore longobardo”, che avrebbe consolidato, a Colonnata, la tradizione “orientata al consumo della carne di maiale”, dato, appunto, il tipo di lavoro faticoso che vi si svolgeva (Olivieri, 2003).

L’autore si preoccupa anche, per rafforzare la sua tesi, di precisare che non sarebbero stati i longobardi a favorire il passaggio dal consumo della carne cotta a quello della carne cruda, grazie ai sistemi “di conservazione che ancora oggi vediamo in uso”, perché questi sarebbero già stati adottati al tempo dei romani e, quindi, anche a Colonnata.

Il teorema che pretende di individuare un’origine romana per il lardo di Colonnata, come conseguenza del duro lavoro delle cave, viene sviluppato

7 Senza considerare che quando si parla di alimenti, non basta limitarci a considerare i grassi: “bisogna sempre vedere, in ogni regime alimentare, come si combinano gli elementi nutritivi ... l’elemento di equilibrio è la quantità di proteine disponibile. Di fatto tutta l’alimentazione si basa sulla combinazione necessariamente armonica di protidi, lipidi e glucidi. La carenza di protidi fa sì che il regime alimentare non riesca ad assicurare buone condizioni di vita; in altri termini, nel quadro di un regime alimentare, essa non è compensata da una sovrabbondanza di grassi (lipidi) o di glucidi (zuccheri): è un carenza irreparabile. Le conseguenze sono immediate: una maggiore

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ulteriormente con argomenti speciosi, da quelli lessicali8 a quelli culinari9, a quelli

economico – commerciali.

Risponde infatti allo stesso pregiudizio di nobilitazione del lardo l’affermazione che “... in certi casi, continua a essere considerato allo stesso tempo compenso in

natura e sostentamento nei lavori pesanti. Come interpretare il fatto che nel VII secolo i magistri comacini ne ricevono 10 libbre prima di iniziare il loro lavoro?”

(Olivieri,2003).

In un’epoca di rarefazione della circolazione della moneta, il baratto non rappresenta un’eccezione e quando si dovevano ingaggiare maestranze itineranti, altamente specializzate, un anticipo in generi di prima necessità, era probabilmente la norma. Ma anche in questo caso, la parola lardo indica solo il grasso di maiale da utilizzare come condimento e non il tipo di conservazione né la sua qualità.

Soprattutto, l’autore dimentica che, tra la fine dell’Impero romano, nel V secolo d. C. e la fine del XII secolo, quando troviamo segnali di ripresa dell’escavazione del marmo, le cave di Carrara restano inattive e abbandonate e il marmo che circola in Italia ed Europa, è quello di recupero da monumenti di epoca romana (Klapisch-Zuber, 1973).

In altre parole, il lavoro massacrante alle cave, che dovrebbe giustificare la sopravvivenza del consumo di lardo, nella zona e quindi la sua produzione, non c’è per sette secoli, perché si è smesso di cavare marmi. Il collegamento “origini romane della produzione del lardo” e “lavoro massacrante dei lavoratori alle cave”, in questi secoli, sicuramente non ha ragion d’essere.

Se appare del tutto improbabile questo collegamento per l’età romana, lo diventa ancora di più per i lunghi secoli di scomparsa delle cave, nell’alto medioevo.

8 Il termine salamoia – salamora, “di chiarissima impronta latina” (Olivieri, 2003), viene portato a sostegno della discendenza romana del lardo come se fosse vocabolo esclusivo di Colonnata. Cfr., invece, il lemma “salamoia” in Luciano Luciani (2003), che ne attesta la presenza diffusa nell’italiano antico, e, con varianti, anche a Gragnana, a Parma, a Bologna, in Abruzzo, ecc. 9 Le analogie che vengono indicate come dimostrative dell’origine romana, tra la produzione del “garum” e dell’ “hallex” e quella, attuale, del lardo, non provano niente. Il garum veniva prodotto attraverso la macerazione di frattaglie di pesce, disposte a strati alternati con erbe aromatiche e sale, per ottenere, mediante successiva pigiatura, un condimento liquido. L’allec era lo scarto che restava dopo la produzione del garum e costituiva un condimento di scarso valore, che il poco generoso Catone il Censore consigliava di dare agli schiavi. Non c’è niente che giustifichi l’affermazione che “L’applicazione del processo produttivo dell’allec al lardo diventa la soluzione ideale...”, (Olivieri, 2003).

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Lo “starting point” del lardo, “gli indizi che riportano la sua origine all’epoca

romana” non sono molto convincenti, come invece scrive Olivieri (2003).

Come è indimostrata, oltre che poco probabile, l’affermazione che “il lardo di

Colonnata rappresent(i) il punto di incontro della tradizione culturale romana con quella celtica degli antichi abitatori locali, i liguri apuani, i quali, come è noto, erano nettamente orientati ai consumi suinicoli” (Olivieri 2003).

1.1.5 Dal folklore alla storia

Dopo i grandi testi letterari, citati all’inizio, un altro testo poetico, anche se minore e modesto e molto più recente, appartenente al folklore locale, aiuta a collocare storicamente, se non le origini e l’“invenzione del lardo in conca” di Colonnata, almeno la sua fama e il suo apprezzamento, il riconoscimento della sua eccellenza in un’area, dove, con analoghe tecniche di preparazione, conservazione, stagionatura, confezionamento, si producevano lardi considerati di qualità inferiore.

Si tratta di una filastrocca raccolta da Rosa Maria Galleni Pellegrini, una ricercatrice locale, che la fa risalire alla fine del 1800.

Torta d’rìs d’ Toràn castagnàz d’Bdizàn rapìn d’Bèrzla patate di Castelpòz lard d’Colonata èc fat na bela magnata.

Alla fine dell’800 era quindi già nota e riconosciuta, sia pure a livello locale, la superiorità del lardo di Colonnata, rispetto agli altri lardi prodotti in loco o provenienti da fuori.

Una testimonianza più recente, ma significativa, degli anni '50 del novecento, sulla qualità superiore del lardo di Colonnata è quella di Luigi Veronelli che ricorda di averlo assaggiato per la prima volta da Mino Maccari, al Cinquale e di

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con grandi sforzi fisici, data la strada impervia, in bicicletta, fino a Colonnata (Barberis, 2003)10.

Una prima conclusione che si può tirare da queste considerazioni è che, allo stato attuale, dalle conoscenze documentarie che abbiamo, una storia del lardo di Colonnata e delle sue origini non è ricostruibile. Niente che provi le origini romane del lardo e incerto, anche se possibile, che esistesse il paese già in quell’epoca. Molto più probabile che il lardo risalga all’età comunale, come scrive Enrico Dolci (1993). Nulla vieta di pensare e sperare che la ricerca possa reperire altre fonti e altri documenti d’archivio o di altro genere, che permettano approfondimenti e ricostruzioni più dirette e puntuali. Ma, ad oggi, mi sembra si possa solo dire che se il lardo di Colonnata ha una sua evidenza particolare ed eccezionale, anche a livello internazionale, a differenza di quello prodotto da altre parti, compresi i paesi a monte di Carrara, questo dipende dalle sue qualità organolettiche e non dalla sua storia.

10 Data la vicinanza dell’abitazione di Maccari e Veronesi, a Montignoso e Massa, raggiungibili agevolmente per una strada pianeggiante, se il lardo di queste località fosse stato della qualità di quello di Colonnata, perché fare tanta fatica per andare a degustarlo da un’altra parte? E’ che il lardo di Colonnata, allora, a Montignoso e a Massa probabilmente non veniva né prodotto né, soprattutto, commercializzato.

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1.2 “Conche”, marmo e microclima

Data la necessità di dare, in qualche modo, fondamenta all’improbabile tesi storica del lardo, invenzione e cibo energetico dei cavatori fin dai tempi di Roma, Olivieri, ne cerca la giustificazione nella sua “unicità” in epoca contemporanea, ponendosi una domanda cruciale, che, di fatto, finisce per mettere in discussione proprio le sue conclusioni: “Se la nascita del lardo di Colonnata è legata alla

cultura del marmo di questo piccolo borgo, perché il suo caratteristico processo produttivo non si è poi diffuso in tutto l’ambiente delle cave, nel più ampio contesto marmifero della montagna carrarese?”(Olivieri, 2003).

Per la risposta si affida però a un argomento ancor più debole di quelli utilizzati per la ricostruzione del passato. Sulla base dei ricordi di un dipendente della Montecatini Marmi, narrati, a oltre 50 anni dall’osservazione, a un cronista locale, che solo i cavatori colonnatesi facessero colazione con pane e lardo, mentre gli altri, provenienti da altre località, consumavano altri companatici, deduce che “il

lardo ha rappresentato per i colonnatesi e solo per loro, il vero “pasto del cavatore” (Olivieri, 2003). Questa dovrebbe essere la prova che solo a Colonnata

si produceva di lardo.

Ma a meno di non ritenere i cavatori dei grandi e raffinati gourmet, che piuttosto che pasteggiare con lardo non prodotto a Colonnata, andavano a lavorare alle cave, con altri tipi di companatico, rinunciando a usufruire di questo cibo energetico, inventato e destinato ai lavori massacranti, la testimonianza giornalistica, riportata da Olivieri, sul lardo di Colonnata, vero “pasto del cavatore”, riservato esclusivamente ai colonnatesi, appare priva di senso.

Perché la tesi che il lardo salato, stagionato e conservato in conche di marmo, sia una prerogativa esclusiva di questo paese, non è vera. Anche se è molto probabile che non ci fosse, negli altri paesi, l’intensità e l’impegno, cioè la cultura della produzione del lardo che c’era a Colonnata11.

11 Ad esempio, Bedizzano è poco distante da Colonnata, ha un’altitudine minore, ma un microclima molto più simile a quello di Colonnata che non Massa o Montignoso; ha una analoga storia economico-sociale, essendo un paese di cavatori, eppure non ha mai avuto, stando alle

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La produzione e conservazione del lardo in conche, secondo i metodi riscontrati a Colonnata, è attestata, per il passato e per il presente, in tutti i paesi delle cave e in un’area più estesa tra Lunigiana e Garfagnana. Francesca Trecroci (2003), nella sua tesi di archeologia della produzione, partendo da Colonnata, ha censito 142 conche antiche, di marmo e pietra, anche risalenti al ‘600, ad Antona, Bedizzano, Caglieglia, Canevara, Casette, Casola, Castagnola, Castelnuovo Magra, Castelpoggio, Codiponte, Colonnata, Gragnana, Massa, Montignoso, Resceto Torano, Vigneta, Camporgiano, Castiglione di Garfagnana, Gorfigliano, Isola Santa, Minucciano, Pontecosi, Sillano, Vagli di Sopra, Vagli di Sotto.

In Garfagnana ha trovate testimonianze anche di recipienti in castagno sempre destinati alla preparazione e conservazione del lardo. La produzione del lardo, secondo il metodo tradizionale di Colonnata, è quindi diffusa tra i paesi delle cave e oltre ed è attestata, se non altro dall’esistenza di conche del ‘600, da almeno 4 secoli.

La domanda di Olivieri (2003) sul perché il lardo in conca e “il suo caratteristico

processo produttivo non si sia diffuso, nel più ampio contesto marmifero della montagna carrarese”, va perciò riformulata, chiedendosi come mai il lardo di

Colonnata abbia conosciuto un successo e riconoscimenti che altre produzioni simili, in altri paesi del circondario non hanno avuto. Le risposte che si possono prospettare non riguardano la sua storia, che è avvolta nel mistero e forse è destinata a restare tale per sempre; non sono necessarie rivendicazioni di antichissima nobiltà storica, per dire che il lardo in conche di marmo di Colonnata, ha, comunque, un’origine lontana e che il suo successo sta tutto nella sua qualità, riconosciuta e nota anche nell’ambito territoriale circostante, che pure produceva egualmente lardo, ma di qualità notoriamente inferiore, anche se con analoghe modalità e utilizzando conche di marmo.

“La spiegazione - scrive Olivieri (2003) - è nei fattori di specificità di Colonnata. Nel microclima, anzitutto”. E su questo sembra giusto concordare.

E’ un’assurdità pensare che la “denominazione” lardo di Colonnata, “non derivi

dalla località nel quale esso è prodotto, ma dalla località di provenienza del materiale con cui sono realizzati i contenitori nei quali esso viene conservato (conche di marmo estratte dalle cave dei Canaloni)” come sostengono i

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produttori di salumi, esterni a Colonnata (Pappalardo e al., 2004), perché, a parte il fatto che le conche non sono solo contenitori per “conservare” il lardo, ma per produrlo, non è credibile che dalle località produttrici anche loro di marmo, come Caglieglia, Casette, Gragnana, Torano, Minucciano, in cui sono state censite conche antiche, ma anche da tutta la Garfagnana e la Lunigiana ecc., si venisse ad approvvigionarsi di conche o di marmo dei Canaloni, nel ‘600 o nei secoli successivi e fin quasi ad oggi, fino al momento in cui cioè il lardo di Colonnata è diventato famoso a livello internazionale e ha prospettato un business importante legato al nome del paese.

Avendo visto conche di marmo di altra provenienza da quella dei Canaloni, presso qualche produttore esterno all’area IGP, e considerato che, tra quelle censite come storiche, ce ne sono anche di pietra (il 30 %), senza contare i barili di legno, è certo che la produzione del lardo, secondo le tecniche di Colonnata, non prende il nome dal marmo, ma dal paese il cui lardo era già considerato superiore dalla fine dell’800 almeno.

Del resto si potrebbe raggiungere facilmente la prova, se ce ne fosse bisogno, che le conche fuori dalle immediate vicinanze di Colonnata erano di altro marmo: basterebbe fare le analisi chimiche e mineralogiche per verificare se provengono dai Canaloni o sono di altre cave, come è del tutto logico che siano.

1.2.1 Il paese di Colonnata

Diventa perciò necessario fare il punto della situazione sull’ambiente geografico e sul microclima di Colonnata, oltre che sulla qualità del marmo che veniva e viene utilizzato per realizzare le conche, perchè la storia attuale del lardo di Colonnata, quella che ha portato al riconoscimento dell’IGP non può prescindere da queste coordinate, che sono state al centro di una lunga serie di polemiche e scontri e ricorsi legali, in quella che la stampa locale e nazionale ha, sensazionalisticamente, definito “la guerra del lardo”.

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Il paese di Colonnata, che raggiunge i 532 metri sul livello del mare, si è sviluppato su uno sperone di roccia, (“un vero e proprio podio naturale tra due vallecole diramanti dalle pendici del Monte Sagro”, sintetizza Enrico Dolci (1993)), che si biforca, segue

vento e costituisce l’ultima parte di un crinale, detto Cima d’uomo (960 metri) contrafforte del Monte Spallone (1639 metri). Questo a sua volta è una cima secondaria che si distacca, a sud, dal Monte S

arriva, a sud ovest, alla Foce della Faggiola (1456 metri) per poi scendere ai 1396 metri del Monte Maggiore. Un contrafforte di quest’ultimo, il Monte Serrone (1062,5 metri) divide il bacino marmifero di Colonnata da qu

Inoltre Colonnata è circondata da Gioia (897 metri), il Monte Zuccone (709 metri), il monte Novello (684 metri), i Campanili (1006 metri), il Torrione (895 metri), il Vergheto (850 metri,) solo per citare i rilievi più vicini al paese

Nella località, dopo la conquista romana definitiva, del 180 a. C. e la deportazione della popolazione indigena, i liguri

più economico di quello greco, sfruttando manodopera schiavile. La presenza dei romani è provata da alcune tagliate romane ancora visibili e da molti reperti archeologici (utensili e manufatti per la lavorazione del marmo, colonne e capitelli

Foto 1: Lo sperone di roccia su cui sorge Colonnata

se di Colonnata, che raggiunge i 532 metri sul livello del mare, si è sviluppato su uno sperone di roccia, (“un vero e proprio podio naturale tra due vallecole diramanti dalle pendici del Monte Sagro”, sintetizza Enrico Dolci (1993)), che si biforca, seguendo due canali, la Fossa del Canalone e il Canale del vento e costituisce l’ultima parte di un crinale, detto Cima d’uomo (960 metri) contrafforte del Monte Spallone (1639 metri). Questo a sua volta è una cima secondaria che si distacca, a sud, dal Monte Sagro (1749 metri) e la sua cresta arriva, a sud ovest, alla Foce della Faggiola (1456 metri) per poi scendere ai 1396 metri del Monte Maggiore. Un contrafforte di quest’ultimo, il Monte Serrone (1062,5 metri) divide il bacino marmifero di Colonnata da quello di Fantiscritti. Inoltre Colonnata è circondata da Gioia (897 metri), il Monte Zuccone (709 metri), il monte Novello (684 metri), i Campanili (1006 metri), il Torrione (895 metri), il Vergheto (850 metri,) solo per citare i rilievi più vicini al paese

Nella località, dopo la conquista romana definitiva, del 180 a. C. e la deportazione della popolazione indigena, i liguri - apuani, è iniziata l’escavazione del marmo, più economico di quello greco, sfruttando manodopera schiavile. La presenza dei è provata da alcune tagliate romane ancora visibili e da molti reperti archeologici (utensili e manufatti per la lavorazione del marmo, colonne e capitelli

Foto 1: Lo sperone di roccia su cui sorge Colonnata

se di Colonnata, che raggiunge i 532 metri sul livello del mare, si è sviluppato su uno sperone di roccia, (“un vero e proprio podio naturale tra due vallecole diramanti dalle pendici del Monte Sagro”, sintetizza Enrico Dolci ndo due canali, la Fossa del Canalone e il Canale del vento e costituisce l’ultima parte di un crinale, detto Cima d’uomo (960 metri) contrafforte del Monte Spallone (1639 metri). Questo a sua volta è una cima agro (1749 metri) e la sua cresta arriva, a sud ovest, alla Foce della Faggiola (1456 metri) per poi scendere ai 1396 metri del Monte Maggiore. Un contrafforte di quest’ultimo, il Monte Serrone

ello di Fantiscritti. Inoltre Colonnata è circondata da Gioia (897 metri), il Monte Zuccone (709 metri), il monte Novello (684 metri), i Campanili (1006 metri), il Torrione (895 metri), il Vergheto (850 metri,) solo per citare i rilievi più vicini al paese.

Nella località, dopo la conquista romana definitiva, del 180 a. C. e la deportazione apuani, è iniziata l’escavazione del marmo, più economico di quello greco, sfruttando manodopera schiavile. La presenza dei è provata da alcune tagliate romane ancora visibili e da molti reperti archeologici (utensili e manufatti per la lavorazione del marmo, colonne e capitelli

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sbozzati, piccole are votive, piccole sculture, ecc.), ma non è chiaro se Colonnata sia nata e rimasta per secoli come esclusivo alloggio per gli schiavi o se si sia formato anche un insediamento di uomini liberi.

Dopo la scomparsa dell’impero romano d’occidente, le cave vengono abbandonate e per secoli, almeno fino alla fine del 1100, non ci sono documenti e testimonianze che dimostrino attività estrattive in zona o che ci diano notizie di Colonnata12.

Il marmo che circola in Italia e in Europa, prima del 1200 circa, non deriva dal lavoro estrattivo, ma da attività di recupero del marmo da monumenti di epoca romana.

La mancanza di notizie e documenti ha permesso il fiorire di diffuse e ripetute congetture e ipotesi molto fantasiose, indimostrate e improbabili sulle origini del paese, sulla fusione degli abitanti con gli schiavi, sulla sopravvivenza delle tradizioni romane, lardo compreso, fino all’elaborazione della tesi, razziale e ricalcata da Lombroso, sia pure rovesciandone il giudizio negativo, che esisterebbero dei “caratteri originari” della popolazione di Carrara dovuti alla fusione tra indigeni e schiavi, da cui deriverebbero la rudezza, la tenacia, l’individualismo, l’insofferenza per il potere e la tendenza all’anarchia.

Inutile dire che gioca, anche in questo caso, la stessa logica di nobilitazione, riguardante le origini romane del lardo di Colonnata, come se 20 secoli e più fossero passati, nell’immobilità senza scosse e cambiamenti e gli attuali abitanti del paese e di Carrara potessero essere considerati discendenti diretti dei liguri - apuani e degli schiavi ribelli di Roma, ammesso e assolutamente non concesso che gli uni e gli altri avessero avuto questa tendenza alla “rivolta” e all’“anarchia”.

Rimasta emarginata per secoli, (la strada asfaltata è arrivata solo negli anni ‘50), come paese di cavatori, Colonnata è oggi un piccolo paese di poco più di 300 abitanti (ma sul suo andamento demografico dovrò tornare) raggiungibile in auto solo attraverso una strada stretta, tortuosa e poco agevole, durante la cattiva stagione, anche se il bacino di estrazione che prende il suo nome, è il più ampio e importante (500 ettari).

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Qui si trovano le cave più grandi, tra cui il complesso di Gioia e vi si estraggono quasi tutte le più importanti qualità di marmo. Tra queste, nella zona chiamata dei Canaloni, la più vicina a Colonnata, si estrae il Bianco Carrara, che viene utilizzato per le conche per il lardo.

Anche la sola descrizione sintetica della collocazione geografica di Colonnata, nelle Apuane e nel bacino che da lei prende il nome, è sufficiente per dover riconoscere l’esistenza, nel paese, di un microclima particolare e irriproducibile. 1.2.2 Microclima e tradizione della lavorazione secondo il Regolamento

(CE) N. 1856/2004

I tentativi, però, di definirne le caratteristiche, per quanto importanti, non sembrano essere stati molti e sono abbastanza recenti e dettati dalla necessità di fornire la documentazione per il riconoscimento del marchio IGP per il lardo del paese e da quella di definire, a livello regionale e universitario, la qualità del prodotto per valorizzarne la diffusione al di fuori della sua area originaria (Vallini, 2010).

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E’ nel Regolamento (CE) n. 1856/2004 relativo all'iscrizione, nel registro delle denominazioni di origine protette e delle indicazioni geografiche protette, del Lardo di Colonnata, che troviamo una sintetica descrizione del microclima di questo paese, e il collegamento di questo elemento con la realtà antropologica e le tradizioni del paese:

”La produzione e il consumo del “Lardo di Colonnata” sono tradizionalmente

legati all’ambiente colonnatese dei cavatori di marmo.

Si tratta di un ambiente particolare, risultato del concorso di fattori non solo geografici e climatici, ma anche produttivi, economici e sociali. Tali fattori, frutto di condizioni locali esclusive, sono tra loro ins

E’ nel Regolamento (CE) n. 1856/2004 relativo all'iscrizione, nel registro delle denominazioni di origine protette e delle indicazioni geografiche protette, del che troviamo una sintetica descrizione del microclima di questo paese, e il collegamento di questo elemento con la realtà antropologica e le

La produzione e il consumo del “Lardo di Colonnata” sono tradizionalmente nte colonnatese dei cavatori di marmo.

Si tratta di un ambiente particolare, risultato del concorso di fattori non solo geografici e climatici, ma anche produttivi, economici e sociali. Tali fattori, frutto di condizioni locali esclusive, sono tra loro inscindibili e non possono essere

Foto 2: Colonnata sotto un ravaneto

E’ nel Regolamento (CE) n. 1856/2004 relativo all'iscrizione, nel registro delle denominazioni di origine protette e delle indicazioni geografiche protette, del che troviamo una sintetica descrizione del microclima di questo paese, e il collegamento di questo elemento con la realtà antropologica e le

La produzione e il consumo del “Lardo di Colonnata” sono tradizionalmente Si tratta di un ambiente particolare, risultato del concorso di fattori non solo geografici e climatici, ma anche produttivi, economici e sociali. Tali fattori, frutto cindibili e non possono essere

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tale contesto esclusivo rappresenta la condizione imprescindibile della salvaguardia della tipicità.

Colonnata è collocata nel contesto delle Alpi Apuane ad una altitudine media di 550 m. Risente pertanto di condizioni climatiche caratterizzate da elevata piovosità e scarse escursioni termiche. Le forti correnti di aria umida provenienti dal versante tirrenico, dopo aver superato la breve pianura costiera, condensano immediatamente, costrette come sono ad innalzarsi di fronte all’ostacolo improvviso delle alture, e danno pertanto luogo a un elevato livello di precipitazioni, tanto più frequenti ed intense quanto più ci si incunea nei contrafforti marmiferi.

Una delle conseguenze rilevanti è che l’umidità media dell’atmosfera, a causa della frequenza e della quantità delle precipitazioni, è piuttosto elevata, raggiungendo i valori più alti nei periodi più piovosi, cioè settembre-gennaio e aprile-giugno.

Il paese di Colonnata, posto alla testata di uno stretto e diritto canalone rivolto verso il mare, è interessato nei periodi di tempo bello da brezze giornaliere. Durante l’inverno si tratta di brezze di monte/valle; durante l’estate è frequente la brezza di mare, che talvolta apporta significativi benefici, specie nei pomeriggi assolati: all’ombra, l’aria rimane gradevole anche nelle ore di più intensa insolazione. Nelle cantine delle case di Colonnata, spesso scavate nella roccia, gli eccessi termici diurni si avvertono poco. In questi momenti le conche di marmo bianco dove si stagiona il lardo si comportano anzi come corpi freddi favorendo il condensamento dell’umidità atmosferica che contribuisce alla trasformazione del sale in salamoia. La peculiare posizione geografica e l’esposizione al sole del paese rivestono notevole importanza per la determinazione di un microclima locale.

- La località di Colonnata risulta essere ben esposta al sole anche durante l’inverno, con temperature di conseguenza leggermente superiori a quelle del fondovalle e minore umidità relativa, mantenendo comunque quest’ultima con valori medio-alti.

Figura

Foto 1: Lo sperone di roccia su cui sorge Colonnata
Foto 2: Colonnata sotto un ravaneto
Tabella  2:  Temperatura  programmata  utilizzata  per  la  determinazione  della  composizione in acidi grassi

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