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Academic year: 2021

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Romanes

Collana di studi zingari diretta da Leonardo Piasere e Stefania Pontrandolfo

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SABRINA TOSI CAMBINI

LA ZINGARA

RAPITRICE

Racconti, denunce, sentenze (1986-2007)

SECONDA EDIZIONE RIVEDUTA E AMPLIATA

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Il CISU collabora con l’ANVUR

per la valutazione del sistema universitario e della Ricerca

Tutti i diritti sono riservati.

Questo volume non può essere riprodotto, archiviato o trasmesso, intero o in parte, in qualunque modo (digitale, elettronico, ottico, meccanico o registrato). Le fotocopie per uso personale del lettore sono consentite nei limiti del 15% di ciascun volume solo dietro pagamento alla siae del compenso previsto dall’art. 68, comma 4 della legge 22 aprile 1941 n. 633 e in base all’accordo stipulato tra siae, aie, sns e cna, Confartigianato, casa, claai, Confcommercio, Confesercenti il 18 dicembre 2000.

Le riproduzioni per uso differente da quello personale, per un numero di pagi-ne non superiore al 15% del presente volume, pagi-necessitano dell’autorizzaziopagi-ne scritta dell’Editore.

ISBN 978-88-7975-20-4

2015 Seconda edizione riveduta e ampliata 2008 Prima ristampa riveduta e corretta

2008 © CISU Centro d’Informazione e Stampa Universitaria

di Colamartini Enzo s.a.s. Viale Ippocrate, 97 – 00161 Roma Tel. 06491474 – Fax 064450613 E-mail: info@cisu.it

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INDICE

Presentazione, Leonardo Piasere . . . .Pag. VII

Nota degli operatori Unpres . . . » XI

Ringraziamenti . . . » XV

Nota terminologica . . . . » XVII

Introduzione alla seconda edizione . . . . » 1

Dal caso fiorentino a quello napoletano . . . . » 2

Dalla Sicilia alla Toscana, dalla Grecia all’Irlanda . . . . » 11

Ribaltamenti . . . . » 14

Introduzione . . . . » 19

Alcune note di carattere giuridico . . . . » 22

Il fenomeno dei minori scomparsi . . . . » 27

1. Dai fatti ai casi . . . . » 31

1.1 L’archivio ANSA: la ricerca dei fatti . . . . » 31

1.2 Dai fatti ai casi . . . . » 32

1.3 I casi: tipologie . . . . » 32

2. I bagnanti, la zingara e gli schemi . . . . » 35

3. I topoi delle storie. Una struttura concettuale che si ripete . » 53 4. Casi di (presunto) tentato rapimento di minori con arresto e apertura del procedimento e dell’azione penale . . . . » 65

4.1 Primo caso. Desenzano del Garda (Brescia), 2 dicembre 1996 » 65 4.2 Secondo caso. Castel Volturno (Caserta), 18 gennaio 1997 » 73 4.3 Terzo caso. Minturno (Latina), 30 agosto 1997 . . . . » 86

4.4 Quarto caso. Roma, 10 ottobre 2001 . . . . » 90

4.5 Quinto caso. Lecco, 4 febbraio 2005 . . . . » 102

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5. Nelle carte e nelle aule del tribunale: la costruzione della

cre-dibilità, il senso comune e la “ragionevolezza” . . . .Pag. 133

6. I casi di sparizione . . . . » 145

Postfazione, Alessandro Simoni . . . . » 156

Bibliografia . . . . » 165

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POSTFAZIONE

La prima edizione de La zingara rapitrice esce poco più di un secolo dopo la pubblicazione nel 1906 (presso i Fratelli Bocca di Torino, già edi-tori di Lombroso) della traduzione italiana di un classico dell’antizigani-smo “scientifico”, opera di Hans Gross, fondatore della prestigiosa scuo-la criminalistica austriaca.1Si tratta de La polizia giudiziaria. Guida

pra-tica per l’istruzione dei processi criminali, traduzione del celebre

“Ma-nuale per il giudice istruttore” (Handbuch für Untersuchungsrichter) uscito in tedesco nel 1893, che ebbe enorme influenza e diffusione in tut-to il mondo (fu tradottut-to in almeno ottut-to lingue). L’accoglienza anche tra i criminologi positivisti italiani fu unanimemente entusiasta. Chi lo recen-sì in Scuola positiva, una delle più blasonate riviste dell’epoca, affermò di averlo letto “con un senso di ansia, vedendo tutta la cultura specifica di cui avrebbe bisogno un magistrato penale e pensando alla assoluta man-canza di essa nei magistrati del nostro paese [ai quali] si fa subire un noio-sissimo corso universitario di quattro anni in cui si insegna di tutto, ad eccezione di quelle nozioni di sociologia criminale, biologia e psicologia che dovrebbero invece costituire la base della loro preparazione” (Scuo-la Positiva, XVI, 1906, p. 494). Gross dedica un intero capitolo (oltre a passaggi in tutto il volume) a “Gli zingari e loro caratteri”, e non ha esi-tazioni a fornirne un’immagine di innata pericolosità, anche più dura di altri che scrivevano negli stessi anni (e anzi apre qualificando una descri-zione già severa di Wlislocki come “ancora troppo benevola”), che si concentravano sulla tendenza al furto e alla truffa, magari bilanciata dal-la menzione di doti artistiche o altre qualità. Per Gross “lo zingaro è do-minato da una cupidigia insaziabile, che esige una soddisfazione imme-diata. Vedere qualche cosa che desideri e cercare d’impadronirsene è per lui la stessa cosa” (ibidem, p. 211). Ma lo zingaro sarebbe anche “crude-le in sommo grado” e vigliacco che “non depreda un viaggiatore se prima

1Hans Gross (1847-1915), padre dello psicanalista Otto Gross allievo “ribelle” di

Sig-mund Freud, fu magistrato e docente di diritto penale in varie università, tra cui Czernowitz, Praga e infine Graz dove fondò l’istituto di criminalistica e la rivista Archiv für Krimina-lanthropologie und Kriminalistik (successivamente Archiv für Kriminologie). Su Hans Gross vedi Torre e Mattutino (2009), e l’editoriale pubblicato in occasione della sua morte nel Jour-nal of the American Institute of CrimiJour-nal law and Criminology, vol. 6, n. 5, (Jan. 1916), p. 641-642. Circa la percezione degli zingari nel lavoro di Gross e il suo inquadramento stori-co-giuridico vedi il nostro I giuristi e il problema di una gente vagabonda. Considerazioni intorno a un libro di inizio novecento nato da un incontro con i rom meridionali (2002).

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non l’ha ucciso a tradimento, o messo in stato da non poter più offende-re” (ibidem, p. 209), alla bisogna anche avvelenatore con l’uso di un “mi-sterioso veleno”, detto “Dry” (ibidem, p. 212).

Ovviamente, può apparire paradossale collegare un alfiere dell’antizi-ganismo di un secolo fa a un lavoro come La zingara rapitrice. E invece il severissimo Gross ci offre un ottimo spunto di partenza, perché il capito-lo sugli zingari contiene una sezione dedicata proprio al tema che ci inte-ressa, a cui Gross vuole dare grande visibilità, inserendola subito dopo le “Generalità” e “Come delinquono gli zingari”. Vale la pena di riportare in-teramente questa sezione terza dedicata ai “Furti di Bambini”:

Si racconta che gli zingari rapiscono i bambini, e tale leggenda fa anco-ra oggi il terrore delle madri nelle campagne. In realtà nessun fatto autenti-co si può citare che la provi. Basta autenti-considerare, del resto, che gli zingari sono di una prolificità straordinaria per persuadersi che, stentando già a mante-nere la propria numerosa prole, non hanno alcun interesse ad impadronirsi dei bambini altrui, i quali, d’altra parte, sprovvisti delle doti naturali che contraddistinguono lo zingaro autentico, non potrebbero essere loro di alcun vantaggio e sopportare la dura vita che essi conducono.

Per Gross, che scrive come abbiamo detto alla fine dell’Ottocento, la questione è chiusa, e non degna di attenzione per giudici e polizia.

Più di un secolo dopo, la prima edizione de La zingara rapitrice ci ha inconfutabilmente dimostrato come lo stereotipo della “zingara rubabam-bini” non solo sia ancora fortemente radicato nella cultura italiana, ma – cosa ancora più preoccupante – non incontra nessun anticorpo quando le istituzioni si trovano ad affrontare casi in cui donne rom sono accusate di aver tentato (perché come abbiamo visto sempre di “tentativi” si tratta) di rapire un bambino non rom. Si tratta di un’evidenza che ha svariate impli-cazioni di rilievo, che dovrebbero interessare non solo gli scienziati socia-li, ma anche l’attore politico.

Certamente, lo stereotipo della “zingara rapitrice” è solo uno dei tanti elementi del mosaico del pregiudizio antizigano diffuso trasversalmente nella società, e forse neanche quello con gli effetti pratici più importanti (perché di più rara materializzazione) nei confronti di chi è classificato co-me “zingaro”, anche se la gravità del crimine che si evoca ha un forte valo-re simbolico e significativamente il lavoro di Sabrina Tosi Cambini è este-samente citato nel recente studio di David Forgacs sulla costruzione della marginalità nella formazione dell’identità nazionale italiana (2014, p. 286).

Vale la pena tuttavia di dedicare una breve riflessione a un aspetto più specifico, ossia a come quello che Gross classifica come un pregiudizio che

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“terrorizza le madri delle campagne” (ottocentesche) riesca a esercitare un influenza sull’operato di giurisdizioni (del Duemila) in cui si presume sie-dano persone con un bagaglio culturale avanzato.

In prima battuta, i problemi messi in evidenza da Sabrina Tosi Cambi-ni possono in parte essere classificati in termiCambi-ni di psicologia della testimo-nianza, e l’autrice si ricollega infatti a studi in materia realizzati nel mondo anglosassone. E qui già si pone un problema, rappresentato dal fatto che il lamento del recensore italiano di Gross nel 1906 si attaglia ancora alla for-mazione del giurista e futuro magistrato nel 2015. Il “noiosissimo corso universitario di quattro anni [ora cinque…] in cui si insegna di tutto, ad ec-cezioni di […] nozioni di sociologia criminale, biologia e psicologia” è an-cora lì. È significativo al riguardo che in uno dei più autorevoli manuali di procedura penale attualmente in circolazione l’autore, Paolo Tonini, dopo aver ricordato come dagli inizi del ’900 gli studi in materia di psicologia del-la testimonianza si siano moltiplicati e siano “pervenuti ad un elevato gra-do di raffinatezza”, inviti ancora “i giuristi ad approfondire quelle proble-matiche che sono utili per la loro formazione e che, purtroppo, non sono considerate nei corsi delle Facoltà di Giurisprudenza” (2012, p. 1022). Co-me lo stesso manuale chiarisce, in ambito giudiziario non si è mai infatti ve-ramente messo in discussione i postulati ottocenteschi in materia di atten-dibilità del testimoni, basati su principi formulati nella cosiddetta “Scuola Classica” del diritto penale. Come ci ricorda Tonini “da tali postulati si de-duce che il testimone vede e percepisce tutto quello che gli sta davanti. Se egli vuole essere sincero, è in grado di riferire tutto quello che è avvenuto in sua presenza. Ne consegue che il testimone dice il falso solo quando vi ha interesse […] Accolti i predetti postulati, è soltanto necessario che il magi-strato indaghi su eventuali legami di interesse che il testimone ha con le par-ti del processo: ove non vi siano legami di interesse, il tespar-timone deve pre-sumersi veritiero. Quante volte si sente ripetere: il testimone non aveva al-cun interesse a mentire; perché avrebbe dovuto farlo ? E la giurisprudenza tradizionale, formatasi su questi presupposti teorici, ancora oggi ritiene non necessario cercare i riscontri di una deposizione testimoniale” (ibidem, p. 1021-1022). Anche se poi fortunatamente possono intervenire correttivi formali o informali di vario genere, si comprende facilmente come gli sce-nari descritti ne La zingara rapitrice, pongano le imputate in una posizione perlomeno scomoda. Che interesse avrebbe la madre del bambino per cui si ipotizza un tentato rapimento a riferire fatti non veri?

La generale arretratezza in tema di psicologia della testimonianza è tut-tavia, forse, solo un problema certo più ampio, ma che può ciononostante

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essere aggirato. In fondo, anche ammesso che un testimone possa senza malizia riferire in modo distorto determinati fatti perché i suoi processi co-gnitivi sono influenzati da fattori esterni, va chiarito cosa nel caso specifi-co eserciterebbe una tale influenza.

La risposta a tale quesito nella categoria di casi di cui stiamo discuten-do è semplice, ed appare chiaramente nel volume, che sviluppa le intuizio-ni contenute nei lavori di Leonardo Piasere sui “sensi antizingari”, ampia-mente citati. Gli stereotipi e le rappresentazioni stigmatizzanti su “zinga-ri”, “nomadi”, “rom” hanno infatti una potenza, una pervasività e un radi-camento con pochi paragoni in altri ambiti. Fare esempi sarebbe veramen-te ozioso, e la continua ossessiva riproposizione dei classici Leitmotiv del-l’antiziganismo è ormai consolidata nei media e in ampi settori della co-municazione politica, senza suscitare particolari reazioni. Lo stereotipo di per sé vecchio di secoli gode oggi dell’effetto moltiplicativo dei nuovi me-dia, e le ossessioni sulle “zingare rubabambini” appaiono a chi scrive come un fenomeno quasi scontato.

Leggendo La zingara rapitrice appare, tuttavia, come i problemi non derivino unicamente dall’applicazione di assunti datati in materia di psico-logia della testimonianza. Gli stessi magistrati, infatti, sembrano avvolti dalla stessa rete di pregiudizi dei testimoni. Invece di riconoscere un “fatto sociale” abbastanza evidente come l’attribuzione automatica a chi è avver-tito come “zingaro” di una predisposizione innata a commettere reati, e re-golarsi di conseguenza nell’acquisizione e nella valutazione delle risultan-ze testimoniali, i magistrati sembrano tutto sommato condividere il pre-giudizio del cittadino comune, o comunque non ritenere di doverlo cor-reggere o compensare.

Non vorremmo suonare eccessivi riproponendo ancora una volta una posizione dell’ordine “È tutto sommato normale, perché stupirsi?”, ma crediamo che non sia irragionevole. Teniamo conto di un paradosso della storia della cultura giuridica italiana e non solo. Il positivismo criminolo-gico che così tanto peso ebbe tra Ottocento e Novecento, e che per un pe-riodo rilevante (con strascichi tuttora osservabili) fu uno dei prodotti del-la cultura giuridica italiana di maggior successo all’estero, dove Cesare Lombroso e Enrico Ferri erano autorità indiscusse e riverite, diede spazio a pubblicazioni ferocemente antizingare come il manuale di Gross, oltre a tutta una serie di epigoni in Italia e Francia.2Va detto che, tuttavia, i

crimi-nologi positivisti giungevano a certe conclusioni in buona parte basandosi

160 Postfazione

2Vedi i riferimenti nel nostro I giuristi e il problema di una gente vagabonda (2002),

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su una letteratura ziganologica ottocentesca già assestata sullo stereotipo dello zingaro criminale, in parte semplicemente riproponendo pedissequa-mente l’immagine contenuta in studi di fine settecento come il famoso Die

Zigeuner di Heinrich Grellmann.3I dati sugli “zingari” erano d’altronde

per Gross e gli altri criminologi positivisti solo un elemento di un più am-pio tentativo di portare nella giustizia penale, sino ad allora basata su as-sunti di carattere morale e religioso, lo studio scientifico dell’uomo. Nel ca-so italiano, con l’arretramento della “scuola positiva” e il prevalere di un orientamento “tecnigiuridico” dopo il primo conflitto mondiale, la co-noscenza empirica delle cause del delitto e delle tipologie dei delinquenti passa in second’ordine tra le priorità intellettuali dei giuristi rispetto all’in-terpretazione del diritto vigente, e “la tendenza verso una qualche forma di integrazione tra diritto penale scienze e sociali va […] regredendo man ma-no che ci si ima-noltra nel nuovo secolo” (Fiandaca, Musco, 19953, p.XXXI).

In particolare, l’antropologia criminale nella versione utilizzata da Lom-broso rimarrà in larga misura un’“eredità senza eredi” (Martucci, 2009), e il vuoto da essa lasciato rimarrà tale, senza essere colmato dalle analisi et-noantropologiche odierne che rimangono generalmente assenti o del tutto periferiche nella formazione dei giuristi.

Su questo sfondo, i magistrati che compaiono nelle vicende descritte ne

La zingara rapitrice non appaiono particolarmente retrivi, ottusi o

“razzi-sti”, ma semplicemente portatori del sapere e degli schemi di lettura della società propri – con significative e lodevoli eccezioni – di una classe giudi-ziaria certamente chiusa su un tecnicismo molto arido, ma alla quale one-stamente non si può chiedere di correggere autonomamente distorsioni ampiamente radicate anche al di fuori di essa. Particolarmente rilevante, vi-sta la sua prossimità rispetto alla cultura dei magistrati, appare la perma-nente arretratezza della cultura giuridica accademica a distanziarsi da quel-la che è quel-la premessa logica dello stereotipo antizigano, ossia l’assunto che sia possibile descrivere una “cultura rom” coerente e omogenea. La lette-ratura giuridica mainstream raramente – per i motivi di cui sopra – si av-ventura in descrizioni “culturali”, ma quando lo fa, anche se con intenzio-ni magari “tolleranti” e “pluraliste”, non riesce a decostruire l’immagine unificante della “cultura dei rom”. L’esempio più semplice è quello del di-battito sui cosiddetti “reati culturalmente orientati”, in cui i rom sono or-mai una presenza fissa, generalmente rispetto alla questione della

repres-Postfazione 161

3Sull’influenza di Grellmann nella formazione dello stereotipo dello zingaro criminale

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sione dell’accattonaggio minorile. Anche qui prendendo ad esempio un volume che ha avuto grande successo, basta il secondo periodo del para-grafo in tema per comprendere il punto di partenza: “I ROM[in maiusco-lo nel testo] hanno un modo di vivere “flessibile”, non stanno in un terri-torio fisso, sono un popolo di migranti; la mobilità è una delle ragioni del-la loro storica mancata acquisizione di diritti in territori, che pure hanno occupato per anni o per secoli; a questo stile di vita “itinerante” sono an-che dovute le difficoltà dei rapporti con le popolazioni stanziali e gli atteg-giamenti di sospetto e di ostilità degli autoctoni nei loro confronti” (de Ma-glie, 2010, p. 51, citando uno scritto di Mancini del 1998), tutte semplifica-zioni che nella letteratura antropologica sono seppellite da tempo. Chiari-to che è legittimo parlare dei Rom come insieme unico senza sfumature, e quindi reinventata la “trappola mortale dell’etnicità” come l’ha definita Willems (1998), si tratta solo di capire come sono i Rom, e un magistrato che li “riconosce” come tali solo tra i banchi degli imputati o come mendi-canti all’angolo delle strade non avrà dubbi… Il lavoro di Tosi Cambini, in-sieme ad altri (in particolare Saletti Salza, 2010) della stessa scuola, rappre-senterebbe un’ottima base di partenza per spezzare questo circolo vizioso.

Alessandro Simoni

Università degli Studi di Firenze

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Finito di stampare nel mese di dicembre 2015

dalla LegoDigit

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