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Capitolo secondo

TITOLARITA’ SOSTANZIALE DEL RAPPORTO DI FILIAZIONE NATURALE

Sommario: 1.La rilevanza della parentela naturale. - 2.I diritti successori:

la facoltà di commutazione. – 3.Potestà dei genitori e autonomia del minore.

1 La rilevanza della parentela naturale

Una delle differenze più significative che la filiazione naturale ha riservato, rispetto a quella legittima, almeno fino alla riforma del 2012, risiede nel mancato riconoscimento della sua capacità di espandersi oltre il rapporto genitore-figlio, come emerge con tutta evidenza, considerando la più recente giurisprudenza della Corte costituzionale(31).

La problematica afferente la parentela naturale riguarda proprio l’ingresso, quale parente, del figlio naturale nella famiglia del suo genitore.

(31)

Cfr. Corte Cost., 27 luglio 2000, n. 532 in Giust. Civ., 2001, 591, con nota di C.

Bianca in Fam. e dir.,2001, 363, con nota di G. Ferrando; in Familia, 2001, 498, con nota di L. Dellacasa.

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Il riconoscimento o l’accertamento giudiziale della filiazione comporta l’accertamento anche del legame di sangue che l’art.74 c.c. pone a base del rapporto di parentela: se è parente chi discende da un comune stipite, tale legame ha come presupposto il mero dato biologico, e non la circostanza che la discendenza da un comune stipite sia accompagnata da legami di coniugo(32).

Tuttavia, ancora oggi, vi è chi nega l’esistenza della parentela naturale, rifiutandone l’esistenza come categoria generalizzata.

Mentre il figlio legittimo farebbe parte, a pieno titolo, della famiglia dei genitori, il figlio naturale avrebbe singole porzioni di parentela nei confronti solo di alcuni soggetti (33), mentre per il resto, sarebbe solo il figlio del proprio genitore.

In altre parole, la legge garantisce al figlio naturale in quanto persona giuridica, il diritto fondamentale al riconoscimento come figlio e al conseguente legame di filiazione con il genitore, ma allo stesso tempo, esclude che il riconoscimento possa produrre effetti anche rispetto ai parenti del genitore stesso, che lo effettua.

Appare, chiaramente, che una tale interpretazione non può essere condivisa in quanto gravemente lesiva del principio di uguaglianza e dei diritti, costituzionalmente riconosciuti, dei figli naturali.

(32)

C. M. BIANCA, op. cit., 20 ss.; V. PROSPERI, La famiglia non “fondata sul

matrimonio”, Jovene, 1980, 115; L. ROPPO, voce Famiglia di fatto, in Enc. giur. Treccani, XIV, Ed. Enc. it., 1989; M. SESTA, op. cit., 14 ss; U. MAJELLO, op. cit.,

7.

(33) Tale è l’atteggiamento assunto dalla Corte Costituzionale, la quale, anche di

recente, ha negato, l’esistenza di una categoria generale della parentela naturale: v. la sentenza 23 novembre 2000, n. 532, in Giust. civ.,2001, I, 594 , con nota critica di C. Bianca, I parenti naturali non sono parenti? La Corte Costituzionale ha risposto: la

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Il problema nasce principalmente dalla mancanza nel nostro ordinamento giuridico di una norma che, all’accertamento formale della filiazione naturale, colleghi l’effetto di far entrare il figlio nella famiglia di origine del genitore, in modo da attribuirgli uno status familiare rapportato non solo al genitore, ma anche ai familiari di questo(34).

Assodato, quindi, che esiste un rapporto di parentela tra genitori e figlio naturale, il vero problema è se il rapporto di parentela si estende anche agli altri parenti legittimi del suo genitore naturale; il figlio naturale, cioè, è fratello dei figli legittimi del suo genitore? E’ nipote dei fratelli legittimi del suo genitore?.

Al riguardo, analizzando il dettato normativo, questo lascia chiaramente intendere che, se anche il riconoscimento sia stato effettuato da entrambi i genitori, tra gli stessi non sorge alcun rapporto giuridico, costituendosi invece due distinti rapporti di filiazione; la relazione genitore-figlio assume i caratteri dell’individualità ed autonomia del legame(35).

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Diversamente in Francia ove l’art. 334 c.c. dispone che il figlio naturale

riconosciuto entra nella famiglia del suo autore. Cfr. più ampiamente L. GROSSI, Problemi attuali della nozione di parentela e di famiglia, in Rass dir.civ., ed i

riferimenti ivi contenuti in prospettiva comparatistica.

(35)

M. BESSONE-G. ALPA-A. D’ANGELO-G. FERRANDO, La famiglia nel

nuovo diritto. Principi costituzionali, riforme legislative, orientamenti della giurisprudenza, V, Bologna, 2002, p. 255, secondo cui, mentre in presenza di

matrimonio il rapporto di filiazione è rapporto del figlio con i genitori, in assenza di matrimonio è rapporto del figlio con ciascun genitore. Sulla parentela naturale, v. anche L. M. CHIARELLA, La parentela naturale: dal crinale sociale alla

(irrilevanza) costituzionale, in M. Sesta-V. Cuffaro (a cura di) Persona, famiglia e successioni nella giurisprudenza costituzionale, Napoli, 2006, p. 907; R. QUADRI, Filiazione naturale e diritto successorio, in M. Sesta- V. Cuffaro (a cura di), Persona, famiglia e successioni nella giurisprudenza costituzionale, Napoli, 2006, p.

855; E. CARBONE, Della filiazione naturale e della legittimazione, sub art. 258 c.c.,

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A conferma di ciò parte della dottrina trae la propria convinzione, circa l’irrilevanza giuridica della parentela naturale, esaminando sia il dato testuale dell’art. 258 c.c. che attribuisce al riconoscimento effetti limitati al solo genitore che lo ha effettuato, salvo i casi previsti dalla legge (36), sia la nozione di parentela indicata nell’art. 74 quale vincolo

tra le persone che discendono da uno stesso stipite inteso riduttivamente

come rapporto intercorrente tra persone legate tra loro da un vincolo di consanguineità scaturente dal matrimonio.

Dall’impossibilità del rapporto di filiazione naturale di espandersi oltre la relazione genitore-figlio ne deriverebbe, pertanto, che i parenti naturali non abbiano titolo a succedere, al di fuori delle ipotesi espressamente previste.

La norma, però, non può voler dire che si crea, nello specifico, solo un legame di filiazione che non produce effetto per la famiglia del genitore e che non vedrebbe, proprio a causa dell’inesistenza del legame parentale, crearsi una tutela familiare.

Dalla parentela scaturiscono diritti e obblighi e quindi la sua inesistenza pone a disfavore della filiazione naturale che assumerebbe un grado subordinato con effetto non pieno.

Per concludere, dal momento che l’ordinamento ha riconosciuto la piena valenza della filiazione naturale e si è prefisso l’unificazione dello stato di figlio, appare gravemente ingiusto privare il figlio naturale

(36)

Il testo del previgente art. 258, c. 1° , c.c., secondo cui il riconoscimento non

ha effetto che riguardo a quello dei genitori da cui fu fatto era decisivo al fine di

escludere che di parentela naturale si potesse parlare al di là di quella in linea retta fra genitore e figlio riconosciuto e discendenti legittimi di questo; sul punto v. L. CARRARO, Della filiazione naturale, cit., p.87.

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di un generale riconoscimento familiare, non considerandolo parente a tutti gli effetti(37).

Prima della legge di riforma del diritto di famiglia, la dottrina prevalente riteneva che la parentela naturale esaurisse la sua rilevanza giuridica nel rapporto tra il genitore, il figlio e i discendenti legittimi di questo; i pochi casi di estensione del rapporto, in funzione di determinati parenti, erano considerati eccezionali e come tali tassativi(38), il che, del resto, ben si inquadrava nel generale disfavore per la filiazione naturale che caratterizzava la disciplina dei rapporti familiari nel codice del 1942.

La parità di condizione tra figli legittimi e naturali che viene ad instaurarsi, e sul piano della tutela alimentare (art. 433 c.c.) e su i diritti successori (artt. 537 e 566 c.c.), con la legge 1975, nonché l’introduzione di nuove specifiche ipotesi di rilevanza del rapporto tra il figlio naturale e i parenti del genitore, evidenziano che il rapporto tra ascendenti e discendenti, quantomeno in linea retta, è contemplato dal legislatore che ne disciplina diritti e doveri senza differenziare tra parentela naturale e legittima.

Sotto questo profilo, si valorizza l’ introduzione di una serie di ipotesi in cui assurge rilevanza il rapporto tra il figlio naturale e i parenti

(37)

G. FERRANDO, La filiazione naturale, in Trattato Bonilini-Cattaneo, cit.,

121, che ritiene che il problema della parentela naturale si ponga solo nei confronti dei collaterali, dovendosi ritenere ormai stabilita la relazione parentale con gli ascendenti, in virtù di un sistema normativo organico, costituito dagli artt. 148, 467,433 n.2 e 3, 565. Nello stesso senso, B. VITUCCI, Parentela naturale,

successione e fisco(Alla ricerca degli orientamenti della Corte nel nuovo diritto di famiglia), in Giur. cost., 1979, I, 1734 e E. PEREGO, Il problema delle successioni tra fratelli naturali, in Riv. dir .civ., 1978, II, 278 ss.

(38)Tali ipotesi si ritenevano giustificate non tanto dall’esistenza di un vincolo di

parentela quanto da ragioni di ordine pubblico (come per gli impedimenti al matrimonio di cui all’art.87 c.c.) o da ragioni di equità (come nella disciplina degli alimenti di cui all’art. 435, c.3°, c.c.).

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39 del genitore.

Il riferimento è: l’art. 148c.c. dispone, nel caso in cui i genitori non abbiano i mezzi sufficienti per provvedere al mantenimento, all’istruzione e all’educazione della prole, l’obbligo agli ascendenti legittimi o naturali, in ordine di prossimità, di fornire ai genitori stessi i

mezzi necessari per adempiere i loro compiti.

Significativa è anche la norma dell’art. 433 c.c., che parifica i discendenti e gli ascendenti naturali ai legittimi in ordine agli alimenti(39), nonché la disposizione di cui all’art. 467 c.c. che riconosce ai figli naturali il diritto di succedere per rappresentazione al proprio ascendente che non voglia o non possa accettare l’eredità(40)

.

Importante è notare che, più in generale, il nostro ordinamento ha dato dimostrazione di voler considerare il figlio, anche se nato fuori del matrimonio, come parte di un contesto familiare più ampio riconoscendo il valore e l’importanza dei rapporti di parentela che si costituiscono a seguito della procreazione.

Così, sul presupposto della forza di tale legame giuridico, per esempio, la normativa sull’adozione esenta i parenti entro il quarto grado dal dover segnalare all’autorità competente, che avrebbe dovuto procedere all’ affidamento, l’aver accolto stabilmente il minore nella

(39)

Ci si riferisce a Cass., 3 febbraio 2006, n. 2426, in Dir. e Giust., 2006, 8, 22, con nota di M. Dosi; in Familia, 2006, con nota di E. Spangaro; in precedenza, cfr. anche Cass., 14 gennaio 1999, n.354; cfr., però, anche Corte Cost., 23 maggio 2003, n.170, cit., 1087.

(40)

Da ultimo, cfr., Trib. Trieste, 27 giugno 2002, in Familia, 2003, I, 234, secondo cui la vocazione per rappresentazione opera anche in favore dei discendenti legittimi o naturali dei fratelli naturali del defunto.

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propria abitazione: i parenti, dunque, vengono considerati parte della famiglia del minore(41).

Ancora, si è voluto affidare ai parenti un ruolo rilevante attribuendo loro una funzione di controllo sulle modalità di esercizio della potestà da parte dei genitori (art. 336), qualora questi tengano un comportamento pregiudizievole all’interesse dei figli.

Tutto ciò sta a sottolineare l’importanza per il minore di far parte di un gruppo familiare più allargato, mediante una valorizzazione e riscoperta da parte dei giudici, dei vincoli di solidarietà ed affetto su cui si fondano le relazioni parentali; questione che si è posta soprattutto in sede di separazione e divorzio con riguardo al c.d. diritto di visita invocato dagli ascendenti.(42).

Il principio, è il caso di segnalarlo, è stato pienamente recepito dal legislatore che,nella nuova disciplina riguardante l’affidamento condiviso dei figli, in caso di interruzione della convivenza genitoriale, ha riconosciuto al minore il diritto di continuare a frequentare con regolarità ascendenti e parenti dei propri genitori (art. 155, 1° co.) con una norma destinata a trovare applicazione sia con riguardo alla famiglia legittima che naturale.

(41)

Cfr. anche Corte Cost., 20 maggio 1999, n.180, in Giur. cost.,1999, che ha

ritenuto irragionevole che mentre i minori formalmente affidati dagli organi competenti – legati da vincoli meno stretti di quelli familiari in linea retta – possano continuare a godere del trattamento pensionistico del de cuius, i minori che vivono a carico dell’ascendente assicurato ne siano esclusi, ed ha perciò affermato che il trattamento pensionistico di reversibilità deve essere corrisposto anche ai nipoti che convivono con i nonni, pur senza essere loro affidati formalmente.

(42)

Cfr. Cass., 24 febbraio 1981, n.1115, in Foro it., 1982, I, 1144; Cass. 25

settembre 1998, n. 9606, in Giust. civ., 1998, I, 3069; Trib. Min. Roma, 7 febbraio, in

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Da quanto esposto osserviamo che numerosi rapporti intercorrono tra discendenti e ascendenti naturali tanto che sembra opportuno dubitare della inesistenza di un rapporto di parentela molto più che, con la riforma del ’75, espressamente la legge viene a disciplinare nel titolo Della successione dei parenti anche la successione dei figli naturali.

Praticamente nel loro insieme, queste norme formano un sistema così coerente che la dottrina unanimemente ne deduce la rilevanza della parentela naturale in linea retta.

Più discussa invece, risultava la rilevanza della parentela naturale in linea collaterale(43).

Se il figlio naturale non acquisiva vincoli di parentela con la famiglia legittima d’origine del genitore, in caso di successione di uno di questi “non parenti” non entrava nelle linee ereditarie né poteva vedersi applicato l’istituto della rappresentazione, con una evidente disparità di trattamento,illegittima costituzionalmente per violazione del principio fondamentale di uguaglianza sostanziale, rispetto all’analoga posizione ereditaria spettante ad un figlio legittimo.

In tal senso, si è già espressa in due occasioni la Corte Costituzionale, lamentando l’illegittimità costituzionale dell’art.565 c.c. (quello, per intendersi, che individua le categorie di successibili per legge in assenza di testamento) nella parte in cui non prevede tra i

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Uno degli argomenti più utilizzati è senz’altro quello che fa leva sull’istituto

della legittimazione che, avendo la funzione di attribuire al figlio naturale la stato di figlio legittimo, risulterebbe del tutto inutili qualora lo stato di filiazione naturale generasse un rapporto di parentela uguale a quello che sorge con lo stato di figlio legittimo: cfr. E. PEREGO, Il problema della successione fra fratelli naturali, in Riv.

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successibili legittimi, in mancanza di altri successibili oltre lo Stato,i fratelli naturali riconosciuti o dichiarati.

Per maggior chiarezza, la creazione pertanto, di una nuova ed autonoma categoria di successibili ex lege viene giustificata non con il riconoscimento di un rapporto giuridico di parentela in linea collaterale ma con il fatto naturale della consanguineità mediante una valorizzazione dei rapporti di sangue creatisi al di fuori dell’istituzione familiare che, non togliendo valore alle regole della successione familiare, consentono di attribuire ai fratelli naturali titolo per succedere al de cuius in mancanza di parenti legittimi entro il sesto grado, con precedenza soltanto rispetto allo Stato.

Nonostante l’intervento della Corte, peraltro d’effetto limitato, e alcune sentenze della Corte di Cassazione che estendevano il riconoscimento del figlio anche alla famiglia del genitore chiarendo che l’art. 258 c.c nasceva solo per escludere una presunzione di paternità in caso di genitori non coniugati, con tutte le conseguenze, anche di diritto successorio, che ne derivavano, era necessaria una riforma che tenesse conto del mutamento dei tempi e della società civile.

Proprio per superare le residue e assai rilevanti differenziazioni tra filiazione legittima e naturale, tra cui quella attinente alla parentela, la L. 219/2012 ha inteso realizzare l’unicità dello stato giuridico di filiazione, che assorbe e supera il principio di parità attuato dalla riforma del’75.

Vediamo infatti, che la disposizione centrale, attorno alla quale ruota l’intera legge è sicuramente quella relativa all’art. 315 c.c.,

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rubricato Stato giuridico della filiazione, la quale afferma che tutti i figli

hanno lo stesso stato giuridico.

A questa norma si collega quella che, modificando l’art. 74 c.c., stabilisce che la parentela è il vincolo tra le persone che discendono da

uno stipite comune sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel caso sia avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso il figlio è adottivo.

Dall’art. 74 c.c., come modificato dalla L. 219/2012, emerge subito il primo punto qualificante la riforma:il nuovo concetto di parentela,senza distinzione tra filiazione avvenuta in o fuori dal matrimonio. Corollario del principio e sua conseguenza logica è la nascita di rapporti di parentela tra il figlio naturale e la famiglia dei genitori(44) che hanno effettuato per primo il riconoscimento, principio espresso dal novellato art. 258 1° co c.c., secondo il quale il

riconoscimento produce effetti riguardo al genitore da cui fu fatto e riguardo ai parenti di esso.

E’ evidente che, in forza delle citate disposizioni, il soggetto- una volta conseguito la stato di figlio a seguito della nascita da genitori coniugati, del riconoscimento o della dichiarazione giudiziale - diventa parente delle persone che discendono dallo stipite dei loro genitori: egli quindi entra a far parte della loro famiglia, indipendentemente dal fatto che sia stato concepito nel o fuori del matrimonio.

Ciò vale anche per il figlio nato da genitori tra loro parenti che, in base al nuovo testo dell’art. 251 c.c.,può essere riconosciuto, previa

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M. SCALISI, Note a prima lettura alla legge di riforma sui figli naturali, in

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autorizzazione del giudice, avuto riguardo all’interesse del figlio e alla necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio.

Di più, il figlio, può trovarsi grazie al vincolo di affinità inserito in due famiglie quella paterna e materna, tra loro non comunicanti come finora di regola accadeva.

2. I diritti successori: la facoltà di commutazione

In tema di successioni mortis causa, certamente, la disciplina della successione del figlio naturale è tra tutte quelle che registra il maggior numero di interventi che non sono soltanto a carico del legislatore bensì anche della Corte Costituzionale intervenuta,in alcune occasioni, con sentenze significativamente decisive.

Dato che non deve sorprendere se si tiene presente quale fosse la disciplina della successione mortis causa del figlio naturale al momento dell’approvazione ed entrata in vigore del Codice civile vigente e quali siano stati nel tempo i significativi mutamenti del costume sociale del popolo italiano.

Anzi, si potrebbe affermare che gli interventi legislativi in materia hanno avuto un ritmo evolutivo di gran lunga inferiore rispetto all’evoluzione sociale al punto che il disegno di legge, che ha anticipato la recente Riforma 2012, ancora una volta si trova ad intervenire sui profili successori del figlio naturale.

Interessante è osservare che già il testo del Codice civile, approvato nel 1942, recava molte novità e innovazioni migliorative dello

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statuto successorio del figlio naturale rispetto a quanto non fosse previsto nel precedente codice e in quelli delle altre legislazioni con le quali l’Italia si è sempre misurata.

Il quadro che il legislatore del ’42 consegna è assai semplice e solo in parte differente da quello oggi vigente.

I figli naturali sono e già erano, ad alcune condizioni, eredi legittimi.

Facendo un rapido excursus storico si ricorda, con riferimento in particolare ai diritti ereditari nel codice civile ante riforma del 1975, che i figli naturali avevano un trattamento di sfavore, sia nel caso di concorso con i figli legittimi dello stesso genitore, infatti i figli naturali riconosciuti conseguivano, se in concorso con i figli legittimi la metà della quota spettante a questi ultimi(45), sia e perfino quando i figli

naturali non concorrevano con i legittimi.

Infatti in assenza dei figli legittimi i figli naturali concorrevano con gli ascendenti del de cuius, sia in presenza che in assenza del coniuge(46).

Ora, partendo dal fatto che vede l’ordinamento giuridico riservare, per lungo tempo, ai figli nati fuori del vincolo matrimoniale un trattamento deteriore, si arriva alla riforma del ’75 che, ponendosi come strumento di attuazione dei Principi Costituzionali, si sforza di realizzare una pressocchè completa equiparazione della filiazione naturale alla legittima sia sul piano dei rapporti personali e patrimoniali, che su quello dei rapporti successori.

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Cfr. Art. 574 cod. civ. del 1942 ante riforma del diritto di famiglia del 1975.

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Le scelte attuate, quindi, dal legislatore dell’epoca testimoniano, in misura evidente, la precisa volontà di dare alla filiazione naturale la stessa dignità di quella legittima attraverso una sostanziale parificazione tra le due categorie di figli quantomeno nei rapporti con il genitore (artt. 537 e 566 c.c.).

Tale previsione fu ritenuta una tra le più significative innovazioni

introdotte dalla riforma del diritto di famiglia (47).

Può dirsi,tuttavia, che proprio a seguito di questa riforma, quella sostanziale parificazione tra figli legittimi e naturali sul piano del trattamento successorio si fermava ad una tutela giuridica piena del figlio nei confronti del proprio genitore che determinava un rapporto genitore-figlio,sostanzialmente omogeneo, nel senso di attribuire gli stessi diritti successori ai figli legittimi e a quelli naturali nel caso di morte del genitore, a prescindere dall’esistenza o meno di un matrimonio.

Ma quel rapporto omogeneo genitori-figli si presentava ancora come un rapporto univoco per la capacità, appunto, di esplicarsi nella sola linea retta discendente; in pratica non sorgevano diritti successori nel senso inverso, dal genitore naturale nei confronti del figlio deceduto, salvo quanto disposto dall’art. 578 c.c. (per il caso di mancanza di prole o di coniuge), né sorgevano diritti successori pieni tra fratelli naturali.

Proprio sulla base di tali considerazioni,è agevole, per contro, constatare che tra i temi ereditari, toccati dall’intervento del legislatore del 2012, spicca quello della successione tra fratelli di cui uno sia nato nel matrimonio del genitore defunto, l’altro, invece, al di fuori del matrimonio sempre dello stesso defunto.

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Il fatto che il riconoscimento della filiazione naturale originasse rapporti solo tra genitore e figlio riconosciuto e non tra quest’ultimo e i suoi fratelli, nati nel matrimonio dello stesso genitore, provocava che, in morte di uno di questi fratelli, il fratello superstite non potesse mai ereditare dal fratello defunto.

Aveva posto, parzialmente, rimedio a questa situazione, però, la Corte Costituzionale con la sentenza n.55/1979, nonchè con la successiva sentenza n.184/1990, sancendo che al decesso di un fratello

naturale, l’altro fratello avrebbe potuto ereditate se il defunto non avesse

lasciato coniuge, figli e altri parenti entro il sesto grado.

In altri termini, la Consulta aveva sancito che, prima dello Stato e in mancanza di congiunti entro il sesto grado, avrebbe potuto ereditare il fratello naturale del soggetto defunto.

Ora, anche questo problema è superato essendo la filiazione naturale equiparate alla filiazione legittima:se muore un soggetto che non lascia figli, i suoi fratelli ereditano sia che siano figli nati nel matrimonio del loro genitore, sia che siano figli nati al di fuori di tale matrimonio.

La conseguenza è che la presenza di fratelli naturali comprime le quote dell’eventuale coniuge superstite e di eventuali altri fratelli ed esclude la chiamata al’eredità di parenti di grado ulteriore rispetto al grado dei fratelli.

Se con la riforma del 1975 si è cercato di superare quelle differenze tra filiazione legittima e naturale e di attuare quella

sostanziale equiparazione (così era stata definita), dei discendenti

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quote spettanti ai figli legittimi(48), previsione ritenuta una tra le più

significative innovazioni introdotte dalla riforma del diritto di famiglia,

la stessa riforma ha fatto comunque salva la facoltà dei figli legittimi di soddisfare in denaro o in beni immobili ereditari la porzione spettante ai figli naturali che non vi si oppongano: il c.d. diritto di commutazione.

In caso di opposizione, la decisione spetta al giudice, valutate le circostanze personali e patrimoniali, combinato disposto art. 566, 2° co, e art. 537, 3° co, c.c. (49).

A questo punto si ritiene opportuno fare alcune considerazioni tra passato e futuro, de iure condito e de iure condendo.

Prima della riforma del diritto di famiglia del 1975, non era previsto il diritto di opposizione alla commutazione e pertanto si poteva

(48) L’art. 574, nella formulazione del codice civile del 1942, che prevedeva il

concorso dei figli naturali e legittimi e che i figli naturali in caso di concorso con i figli legittimi, conseguivano la metà della quota che conseguivano i legittimi, è stato abrogato dall’art. 187 della legge di riforma del diritto di famiglia n.151/75. E’ stato anche abrogato l’art. 575 del cod. civ. del 1942 ante riforma del diritto di famiglia n.151/75, che prevedeva il concorso dei figli naturali con ascendenti e coniuge del genitore e l’art. 576 del cod. civ., che prevedeva la successione dei soli figli naturali.

(49) Per espressa previsione legislativa, i beni da dare in commutazione possono

essere soltanto denaro o immobili ereditari, con conseguente esclusione di beni mobili diversi dal denaro o di immobili che non siano ereditari. Gli immobili da dare in commutazione devono/dovevano essere stimati secondo il loro valore venale e il loro stato al tempo della dichiarazione di commutazione. E ciò anche nel caso in cui la quota dei figli naturali venga/fosse commutata in denaro. Invece il valore della quota va/andava determinata con riguardo al momento dell’apertura della successione. Secondo alcuni si può/poteva utilizzare, per l’esercizio del diritto di commutazione, anche denaro non ereditario, perché dal tenore letterale della norma non è/era dato ricevere una restrizione a questo riguardo. Per tutti L. MENGONI,

Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione legittima, in Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da A. Cicu e L. Messineo e continuato da L.

Mengoni, Milano, 1999, p. 77, con nota 34; G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, a cura di A. Ferrucci e C. Ferrentino, Tomo I, Milano, 2009, p. 457 ss.; L. FERRI, Dei

legittimari. Art. 536-564, cit., p. 36; G. CATTANEO, La vocazione necessaria e la vocazione legittima, in Tratt. dir. priv. diretto da P. Rescigno, vol. 5, Torino, 1997,

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allora sostenere che l’atto di commutazione fosse un negozio giuridico unilaterale esercitato dai figli nati nel matrimonio nei confronti dei figli nati al di fuori di esso.

A seguito della nuova formulazione dell’art. 537 c.c. (come modificato dalla legge di riforma del diritto di famiglia del 1975) che ha previsto l’opposizione, in verità mentre vengono eliminate quelle modalità operative dell’istituto che costringevano i figli naturali ad essere soggetti ai figli legittimi del defunto ai quali, in precedenza, era riservato il diritto potestativo di estrometterli dalla comunione ereditaria, il negozio di commutazione viene ad assumere una natura giuridica diversa, di negozio bilaterale o plurilaterale, essendo necessaria la volontà dei figli fuori dal matrimonio.

La fase esecutiva della commutazione poteva avvenire, pertanto, solo in base ad un accordo o, in mancanza di questo,in base ad una decisione giudiziale(50).

Il nuovo testo della citata disposizione, infatti, prevedendo per i figli naturali la facoltà di proporre opposizione su cui decide il giudice

valutate le circostanze personali e patrimoniali riduce, fortemente,

quella discriminazione a carico dei figli naturali.

(50) In forza del quale in luogo della quota indivisa sulla comunione ereditaria si

attribuivano ai figli nati fuori dal matrimonio denaro o immobili ereditari, corrispondenti al valore della quota ereditaria, in modo che i figli che sceglievano volontariamente di uscire dalla comunione ereditaria avevano integri i loro diritti ereditari. Nel caso di un’eventuale successiva scoperta di beni ereditari, si doveva procedere a un supplemento di divisione, perché i figli naturali ed anche i loro eredi, avevano un diritto pro-quota sui successivi beni scoperti, per cui si doveva tenerne conto perché precedentemente la comunione ereditaria è stata sciolta rispetto ad altri beni. Così L. MENGONI, Successioni per causa di morte. Parte speciale.

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Il fine dell’introduzione dell’istituto della commutazione nel codice del 1942 e prima ancora in quello del 1865, fu quello di impedire un eccessivo frazionamento della proprietà ed offriva ai figli legittimi l’opportunità di conservare i beni ereditari nella loro integrità.

In questo senso, la sua persistenza, quale residuo di un trattamento di sfavore verso la prole naturale, dopo la riforma del 1975, che pure aveva innovato con riguardo ai diritti dei figli naturali, viene giustificata con l’esigenza di salvaguardare i diritti dei componenti la famiglia legittima con particolare riguardo ai beni ereditari con valore affettivo per il nucleo familiare.

Eppure, già in fase di elaborazione della riforma del’75, alcuni autori lanciavano critiche all’indirizzo della scelta di conservare l’istituto della commutazione, adducendo un sospetto contrasto con l’art. 30, 3° co, Cost. e con il principio di uguaglianza di cui all’ art. 3, Cost. in considerazione che solo i figli naturali e non anche i figli legittimati e gli adottivi, che pur sempre sono estranei alla famiglia fondata sui vincoli di sangue, sono esposti all’eventualità di vedersi commutata la propria quota d’eredità da parte dei figli legittimi.(51)

Anzi, appare evidente come, in virtù dell’equiparazione tra le due categorie di figli, l’assoggettamento alla commutazione dei figli naturali

(51)Così U. MAJELLO, Profili costituzionali della filiazione legittima e naturale,

Napoli, 1965, 23; criticamente BESSONE, ALPA, DANGELO, FERRANDO, SPALLAROSSA, La famiglia nel nuovo diritto, Bologna, 1997, 262,. A favore del mantenimento del diritto di commutazione, invece, G. GABRIELLI, op. cit., 48 ss., secondo cui, altrimenti, si rischierebbe, stante l’uguaglianza di quote fra figli legittimi e naturali, che i primi siano privati, in sede di divisione giudiziale, dell’assegnazione in natura di beni ereditari del massimo valore affettivo per il nucleo familiare.

(18)

51

ivi ricompresi fra soggetti titolari(52), finisca oggi per porsi in funzione di interessi appartenenti anche a soggetti estranei al nucleo familiare fondato sul matrimonio(53).

Inoltre sembra certo che il potere di commutazione, al pari di quanto previsto all’art. 574 c.c., abrogato spetti anche ai discendenti dei figli legittimi dal momento che succedono per rappresentazione al loro ascendente(54).

Ma è pur vero che i figli legittimi possono essere rappresentati anche dai loro discendenti naturali, ergo, dal rifiuto o dall’impossibilità di un figlio legittimo di venire all’eredità, si determina la chiamata dei suoi discendenti naturali che potrebbero esercitare la facoltà di commutazione nei confronti dei figli naturali del defunto, risultato poco coerente con le finalità proprie dell’istituto(55)

.

(52) In posizione isolata G. D’ AVINO, Commutazione delle quote ereditarie dei

figli naturali,in Riv. not., 1984, 570, secondo cui tale diritto non compete ai figli

legittimati e agli adottati con adozione speciale, in quanto, viceversa, si creerebbero ulteriori discriminazioni in contrasto con l’art. 3 Cost. e con la ratio stessa dell’istituto, che non è espressione immediata di un principio di con titolarità e

quindi suscettibile d’essere attribuito chiunque per il solo fatto di risultare coerede, ma in quanto ius singolare esige un’interpretazione restrittiva, in fedele aderenza alle ipotesi stabilite dal legislatore.

(53)

Al riguardo, B. FERRARI, op. cit., p.1353 ss., spec. 1374. Diversamente, A. e

M. FINOCCHIARO, op. cit. p. 2286 secondo cui il fondamento della commutazione non è tanto la tutela della famiglia di sangue, quanto della famiglia legittima rispetto ai figli nati fuori del matrimonio e perciò per tradizione visti con disfavore dalla coscienza sociale prima ancora che dalla legge, sicchè la discriminazione in parola non è che il logico corollario delle radici cui affonda l’istituto.

(54 )L. FERRI, Dei legittimari, in Comm. c.c. Scialoja-Branca, 2 ed.,

Bologna-Roma,1981, 32 ss., ricorda come nell’art.574, 2° co., c.c. abr., il diritto di commutazione fosse espressamente attribuito ai figli legittimi ed ai loro discendenti; la circostanza che sia omesso nella nuova formulazione della disposizione l’inciso non significa però, secondo l’A. , che si sia voluto privare i discendenti del potere di commutare, dovendosi l’omissione considerarsi una mera inesattezza formale.

(55)

L.MENGONI, Successioni per causa di morte, in Tratt. Cicu-Messineo, 6 ed.,

(19)

52

A ridurre le conseguenze di tali considerazioni resta, però, l’ampio potere discrezionale ora attribuito al giudice che, in caso di opposizione dei figli naturali, l’abbiamo visto, sarà chiamato a valutare la legittimità della commutazione in ogni sua applicazione, proprio al pari di un’indagine riguardante le concrete circostanze personali e patrimoniali.

Per concludere, l’ambito di operatività dell’istituto, con il conferimento di tali compiti, si restringe alle sole ipotesi dalle cui valutazioni il giudice può trarre il convincimento che la commutazione corrisponde ad un reale interesse dei figli legittimi a garanzia dell’unità e coesione del nucleo familiare(56).

E’ logico che, qualora detta esigenza di tutela non si verifichi, dovrebbe ritenersi legittimo il rifiuto del figlio naturale di addivenire alla commutazione(57).

Ora l’introduzione dell’unico stato giuridico di figlio,la totale equiparazione tra figli nati nel matrimonio e figli nati fuori dal

matrimonio e la strada ormai irreversibile scelta dal legislatore della

novella 2012, hanno privato del tutto il contenuto dell’istituto del diritto di commutazione, sebbene la norma che lo disciplina (art. 537, co 3, c.c.) non sia stata ancora espunta dal codice civile.

Gran parte della dottrina, infatti, pur riconoscendo, fino all’entrata in vigore della L. 219/2012, la conformità del diritto d commutazione all’art. 30, co 3, Cost. la legge assicura ai figli nati fuori

(56)

M. CARRARO, Filiazione naturale, 148.

(57) Cfr. G. FERRANDO, La filiazione naturale e la legittimazione, cit., 120

secondo cui il giudice deve dare prevalenza agli interessi dei figli legittimi soltanto quando i beni in questione corrispondano ad un patrimonio di affetto o di lavoro a cui è estraneo il figlio naturale.

(20)

53

dal matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima, tra la riforma del 1975 e quella del

2012(58), ne aveva auspicato il suo superamento, in considerazione della differenza di trattamento tra figli legittimi e naturali(59).

In particolare, la norma di cui all’art. 537, co3, c.c., così come formulata, dovrà, con grandissima probabilità, essere sostituita dai previsti decreti legislativi di revisione al fine di eliminare ogni

discriminazione tra i figli.

E questo: nel rispetto dell’art. 30, co 3, Cost., la legge assicura ai

figli nati fuori dal matrimonio ogni tutela giuridica e sociale; con

riguardo all’ art. 3 Cost. tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono

eguali davanti alla legge senza distinzione di condizioni personali e sociali; e perché non con riguardo ai principi di cui all’art.315, c.c.

(come modificato dall’art. 1 L. 10 dicembre 2012, n.219), secondo cui il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti.

Ebbene, nonostante si tratti di una norma che non è stata formalmente abrogata, essa perde di significato in quanto, scomparendo la categoria dei figli naturali ed essendo questi equiparati in tutto e per tutto ai figli legittimi, anche il diritto di commutazione dovrebbe cessare di esser presente nel nostro ordinamento.

In altri termini, i figli nati al di fuori del matrimonio del soggetto defunto non dovranno più esser liquidabili da quelli nati nel matrimonio,

(58) L. MENGONI, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione

legittima, in Trattato di diritto civile e commerciale, cit., p.79 ss.; G. BONILINI, Manuale di diritto di famiglia, Torino, 2006, p. 21.

(59)

(21)

54

tutti costoro partecipano quindi irrimediabilmente alla comunione ereditaria, senza che quelli nati fuori dal matrimonio possono subire l’opposizione di estromissione da quelli nati in costanza di matrimonio.

3. Potestà dei genitori e autonomia del minore

Altro aspetto, inerente la filiazione naturale, che merita di essere analizzato è la potestà genitoria definita come l’autorità personale e patrimoniale che l’ordinamento attribuisce ai genitori sul figlio minore nel suo esclusivo interesse.

Essa comprende, nello specifico, i poteri decisionali funzionalizzati alla cura e all’educazione del minore e, ancora, i poteri di rappresentanza del figlio e di gestione dei suoi interessi economici(60).

Più precisamente, possiamo dire che la potestà dei genitori rappresenta la traduzione, in discorso giuridico, di quel fondamentale momento della vita sociale, in perenne evoluzione, costituito dal rapporto tra genitori e figli.

Espressione di un incessante lavoro di livellamento tra istanze sociologiche e prescrizioni giuridiche, l’istituto in esame nasce come manifestazione particolare di un preciso arco temporale e di retaggi culturali ed economici prevalenti in quel dato momento storico.

La potestà genitoria, infatti, sin dalle origini più risalenti, è stata qualificata dalla posizione di autorità attribuita alla figura del genitore rispetto a quella di subordinazione spettante alla prole(61).

(60)

Cfr. anche L. FERRI, Della potestà dei genitori, sub art. 315-342, in Comm. c.c. Scialoja Branca, a cura di F. Galgano, Bologna – Roma, 1998.

(22)

55

E’ innegabile, quale esempio emblematico, come la patria potestà ante riforma del 1975 fosse estremamente diversa da quella che oggi l’interprete conosce(62)

.

D’altronde, il legislatore italiano del 1942 e più indietro del 1939(63), è stato spesso accusato di conservatorismo in materia di diritto di famiglia proprio perché, inserendosi in un orientamento diffuso a livello europeo, aveva impostato tutto il sistema sul principio dell’auctoritas del genitore sul figlio.

In quel contesto, emergeva una patria potestà con funzione atta a garantire soprattutto l’unità e la solidità della famiglia legittima e, perciò, facente capo ad una figura che doveva concentrare in sé ogni forma di potere: questa figura forte viene individuata, sia per esigenza che per tradizione nell’uomo che allo stesso tempo era padre e capofamiglia.(64)

(61) In una prospettiva più generale, C. M. BIANCA, voce “Famiglia (diritti di)”,

cit., 71 ss.

(62)

E’ facile ricondurre l’impostazione della patria potestà ante riforma del 1975

alla più generale visione della famiglia che dominava negli anni immediatamente successivi alla codificazione. La cellula familiare,infatti, era immaginata esclusivamente quale seminarium rei pubblicae e, dunque, dedita al perseguimento di un interesse super-individuale del gruppo familiare, di natura pubblicistica, prevalente rispetto all’interesse dei singoli membri. Questa impostazione è propria dell’opera di A. CICU, Lo spirito del diritto familiare, in Scritti minori di Antonio

Cicu, I, 1, Milano, 1965, 131 ss.

(63)

Come noto, il primo libro del Codice civile, dedicato alle persone, entrò infatti

in vigore due anni prima rispetto agli altri. In ordine alla patria potestà nella legislazione previgente alla riforma del 1975, per tutti, S. CICCARELLO, voce

Patria potestà: diritto privato (legislazione previgente), in Enc. Dir., Milano, 1982,

XXXII, 255 ss., ed ivi ampi riferimenti di bibliografia sul tema.

(64) Vedi C. M. BIANCA, voce Famiglia (diritti di), in Novissimo Dig., Torino,

1961,71 ss; P. VERCELLONE, La potestà dei genitori: funzione e limiti interni, in P. Zatti (diretto da ), Trattato di diritto di famiglia, II, Filiazione, Milano, 2002, 959 ss. Per sottolineare la centralità assoluta della figura paterna, il codice del 1942 elimina l’antico istituto del consiglio di famiglia. Cfr. M. CAVINA, Il potere del

padre, Milano, 1995, e M. SESTA, Privato e pubblico nei progetti di legge in materia familiare, in Studi in onore di Pietro Rescigno, II, Milano, 1998.

(23)

56

E’ questo uno degli aspetti definitori dell’istituto che traccia uno spazio giuridico entro il quale può esprimersi la supremazia del genitore rispetto al figlio; dato costante che non muta nel tempo: la posizione della prole è schiacciata dalla volontà parentale.

E mentre la potestà mantiene impressa in sé l’impronta dell’autorità, mutevole sarà invece il rapporto di equilibrio tra la posizione di dominio e quella di autonomia del figlio.

L’impostazione dell’istituto orsù descritta sopravvive al ventennio così come immutata resta all’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e alla conseguente affermazione di principi contrari come quello dell’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi (art. 29, co. 2, Cost.) o del diritto-dovere dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli anche se nati fuori dal matrimonio (art. 30, Cost.).

La descritta struttura della potestà, secondo la prospettiva della centralità del pater familias, comincia ad essere posta in discussione soltanto agli inizi degli anni 70, quando i tribunali per i minorenni, resi autonomi, cominciano ad indirizzare la loro azione verso la tutela degli interessi della prole.

E così, con il susseguirsi delle stagioni storiche e giuridiche, si passa gradatamente da una forma di autorità ad una che vede come oggetto immediato di protezione non più solo la famiglia e la sua unità, ma innanzitutto l’interesse dei figli minori in formazione.

Dopo questo periodo, imperniato sul ruolo del minore nella famiglia, e più in generale, della famiglia nella società, i cambiamenti legislativi e sociali divengono immediati e repentini fino a che non si

(24)

57

giunge alla legge n. 151 del 19 maggio 1975, con la quale si chiude una prima fase del diritto di famiglia(65).

All’indomani della riforma viene rivalutato il momento comunitario dei rapporti endofamiliari con l’affermazione della pari dignità di tutti i membri (art.143 ss e art.315 c.c.); l’accordo diviene poi la regola e la spinta della vita familiare (art. 144 e 316 c.c.); il principio solidaristico spinge ogni componente della famiglia a collaborare nell’interesse della comunità e degli altri membri (artt. 143, co 2 e 3, come anche l’art. 315 c.c.); la filiazione legittima viene parificata alla naturale (artt. 261, 317 bis,537 e 542 c.c.)(66).

Con la riforma del diritto di famiglia, come si diceva, si compie, dunque definitivamente il passaggio da una concezione della potestà come diritto ad una che la guarda principalmente come funzione nell’interesse dei figli, come assunzione di responsabilità nei loro confronti.

Nello stesso tempo la riforma viene ad ampliare gli spazi di autonomia del minore.

La tendenza alla valorizzazione della personalità dei figli, il riconoscimento di più ampi spazi di libertà ed autonomia trova significativi riscontri nella disciplina della potestà, il cui esercizio deve esser guidato dal rispetto della personalità minorile, e deve tener conto

(65)

Per tutti, S. RODOTA’, La riforma del diritto di famiglia alla prova, in Pol.

dir., 1975, 668 ss., il quale esalta il principio paritario, espresso dalla riforma, quale principio destinato ad operare complessivamente nell’organizzazione familiare, costituendo l’indispensabile supporto formale del privilegio accordato al momento affettivo. Cfr. anche F. RUSCELLO, La potestà dei genitori, cit., 129, e A.

FINOCCHIARO e M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, II, Milano, 1984, 1979.

(66)

In questi termini ricostruisce la vicenda della privatizzazione e della funzionalizzazione del diritto di famiglia postriforma G. AUTORINO STANZIONE,

(25)

58

della capacità, delle aspirazioni, delle inclinazioni del figlio, il quale appare sempre meno come oggetto e sempre più come soggetto di diritti.

L’art. 24 della Carta di Nizza dice testualmente: i bambini

possono esprimere liberamente la propria opinione; questa viene presa in considerazione sulle questioni che li riguardano in funzione della loro età e maturità.

Sotto questo profilo è possibile individuare una serie di norme che, ispirandosi al disposto dell’art.147 c.c., esprimono l’esigenza di tener conto delle inclinazioni e della capacità del figlio, e quindi attribuiscono al figlio una più ampia partecipazione alle scelte che direttamente lo riguardano, facendo corrispondere alle diverse età del minore, 14 e 16 anni, il progressivo conseguimento di una autonomia anche decisionale.

Così, se ha raggiunto i quattordici anni, il figlio deve essere sentito quando sorge un contrasto fra i genitori sui contenuti da dare alla funzione educativa (art. 316).

A sedici anni può proporre istanza perché sia nominato un curatore speciale che inizi l’azione di disconoscimento di paternità (art. 244); è necessario il suo assenso perché il genitore naturale possa procedere al riconoscimento (art. 250) e il suo consenso per promuovere o proseguire l’azione di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità (art. 273) o per ottenere la legittimazione per provvedimento del giudice.

Ma in una visione comunitaria della famiglia il figlio diviene soggetto attivo di una serie di rapporti che trascendono la sua ristretta sfera personale per investire quella dell’intero gruppo familiare.

(26)

59

contenuta nell’art. 250 bis che attribuisce dignità al lavoro svolto in modo continuativo dal familiare nella famiglia.

Fino a poco tempo prima assolutamente disatteso, oggi il lavoro svolto dal figlio nell’impresa familiare diventa una delle forme di collaborazione cui la legge di riforma del ’75 dà ampio riconoscimento. Precisa infatti l’art. 230 bis che anche il minore ha diritto di partecipare agli utili dell’impresa familiare e ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda stabilendo che per le relative decisioni, essi sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà su di essi.

Ma al conseguimento da parte del figlio di un ruolo partecipativo all’interno della famiglia e perciò di nuove sfere di libertà doveva corrispondere una posizione di maggior responsabilità.

Si comprende perciò il dovere imposto dall’art. 315, di

contribuire in relazione alle proprie sostanze e ai propri redditi, al mantenimento della famiglia finchè convive con essa.

Queste norme riconoscono al figlio più ampi spazi di autonomia e responsabilità all’interno della famiglia.

Oggi, in verità, il momento autoritativo, anche se indubbiamente ancora presente, incontra vere e proprie posizioni di diritto in capo al figlio sub potestate, allorchè l’art. 315 bis, rubricato Diritti e doveri del

figlio, riporta nella sua sedes naturalis il principio finora enunciato

dall’art.147 c.c., secondo il quale il figlio ha diritto ad essere mantenuto,

educato, istruito e assistito moralmente dai genitori nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni (67).

(67)

Così M. SESTA, L’unicità dello stato di filiazione, cit., 236, il quale segnala come, rispetto all’art.147 c.c., destinato a scomparire in sede di attuazione dei provvedimenti delegati ex art. 2, comma1, lettera h), L. n. 219/2012, il nuovo testo si

(27)

60

Proprio perché in funzione dell’interesse del minore e della formazione della sua personalità, l’esercizio della potestà personale si evolve durante quel periodo e man mano che nel minore matura la capacità di fare le proprie scelte di vita viene meno la ragione del suo assoggettamento ad una scelta esterna(68).

In generale allora, può dirsi che l’interferenza dei genitori sull’esercizio delle libertà fondamentali del minore è giustificata effettivamente solo dalla funzione di educazione e cura(69).

La realtà sociale della famiglia, è da notare, tende a riconoscere non solo questa autonomia del minore(70) ma anche una sua crescente partecipazione alle decisioni di comune interesse.

Si può affermare dunque, che la potestà del genitore, in quanto un insieme di poteri-doveri che questi deve esercitare nell’interesse del figlio(71), è un ufficio privato.

segnala, oltre che per la già richiamata enunciazione di un diritto dei figli corrispondente al dovere dei genitori.

(68) Sulla rilevanza della capacità di discernimento del minore vedi F.

RUSCELLO, in Vita not. 2000, 63.

(69) Sull’evoluzione della idea di potestà parentale nella dottrina tedesca, v. già

JAYME, Die Familie im Recht der unerlaubten Handlungen,Frankfurt a. M. Berlin, 1971, 135 e in particolare sul passaggio dal momento dell’autorità a quello del dovere, rilevato dal GERNHUBER, Lehrbuch des Familienrechts, Munchen-Berlin, 1964, 504.( come indicati da ……)

(70) In generale sul rapporto tra potestà genitoria e personalità del minore v.

STANZIONE, in Rapporti personali nella famiglia, a cura di Perlingeri, Napoli, 1982, 88.

D’altra parte, la funzione educativa esige l’esercizio dei poteri finalizzati a tale funzione (L. FERRI, cit., 19). In questo significato e in questi limiti il rapporto personale tra genitore e figlio può quindi ricadere nell’ambito della potestà genitoria. Il diverso atteggiarsi della posizione dei figli nell’ambito della famiglia tende ad incidere anche sul problema della responsabilità per il loro operato e nei loro confronti.In argomento v. F. PATTI, Famiglia e responsabilità civile, Milano, 1984, 45, e ivi un’analisi del significato mutare del diritto anglossassone in tema di immunità interfamiliari.

(28)

61

L’intendimento della potestà, quale diritto, ha ormai perduto il suo originario significato legato alla concezione del figlio come un bene personale dei genitori(72), ai quali deve essere riconosciuto l’interesse all’esercizio del loro ufficio.

L’indicazione costituzionale del diritto dei genitori di mantenere, educare e istruire la prole (art. 30, co 1) tutela appunto questo interesse nei confronti dello Stato e nei confronti dei terzi(73).

Il genitore precisamente, nei confronti dello Stato, ha diritto alla titolarità e al rispetto del suo ufficio privato, salvo sempre il preminente interesse del figlio; nei confronti dei terzi ha diritto affinchè la sua potestà non sia né contestata, né impedita.

Dunque, con l’esplicito riconoscimento di quelli che sono i veri e propri diritti del figlio e non più solo doveri dei genitori, la potestà, spazio giuridico dove tali diritti e doveri si esprimono, chiaramente, si presenta quale strumento che da un punto di vista contenutistico, accoglie la varietà di fenomeni di filiazione che vanno da quelli biologici ai sociali(74), ma non solo, essa, è sede di sviluppo dell’autonomia decisionale del minore, dei suoi diritti e della sua capacità di autodeterminazione.

(71)

F. RUSCELLO,La potestà ecc., cit., 78: il rapporto genitori-figli è […]

caratterizzato da una correlazione di situazioni soggettive complesse che non si possono né esaurire né, conseguentemente individuare nella mera caratterizzazione della potestà […] alla soggezione.

(72)

Ma sulla persistente idea del potere dei genitori sul figlio come ad essi appartenente, v. le indicazioni comparatistiche di Stoljar, in IECL, IV, 7, 40.

(73)

La costituzione tedesca prevede la cura e il mantenimento del figlio come

diritto naturale dei genitori (art. 6). Ma nel senso che tale diritto non tuteli alcun interesse del genitore in conflitto col figlio, v. Jayme, cit., 137.

(74)

In tema, M. G. STANZIONE, Filiazione e “genitorialità”. Il problema del

(29)

62

Se poi, già nel 1975, l’istituto era mutato da una parte per la piena realizzazione della parità dei genitori e dall’altra per la realizzazione dell’interesse della prole, solo nel 2012, con l’affermazione dei diritti in capo al figlio sub potestate, si può registrare il tramonto della precedente concezione che eleggeva la potestà a vero e proprio diritto soggettivo attribuito ai genitori, lettura che appare oggi inconciliabile con il pieno riconoscimento del figlio minore come persona, titolare di proprie posizioni giuridiche che contribuiscono a definire la potestà genitoria(75).

La linea evolutiva intrapresa, trova oggi ideale compimento nel più recente intervento di riforma del diritto di famiglia con la l. 10 dicembre 2012, n.219, dove nel proclamare l’unicità dello status

filiationis, il legislatore ha, finanche, mutato la rubrica del titolo nono del

Libro primo del Codice civile; alla vecchia formula Della potestà dei

genitori, viene aggiunto e dei diritti e doveri del figlio.

In questa novella rubrica viene affrontato il tema dei diritti del figlio verso i genitori, tema sconosciuto alla tradizionale formulazione del dettato normativo in materia di potestà genitoria.

Alla luce del 2012, allora, possono essere riconsiderati alcuni dei principali nodi problematici che, nel tempo, hanno caratterizzato l’interpretazione e l’applicazione delle disposizioni in materia.

Una delle distinzioni fondamentali, proposte dalla dottrina in

(75)

In tema, V. FROSINI, voce “Officio”, in Novissimo Dig., XI, Torino, 1965,

773 ss. Si consideri che la riforma affida alla futura legislazione delegata l’emanazione di regole volte a delineare la nozione di responsabilità genitoriale, quale aspetto dell’esercizio della potestà: in tema, F. RUSCELLO, Potestà dei

genitori versus responsabilità, relazione tenuta al Convegno “Persona e comunità familiare (1982-2012), Salerno, 28-29 settembre 2012, in Comp. dir. civ., 2012, 1 ss.

(30)

63

merito alla potestà genitoria, è stata quella tra profili esterni e quelli interni all’istituto.

Si distingue cioè tra rapporti intercorrenti tra genitori e figli (interni) e quelli tra figlio e terzi (esterni); nel primo caso i diritti fondamentali del minore risulterebbero fortemente compressi, se non addirittura assorbiti dalla potestà genitoria, nel secondo invece, si riconoscerebbe alla prole non solo la titolarità di tali prerogative primarie dell’individuo, ma anche la subitanea possibilità di esercizio.

Seguendo questa prospettiva, verrebbe esclusa a priori, la possibilità di un conflitto di interessi tra genitori e figlio minore dal momento che la personalità dell’educando si annullerebbe in quella dei genitori nell’esercizio della funzione normativa.

In altre parole il minore, sottoposto a potestà, si vede privato della personalità e di tutti i diritti ad essa connessi, poiché affidati alla cura esclusiva dei genitori chiamati a scegliere l’indirizzo educativo professionale e culturale della prole.

Dunque non può considerarsi l’influenza che il graduale superamento della concezione autoritaria della potestà, che vedeva la prole in condizione di passiva soggezione(76), ha avuto allo scopo di poter intendere il dovere genitoriale come prius rispetto ai poteri che così

(76) Nel contesto puntuale è il richiamo a quegli Autori che hanno indagato

l’evoluzione che il concetto di potestà genitoriale che ha subìto e che continua a subire: M. PELOSI, La patria potestà, Milano, 1965, passim; Id., Potestà dei

genitori sui figli, in Noviss .dig. It.,Appendice, Torino, 1984, 1127 ss; F.

RUSCELLO, La potestà dei genitori. Rapporti personali (artt. 315-319), in Il

codice civile. Commentario, diretto da P. Schlesinger, cit., 1996, spec. 78 ss.

Per il disinteresse mostrato dalla dottrina in ordine alle situazioni esistenziali, con riferimento all’art. 147 c.c., cfr. M. TRABUCCHI, in Commentario della riforma del

diritto italiano della famiglia, a cura di Cian, Oppo e Trabucchi I, III, Padova,

(31)

64

vengono visti come strumenti per l’adempimento dell’indicato dovere. La piena inversione della tendenza accennata si è mostrata prima con la riforma del diritto di famiglia del 1975 che, accogliendo gli orientamenti Costituzionali derivanti dall’indirizzo giurisprudenziale e dal contributo della dottrina più sensibile, ha permesso di inquadrare l’esercizio della potestà genitoriale non come esclusivo contenuto di un diritto, ma come un impegno per la realizzazione degli interessi della prole,(77) da compiersi entro i limiti segnati dall’art. 147 c.c.(78).

L’opinione di chi ha ravvisato, nelle norme di cui all’art 30 Cost. e 147 c.c., una conferma della tendenza del legislatore a stendere un

modello di relazione tra genitori e figli che ponga di fronte la coppia nel suo insieme e in posizione di parità con il minore”(79) appare

(77)

La concezione della potestà genitoriale in termini di esercizio di funzione, di

ufficio, elaborata già in epoca anteriore alla riforma del diritto della famiglia del 1975 dalla giurisprudenza del S.C., è da allora costantemente accolta senza riserve al punto da assurgere al rango di principio di diritto vivente. Cfr., ex multis, Cass., 11 gennaio 1978 n. 83; Cass., 14 aprile 1988 n. 2964, in Foro it.,1929, I, 466 ss.

(78)

Si veda, M. BESSONE, La famiglia nella Costituzione, Bologna-Roma, 1976,

91.

(79) Cfr., P. ZATTI, Gli effetti della separazione, in Trattato di diritto privato,

diretto da Rescigno, I, Torino, 1996, 273. Tale potestà comune non cessa, in base all’art.317, II comma, c.c., neanche quando, a seguito di separazione, di scioglimento, di annullamento, o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, i figli vengono affidati ad uno di essi. In tali casi , allora, l’esercizio della potestà è regolato da quanto disposto dall’art.155 c.c. nella nuova formulazione introdotta dalla legge sull’affidamento condiviso (l. n. 54/2006); in particolare, il III comma dello stesso dispone che la potestà genitoriale sia esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggior interesse per i figli relative all’istruzione,alla educazione e alla salute dovranno essere assunte di comune accordo dai genitori tenendo conto della capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli e ciò in chiaro rinvio al disposto di cui all’ art. 147 c. c.. ed anche nel caso in cui il giudice ritenga ricorrere gli estremi per un affidamento monogenitoriale, dovrà far salvi i diritti del minore a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascun genitore, così come disposto al II comma dell’art. 15-bis c.c., potendo dunque provvedere ad un affido assai poco esclusivo (cfr., peraltro, il disposto dell’art. 6, IV e VII comma, l. n. 898/1970, in tema di divorzio); sul punto sia consentito un rimando a A.

(32)

65

condivisibile dal momento che la figura del minore viene valorizzata in quanto partecipe delle scelte genitoriali.

Infatti attraverso una lettura combinata degli artt. 30 Cost. e 147 c.c., risulta evidente come nel rapporto educativo fra genitori e figli,

l’autonomia del minore, la valutazione della sua personalità, delle sue aspirazioni rappresentino elementi fondamentali: i genitori sarebbero, in tale ordine di idee, custodi della libertà dei figli(80).

Questa posizione, già contestata ampiamente in dottrina, si rivela, oggi, ancor più insostenibile, nel momento in cui il legislatore del 2012 ha inteso, con l’art. 315 bis c.c., inquadrare i diritti spettanti al minore nei confronti dei genitori.

Era già questa la ratio della disposizione dell’art. 147 c.c., che espressamente impone ai genitori, nell’esercizio dei loro compiti educativi e di formazione, di tener conto delle capacità, dell’inclinazione

naturale e delle aspirazioni dei figli, oggi esaltata nella prospettiva dei

diritti del minore, di cui all’art.315 bis.

La funzione della norma è quella di eleggere la centralità della personalità del figlio, prima ancora che nei rapporti con i terzi, in quelli con i genitori(81).

BALLARANI, Potestà genitoriale e interesse del minore:affidamento condiviso,

affidamento esclusivo e mutamenti, in L’affidamento condiviso, a cura di F. Patti e L.

Rossi Carleo, Milano, 2006, 29 ss.

(80)

Così, C. GIACOBBE e L. FREZZA, Ipotesi di disciplina comune nella

separazione e nel divorzio, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, I, Famiglia e matrimonio, a cura di G. Ferrando, M. Fortino e F. Ruscello, t. 2, Separazione e divorzio, Milano, 2002, 1325. Come precedentemente esposto, tali

principi trovano riconoscimento nella Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, ispirata alla libertà di manifestazione del pensiero nonché della libertà di coscienza e religiosa dei fanciulli.

(81)

Per tutti, P. STANZIONE, Capacità e minore nella problematica della

(33)

66

Il figlio, dunque, soprattutto nei rapporti con i genitori deve poter esercitare tutti i diritti fondamentali di cui la Costituzione gli riconosce la titolarità sin dalla nascita e la possibilità di esercizio al raggiungimento della capacità di discernimento(82).

Riassumendo, il compito dei genitori, nell’esercizio della potestà, è duplice: in un primo momento, quando il figlio è piccolo, devono consentirgli di sviluppare la sua personalità, successivamente, quando il minore è più grande e ha raggiunto una propria autonoma capacità nelle scelte e una propria personalità, ai genitori spetta favorire l’esercizio dei diritti fondamentali da parte della prole, vigilando sulla tutela dell’interesse di quest’ultima(83)

.

E allora non si parla più di doveri incombenti sui genitori bensì di diritti della prole che oggi possono distinguersi a secondo che riguardano la cura della persona o l’amministrazione e la rappresentanza nei rapporti di ordine patrimoniale(84).

I diritti inerenti la sfera personale del figlio, oggi, sono codificati dall’art. 315 bis, che li individua, secondo lo schema dell’art. 147 c.c., nel diritto all’istruzione, all’educazione e al mantenimento a cui si aggiunge il diritto all’assistenza morale.

(82) La soluzione ermeneutica di ricondurre la progressiva autonomia del minore

alla formula riassuntiva della capacità di discernimento deve attribuirsi a P. STANZIONE, Diritti fondamentali dei minori e potestà dei genitori, cit., 446 ed in particolare, 468 ss.

(83)In tal senso, P. STANZIONE, Capacità e minore età nella problematica della

persona umana, cit., 350 ss. Analogamente, M. DOGLIOTTI, Dalla patria potestà alla potestà dei genitori e diritti fondamentali dei genitori, Atti dell’incontro di studi

sui “Rapporti personali nella famiglia”, in Quaderni del CSM, Roma, 1980, 39 ss.; e P.IANNI, Potestà dei genitori e libertà dei figli, in Dir. fam. pers., 1977, 867, ss.

(84)

Inter alios, B. FASAMELLI e A. AMADEI, Scelta personale dello stato di vita e progetto educativo dei genitori fra libertà e limiti: un confronto tra l’ordinamento giuridico italiano e il diritto canonico, in Giur. merito, 2000, II, 395 ss.

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