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2112 - recensione

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Academic year: 2021

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IL “2112” NON E’ SOLO UN NUMERO Di Valerio Picardi

L’album “2112” è il quarto CD della discografia dei Rush ed è considerato, dai più grandi fan della band e del genere musicale, il capolavoro assoluto dei Rush insieme a "Moving Pictures".

Effettivamente è una pietra miliare non solo del genere o della band ma della musica in assoluto!

Bisogna, innanzitutto, dire che i Rush (un trio musicale composto da Geddy Lee alla voce, basso e tastiere; Neil Peart alla batteria; Alex Lifeson alla chitarra) sono uno dei gruppi che hanno influenzato band di successo, particolarmente in ambito metal. Basti pensare a come gli arrangiamenti di batteria, alquanto complessi, di Neil Peart abbiano lasciato il segno in Mike Portnoy dei Dream Theater per non dire in tutta la band stessa; e che dire, poi, di quanto Geddy Lee, uno dei più prolifici bassisti della storia della musica, abbia dato a Steve Harris dei Maiden la tipica cavalcata, marchio inestinguibile, delle composizioni "maideniane".

Appunto la prima traccia "2112", una suite di 20 minuti, si apre con una cavalcata di basso e chitarra che, al primo ascolto, lascia intendere che si sta per sentire un brano che gli amanti del rock non dimenticheranno mai. Si passa, poi, al secondo tema della suite ("The Temple of Syrinx") in cui Geddy Lee da sfogo ad una linea vocale molto simile alla timbrica di Robert Plant.

Ciò è tipico del primo periodo della discografia dei Rush, anche nella composizione musicale, che risulta essere molto ispirata ai Led Zeppelin. La traccia alterna, seguendo un rigido discorso mentale, parti acustiche a riff hard rock e stacchi tipicamente progressive.

Bellissima la chiusura della canzone “VII Grand Finale”; caotica ma ben riempita e ben definita con frenetici stacchi di batteria che diventano “frasi musicali” di eterna memoria.

Passando alla seconda traccia "A Passage to Bangkok" si entra in un mondo dove aleggia, con prepotenza, una tematica musicale "orientaleggiante". Ma è il terzo brano, "The Twilight Zone", che richiede, a nostro avviso, le sue dovute attenzioni come altra fondamentale traccia di quest'album.

Geddy Lee qui alterna un arrangiamento vocale fantastico, in particolare nel refrain, che rallenta il pezzo secondo quello che è lo schema della rivoluzione Heavy Metal

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usando, anche, un'armonia di basso capace di riempire perfettamente la canzone e in grado di dare un effetto molto dinamico nelle due strofe pre-refrain risultando, invece, totalmente cupa e sognante nel refrain.

Seguono "Lessons" e la struggente "Tears" per, poi, concludersi con un altro capolavoro assoluto dell’album, la song “Something for nothing”, in cui risalta la parte del refrain dove chitarra e basso seguono il cantato che ancora una volta arriva a colpire efficacemente l’ascoltatore.

Questo, in definitiva, è un album che non può mancare assolutamente nella collezione di tutti i grandi appassionati del genere progressive-rock non soltanto per la sua indiscutibile bellezza ma per ciò che quest’album ha lasciato alle band che sono state maggiormente influenzate dal trio canadese.

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