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La chiesa di Santa Maria del Casale a Brindisi. A proposito di un libro recente

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Academic year: 2021

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RASSEGNA

STORICA

SALERNITANA

Società Salernitana di Storia Patria

Nuova serie

XXXI/2 - n. 62

dicembre 2014

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Presidente: GIUSEPPE CACCIATORE

Consiglio direttivo: MARIA GALANTE (vicepresidente), SALVATORE CICENIA (segretario), VITTORIO SALEMME (tesoriere), GIUSEPPE CIRILLO, † VALDO D’ARIENZO, MICHELA SESSA, PAOLA VALITUTTI, GIOVANNI VITOLO. Sede: Biblioteca Provinciale di Salerno, via V. Laspro 1, 84126 Salerno. Sito web: www.storiapatriasalerno.it; e-mail: bibliotecasssp@libero.it RASSEGNA STORICA SALERNITANA

Rivista semestrale della Società Salernitana di Storia Patria

Fasc. 62, 2014/2 (annata XXXI della Nuova Serie, LXXIII dalla fon-dazione) - ISSN 0394-4018

Direzione: GIOVANNI VITOLO (responsabile), GIANCARLO ABBAMONTE, GIUSEPPE ACOCELLA, SALVATORE CICENIA, † VALDO D’ARIENZO, MARIA GALANTE, AMALIA GALDI, LUIGI ROSSI.

Comitato scientifico: AURELIO MUSI (presidente), CLAUDIO AZZARA, JEAN -PAUL BOYER, VERAVON FALKENHAUSEN, FABRIZIO LOMONACO, SEBASTIANO MARTELLI, AGOSTINO PARAVICINI BAGLIANI, GIUSI ZANICHELLI.

Redazione: FRANCESCO LI PIRA (responsabile), VINCENZO CAPUTO, EMA -NUELE CATONE, GIUSEPPE MARINI, GIANLUCA SANTANGELO.

Tutti i contributi pubblicati nelle sezioni Saggi e Documenti sono sot-toposti a due valutazioni anonime (peer review).

_____________________

Abbonamento annuo 30 (estero 40); fascicolo singolo 20; annate arretrate 40; fascicoli arretrati 25. Abbonamento sostenitore 100. I versamenti vanno effettuati sul c/c postale 10506848 intestato a SOCIE-TÀ SALERNITANA DI STORIA PATRIA. IBAN per i bonifici: IT 39 R 07601152 00000010506848

Fascicolo stampato con il contributo del Ministero dei Beni Culturali. © 2015 by LAVEGLIACARLONE s.a.s

via Guicciardini, 31 – 84091 Battipaglia – tel./fax 0828 342527 e-mail: info@lavegliacarlone.it; sito Internet: www.lavegliacarlone.it

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LA CHIESA DI SANTA MARIA DEL CASALE A BRINDISI IN ETÀ ANGIOINA. A PROPOSITO DI UN LIBRO RECENTE*

La chiesa di Santa Maria del Casale, fondata a Brindisi tra la fine del Duecento e i primi anni del Trecento, rappresenta un episo-dio di grande importanza nelle vicende artistiche della Puglia me-dievale, segnalandosi come un caso emblematico della capacità di ricezione e di originale rielaborazione artistica e culturale di una regione che nel corso dei secoli ha saputo fare della propria posizio-ne geografica “periferica” (di volta in volta rispetto alle capitali Costantinopoli, Palermo e Napoli) e della sua funzione di “ponte verso l’Oriente” un fattore di forte caratterizzazione identitaria. L’istituzione nel 1089 del Principato di Taranto da parte di Roberto il Guiscardo per il figlio Boemondo era scaturita dall’ambizione di una prospettiva di espansione verso l’area balcanica e mediorientale. Questa si rivelò ben presto velleitaria, ma la regione continuò a con-servare una posizione preminente per gli interessi e gli equilibri po-litici e territoriali del Regno di Sicilia: il prestigio e la ricchezza dei principi si accrebbero grazie all’acquisizione di prestigiosi titoli ono-rifici, tra cui quello, puramente nominale, di imperatore di Costantinopoli nel 1313 da parte di Filippo d’Angiò, figlio di Carlo II. Nel corso dell’ultimo ventennio del Trecento, dopo il definitivo fallimento della politica balcanica angioina, si delineò la nascita di una vasta signoria feudale ad opera dei Del Balzo Orsini che rag-giunse la sua massima espansione territoriale intorno al 1426, al tempo di Giovanni Antonio, che finì con il costituire quasi uno stato nello stato, facendo concorrenza al potere della Corona. Queste diverse congiunture storiche hanno lasciato tracce visibili nella chiesa di Santa Maria del Casale che, assurta a simbolo dell’autorità angioina nel Principato, ne riflette equilibri e sistemi di potere nel corso del Trecento e del primo Quattrocento.

* Gaetano Curzi, Santa Maria del Casale a Brindisi. Arte, politica e culto nel

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La rilevanza dell’edificio – a dispetto della sua attuale posizione periferica rispetto al centro urbano e presso l’aeroporto, che certa-mente non ne favorisce la valorizzazione – è testimoniata da una non trascurabile tradizione di studi e ricerche, che ha visto un infit-tirsi di contributi dopo i restauri degli anni settanta del Novecento, e in particolare dopo la più recente campagna di interventi degli inizi di questo secolo, che ha restituito visibilità e leggibilità alle decora-zioni pittoriche. La recente monografia di Gaetano Curzi segna una tappa importante per la conoscenza e la documentazione della chie-sa. In un approccio sistematico e complessivo al tema l’A., metten-do a frutto una ricca messe di fonti figurative e scritte, nonché una capillare conoscenza della regione e dei suoi referenti culturali di raggio mediterraneo, sviluppa su canali paralleli, da un lato la ricomposizione delle fila, talvolta intricate, della cronologia delle campagne decorative e dei suoi linguaggi artistici, dall’altro l’inter-pretazione dei valori simbolici e politici della chiesa nelle sue diver-se fasi.

L’edificio fu costruito per iniziativa dell’arcivescovo Andrea Pandone e beneficiò della donazione di terreni da parte di Carlo II d’Angiò nel 1300. Doveva essere terminato nel 1310, se servì da luogo di riunione del tribunale incaricato di istituire il processo con-tro i Templari. Secondo una consolidata tradizione erudita la chiesa nacque sul sito di una più antica cappella in cui si venerava un’im-magine ad affresco della Madonna con il Bambino, che nel corso del Seicento fu collocata sull’altare maggiore, e andò poi perduta durante i restauri del 1919. Ne rimane fortunatamente il ricordo in fotografie precedenti l’intervento. La venerazione mariana del sito non solo rimase viva nel corso dei secoli nell’intitolazione della chiesa, ma continuò a rappresentare un motivo costante nelle diverse cam-pagne decorative che vi si sono susseguite a più riprese nel corso del Trecento.

La pianta della chiesa presenta una navata unica sulla quale si innesta, mediante un imponente arco a sesto acuto, l’ampia zona presbiteriale con coro a terminazione rettilinea affiancato da due cappelle a formare quasi un transetto continuo, e culminante nel capocroce rettangolare. All’esterno l’imponente impianto volume-trico, che assume nel corpo absidale un massiccio aspetto turriforme,

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155 La chiesa di Santa Maria del Casale

è ingentilito da teorie di archetti pensili e dalla sobria decorazione bicroma ottenuta dall’utilizzo di fasce orizzontali di pietra bianca di Carovigno e ocra del carparo, che sulla facciata viene declinata in eleganti motivi geometrici, spezzati dalla complessa struttura del protiro pensile retto da mensole gradonate. L’A. ricostruisce le com-ponenti del linguaggio architettonico dell’edificio riscontrando, nelle soluzioni planimetriche e decorative, ampie consonanze con altri edifici approssimativamente coevi della regione, per risalire poi a modelli che rimandano sia ad una consolidata tradizione di ricezione di motivi dell’Europa e del Mediterraneo orientale, sia ai più prossi-mi esempi di architettura francescana del Regno. Le varie fasi di affrescatura, evidentemente obliterando in alcuni punti, di volta in volta, parti degli strati più antichi, danno vita ad un contesto appa-rentemente caotico. Sulla base dell’analisi stilistica ed iconografica e dell’evidenza materiale (la sovrapposizione di successivi strati di intonaco), e con le cautele imposte dallo stato di conservazione, l’A. ha convincentemente individuato le tracce stilistiche e tematiche per ricostruire le fila di almeno tre fasi principali di intervento, fa-cendo i conti con una possibilità di lettura e di interpretazione talvol-ta non agevole, sia a causa dello stalvol-tato di conservazione non sempre ottimale degli affreschi, sia della qualità pittorica non omogenea al-l’interno degli stessi cicli, che denuncia la presenza di botteghe com-poste da numerosi artefici.

La prima campagna decorativa si colloca in immediata succes-sione cronologica con la fine del cantiere architettonico (quindi nel corso del primo decennio del Trecento) e fu condotta da una équi-pe guidata da Rinaldo da Taranto, la cui firma si legge sulla lunetta soprastante l’ingresso, in controfacciata: ciò offre all’A. anche lo spunto per un’attenta rilettura del percorso e del catalogo dell’arti-sta nel quale, come anche nel caso di Giovanni da Taranto, per la forza attrattiva della firma si sono andate aggregando opere dal carattere non sempre coerente. Il ciclo brindisino offre pertanto la possibilità di definire la cultura figurativa di questo pittore che ac-coglie, su una formazione bizantina, gli esiti del gotico occidentale mediato da modelli napoletani. In questa prima fase l’A. individua un programma iconografico i cui episodi, distribuiti in diversi am-bienti della chiesa, si ispirano a temi escatologici e cristologici: il

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Giudizio Universale in controfacciata, la Teofania sulla parete di fondo dell’area absidale, l’Albero di Jesse e l’Albero della Croce sulla parete settentrionale della navata. Non è possibile escludere che l’originaria decorazione fosse più estesa, interessando anche la parete meridionale della navata. Seppur probabilmente incompleto, il ciclo si presenta tuttavia come un insieme coerente, in cui le ma-nifestazioni della regalità e della maestà di Cristo si combinano con la sua missione di redenzione e con il tema, dalle spiccate valenze dinastiche, della sua genealogia. La presenza costante della Vergi-ne – le cui storie furono successivamente affrescate Vergi-nelle vele del capocroce – offre parallelamente un motivo unificante all’interno dei diversi cicli.

La profusione di stemmi angioini, combinati con quello papale e con le insegne delle città di Brindisi e Taranto sulle fasce decorative, permette di ricondurre la commissione di questa prima campagna di affrescatura al patrocinio angioino: Filippo di Taranto, investito del-la titodel-larità del Principato nel 1294, del resto, volle istituire neldel-la chiesa una cappella “imperiale” destinata alle celebrazioni «ad ipsius Beate Virginis gloriam et progenitorum nostrorum et nostre animarum salutem», che con convincenti argomenti fondati su evi-denze di tipo documentario, materiale e decorativo, l’A. individua nello spazio sulla sinistra dell’altare maggiore. Sebbene la chiesa non fosse stata concepita come pantheon familiare (il principe fu seppellito nella chiesa di San Domenico Maggiore a Napoli, e rima-ne del tutto misteriosa la notizia seicentesca della presenza, oggi non più verificabile, di una gisante in marmo nella stessa cappella), nondimeno assurse a simbolo dell’autorità politica del principe e della dinastia. Ne è prova il fatto che, a partire dal secondo quarto del Trecento, gli esponenti dell’élite del Regno e del Principato ambiro-no a ritagliarsi uambiro-no spazio di visibilità nella chiesa, facendosi rappre-sentare, come si dirà, nella dignità del proprio ruolo politico, ma anche attraverso l’acquisizione di spazi privati. Non è un caso, quindi, che agli inizi del Quattrocento il principe Giovanni Antonio Del Bal-zo Orsini facesse apporre – come riferiscono le fonti – le proprie insegne sulle pareti della cappella “imperiale” (o forse dell’adia-cente capocroce) di Santa Maria del Casale, a voler marcare l’am-biente con l’emblema della propria dinastia, in segno di

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“appropria-157 La chiesa di Santa Maria del Casale

zione” di uno spazio dall’alto valore simbolico e politico. Il prece-dente in tal senso più significativo risaliva al 1363 quando un in-fluente membro della corte angioina, Leonardo signore di Tocco di Caudio, conte di Zante e Cefalonia, ciambellano e vicario del princi-pe Roberto di Taranto, aveva ottenuto in patronato la capprinci-pella sul lato destro del transetto, concepita già in origine in pendant con quella “imperiale” e intitolata a Santa Caterina d’Alessandria. Il culto per la santa era molto caro alla famiglia angioina, come attestano i cicli pittorici e scultorei napoletani nelle chiese di Santa Maria Donnaregina e di Santa Chiara, nonché le numerose immagi-ni votive esibite sulle fronti dei sepolcri reali e nobiliari. In questo caso la scelta è da interpretarsi, come proporne l’A., anche in se-gno di omaggio alla madre di Filippo di Taranto, Caterina di Courtenay, e più in generale ad una tradizione ben radicata in Puglia già dalla fine del Duecento: a santa Caterina sarebbe stata infatti dedicata, sullo scorcio del secolo, la grandiosa chiesa eretta a Galatina per volere dei Del Balzo Orsini, nella fase di massima affermazione del loro potere.

La decorazione della cappella “imperiale” e di quella di Santa Caterina, databile intorno al 1313, è ad considerarsi frutto della se-conda fase di intervento. Del programma pittorico del primo am-biente rimangono però solo frammentari e molto rovinati lacerti, tra cui la figura di san Ludovico di Tolosa, al quale probabilmente era intitolato lo spazio, a celebrazione della santità dinastica angioina. L’altra cappella presenta sulla parete esterna, rivolta verso il pre-sbiterio, un ricco ciclo con episodi della santa; al suo interno un insieme composito, con immagini di santi, un’Annunciazione e una Crocifissione, è frutto di distinte campagne decorative databili tra il secondo decennio e la metà del secolo.

La speciale predilezione accordata a Santa Maria del Casale da Filippo e dal suo successore Roberto ispirò l’iniziativa di nobili e dignitari che, tra il secondo e il terzo quarto del Trecento, si fecero rappresentare in una serie di pannelli votivi distribuiti nella navata e nel capocroce, presumibilmente in corrispondenza dei rispettivi spazi di patronato all’interno della chiesa. Le immagini declinano con po-che variabili uno spo-chema comune (il devoto in preghiera al cospetto della Vergine in Maestà, accompagnato dal suo seguito di armigeri,

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e talvolta introdotto da un santo) ed esibiscono con grande evidenza i blasoni familiari dipinti sulle ampie cornici. Le scene, così costru-ite, intendono celebrare non la gloria dinastica e familiare del peni-tente, quanto piuttosto il suo ruolo politico, attingendo a modelli fi-gurativi e iconografici che virano ormai, decisamente, verso quelli in voga nella capitale del Regno. Il più antico di questi interventi è da ricondursi alla committenza di Nicola della Marra, alto dignitario della corte di Roberto d’Angiò, che intorno al 1330 si fece ritrarre in una vivace immagine che restituisce, pur nell’ambientazione reli-giosa, il sottile gusto per la rappresentazione degli abiti e delle inse-gne feudali. A questa iniziativa seguirono quelle analoghe dei Muscettola, e di altre famiglie identificate in via ipotetica con i Sanseverino e gli Arcuccio, mentre una virata del modello in senso privato e familiare si osserva nel più tardo pannello disposto nel-l’angolo nordorientale del capocroce, in cui l’A. individua un espo-nente della famiglia Del Balzo, Giacomo, e sua moglie, la principes-sa Agnese d’Angiò Durazzo: è da riconoscervi, probabilmente, il primo passo verso la più decisa acquisizione dello spazio da parte della famiglia al tempo di Giovanni Antonio. Le trasformazioni del-l’edificio nel corso dei secoli, la perdita delle porzioni basse delle pitture e il silenzio delle fonti, ostacolando la ricostruzione degli usi e delle funzioni liturgiche che si svolgevano nello spazio della nava-ta, sottraggono quindi molto alla piena comprensione di questo im-portante episodio di patronato nobiliare, unico nel suo genere – per quanto ne sappiamo – nel Regno, e fondamentale per seguire, al tempo stesso, la continuità d’uso e la vitalità sul piano simbolico dell’edificio. Nessuno dei personaggi in questione, a quanto risulta, pare infatti risiedesse nel territorio del Principato, né fu sepolto nel-la chiesa, come del resto nessuno dei principi angioini. Gli affreschi in questione e il probabile patronato su alcuni spazi della chiesa da parte di privati non rifletterebbero, pertanto, una consuetudine reale con l’edificio: questa terza fase di decorazione si configura pertan-to come il segno dell’appropriazione da parte delle famiglie nobili dello spazio ecclesiale, che diventa una vetrina degli equilibri politici locali e non solo.

A fare da contorno a questi nuclei decorativi ben identificabili si registrano infine, disposti in vari ambienti della chiesa, interventi più

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circoscritti, databili durante l’intero arco del Trecento, dei quali non sempre è agevole ricostruire occasioni e committenza: panelli votivi con figure isolate di santi, episodi dei Vangeli, Storie della Passione, riconducibili a diversi artisti la cui cultura figurativa risulta essere ben radicata, variamente, nella locale tradizione bizantina o in mo-delli balcanici, mediorientali, centroeuropei.

L’ampia e dettagliata ricostruzione delle vicende decorative della chiesa permette all’A. di seguire, nel corso di circa un secolo di storia dell’edificio, una vera e propria parabola politica. La vocazio-ne culturale della regiovocazio-ne, con i suoi peculiari caratteri, e le relazioni artistiche del cantiere di Santa Maria del Casale con il resto del Regno risultano inoltre identificati con grande equilibrio, restituendo un quadro convincente, dal quale sono avulse rigide e abusate cate-gorie interpretative (prima fra tutte quella di “centro” e “perife-ria”). La trama delle precise relazioni con Napoli non sfugge tutta-via all’A., che individua puntuali riscontri con temi e consuetudini care alla tradizione angioina e consonanze con quanto veniva ela-borato e messo in scena nella capitale: l’uso da parte della casa regnante di ritagliarsi spazi di celebrazione dinastica e familiare in chiese di più antica e prestigiosa fondazione, la devozione per il santo di famiglia, Ludovico di Tolosa, e per altri particolari culti (in primis quello per santa Caterina d’Alessandria), la ripresa di preci-si temi iconografici e decorativi, l’ambizione da parte della nobiltà di condividere lo spazio sacro con l’autorità politica, quasi inscenan-dovi la composizione di una corte feudale (che a Napoli si espresse, piuttosto, nell’istituzione di cappelle private nelle chiese, soprattutto in quelle verso le quali la corte ebbe speciale predilezione). Sebbe-ne l’A. scelga di non amplificare l’individuazioSebbe-ne di questi rapporti con Napoli a livello di interpretazione simbolica, offre tuttavia pre-cise coordinate per inserire questa impresa all’interno di una più ampia strategia angioina di autorappresentazione che, proprio negli anni in cui veniva condotta la prima campagna decorativa a Santa Maria del Casale, era in piena fase sperimentale. Nei primi decenni del Trecento la capitale si andava infatti arricchendo, anche per iniziativa della corte, di prestigiosi edifici riccamente decorati: sono gli anni in cui la dinastia definiva, con il notevole contributo dell’ar-chitettura e delle arti figurative, una propria immagine pubblica,

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ri-correndo a simboli di forte impatto che proiettassero la regalità in una dimensione astratta e atemporale. La chiesa di Santa Maria Donnaregina fu ricostruita e decorata per volere della regina Maria d’Ungheria, madre di Filippo di Taranto, entro il secondo decennio del Trecento. Questa impresa presenta a mio avviso non poche tangenze con quella brindisina, per lo meno nella sua prima fase decorativa riconducibile al patronato di Filippo d’Angiò, quanto alle scelte di tipo tematico e iconografico del ciclo pittorico, che inve-stono la stessa immagine della committenza, sublimata in una serie di rapporti e di rimandi all’immagine divina che di fatto la inquadra in un superiore ordine simbolico. Fatte salve le indubbie peculiarità del programma brindisino, non andrebbe trascurata una lettura del-l’impresa in relazione al cantiere napoletano: non nel senso di una dipendenza dell’uno dell’altro, quanto piuttosto, come sembra del resto suggerire lo stesso A., di una consonanza di intenzioni, di cir-colazione di precisi simboli e modelli di rappresentazione del potere. Il protagonismo in campo religioso e artistico del principe è, del re-sto, ben noto già da altri episodi, e la vicenda ricostruita in questo studio consente di aprire un ulteriore canale per approfondire il pro-filo e l’attività di questo personaggio, la cui ambizione lo spinse spes-so a porsi in chiara concorrenza con quanto veniva elaborato e pro-posto dalla corte a Napoli. Filippo patrocinò, infatti, lautamente l’ab-bazia benedettina di Montevergine, fondata nel 1119 da Guglielmo da Vercelli presso Avellino. Anche in questo caso, come in quello di Santa Maria del Casale, la sua azione si esercitò su un luogo di culto mariano di più antica fondazione. Egli promosse il rinnova-mento edilizio della chiesa – come farebbero intendere lo stile so-brio del portale principale, assimilabile a quello della sala capitolare di San Lorenzo Maggiore a Napoli, e l’attestazione erudita cinque-centesca circa la presenza delle sue armi nelle vetrate gotiche della tribuna – e la fondazione di una cappella di famiglia, alla cui decora-zione lavorò Montano d’Arezzo. Il pittore, “familiare” del principe e già attivo per lui nella cappella del palazzo napoletano in Via dei Tribunali, realizzò a Montevergine un ciclo di affreschi e la celebre tavola della Vergine, oggi sull’altare maggiore della nuova chiesa. L’importanza simbolica dell’iniziativa è confermata dal fatto che l’opera di Filippo sarebbe stata continuata dal figlio Luigi, secondo

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161 La chiesa di Santa Maria del Casale

marito della regina Giovanna I, in concorrenza con il mausoleo rea-le creato dagli angioini a Santa Chiara: nel 1347, infatti, il futuro sovrano avrebbe fatto riallestire la cappella di famiglia, che aveva già ospitato nel 1346 la tomba della madre, Caterina II di Valois, e più tardi avrebbe ricevuto anche quelle della sorella Maria, e infine la sua nel 1362. Analogamente a quanto si verificò a Santa Maria del Casale, infine, anche a Montevergine il prestigio dell’abbazia e il favore ad essa accordato dagli angioini ne fecero un importante polo di committenza e di produzione artistica nel Regno, incorag-giando l’emulazione dei nobili, che si aggiudicarono il patronato di una cappella, come il protonotaio del Regno Bartolomeo di Capua. La restituzione di un episodio artistico così compiuto e a grandi linee ancora leggibile, quale quello di Santa Maria del Casale, sti-mola dunque una profonda riflessione sul ruolo e sul contributo delle “periferie” alle strategie propagandistiche dei membri della dinastia angioina, alla cui conoscenza e valorizzazione hanno probabilmente molto nociuto anche i rifacimenti spesso profondi di edifici e cap-pelle operati nel corso dei secoli.

Tale impresa, infine, consente di recuperare l’esempio di impor-tanti precedenti per iniziative di grande respiro e ambizione che tra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento videro emergere nello stesso territorio il deciso protagonismo delle élites locali: mi riferisco in particolare a quella, già citata, di Santa Caterina d’Ales-sandria a Galatina, che dimostra una grande capacità da parte di committenti e artisti di ripensare e rielaborare liberamente i modelli iconografici proposti nella capitale attingendo al ricco patrimonio della tradizione regionale, e aprendo al tempo stesso a nuove e ag-giornate correnti culturali (quella tardogotica, in questo caso).

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