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Edipo dopo Amleto

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Academic year: 2021

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ISBN 978-88-6274-402-7

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Edipo dopo Amleto

La violenza e il tragico: campioni novecenteschi

INDICE

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1. «Cose che fanno impallidire la reggia di Micene»: la tragedia moderna di Moravia 2. «Una fatalità terribile che pesa su di noi»: Paola Drigo, dal positivismo verso il mistero 3. «Il dubbio» e «l’orrore consueto»: l’inchiesta impossibile di Fortunato Seminara 4. Il borghese alla guerra: Mario Lattes e la grande vacanza

5. La mancanza «di qualcosa di necessario»: Italo Cremona tra il comune e il meraviglioso

Indice dei nomi

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In uno dei più passi più celebri e più citati del Fu Mattia Pascal pirandelliano, Anselmo Paleari impartisce ad Adriano Meis una lezione di filosofia che è anche, contemporaneamente, una lezione di teoria della letteratura:

– La tragedia d’Oreste in un teatrino di marionette! – venne ad annunziarmi il signor Anselmo Paleari. – Marionette automatiche, di nuova invenzione. Stasera, alle ore otto e mezzo, in via dei Prefetti, numero cinquantaquattro. Sarebbe da andarci, signor Meis.

– La tragedia d’Oreste?

– Già! D’après Sophocle, dice il manifestino. Sarà l’Elettra. Ora senta un po’ che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che

avverrebbe? Dica lei.

– Non saprei, – risposi, stringendomi ne le spalle.

– Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo. – E perché?

– Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta.

E se ne andò, ciabattando1.

L’interpretazione critica di questa pagina definita da Angelo Pupino «pertrattata»2, con

felice umorismo pirandelliano, ha insistito soprattutto sulle implicazioni filosofiche, o

genericamente ideologiche del discorso di Paleari: la messa in crisi dell’identità individuale, i dubbi sull’oggettività del reale, il crollo delle certezze come carattere distintivo dell’uomo moderno, il venir meno della sua fiducia di essere al centro di un universo concluso. Lo stesso Pupino, però, di recente ha sottolineato come il discorso pirandelliano sia ancora più ambiguo, e la conclusiva rappresentazione dell’interlocutore che si allontana – «E se ne andò, ciabattando» – (non per nulla costantemente trascurata nelle citazioni e nelle riproduzioni antologiche del passo) sia essenziale per la comprensione dello stesso: il signor Anselmo è un filosofo inattendibile, nelle sue parole verità e menzogna sono inestricabilmente intrecciate; ed altrettanto incline alla menzogna e alla finzione è il suo interlocutore, fin dalla scelta di cambiare il proprio nome in quello di Adriano Meis. Dal confronto, Mattia Pascal

ha tratto fomite a liberarsi dalle «finzioni abituali», sì, ma soffrendone le vertigini che hanno decomposto il suo io, e che malgrado la maggiore autenticità che lui ha così raggiunta, hanno reso discutibile ogni verità apparente; ed hanno alimentato in lui, altro anti-eroe, l’inettitudine dell’inerzia del pari che, alla sua radice, la «perplessità», lo smarrimento, quello «stato irresoluto della coscienza» […] ch’è «proprio dell’umorista», il famigerato «sentimento del contrario, il non saper più da qual parte tenere». Proprio come Amleto («To be or not to be?»)3.

Al centro, insomma, è una proposta filosofica messa in discussione nel momento stesso in cui è avanzata, attraverso la tecnica letteraria dell’umorismo, di cui implicitamente si individua il momento di iniziale ed esemplare impiego in Shakespeare. Il discorso diventa così, da discorso sulla vita, discorso sulla forma stessa del discorso, e dunque sul fare letterario: giacché la forma impiegata è sostanziale all’autenticità del discorso, pena lo scivolamento in un’altrettanto ingannevole e perniciosa sofia. È per questo che mi pare importante insistere, a proposito della pagina del Fu Mattia Pascal, anche sulle conseguenze in termini di teoria della letteratura e dei generi letterari che essa riveste. Dopo lo strappo nel cielo di carta del teatrino, non sono più

1 L. PIRANDELLO, Il fu Mattia Pascal, in Tutti i romanzi, a cura di G. MACCHIA, con la collaborazione di M. COSTANZO,

Milano, Mondadori, 1973, pp. 467-468.

2 A.R. PUPINO, Introduzione a Opere, vol. I, Romanzi, t. I, a cura di M. MANOTTA, Torino, UTET, 2009, p. 33. 3 Ivi, p. 35.

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possibili i generi ‘puri’, con la loro pretesa di una interpretazione univoca delle cose, di un giudizio secco e senza sfumature, di una retorica rigida, anche sul piano linguistico e stilistico: in particolare, non è più possibile la tragedia classica, che sulle certezze e sulle distinzioni nette si fonda. La trasformazione di Oreste in Amleto è anche la trasformazione della tragedia nel dramma, con la fondamentale inserzione, al suo interno, di elementi umoristici. Non per nulla, nel saggio

sull’Umorismo, il rifiuto – di chiara ascendenza romantica – delle regole relative ai generi letterari è posto in relazione proprio con l’adozione di una poetica di tipo umoristico e con il superamento shakespeariano della tragedia classica: «Quando un poeta ribelle appioppava un calcio bene scolpito al casellario e creava a suo modo una forma nuova, i retori gli abbaiavano dietro per un pezzo […]. Così avvenne, ad esempio, per il dramma storico di quel gran barbaro dello Shakespeare»4. Di

dramma si parla, qui, non di tragedia, così come, altrove, sempre in relazione al poeta inglese , di «drammi possenti»5: e non mi pare una scelta casuale. Ma soprattutto Pirandello ricorda, seppure in

un passo in cui biasima la schematicità della sua interpretazione critica del fenomeno

dell’umorismo, la definizione che Giorgio Arcoleo dà di Amleto come colui che sa «ridere del proprio pensiero»6. Le parole di Anselmo Paleari e il suo uscire di scena ciabattando sono la

liquidazione della tragedia classica.

Quando, nel Dio Kurt, Moravia distingue tra il «Fato dei Greci, dei Romani, degli Ebrei, degli Egiziani, dei Babilonesi e, insomma, di tutti i popoli antichi»7, e il Fato tedesco, e di

conseguenza tra la tragedia classica e la tragedia moderna, ha certo in mente il discorso

pirandelliano del Fu Mattia Pascal; ma non tanto in termini di continuità, come vorrebbe Tinterri8,

che riconosce in Kurt «l’Hinkfuss di Questa sera si recita a soggetto (e nel gioco di rimandi basti appena ricordare che, a sua volta, Hinkfuss significa piede zoppo, con evidente allusione ad Edipo)», quanto piuttosto di ripensamento e presa di distanza:

E invece, dietro questo scatenato filisteismo piccolo borghese, c’ero io, il Fato di Edipo, deciso a perdere Edipo a tutti i costi, per il mio privato divertimento. Il resto lo sapete: Edipo, il poliziotto, Edipo,

l’inquisitore, scopriva ad un tratto di essere lui il colpevole. Preso in contropiede dal proprio conformismo e dalla propria bigotteria, Edipo si puniva, si accecava. Ma, signori, dal tempo di Edipo sono passati secoli. Anche ammettendo che i secoli degli uomini sono attimi per il Fato, non toglie che il Fato possa alla fine annoiarsi. Di che sia annoia il Fato? Ma signori, è ovvio, delle proprie macchine. Il Fato è simile a un ragazzo che si costruisce con le proprie mani una macchina divertente e ingegnosa, la guarda funzionare per un bel po’, e quindi si annoia, distrugge la macchina e passa a costruirsene un’altra. Ora la tragedia alla quale assisterete vuole essere proprio questo: la dimostrazione che la vecchia macchina di Edipo non diverte più il Fato, e che perciò esso ne ha costruito un’altra, più nuova, più imprevedibile, più aggiornata. Ma, signori, non mi conviene dire di più, altrimenti verrebbe a mancare alla tragedia l’elemento della sorpresa. Mi limito dunque a concludere come alla corte dei re di Francia, quando un re veniva a morire: la tragedia è morta, viva la tragedia9.

La trasformazione di Edipo in chiave piccolo borghese attuata in queste righe procede senz’altro sulla linea pirandelliana, segnando anzi una più radicale impraticabilità nel mondo moderno dell’archetipo tragico classico; e Saul e Myriam (e più ancora Ulla) del Dio Kurt, con le loro pulsioni erotiche incestuose ma non nichilistiche, solo parzialmente interpretabili secondo gli schemi freudiani, colpevoli che vogliono vivere, sono certamente il corrispettivo in chiave

umoristica degli eroi della tragedia antica. Non per questo, però, è finito il tragico, e neppure – per Moravia – la tragedia in quanto genere. Il Fato ha cambiato macchina (e nel termine c’è tutta l’idea moraviana del teatro come artificio, convenzione retorica, costruzione intellettualistica a fine

4 L’Umorismo, I, 4, 7, in Saggi e interventi, a cura di F. TAVIANI, Milano, Mondadori, 2006, p. [?]. 5 L’Umorismo, I, 3, 26.

6 L’Umorismo, I, 6, 30.

7 A. MORAVIA, Teatro, a cura di A. NARI e F. VAZZOLER, Milano, Bompiani, 1998, p. 459.

8 A. TINTERRI, Figure del mito classico nella drammaturgia italiana del secondo dopoguerra, in «Dioniso», LXVII

(1997), pp. 353-366.

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dimostrativo): ma sempre di fronte a una macchina siamo. Moravia non ha nulla da obiettare, alle caselle della retorica che tanto sdegno suscitano in Pirandello. La sua ambizione, semmai, è quella di aggiunge una nuova casella al casellario. La fine della tragedia classica non è la fine della

tragedia tout court, bensì l’occasione di più inquietanti orrori: «cose che fanno impallidire la reggia di Micene», sono quelle rappresentate nel suo teatro. Il Fato greco, individuale e fondato sull’idea dell’anánche, di una necessità esteriore, ha lasciato il posto al Fato tedesco, collettivo e fondato su una necessità di ordine interiore. C’è stato, insomma, un accentuarsi del tragico in senso

quantitativo (dal singolo alle masse), ma anche dal punto di vista qualitativo: nessuno è innocente, nessuno può sottrarsi al peccato originale da cui è irrimediabilmente macchiato. L’Edipo moderno sa che il male è in lui, che interamente sua è la responsabilità dei suoi atti; ma non per questo è disposto a punirsi. La mancanza di libertà non dipende da una týche che persegue disegni tanto rigidi quanto imperscrutabili, quanto dall’interiorità dell’individuo, dalla sua psiche. La tragedia moderna fa propri e si fonda sui concetti della psicanalisi freudiana e dell’esistenzialismo, soprattutto di quello sartriano.

Quello di Moravia è sicuramente un caso limite, per rigore dialettico e retorico (con il rispetto persino delle unità aristoteliche), nel panorama novecentesco. Ma anche dopo la morte della tragedia come genere, preparata dalle discussioni romantiche sul teatro e sancita dal Fu Mattia

Pascal, il sentimento del tragico continua a permeare di sé molti testi letterari, intrecciandosi con le

nuove teorie antropologiche, sociologiche, mediche, politiche, spesso confrontandosi con il discorso pirandelliano e migrando dal teatro ad altri generi letterari, in primo luogo il romanzo. Questo volume non ambisce certo all’impossibile pretesa di affrontare in maniera sistematica il problema del tragico nella modernità: ma dopo il tentativo di definire i caratteri della tragedia moderna di Moravia, collocandola nel dibattito teorico del suo tempo e facendola dialogare con i suoi più immediati riferimenti letterari e filosofici, vuole fornire qualche campione della persistenza delle tematiche e degli archetipi tragici nella letteratura italiana del Novecento. Si tratta di autori ‘minori’ e apparentemente lontani da tale problematiche, noti semmai per altri aspetti della loro produzione: ma proprio per questo ancora più significativi della vitalità del sentimento tragico dell’esistenza, che involontariamente, quasi inconsapevolmente, prende il sopravvento su altri modelli

interpretativi del mondo.

È il caso, ad esempio, di Paola Drigo, la cui prima raccolta di racconti porta il titolo, esemplare, La fortuna. Siamo, apparentemente, in un ambito tardo-positivistico, più nettamente connotato nel senso di un darwinismo sociale. C’è il motivo della tabe ereditaria, che si manifesta in termini medici, come malattia di sangue che inesorabilmente condanna a morte tutti i rampolli di un’antica famiglia nobiliare, ma anche, in maniera più generica e pervasiva, come impossibilità di sottrarsi al modello paterno o materno, allo status di provenienza, sicché la figlia di un’alcolizzata, nata da un rapporto occasionale, non potrà mai avere una relazione affettiva stabile, e sarà rigettata ai margini della società, e la contadina promossa da una favolosa fortuna a contessa non riuscirà ad integrarsi nella nobiltà, a dispetto di tutti i suoi sforzi di educazione. E c’è la rappresentazione spietata della vittoria di quanti sono più attrezzati nella lotta per la vita, forti delle loro miserabili certezze, della loro indifferenza per le sofferenze altrui, del loro perfetto inserimento all’interno di un tessuto sociale fondato sul decoro delle forme, sulle convenzioni, sulla religiosità esteriore, con l’inevitabile sconfitta e morte dei deboli, dei sentimentali, dei marginali, di tutti coloro che rifiutano di integrarsi, piegandosi. Ma tutto ciò è contemplato non con l’occhio impassibile dello scienziato, quanto con una perplessità coinvolta e dolorosa; non come l’inevitabile manifestarsi di una legge di natura, ma come l’accanirsi crudele e insensato del male sul singolo, con un di più di didascalica evidenza nella rappresentazione di un’umanità malata, gobba, deforme, colpita da imprevisti assurdi e catastrofi. Sicché al motivo dell’ereditarietà si sovrappone l’idea della nemesi tragica che incombe sulla famiglia; a quello del rifiuto del diverso e del marginale l’idea dell’esercizio tirannico e arbitrario del potere, che travalica le leggi del cuore; all’incapacità individuale di vincere le proprie debolezze, di integrarsi nella società, di superare gli ostacoli della vita l’idea di una eccezionale ostilità di fortuna. Il prorompere di istinti anarchici e vitali raramente sfocia, per ora, nella ribellione

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tragica: il dionisiaco è controllato e represso dalla celebrazione della rassegnazione, a metà tra stoicismo e ascetismo cristiano. Il discorso manca dell’assolutezza che sarà del romanzo maggiore,

Maria Zef: ma l’impossibilità della scienza, della filosofia, della ragione umana in genere di

spiegare l’insensatezza tragica della fortuna emerge in piena evidenza.

Un po’ in tutta l’opera di Fortunato Seminara, ma esemplarmente nel suo libro più riuscito,

Disgrazia in casa Amato, l’interesse per le condizioni di vita delle classi povere della Calabria

rurale e l’impegno a vincerne la miseria, l’ignoranza, i pregiudizi, si fondano su un illuministico bisogno di comprendere ed interpretare il mondo, di chiarire ciò che appare privo di senso e di motivazioni, di penetrare le ragioni occulte dell’agire. Pur senza rinunciare all’acutezza di indagine, spinto da pietà e umana comprensione, Seminara cerca il movente in grado di spiegare

razionalmente, se non giustificare, le belluine esplosioni di ferocia, così esorcizzandone la carica distruttiva e aprendo la via ad un possibile intervento di recupero sociale e morale. Ma l’indagine si scontra con le reticenze degli individui, con l’ambiguità dei comportamenti e delle situazioni, con il fondo oscuro di violenza che è negli uomini e nelle cose. Il discorso sociologico e antropologico sulla condizione di un sud povero e arretrato si fa discorso tragico sulla condizione esistenziale dell’uomo di ogni tempo e luogo, segnata in maniera ineludibile dal conflitto con i propri simili e il destino. Le conseguenze che lo sfregio subito dal padre del narratore ha sulla sorte dell’uomo e della sua famiglia dipendono certamente dal forte valore simbolico che il gesto riveste nella società chiusa e arretrata della Calabria; ma nella loro drammatica successione – l’esclusione dalla vita sociale, la morte della madre, la disgregazione della famiglia – finiscono per travalicare

quell’istituto, per assurgere a paradigma del tragico che è nella vita dell’uomo. A dispetto di tutte le sue ricerche e della sua onestà intellettuale, il narratore non saprà mai se l’offesa subita dal padre è gratuita e ingiustificata, frutto di un errore, oppure la giusta punizione per una sua condotta

irregolare, per un occulto adulterio: sicché la vicenda nel suo insieme finisce per essere la rivisitazione del grande tema tragico della sventura che si abbatte su una famiglia, colpevole di troppa fortuna agli occhi del destino invidioso. Il narratore, simile ad un moderno Oreste, è vittima di una tragedia famigliare e sociale che lo chiama in causa e insieme lo travalica; ma ne ignora i termini esatti e per questo – pirandellianamente – si ferma alle soglie della vendetta.

La stessa ansia di capire quello che non può essere compreso, ma con un di più di ossessività nevrotica in luogo del lucido razionalismo illuministico di Seminara, è nei racconti e nei romanzi di Mario Lattes, e soprattutto in quello che mi pare il più importante, Il borghese di ventura. Lattes vi si confronta con quella che nell’opinione comune è stata la vera tragedia del Novecento, la seconda guerra mondiale, l’evento che secondo molti ha reso per sempre impraticabile il genere stesso della tragedia. Ma nella sua scrittura, segnata da un fluire incessante, da uno stillicidio di parole ed eventi privi di significato, posti tutti sullo stesso piano, proprio la guerra diventa l’unico antidoto, seppure provvisorio, alla tragica insignificanza del reale. Quell’ordine che con la modernità si è spezzato per sempre, lasciando al narratore-filosofo l’impossibile compito di ricomporre il bassorilievo in frantumi, lo specchio rotto, il puzzle della storia e dell’esistenza individuale, nella guerra pare per un momento ricomporsi, nell’esattezza degli schieramenti, nella necessità delle azioni,

nell’autorizzazione che ne deriva alla violenza e al caos. La guerra diventa così un momento di vacanza dal tragico quotidiano, che Lattes vorrebbe non finisse mai: sospensione, irresponsabilità, gratuità. Anche Lattes, come Moravia, muove dalla lettura degli esistenzialisti: anche per lui la libertà è l’autentico dramma dell’uomo contemporaneo, in quanto lo vincola alla responsabilità della scelta. La necessità esteriore, che nella guerra esemplarmente si incarna, finisce ad essere l’estrema difesa dalla tragedia della negazione e del disordine che regnano fuori. Le marionette dei suoi quadri, tanto simili all’Amleto in cui si è trasformato Oreste nel pirandelliano teatrino di marionette automatiche, conservano – a dispetto dello squarcio che si è aperto nel cielo di carta – una carica di disperata violenza che attesta il perpetrarsi del tragico ben oltre la caduta delle certezze.

Ciò ch’è per Lattes la guerra, è per il concittadino d’adozione, Italo Cremona, anche lui pittore e scrittore e dilettante di filosofia e teosofia, personaggio pirandelliano insomma, il

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misterioso passaggio di una cometa sui cieli torinesi, che cancella dal mondo ogni traccia di presenza umana. La vacanza, in questo caso, è davvero letterale: prodotta da un imprevisto, un ‘guasto’ che si è per un momento aperto nel meccanismo del mondo, liberando il narratore-protagonista della Coda della cometa da ogni obbligo, da ogni necessità di ordine sociale,

economico, morale, aprendolo ad una totale gratuità di gesti e di pensieri. Ma solo per un momento dura l’illusione di un possibile ritorno ad una condizione edenica, di originaria innocenza: il mondo è macchiato in maniera indelebile dai segni della presenza dell’uomo, la natura è lontana da ogni purezza ed armonia, la violenza è radicata in ogni creatura, compreso l’ultimo superstite

dell’umanità. La libertà piena di cui questi può godere trova continue, impreviste limitazioni: dagli interventi che si rendono necessari per evitare che tutto precipiti nella rovina, alla ben più

importante necessità di porre un ordine dentro di sé, nella propria storia ed esistenza individuale. Anche qui siamo di fronte ad un’inchiesta: inchiesta altrettanto fallimentare, che altro risultato non consegue sul piano sociale che portare a galla le bassezze, le nefandezze, le crudeltà degli uomini che non sono più; e sul piano della storia personale sancire il sentimento tragico dell’inappartenenza e la vocazione alla morte. Il furore iconoclasta da cui il protagonista del romanzo è animato,

nell’ansia di purificare il mondo dai miasmi e dal caos attraverso le belve, il fuoco, la profanazione, si rivela privo di qualsiasi potere autenticamente salvifico. L’eroe tragico del Novecento non può più essere Oreste, il vendicatore, ma Edipo, il pellegrino alla ricerca di una verità, che dopo averla trovata auspicherà – ma invano – una cecità ormai impossibile.

Il primo dei saggi è inedito, e frutto della rielaborazione della relazione presentata al convegno

La figura di Alberto Moravia tra letteratura europea e società (Torino, 4-6 dicembre 2008). Il

secondo è stato pubblicato, con il titolo «La fortuna», tra anarchia e remissività, nel volume

Paola Drigo: settant’anni dopo, Atti del convegno (Padova, 17-18 ottobre 2007), Pisa-Roma,

Serra, 2009, pp. 25-50. Il terzo, con il titolo «Disgrazia in casa Amato»: la tragedia moderna di

Seminara, in «Otto-Novecento», XXXIII (2009), 3, pp. 127-148. Il quarto, con il titolo Il borghese alla guerra: la grande vacanza, nel volume Mario Lattes: narrativa e questioni di cultura, Atti del convegno (Torino, 3-4 novembre 2005), a cura di L.M. Marchetti, Torino,

Fondazione Mario Lattes, 2007, pp. 49-74. L’ultimo, infine, con il titolo Italo Cremona, tra

erotismo e suggestioni funebri, nel volume Le parole dipinte. Arti e letteratura tra Liguria e Piemonte, Atti del convegno, Bardineto (12 settembre 2009), a cura di G. Balbis, Genova,

Zaccagnino, 2009, pp. 81-111.

1. «COSE CHE FANNO IMPALLIDIRE LA REGGIA DI MICENE»: LA TRAGEDIA MODERNA DI MORAVIA

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La Beatrice Cenci10 di Moravia si chiude su una battuta di Carlo Tirone, auditore per la

provincia degli Abruzzi, di chiara natura metaletteraria:

Seguitela, guardate che ella non tenti di uccidersi. Ella potrebbe farlo per compiere il destino della propria famiglia che con questo delitto ha voluto la propria fine. Questa sala ha veduto cose che fanno impallidire la reggia di Micene. Ora non resta che lasciarla, luogo ormai sacro alla giustizia divina, misteriosa e imperscrutabile, che ha decretato la rovina e la distruzione dei Cenci11.

La volontà di istituire un nesso con la tragedia classica12, con l’Orestea di Eschilo e più con

l’Elettra di Sofocle, è evidente: della tragedia antica, infatti, quella moderna ripete non solo il motivo del parricidio, ma anche quello dell’incesto, assai più allusivamente introdotto nell’opera di Moravia rispetto alle altre trasposizioni teatrali della vicenda dei Cenci13, proprio come accade in

Sofocle per l’ambiguo rapporto tra Elettra e Oreste (e la figura di Lucrezia, debole e rassegnata, ben da vicino ricorda quella di Crisotemi). Classico è anche il motivo della nemesi, che nella sua misteriosa giustizia punisce con la distruzione la famiglia che si è macchiata di delitti orrendi: e il linguaggio stesso, singolarmente teso ed alto14, rispetto a quel che sempre capita in Moravia,

documenta l’aspirazione al sublime tragico. Insomma: in anni in cui il dibattito sul teatro si affanna a sancire, con la morte di Dio, la morte della tragedia, Moravia si preoccupa di suggellare la sua prima prova con tutti i crismi del genere: e si dovrà almeno segnalare di passaggio, allora, come lo scrittore romano drasticamente poti la vicenda di Beatrice rispetto ai modelli canonici, Shelley e Artaud, addirittura recuperando l’unità di tempo e di luogo (la didascalia di scena recita: «L’azione ha luogo nella Rocca della Petrella, in Abruzzi, nella sala principale – Anno 1598»)15. Di lì a pochi

anni, nel 1966, parlando con Corrado Augias del provvisorio abbandono del romanzo per il teatro, Moravia dirà: «Il romanzo è legato alla durata, non può non essere realistico; il teatro ha invece una durata e uno spazio convenzionali, si presta meglio del romanzo ad una rappresentazione che sia insieme emblematica e concettuale»16. Di qui, allora, dal rifiuto dei limiti del realismo, la

sottolineatura della convenzionalità dell’opera teatrale, attraverso il recupero delle unità aristoteliche; di qui la ripresa dei motivi mitici, dal pregnante valore emblematico.

10 Pubblicata per la prima volta su «Botteghe Oscure» nel 1955, la Beatrice Cenci è poi riproposta nel volume A.

MORAVIA, Teatro, Milano, Bompiani, 1958 (che contiene anche La mascherata).

11 A. MORAVIA, Teatro, a cura di A. NARI e F. VAZZOLER, Milano, Bompiani, 20042, p. 298. Da questa edizione

saranno tratte tutte le citazioni.

12 Già F. VAZZOLER, e proprio citando questo finale, ha rilevato il carattere «che si può definire come ‘classico’» della

tragedia (I palcoscenici di un romanziere di successo, in Teatro, cit., pp. 40-41). In precedenza, S. DE FEO (Nel castello

dei Cenci la noia diventa tragedia, in «L’Espresso», settembre 1957) vi aveva rilevato la presenza di una concezione

aristotelica del teatro.

13 Com’è noto numerosissime; ricordiamo soltanto le più celebri: VINCENZO PIERACCI, Tragedie (1816); CUSTINE,

Beatrix Cenci (1833); JULIUSZ SLOWACKI, Beatrycks (1839); WALTER S. LANDOR, Beatrice Cenci (1851); CARLO GIOVANNI ROSSI, La Beatrice Cenci (1854); ANTONIO GOLÇALVES DIAS, Beatriz Cenci (1843); FRANCESCO LABRUTO LA SPADA, Beatrice Cenci (1886); UMBERTO LIBERATORE, Beatrice Cenci (2ª ed. riveduta, 1857); MAX VON

MUNCHHAUSEN, Beatrice Cenci (1910); HEINRICH CHRISTIAN MEIER, Cenci Wie Cenci (1947); FRÉDÉRIC MOUREN,

Beatrice Cenci (1954). Ma i riferimenti obbligati nel caso di Moravia sono naturalmente costituiti dai Cenci di PERCY BYSSHE SHELLEY (London, C. & I. Ollier, 1819) e I Cenci di ANTONIN ARTAUD (rappresentati per la prima volta con grande scandalo al Theâtre des Folies-Wagram il 6 maggio 1935 con scene di Balthus, ma pubblicati soltanto

nell’edizione delle opere complete del 1964). Dopo Moravia, torneranno sul soggetto GABRIELLA DRUDI, Beatrice C. (1979); e FRANCO CUOMO, Addio amore (Beatrice Cenci) (1987).

14 Lo rileva lo stesso Moravia nell’intervista Il teatro è prima di tutto parola (in «Il Punto», 24 agosto 1957, ora in

Teatro, cit., p. 860), avvertendo che «il linguaggio della Beatrice Cenci ha una sostenutezza che è imposta

dall’argomento stesso. […] Bisogna non temere di mettere il pubblico, ormai viziato da tanto teatro monosillabico e collegiale, di fronte a un linguaggio sostenuto, e perché no? letterario».

15 A. MORAVIA, Teatro, cit., p. 202.

16 A. MORAVIA, Dopo il romanzo, il bisogno della parola teatrale, intervista a C. AUGIAS, in «Sipario», 247 (1966) (ora

in Teatro, cit., p. 865). Ma si può ricordare anche che l’apprezzamento di Moravia per il teatro cinese nasce dal «suo disprezzo per ogni specie di verosimiglianza e di realismo», dal «suo simbolismo e la sua immobilità» (A. MORAVIA, A

teatro con i cinesi, 1937, ora in Articoli di viaggio (1930-1990), a cura di E. SICILIANO, postfazione di T. TORNITORE, Bompiani, Milano, 1994, pp. 296-302).

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Ma la reggia di Micene è anche il luogo nei cui pressi è ambientata la Città morta di

d’Annunzio: che pure si fonda su una vicenda famigliare di tabe e corruzione, segnata dall’incesto e dal fratricidio. E dannunziani (ma questa volta dalla Fedra, dove a parlare è il coro delle Supplici) sono i modi in cui Moravia svolge il tema dell’imperscrutabile giustizia divina:

Che sai? Che sai della lontana guerra? – Tèseo torna? – Il tuo figlio ha vinto, per la Legge santa di tutta l’Ellade? – Ahi, giustizia del Dio, vittoria dell’Eroe, che mai potremo noi, che mai potremo noi se non rinnovellare il pianto?17

A ben guardare, allora, il passo è anche la definizione di una nuova tragedia moderna dopo e in parziale contrasto con l’esperimento dannunziano, evidentemente avvertito come tutt’altro che superato: d’Annunzio, del resto, non poteva non interessare a Moravia almeno per il suo aver insistito – unico nella tradizione italiana – sulla dimensione religiosa del teatro18. La ripresa della

tragedia si fonda, per d’Annunzio, sull’idea dell’indefinita riproponibilità dell’archetipo mitico, per cui esiste un rapporto costante tra le vicende degli Atridi, le cui sepolture sono riportate alla luce nel corso degli scavi, e quelle degli archeologi che vi lavorano; per cui – come in maniera più

esemplare spiega la Concordanza posta alla fine della tragedia – la protagonista della Gioconda è, esattamente, Elena, e il conflitto famigliare tra Silvia e Lucio una moderna guerra di Troia.

L’indicazione della novità di Moravia non può che muovere dal riconoscimento della sproporzione che c’è tra il dramma moderno – «cose che fanno impallidire la reggia di Micene» – e quello antico. Beatrice e Francesco non sono Oreste e Clitennestra (ovviamente a parti rovesciate); sono ben peggio. Lungi dall’essere il tempo della morte del tragico, l’età moderna è quella di una più estrema tragedia.

Si tratta, allora, di riconoscere i caratteri e le ragioni di questa oltranza, in un dialogo costante con i modelli. Perché, come si è ricordato, la tragedia ha per Moravia il vantaggio di essere non soltanto emblematica, ma anche concettuale. Qui, davvero, si apre rispetto a d’Annunzio un autentico báthos: giacché la rappresentazione tragica non è il luogo di un’intensa esperienza

emotiva vissuta a scopo didascalico, con tutto il corredo di musica, ombre e silenzi; ma di un serrato dibattito intellettuale sulle ragioni del tragico, di un’autoanalisi (qualche volta anche freudiana: e sono i momenti meno felici) che ricerchi le origini del trauma dell’esistere. Spesso si è evocata, a proposito del teatro di Moravia, la definizione di teatro della crudeltà; ed era formula comoda, pronta per essere recuperata, stante la ripresa della vicenda dei Cenci già affrontata da Artaud e il carattere violento, estremo, dei rapporti umani portati sulla scena. Ma è anche una formula fuorviante, se solo si tiene conto della natura fascinatrice e rituale del vero teatro della crudeltà, della volontà di slegare la scena dai limiti del teatro verbale, dell’ambizione a uno spettacolo totale, capace di stritolare i nervi e il cuore dello spettatore. Artaud, insomma, è molto più simile a

d’Annunzio che a Moravia. E la volontà moraviana di allontanarsi dal suo modello è ben evidente anche solo ad uno sguardo superficiale, fin dal titolo. Pur presentando la storia di Beatrice nei termini di un dramma famigliare («compiere il destino della propria famiglia»), Moravia intitola la sua tragedia non I Cenci, come Shelley e Artaud (e come, in ambito narrativo, Stendhal o Dumas

17 G. D’ANNUNZIO, Fedra, I, 1. Le citazioni dannunziane sono tratte dall’edizione delle Tragedie, sogni e misteri,

Milano, Mondadori, 1968-80.

18 Ricordo, circa la convinzione moraviana della natura religiosa del teatro, un passo dell’intervista autobiografica

rilasciata da Moravia ad Alain Elkann (A. ELKANN, Vita di Moravia, Milano, Bompiani, 1990, p. 258: «Il teatro è un luogo religioso nel quale l’uomo si interroga sui grandi problemi dell’umanità: chi siamo, dove andiamo, cosa facciamo ecc. Queste cose si capiscono soprattutto passando dal romanzo al teatro o viceversa. Il teatro è nato nei templi

dell’antica Grecia. Il romanzo invece nelle strade della Spagna e dell’Inghilterra». Ma una considerazione analoga è anche nell’articolo di viaggio Il teatro di Epidauro, del 1939 (in Articoli di viaggio, cit., pp. 428-431): «invano si cercherebbe nel teatro cinese la religiosità complessa da cui scaturirono le prime rappresentazioni greche».

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padre), ma secondo l’uso italiano, di Vincenzo Pieracci, e poi di Niccolini, Rota e tanti altri,

Beatrice Cenci. Anche per lo svolgimento dei fatti, non si fonda sul celebre manoscritto usato dagli

autori d’oltralpe, la Relazione sulla morte dei Cenci oggi riconosciuta come un falso storiografico19,

ma sulla ricerca critica più autorevole allora disponibile, quella di Corrado Ricci20. Soprattutto,

esclude completamente i momenti chiave, emotivamente più intensi, del dramma di Artaud, quelli che maggiormente colpirono e sconcertarono gli spettatori: la scena orgiastica del banchetto, l’uccisione di Francesco (che in Moravia avviene, secondo la norma classica, fuori scena, e di cui l’opera teatrale affronta i presupposti e le conseguenze, ma trascura del tutto i modi e le

circostanze), il processo.Non siamo di fronte ad un teatro della crudeltà, ma a un teatro della logica e dell’analisi, a un teatro filosofico. A questa logica ad oltranza soggiacciono tutti i personaggi della tragedia, soprattutto Francesco e Beatrice. Ma anche Olimpio è a suo modo un filosofo, anche se immerso nella vita e incapace di guardarla dall’esterno per capirla veramente, un teorico della politica che alla maniera di Machiavelli pensa di poter opporre alla fortuna la ragione, che usa l’inganno e la simulazione, che per realizzare i propri piani mette in opera la golpe e il lione, e per questo è destinato a un inglorioso, inconsapevole fallimento.

Poco dopo l’inizio del dramma, Beatrice avanza una considerazione da eroina tragica di tipo tradizionale. Lamenta infatti che i luttuosi eventi da cui è stata colpita, l’isolamento nella rocca della Petrella, le violenza paterne, la necessità di darsi ad Olimpio per ottenerne la complicità e poter così realizzare il proprio progetto di vendetta, l’abbiano privata di un futuro, della possibilità di un amore regolare e del matrimonio:

OLIMPIO: Mi parlò [vostro padre] del vostro avvenire.

BEATRICE. Del mio avvenire? Ho io un avvenire?

OLIMPIO: Voi avete vent’anni. Non volete avere un avvenire?21

È, più o meno, quel che dice Antigone nella tragedia sofoclea, e precisamente quel che dice nel passo che sta leggendo Bianca Maria all’inizio della Città morta di d’Annunzio:

Vedete me, o cittadini della terra paterna, nell’ultima via

entrare, l’ultimo splendore del sole rimirare,

e quindi innanzi mai più!

Ade, che tutto sopisce, viva mi conduce al lido di Acheronte,

e priva delle nozze. Non l’inno nuziale mai

mi cantò; ché io sposerò Acheronte…22

Il ricordo letterario proietta così fin dall’incipit la sua ombra su entrambe le vicende, anticipandone il luttuoso epilogo. Ma c’è una differenza fondamentale, tra Beatrice da una parte e Antigone e Bianca Maria dall’altra. Per Beatrice solo all’apparenza l’essere troppo tardi dipende da circostanze contingenti ed esterne alla propria volontà, dalla perdita dell’innocenza determinata dal trauma infantile della vista del padre avvinghiato selvaggiamente con una serva, con tutto quel che poi ne è conseguito. In realtà, per lei, l’innocenza originaria non è mai esistita, da sempre è stato troppo tardi, per il suo far parte di una famiglia macchiata da una sorta di peccato originario, dalla tabe ereditaria (ed è altro ben noto motivo tragico, anche questo già ripreso ripetutamente da d’Annunzio, nel modo forse più suggestivo nelle Vergini delle rocce). Ciò che accomuna padre e

19 E. MORI, La «Relazione» sulla morte dei Ceci. Un falso storiografico?, in Beatrice Cenci, la storia, il mito, a cura di

M. BEVILACQUA e E. MORI, Roma, Fondazione Marco Besso Viella, 1999, pp. 203-206.

20 C. RICCI, Beatrice Cenci, Milano, Treves, 1923. 21 A. MORAVIA, Teatro, cit., p. 219.

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figlia (a dispetto della repulsione di Beatrice per il padre, del suo orgoglioso proclamare: «Ora vi riconosco, non siete mio padre […]. E io non sono vostra figlia»23, frase questa che prepara e in

qualche modo giustifica l’incesto) è l’incapacità di vivere spontaneamente la vita. Francesco ne è consapevole da sempre:

io penso invece che, in certi casi, è tardi per fare qualsiasi cosa, il male, il bene e anche le cose che non sono né male né bene. Posto che tali cose esistano […]. Oh, tu mi capisci benissimo, siamo fatti per capirci, noi due. Avete forse creduto che io dicessi per me: è tardi, perché Lucrezia,

inopportunamente com’è solita, mi ha ricordato i miei cinquant’anni. In tal caso vi sbagliate. Per me era tardi anche a venti, anche a dieci anni, anche prima che fossi nato. Ed è tardi anche per te, Beatrice, benché tu sia giovane e inesperta della vita24.

All’origine del dramma moderno è la perdita originaria dell’innocenza, la coscienza dell’assurdità dell’esistere, il sentirsi sbalestrati nel mondo per caso, senza un motivo, che costituisce il cardine della filosofia esistenzialistica:

BEATRICE: Io non sono venuta al mondo per divertirvi.

FRANCESCO: No? E allora che ci saresti venuta a fare?

BEATRICE: Dio soltanto lo sa25.

È quella che Sartre chiama la nausea e Moravia la noia (e la Beatrice Cenci è l’opera più sartriana di Moravia, molto più dello stesso romanzo La noia). Beatrice invano prova a sfuggire al senso genuino delle cose, alla nausea che il mondo genera nella coscienza, mediante la follia, che è, sempre nell’ottica del filosofo francese, il tentativo di ancorarsi ad una realtà divina, assoluta e trascendente («Dio soltanto lo sa»). Tutto il primo atto è denso della minaccia di una pazzia, di un oblio di sé che è risposta allo scacco esistenziale: «Ah, sento che farò davvero qualche pazzia. […] Io farò qualche pazzia»26; «Non vorrei che, per la delusione, facesse sul serio qualche pazzia»27;

«era tanto disperata da sentirsi capace di fare qualche pazzia»28.

Ma se Beatrice sembra convita all’inizio che la noia derivi per lei da circostanze occasionali, dalla segregazione nella rocca della Petrella, a poco a poco si rende conto che le cose non stanno così, che davvero essa costituisce una condizione ontologica originaria. Da questo punto di vista, la

Beatrice Cenci è una particolarissima Bildungstragödie. La noia non sta nelle cose, ma nei sensi, è

un modo di guardare il mondo. Lo rivela con lucida chiarezza Francesco in un dialogo con Olimpio: il palazzo Cenci di cui Francesco scorge soltanto le crepe e le macchie di umidità, apparirebbe agli occhi del castellano (che è l’uomo ingenuo, che viene prima della frattura della consapevolezza filosofica) «senza dubbio bello, forte e senza crepe»: «In realtà io mi illudo che la noia sia nelle cose e invece è nei miei sensi ottusi che non si destano che alle sensazioni più forti»29. La tragedia

moderna è tanto più terribile di quella antica innanzi tutto per questo, perché è tragedia interiore, nasce dall’io ed esclude la possibilità di addossarne ad altri la colpa:

OLIMPIO: Io dipendo da voi, un dipendente non può né deve mai annoiarsi.

FRANCESCO: Forse hai ragione. Io non dipendo da nessuno e appunto per questo dipendo dalla noia

ossia dalla necessità di scuotere i miei sensi che ad ogni momento sembrano venir meno e

interrompere il mio commercio con le cose. Vedi, Olimpio, questa noia è incapacità di sentirmi vivo in condizioni tranquille, normali, solite. E per sentirmi vivo, allora…

OLIMPIO: Allora?

23 A. MORAVIA, Teatro, cit., p. 229. 24 Ivi, pp. 264-265. 25 Ivi, p. 256. 26 Ivi, p. 204. 27 Ivi, p. 208. 28 Ibidem. 29 Ivi, p. 212.

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FRANCESCO: Che fa tutta quella gente che esce in questo momento dal paese camminando in fila

sulla neve?

OLIMPIO: Eh, quelli non si annoiano, non ne hanno il tempo. Vanno a far legna nel bosco per

scaldarsi e cucinare. Se non ci vanno, muoiono di fame e di freddo.

FRANCESCO: Necessità: forse questo è il segreto per non annoiarsi. E la noia sarebbe mancanza di

necessità, disponibilità, possibilità di elezione. Ma no: anch’io ho la mia necessità: scuotere i sensi in qualche modo, sentirmi vivo30.

La necessità, l’anánche, è la forza che determina lo svolgimento dell’azione nella tragedia classica. Il personaggio tragico antico non è libero, perché il suo agire è determinano dal destino, dalla týche. Francesco, invece, è totalmente libero da condizionamenti esteriori, non ha bisogni che lo limitino. La sua necessità è di ordine esclusivamente interiore, il desiderio di sentirsi vivo, la spinta a superare la noia e l’angoscia esistenziale31. Come nella filosofia di Sarte, che è filosofia

della libertà assoluta che pretende di risolvere e annullare ogni necessità, la libertà è una condanna alla quale non ci si può sottrarre. L’unico personaggio per cui non vale questo principio

fondamentale è Marzio: Marzio agisce per denaro, cioè per nulla («E mi fa compassione anche perché se avesse potuto, non l’avrebbe fatto e vi è stato costretto dalla necessità»)32. Il male di

Marzio nasce dal bene che vuole alla sua famiglia: egli è vittima della necessità come forza esteriore. Gli altri, Francesco e Beatrice e Olimpio, sono vittime di sé stessi.

Ma Sarte non è l’unico riferimento presente in questo contesto a Moravia. Gli uomini che non si annoiano perché non ne hanno il tempo, devono faticare per non morire di fame e di freddo, sono gli uomini primitivi che secondo Leopardi il bisogno mette al sicuro dalla noia: «la natura […] ha provveduto col dare all’uomo molti bisogni, e nella soddisfazione del bisogno (come della fame e della sete, freddo, caldo, ec.) porre il piacere, quindi col volerlo occupato»33. La definizione che

della noia dà Francesco a Beatrice, come assenza di piacere e di dolore, sentimento che pervade tutti i momenti neutri della vita quotidiana, è quella dello Zibaldone:

BEATRICE: Che sapore ha la noia?

FRANCESCO: Il sapore della vita quando niente la scuote e la solleva dal suo corso normale. Un

sapore ben insipido, in verità34.

Chi dice assenza di piacere e dispiacere, dice noia […]. La noia corre sempre e immediatamente a riempiere tutti i vuoti che lasciano negli animi de’ viventi il piacere e il dispiacere35.

La noia corre immancabilmente e immediatamente a riempire qualunque vuoto lasciato dal piacere o dispiacer così detto ec. e […] l’assenza dell’uno e dell’altro è noia per sua natura, e […] mancando essi, v’è la noia necessariamente36.

30 Ibidem.

31 Si deve a questo proposito ricordare ciò che Moravia stesso osserva a proposito del concetto di necessità nel precoce

intervento teorico La tragedia, uscito nel 1935 sulla rivista «Il Dramma» (ora in Teatro, cit., p. 848): «il fato non è altro che la libertà concessa ad ogni uomo di portare alle più estreme conseguenze, contro ogni difficoltà esteriore e contro se stesso, con fermissima coerenza, i dati essenziali del proprio carattere. Ho detto che questa libertà è concessa ad ogni uomo; ciò toglie al fato, che è anzitutto un simbolo della dignità umana, ogni colore deterministico. A tutti è permesso essere degli eroi, l’eroismo non conosce altra tare originaria che quella di essere umani. Ma la grandissima maggioranza degli uomini, messi di fronte alla scelta tra questa libertà e le minacce della necessità, si sottomettono alle angustie di quest’ultima e consciamente o inconsciamente rifiutano la prima. E però non c’è nulla di più nemico e opposto alla tragedia che la necessità. Non ci può essere tragedia dove c’è passività di fronte alle pressioni materiali, adeguamenti contro natura, docilità al momento. Ne segue che gli uomini ordinari asserviti alla necessità non possono essere personaggi di tragedia; e che questi personaggi hanno sempre dello straordinario».

32 Ivi, p. 277.

33 G. LEOPARDI, Zibaldone, 175 (cito dall’edizione a cura di G. PACELLA, Milano, Garzanti, 1991). 34 A. MORAVIA, Teatro, cit., p. 254.

35 G. LEOPARDI, Zibaldone, 3714. 36 Ivi, 3880.

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A Leopardi rimanda anche l’idea che la noia «è il contrario della vita vitale»37, sicché

Francesco può opporre a Beatrice, che sostiene la sua differenza rispetto al padre, il rimprovero per l’inerzia, lo sterile lamento per il suo stato, la mancanza di «volontà, capacità, appetito di vita»38.

Laddove gli altri vogliono «cose concrete, denari, roba, potenza, le vogliono con costanza e sanno che le vogliono»39, i Cenci sono fatti tutti allo stesso modo, animati dal leopardiano «desiderio della

felicità, lasciato, per così dir, puro»40: sicché in Beatrice, come in Francesco, c’è una tensione al

movimento, un’ansietà insoddisfatta, che riesce incomprensibile a Olimpio e lo preoccupa. Nella noia è implicita una tensione nichilistica che Francesco enuncia con lucida consapevolezza: «Ma alla mia età diventerai più umile e confesserai la verità: nulla, nulla, nulla»41. In questo, nell’ottica

moraviana, Leopardi è assai vicino a Sartre, nell’indicazione della coincidenza della libertà «con il nulla che è nell’intimo dell’uomo», nella rivelazione dell’essere che si fa mancanza di essere42: «Ed

in tanto non l’odia [la noia] sempre sopra ogni cosa, in quanto non ama neppur sempre la vita sopra ogni cosa»43. L’unico desiderio di Francesco è quello di «dormire, dormire, poiché la cosa più

simile alla morte è il sonno ed è proprio la morte che essi invocano fin da quando si affacciano alla vita»44: è il sonno considerato come possibilità offerta all’uomo di «ristorarsi con un gusto e quasi

una particella di morte» dall’angoscia del vivere45. Ma Leopardi riconduce alla noia anche l’amore

per ciò che è grande e straordinario e la tensione all’immaginazione:

La ragione di questo effetto [l’attrazione per ciò che ci ripugna] non è certo quell’inebbriamento che dice la Staël, e nemmeno la curiosità […]; proviene dall’amore dello straordinario, e odio naturale della monotonia e della noia ch’è ingenito in tutti gli uomini, e offrendosi un oggetto che rompe questa monotonia, ed esce dall’ordine comune, quantunque ci paia più grave assai della noia, di cui forse anche, in quel punto non ci accorgiamo e non abbiamo nessun pensiero, pur troviamo un certo piacere in quella scossa, in quell’agitazione, che ci produce la vista fuggitiva di esso oggetto46. Questo ch’io dico della grandezza è un effetto materiale derivante dalla inclinazione dell’uomo al piacere, e non dalla inclinazione alla grandezza. […] In somma il sistema della natura rispetto all’uomo è sempre diretto ad allontanar da lui questo male formidabile della noia, che a detta di tutti i filosofi, essendo così frequente all’uomo moderno, è quasi sconosciuto al primitivo […]. E osservate come i fanciulli anche in una quasi perfetta inazione, pur di rado o non mai sentano il vero tormento della noia, perché […] la forza della loro immaginazione dà corpo e vita e azione ad ogni fantasia che si affacci loro alla mente47.

Di nuovo, nella prospettiva moraviana, Leopardi si incontra con Sartre: anche nel filosofo francese le due categorie evocate come risposta alla nausea sono l’immaginazione e l’eccesso. La prima è caratteristica soprattutto di Beatrice, anche in conseguenza della sua giovane età: senza immaginazione, dice, la vita non ha sapore (ma anche Francesco esprime a momenti

quest’aspirazione alla creazione fantastica: «Bisogna cambiare tutto, inventare una nuova vita o almeno una sembianza di nuova vita: e pazienza se anche questa sembianza durerà poco»)48. Da un

lato, Beatrice sembra desiderare una vita alto-borghese, vuole maritarsi al più presto, assicurarsi uno stato confacente alla propria condizione sociale, dare balli e feste; ma c’è, in questo, una volontà di

37 Ivi, 2433.

38 A. MORAVIA, Teatro, cit., p. 266. 39 Ivi, p. 267.

40 G. LEOPARDI, Zibaldone, 3715. 41 A. MORAVIA, Teatro, cit., p. 268.

42 J.P. SARTRE, L’essere e il nulla, trad. di G. DEL BO, revisione a cura di F. FERGNANI e M. LAZZARI, Milano, il

Saggiatore, 2008, p. 507.

43 G. LEOPARDI, Zibaldone, 2433. 44 A. MORAVIA, Teatro, cit., p. 268.

45 G. LEOPARDI, Cantico del gallo silvestre, 5 (cito dall’edizione delle Operette morali, ed. critica a cura di O. BESOMI,

Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1979, p. [?]).

46 G. LEOPARDI, Zibaldone, 89-90. 47 Ivi, 174-176.

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grandezza eccessiva, un’attitudine all’abbandono all’immaginazione che non per nulla turba la misurata, la meschina Lucrezia:

LUCREZIA: Lasciami, sei matta. Hai troppa immaginazione, tu. Io per me mi contenterei di tornare a

Roma e lì vivere tranquillamente in casa mia. Le grandezze non sono fatte per me.

BEATRICE: Senza grandezza, la vita non ha sapore, Lucrezia E io sono nata per tutto ciò che è grande

e nobile e bello e puro e allegro49.

L’eccesso, invece, sembra caratterizzare soprattutto il personaggio di Francesco, nella sua volontà di sperimentare le perversità estreme e le più sublimi bontà; ma Marzio sottolinea,

dialogando con Olimpio, come esso costituisca l’autentica cifra di tutti i Cenci, ciò che li accomuna al di là delle apparenti divergenze:

MARZIO: […] la figlia è fatta della stessa natura del padre: quanto il padre è eccessivo nella sua

perversità, altrettanto lo è lei nella sua innocenza.

OLIMPIO: Bah, la perversità è forse pericolosa, l’innocenza non lo è mai.

MARZIO: State attento, Olimpio, voi vorreste un’innocenza prudente. Non lo sapete, che, invece,

proprio l’innocenza non conosce moderazione?50

È, anche, l’idea classica del tragico come luogo del sublime: un sublime che può realizzarsi nell’innocenza e nella purezza come nella degradazione estrema, nell’abiezione, nella turpitudine. Nella propria assoluta libertà, Francesco avverte il desiderio di essere in-sé, giacché la libertà comporta, sartrianamente, la radicale negazione di Dio: Dio e libertà non sono compossibili, perché se Dio esistesse, esisterebbero un pensiero e una volontà assoluti, che condizionerebbero

inesorabilmente l’uomo. Di qui, il suo progetto di essere Dio, che in qualche modo anticipa quello, ben più esplicitamente indicato (fin dal titolo), di Kurt, il protagonista della seconda tragedia. È in questo senso che va inteso il recupero della caratterizzazione di Francesco come demonio

(«Cavalcava come un demonio, a testa bassa», dice di lui Olimpio51; e di nuovo: «Lo sa il diavolo

quello che siete», con la risposta: «Bravo, il diavolo proprio»52; e gli esempi potrebbero senza

difficoltà moltiplicarsi), già presente in Shelley e poi di nuovo in Artaud, ma nel significato dell’esistenza di un dio malvagio, o di una forza crudele e distruttiva che tutto pervade, compresi i rapporti famigliari. È Beatrice a indicarlo con chiarezza:

BEATRICE: […] E quei vizi da dove vengono? Dall’inferno.

OLIMPIO: O dal cielo, visto che tutto in questo mondo è deciso dal cielo.

BEATRICE: Il cielo non può volere che qualcuno sia punito senza colpa, per il solo fatto di essere

nato53.

Per un momento, Olimpio avanza la spiegazione tragica tradizionale del male: esso dipenderebbe dall’imperscrutabile volontà divina, cui l’uomo non può che rassegnarsi. Ma per Beatrice il disordine del mondo, l’assurdo dell’esistere esclude l’esistenza di un dio: la

responsabilità di quanto accade è nella malvagità di Francesco, elevato al rango di divinità infernale (dov’è, anche, l’idea sartriana per cui l’uomo è l’inferno per gli altri uomini). Non così,

naturalmente, per il padre, ben più avanti nel cammino di filosofica consapevolezza. Non c’è differenza alcuna tra bene e male: «Le più atroci situazioni della guerra, le peggiori torture non creano stati di cose inumani: non ci sono situazioni disumane»54. Il progetto di essere Dio, allora, si

49 Ivi, p. 207. 50 Ivi, p. 231. 51 Ivi, p. 210. 52 Ivi, p. 216. 53 Ivi, p. 222.

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manifesta in primo luogo nel gesto gratuito, privo di ragioni e di scopo, incomprensibile al buon senso spicciolo, all’opportunismo di matrice machiavelliana di Olimpio:

FRANCESCO: E come potresti capirmi? Con tutta la tua carriera di soldato, i tuoi omicidi e le tue

bravate, tu sei un uomo molto moderato, molto temperante, molto ragionevole, Olimpio. Un colpo di pugnale forse lo dai, ma per un’offesa, a ragion veduta, per un motivo, insomma55.

Nel suo sostituirsi al fato tragico, Francesco ne fa proprio il progetto essenziale, quello di «punire l’innocente»56. In realtà, però, come nella tragedia antica, nessuno è davvero innocente,

anche se si tratta di una colpevolezza diversa da quella abitualmente intesa, giuridicamente determinata. Di qui, la ripresa dell’archetipo della punizione di Adamo ed Eva nel giardino

dell’eden, oggetto di numerosi dibattiti in ambito esistenzialista. Nel lungo interrogatorio a Beatrice a proposito della lettera da lei inviata a Roma, al fratello e allo zio, Francesco è il Dio padre che costringe la figlia a confessare il peccato originale, la colpa, la disubbidienza (per usare un termine moravianamente più pregnante). Il dialogo tra padre e figlia è davvero un esempio di psicanalisi esistenziale («È la tua mente, invece, che è carica di cose inespresse. Ed io sono qui per aiutarti a liberartene. Cominciamo per ordine: tu hai paura»), in quanto ha per termine ultimo il

riconoscimento non di una forza istintiva che agisce meccanicamente (il fato tragico), ma di una libera scelta («Tu mi hai disubbidito. La prova che mi hai disubbidito è duplice: nei fatti e nel modo»)57. In questo, però, è anche il motivo di una certa debolezza del dramma: nel fatto che

l’uomo che progetta di essere Dio, e indica nella gratuità l’unico movente del suo agire, è anche il padre che – seppure in maniera del tutto particolare – educa la figlia ad una teologia negativa; nel fatto che il teorico dell’eccesso come risposta alla nausea è un filosofo loico, che procede per categorie tomistiche.

Il rapporto con gli altri genera il conflitto, in quanto pone in discussione la libertà, e implica la minaccia costante che l’io, da soggetto del proprio mondo, venga degradato a oggetto del mondo altrui: la conseguenza di questo conflitto è la vergogna. Come Eva nel giardino dell’eden, anche Beatrice prova vergogna. Non si tratta della vergogna in quanto riconoscimento di una

responsabilità, di un qualche comportamento in sé reprensibile (le violenze e la reclusione che subisce alla Petrella renderebbero ben lecito il suo tentativo di liberarsi); ma della vergogna come «sentimento della caduta originale, non del fatto che io abbia commesso questo o quell’errore, ma semplicemente del fatto che sono “caduto” nel mondo, in mezzo alle cose»58:

BEATRICE: Io mi sono sentita innocente il mattino del delitto, e poi sempre più colpevole a misura

che i giorni sono passati e che noi siamo tornati a quella che tu chiami la normalità della vita. Ora io non voglio sentirmi colpevole, perché non lo sono59.

Beatrice rimane vittima di questa impasse: tra l’amore e l’odio, che sono i due atteggiamenti fondamentali del rapporto verso gli altri, sceglie il secondo. Per recuperare la propria libertà, decide di uccidere il padre («Lo sai cosa ho voluto vendicare contro mio padre? […] Io ho voluto

vendicare la mia innocenza»)60; ma uccidendolo, resta fissata nel suo essere un’assassina, diventa un

in-sé, come se morisse lei stessa («Noi siamo quello che facciamo, Beatrice», le fa osservare Olimpio).

Così letta, la Beatrice Cenci è soprattutto la tragedia della consapevolezza intellettuale, del sapere come perdita dell’innocenza. Del resto, il πάθει μάθος, la conoscenza che comporta la sofferenza, è uno dei motivi fondamentali della tragedia classica, sofoclea soprattutto. Non stupisce, allora, che tutti i personaggi, ad eccezione di Francesco, al sapere cerchino di sottrarsi. Quando Olimpio le fa

55 A. MORAVIA, Teatro, cit., p. 214. 56 Ivi, p. 217.

57 Ivi, p. 225.

58 J.P. SARTRE, L’essere e il nulla, cit., p. 344. 59 A. MORAVIA, Teatro, cit., p. 294.

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balenare la possibilità di migliorare la propria condizione di vita alla Petrella diventando sua

amante, Beatrice finge di non capire, oppone come difesa la propria ingenuità originaria: «Io non vi capisco, non vi capisco. Non ho mai capito nulla da quanto sono nata. Bambina, pensavo: non capisco perché sono piccola. Ma poi dovetti ricredermi: gli anni passavano e io continuavo a non capire. Non vi capisco, Olimpio»61. Alla fine, dopo l’omicidio, sarà Olimpio a voler rimanere sordo

alle allusioni di Beatrice: «Questo è il tuo vecchio istinto di introdurre il dubbio e lo sgomento nell’animo altrui. Ma questa volta io non ti ascolterò. Pensa quello che vuoi ma non dirmelo: io non voglio più saper nulla»62. Marzio ripete di continuo, come un ritornello: «Ah, io non volevo sapere.

Ah, perché ho saputo?»63. Lucrezia cerca inutilmente di tranquillizzarsi, rivendicando la propria

estraneità al progetto dell’omicidio, di cui ricusa di sapere i dettagli organizzativi e lo svolgimento: «Io ho la coscienza tranquilla, non seppi nulla, non feci nulla. Per me è davvero come se fosse stato ammazzato dai briganti»64. Aspira a un ottundimento della coscienza, a una vita inconsapevole,

come quella delle bestie nel cavo della tana, che è trasparente simbolo della protezione del ventre materno, prima del trauma dell’ex-sistere: «Voglio soltanto lasciare questa orrida Rocca, e tornare a Roma e lì rincantucciarmi nel mio angolo di vita, non saper più nulla, non udire più nulla. Oh, davvero vorrei poter fare come certe bestie, che, venuto l’inverno, si scavano una buca profonda e vi si addormentano e non si svegliano che a primavera e intanto stanno chiuse e non sanno nulla della neve e del freddo e della notte e del giorno»65; e di nuovo, più avanti: «Ah, io non vorrei star

di qua, né di là, ma lontano. E non sapere nulla»66.

Marzio, però, le fa osservare: «Anch’io fino a un momento fa non ne sapevo nulla.

Purtroppo, però, sapere vuol dire essere complici»67. A differenza di quanto accade nella tragedia

antica, non è necessario agire, per essere travolti dal corso degli eventi; basta sapere. E il sapere è condanna a cui non possono sottrarsi neppure i personaggi più meschini, come Olimpio e Marzio e Lucrezia. Il sapere, soprattutto, è irreversibile; va oltre le espressioni della volontà (Olimpio: «non voglio saper più nulla»; Lucrezia: «Voglio […] non saper più nulla»), sicché è inutile opporvisi, fingere la propria ignoranza, la propria estraneità. Quando Olimpio vuole mettere Marzio al corrente della volontà di Beatrice di uccidere il padre, questi in un primo momento rifiuta di ascoltare; poi cede, spinto dalla prospettiva di trarne un tornaconto personale, salvo pentirsene subito dopo:

MARZIO: Ah, l’avevo sospettato tutto il tempo che questo sarebbe avvenuto e adesso lo so di certo. E

come farò adesso a non saperlo se vorrò ignorarlo? Ah, l’avete detto e io lo so e non c’è più rimedio, povero Marzio, non c’è più rimedio.

OLIMPIO: Per una volta dici la verità: non c’è più rimedio68.

Ma è soprattutto Beatrice che, poco prima dell’omicidio, in un fondamentale dialogo con la matrigna, esprime la piena consapevolezza di questa impossibilità di non sapere che costituisce la più terribile condanna dell’eroe tragico moderno.

LUCREZIA: Ah, io non vorrei star di qua, né di là, ma lontano. E non sapere nulla.

BEATRICE: E poi apprendere, come per caso, che vostro marito è morto ed esclamare: «Come?

Poveretto. Chi l’avrebbe mai pensato?». Non è così. LUCREZIA: Forse non vorresti anche tu che fosse così?

BEATRICE: Non già io. Io ho sempre saputo tutto, quel che facevo e quel che facevano gli altri. E tra

tutte le cose che ho saputo, questa della sua morte non è forse la più terribile. 61 Ivi, p. 223. 62 Ivi, p. 283. 63 Ivi, p. 260. 64 Ivi, p. 244. 65 Ivi, p. 245. 66 Ivi, p. 272. 67 Ivi, p. 244. 68 Ivi, p. 189.

(18)

LUCREZIA: Io invece, non ho mai saputo nulla. E tutto è sempre avvenuto fuori della mia volontà,

senza che io lo sapessi69.

Quella a cui Lucrezia aspira è la condizione dell’eroe tragico antico: il dramma avviene al di fuori della sua volontà, contro di essa; vive ed agisce nell’ignoranza, sicché all’orrore della propria azione può opporre come estrema difesa l’inconsapevolezza, attribuire la responsabilità di quello che è accaduto ad una forza esterna e superiore, il destino, l’anánche. Ma, dopo il dialogo con Francesco, la seduta di psicanalisi esistenziale a cui è stata sottoposta, Beatrice sa che l’innocenza non c’è mai stata. Anche per questo la tragedia moderna è molto peggiore di quella antica, che è quella che vorrebbe vivere Lucrezia, nella quale tutto avviene per caso, e solo alla fine l’eroe ne è fatto consapevole. Anche la Beatrice Cenci, a suo modo, ripete la vicenda di Edipo, come sarà per

Il dio Kurt; ma mentre Edipo giace con sua madre e uccide suo padre senza saperlo, Beatrice giace

con Francesco e lo uccide in piena consapevolezza:

LUCREZIA: Allora non si faccia, per l’amore di Dio. Siamo ancora in tempo.

BEATRICE: Si deve fare. Sebbene sia una scelleratezza, si deve fare.

LUCREZIA: Ma perché, perché?

BEATRICE: Perché non è possibile non farlo.

LUCREZIA: Io non ti capisco70.

Il sapere precede l’evento tragico e lo determina, non ne è la conseguenza, come nella vicenda di Edipo. Beatrice uccide il proprio padre perché è stata resa consapevole della natura della propria noia, del dramma originario dell’esistere; ha sperimentato il carattere conflittuale di ogni rapporto umano e ha provato la vergogna di essere ridotta a cosa: e vi ha reagito con il sentimento dell’odio. Ma sa benissimo che l’uccisione di Francesco non la renderà più libera, e la bloccherà anzi nel ruolo dell’omicida; tuttavia non ha scelta. Manca del tutto, in Moravia, il versante ‘positivo’ del pensiero di Sartre, la possibilità di rispondere in qualche modo allo scacco esistenziale. Manca anche l’idea della fondamentale indifferenza delle scelte, per cui Beatrice definisce il delitto una scelleratezza, ma non può di sottrarvisi. La necessità si è sposta dall’esterno, dal destino, all’interno, all’animo umano. Ma non per questo è meno cogente.

Una delle immagini tradizionali del tragico è quella della machina, dell’ordigno, del

congegno terribile che stritola la volontà dell’individuo nel proprio procedere necessitante. Ora che non c’è più un dio, la macchina viene montata dall’uomo. Olimpio calcola di sfruttare a proprio vantaggio la crudeltà di Francesco, la disperazione di Beatrice, il bisogno di denaro di Marzio, la pochezza di Lucrezia, per possedere la giovane e farne la sua amante. È convinto di poter

controllare il mondo con la virtù militare (è un soldato), crede con Machiavelli «che le cose si possano fare con l’ingegno e con la forza»71. Celebra la razionalità dell’uomo come soluzione ad

ogni imprevisto, esprime un’incondizionata fiducia nella mente, che rende l’uomo diverso e

superiore rispetto alle bestie: «La nostra condotta deve essere simile a una macchina ben costruita in cui nulla è lasciato al caso»72. A limitare il suo ottimismo attivistico interviene soltanto la minaccia

degli ostacoli tragici tradizionali: «Purtroppo l’uomo è soggetto ai colpi della fortuna e ai salti del proprio umore. Altrimenti si potrebbero forse fare piani esatti non dico per tutta la vita, ma almeno per un lungo periodo di anni»73. Ma deve scoprire con disorientato sgomento che il mondo, invece,

è irriducibile; e non lo è per le forze esterne, per la fortuna, ma per gli impulsi interiori, la volontà degli individui, la condizione esistenziale. Progetta di far uccidere Francesco dai banditi e dà loro metà del compenso pattuito, promettendo l’altra metà a delitto compiuto (ma in realtà con

l’intenzione, ottenuto il proprio scopo, di non pagare: ancora con Machiavelli, è convinto che chi vuole ingannare trova sempre chi si fa ingannare); i banditi però intascano il denaro e scompaiono

69 Ivi, pp. 272-273. 70 Ivi, p. 273.

71 Ivi, p. 240. È la celebre idea del capitolo XVIII del Principe, espressa attraverso le immagini della golpe e del lione. 72 Ivi, p. 281.

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prima dell’omicidio. E Beatrice osserva: «È il tuo destino di non capire. Se tu capissi, non ti fideresti tanto dei tuoi piani e guarderesti piuttosto agli uomini che entrano in questi piani. Non lo sai che non ci si può fidare che di se stessi? E ancora. Ma gli altri possono sempre avere altre mire dalle tue»74. Benché sia stata montata dall’uomo (in apparenza da Olimpio, ma più da Beatrice, che

si serve di lui come uno strumento per realizzare il proprio progetto di odio verso il padre), non per questo la macchina può essere controllata:

MARZIO: Già vi illudeste di fermare Beatrice all’amore. […] Ma io vi dico che non la fermerete

neppure questa volta. E vi dico pure che non siete voi a condurre la partita, ma lei. E ancora una volta vi ripeto che avete montato una macchina che vi travolgerà. Oh, non l’avessi mai saputo. Che ci travolgerà75.

Olimpio vuole disconosce il male che è radicato nell’individuo (e i numerosi riferimenti al racconto biblico dell’eden, allora, vanno letti anche in questa prospettiva); Beatrice sa bene, invece, che le cose peggiori vengono dalla mente. Da questo punto di vista, la Beatrice Cenci di Moravia è una tragedia filosofica che nega alla filosofia un qualsiasi valore salvifico. Attraverso il rapporto con il padre e con Olimpio, la giovane ha avuto una singolare e chiarissima rivelazione delle cose ultime, per speculum ma non più in aenigmate76: ha visto non più l’infinita bontà e perfezione di

Dio riflessa nelle proprie creature, ma il fallimentare progetto dell’uomo di farsi Dio a danno degli altri uomini e il suo diventare di coscienza oggetto per effetto dell’atto di prevaricazione e di violenza:

Io ti guardavo e vedevo chiaramente riflessa in te, come in uno specchio, un’immagine di me che vorrei ignorare. E mi dicevo che anche tu, pur parlandomi, vedevi riflessa in me, come in altro specchio simile, l’immagine di te stesso che forse hai già in odio77.

È questa la «normalità macchiata di delitto»78 su cui il dramma si chiude: la tragedia della

banalità del male nella modernità, che non riguarda individui eccezionali colpiti da un’altrettanto eccezionale malignità di fortuna, ma tutti gli uomini, per la loro intima natura. Tragedia tuttavia più terribile di quella antica perché si manifesta connaturata nell’esistere, inchioda l’individuo alle proprie responsabilità, senza offrirgli prospettiva di riscatto. Per questo è tanto più significativo che Moravia tagli tutta la parte del processo e dell’esecuzione dei Cenci: il punto culminante del

dramma non è la morte, come nella tragedia classica, ma proprio la vita, l’assurdo che è l’esistenza. Beatrice, in un estremo slancio, rifiuta di accettarlo: ma la proposta di un’ascesi nella negazione di sé, nella nolontà («So soltanto che mi toglierei dal mondo e troverei una regola, e ogni ora del giorno mi mortificherei nell’ubbidienza, mi umilierei nella preghiera, mi annullerei nel

sacrificio»)79, è fiacca e contraddetta dal successivo ingresso in scena di Carlo Tirone, che non

lascia spazio ad ulteriori sviluppi, blocca l’azione all’accertamento giudiziario dei fatti.

È, in qualche modo, anche il finale del Dio Kurt80, con Saul e Myriam che dopo aver vissuto

in prima persona la tragedia di Edipo e Giocasta, anziché accecarsi l’uno e suicidarsi l’altra tornano tra gli altri deportati del campo di concentramento confondendovisi e riprendendo la loro vita miserabile. E inutili sono le richieste di Saul, che non ha avuto il coraggio di punirsi da sé per quanto ha – sia pure inconsapevolmente – compiuto: il nuovo comandante del campo, Horst, rifiuta di punirlo tanto per l’uccisione di Kurt («Niente punizione. Forse che si puniscono gli attori per

74 Ivi, p. 247. 75 Ivi, pp. 239-240.

76 Il riferimento è alla prima lettera ai Corinzi di Paolo (XIII, 12), qui riecheggiata: «Nunc videmus per speculum in

aenigmate».

77 A. MORAVIA, Teatro, cit., p. 282. 78 Ivi, p. 294.

79 Ivi, p. 295.

80 Uscito per la prima volta, ma in forma molto parziale, in «Sipario» nel gennaio-febbraio 1968, e poi in volume nello

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