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Anthropological changes in drug addiction and therapeutic devices. Ethnographies of a Ser.T. and a Therapeutic Community

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Academic year: 2021

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Università  degli  Studi  di  Genova  

 

S c u o l a d i D o t t o r a t o i n S c i e n z e S o c i a l i

 

Dottorato  di  Ricerca  in:    

Psicologia,  Antropologia  e  Scienze  Cognitive  

 

Trasformazioni  antropologiche  nella  tossicodipendenza  

e  nei  dispositivi  di  cura.  

Etnografie  di  un  Ser.T.  e  di  una  Comunità  Terapeutica

 

 

Relatore:    

prof.ssa  Stefania  Consigliere    

Valutatori:   prof.  Stefano  Allovio     prof.  Giovanni  Pizza    

  Candidata:     Alessia  Solerio  

 

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Dedico questo lavoro ai miei genitori per il sostegno che mi hanno dato:

a Daniela e a Franco

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Un’idea, un concetto, un’idea Finché resta un’idea È soltanto un’astrazione. Se potessi mangiare un’idea Avrei fatto la mia rivoluzione

Giorgio Gaber

Vedi, in questi silenzi in cui le cose s’abbandonano e sembrano vicine a tradire il loro ultimo segreto, talora ci si aspetta di scoprire uno sbaglio di Natura, il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, il filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità. Lo sguardo fruga d’intorno, la mente indaga accorda disunisce nel profumo che dilaga quando il giorno più languisce. Sono i silenzi in cui si vede in ogni ombra umana che si allontana qualche disturbata Divinità.

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Indice

 

Introduzione   vii  

Capitolo 1

Rassegna dei contributi antropologici in materia di alcol, droghe e dipendenze   1  

Una cornice archeologica   2  

L’archivio   2  

L’altrove da cui scrivo   5  

L’antropologia culturale e le droghe   7  

L’approccio socio-culturale ai consumi di sostanze   9  

La grande assenza: antropologia culturale e allucinogeni   13  

Scarti archeologici: le critiche all’approccio socio-culturale   16  

Esotismi d’occidente   20  

Le origini sociologiche della drug ethnography   23  

L’approccio sub-culturale   27  

L’intreccio tra drug ethnography e politica   32  

Antropologia applicata e salute pubblica: critiche etnografiche e biopolitiche   38  

L’approccio economico-politico   43  

L’antropologia medica critica e il mercato   48  

Merce e salute   51  

AIDS e de-esoticizzazione del campo antropologico   55  

L’etnografia biopolitica di Philippe Bourgois   60  

Anthropology of addiction   67  

Le traiettorie delle dipendenze   69  

Verso un approccio bio-sociale   74  

Capitolo 2

L’antropologia simmetrica   80  

L’antropologia simmetrica di Bruno Latour   83  

Vignetta storica   83  

Un’etnografia della scienza   87  

Le reti socio-tecniche e il pensiero moderno   96  

Le pieghe simmetriche dell’antropologia   99  

Un’antropologia del mondo moderno   106  

L’etnocentrismo critico di Ernesto de Martino   108  

L’inevitabilità dell’etnocentrismo   108  

Sulle tracce dell’etnocentrismo critico   110  

Presenza, crisi della presenza e apocalisse culturale.   117  

L’intimo paradosso dell’incontro etnografico   120  

L’etnopsichiatria   125  

Una prospettiva teorica e una proposta terapeutica   125  

Le duplici tematizzazioni dell’etnopsichiatria   127  

L’antropologia medica   140  

Un’antropologia simmetrica   140  

(5)

L’estensione del concetto biomedico di malattia   144  

Il risvolto critico dell’antropologia medica   149  

Capitolo 3

La costruzione del campo etnografico   157  

Cronologia della ricerca etnografica   160  

Preambolo   160  

Da una Comunità Terapeutica   161  

Passaggio: seguire la rete   167  

A un Ser.T.   169  

Campo etnografico, campo antropopoietico   173  

La svolta ontologica   175  

Una rivoluzione silenziosa?   175  

Dall’ansia epistemologica…   178  

(Giochi linguistici, situazioni etnografiche)   184  

… al sussulto ontologico   189  

Due ontografie nel mondo moderno   192  

Metodologia della ricerca ontografica   201  

Il metodo ontografico   201  

Il procedimento riflessivo portato alle sue estreme conseguenze (ossia alle sue conseguenze

ontologiche)   203  

La concettualizzazione come marchio di fabbrica dell’ontological turn   208  

La sperimentazione: il metodo delle equivocazioni controllate   215  

Metodi e obiettivi della ricerca   219  

Riviera Flowers, un campo antropo-poietico   219  

Il Ser.T. di Lavagna, un campo etnografico   225  

Capitolo 4

La storia attorno alle Comunità Terapeutiche   229  

Il movimento delle comunità terapeutiche   229  

Lo scenario internazionale   229  

Le esperienze comunitarie entro la psichiatria sociale inglese   231  

Medicalizzazione e criminalizzazione della tossicodipendenza negli Stati Uniti d’America   234  

Le comunità statunitensi per tossicodipendenti: prima generazione   242  

La contrapposizione metodologica tra comunità per tossicodipendenti e movimento degli alcolisti

anonimi   249  

Le comunità terapeutiche contemporanee   251  

Il contesto italiano   257  

Origine delle Comunità Terapeutiche in Italia   257  

Capitolo 5

Riviera Flowers: trasformazioni nel potere antropo-poietico di una Comunità Terapeutica   267  

Entrando in una comunità terapeutica   267  

(6)

La teoria dell’antropopoiesi   283  

Formulazioni, sviluppi, contaminazioni   283  

Strumenti per l’analisi dei dispositivi antropopoietici   287  

Analisi dei dati: la comparazione tra il “modello rituale” e il “modello centrato sull’individuo”

  291  

La Comunità Terapeutica come dispositivo antropopoietico   291  

1. Tipologia dell’utenza a cui è destinata la proposta terapeutica   298  

2. Modalità di costruzione dell’umano   300  

Divisione del programma in fasi   300  

Ritualità e passaggi di fase   306  

Mito di fondazione   310  

Ontologie emozionali: una guerra di mondi   311  

3. Forma di umanità prodotta   314  

Capitolo 6

Un’etnografia ricorsiva: il Ser.T. di Lavagna e il micro-cosmo della clinica etnopsichiatrica   317  

Affondo storico   320  

L’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale e dei Servizi per le Tossicodipendenze   320  

Storia di un caso: origine e sviluppi del Ser.T. di Lavagna   331  

Etnografia del Ser.T. di Lavagna, ASL4 Chiavarese   340  

Il Ser.T. entro la sua rete istituzionale   340  

Dentro al servizio   348  

PIC, il “fuori” del servizio   359  

Una clinica etnopsichiatrica   365  

L’urgenza di un approccio etno-clinico entro il contesto istituzionale   365  

Teorie situate: la cultura come leva terapeutica   369  

La costruzione del setting etnopsichiatrico   372  

1.        La tecnica del decentramento (o dislocazione)   378  

2.        L’esplorazione dei mondi dei pazienti   384  

3. Le grammatiche della sofferenza   392  

Capitolo 7

Conclusioni: variazioni antropologiche sul tema   401  

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Introduzione

I miti sono fatti perché l’immaginazione li animi

Albert Camus

«Gli dei avevano condannato Sisifo a far rotolare senza posa un macigno sino alla cima di una montagna, dalla quale la pietra ricadeva per azione del suo stesso peso». A poche ore dalla consegna della tesi, mi ritorna alla memoria questa immagine come sorta di allegoria della tossicodipendenza, di una situazione che, come la condanna di Sisifo, è un ciclo continuo tra la calma distesa della discesa e la situazione critica della risalita. Sisifo rappresenta per Camus l’assurdo della condizione umana, l’assurdo che, secondo l’autore, non riguarda né la singola persona, né il mondo, ma il loro rapporto: è «il divorzio tra lo spirito che desidera e il mondo che delude, è […] nostaglia di unità». E Sisifo è eroe assurdo, per le sue passioni e il suo tormento: «se questo mito è tragico è perché il suo eroe è cosciente». Così è, forse, la tossicodipenenza, a modo suo coscienza dell’assurdità che «nasce dal

confronto tra il richiamo umano e il silenzio irragionevole del mondo»1.

La presente ricerca è nata dalla convinzione che l’antropologia offra un tipo di sguardo e degli strumenti concettuali indispensabili sia sul fronte delle indagini sul “mondo moderno”, nello studio dei fenomeni che abitano la contemporaneità, sia all’interno dei contesti sociali, sanitari ed educativi della società da cui proviene l’antropologo. L’antropologo è, a mio avviso, sia un ricercatore che un professionista, ed è questa duplice immagine dell’antropologia che ho cercato di restituire in questa tesi.

Fin dal principio sono stata quindi animata dall’intenzione di mettere quanto più possibile a confronto prassi e teoria, evitando che si generi una                                                                                                                

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distanza incolmabile tra una pratica operativa, che non trova mai il tempo per fermarsi a pensare, e una teoria astratta e sganciata dal mondo, che torna a rivolgersi alla prassi solo con la pretesa di spiegarla. Il senso e gli obiettivi della ricerca si situano, quindi, alla frontiera tra attività pratica e riflessione teorica, nel punto in cui è possibile metterle in relazione: in questo modo, la pratica operativa scova nel motivo della ricerca la possibilità di usufruire di spazi di condivisione in cui diventa possibile tematizzare quanto rimane implicito nella dimensione della prassi e la ricerca teorica, a sua volta, scopre nell’esperienza del campo etnografico l’occasione per mantenersi ancorata al piano esistenziale. Al confine tra prassi e teoria sta dunque la possibilità di creare degli spazi di commistione, di partecipazione e di espressione; in tal senso questa ricerca desidera porsi, nel suo piccolo, come vettore di invenzione e come impegno di trasformazione.

Ma che ce ne facciamo noi, i moderni, degli antropologi?

Di primo acchito si potrebbe pensare che l’interesse di uno studio antropologico sulle tossicodipendenze si riduca al fatto che questo oggetto di indagine racchiuda l’esotico che c’è in noi, che questo comportamento sia un residuo primitivistico entro le culture moderne e progredite, e che quindi l’antropologia abbia gli strumenti adatti per svelarne l’arcano mistero. Questa prospettiva basata sulla dicotomia tra primitivo/moderno, che può proiettarsi su qualsiasi ambito di studio antropologico, è quanto c’è di più estraneo a questa ricerca. Se, infatti, vogliamo metterla in questi termini, occorre riconoscere che la tossicodipendenza è un fenomeno estremamente moderno, che emerge con l’instaurarsi di una società industriale, si diffonde lungo le traiettorie del colonialismo via via che la modernità dilaga smantellando le tradizioni locali e si consolida nella contemporanea società capitalista e neoliberale; che presuppone un certo sviluppo della farmacologia, della chimica, delle reti di produzione industriale e del mercato (siano esse lecite e illecite); che ha attivato una varietà di discipline scientifiche – dalla medicina, alla psicologia, alla psichiatria, alla neurologia, alla criminologia, alla sociologia e, perché no?, anche all’antropologia – affinché indagassero a fondo i meccanismi della “fame di droga”, della ricerca ossessiva, dell’astinenza, del ciclo della

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dipendenza, l’evoluzione nei modelli di consumo, gli stili, le usanze, i linguaggi, i significati…

Qual è dunque oggi l’interesse di uno studio antropologico sulla tossicodipendenza? Di etnografie condotte nei luoghi della presa in carico, della cura e del disagio sociale connessi all’uso di sostanze? Quale la peculiarità di un’antropologia simmetrica sulle tossicodipendenze?

Uno studio antropologico sulla tossicodipendenza è a mio avviso importante nella misura in cui l’antropologia può dispiegare una prospettiva

inclusiva capace di mediare tra le varie concezioni scientifiche e popolari che

tentano di agguantare questo oggetto di indagine, senza arenarsi in indesiderati riduzionismi. Dato questo taglio alla ricerca, è chiaro che non intendo promuovere uno studio sulla (contro)cultura della tossicodipendenza, sulle abitudini e i mondi culturali dei tossicodipendenti, sul gergo o le gerarchie di strada, sulle rappresentazioni e i significati che i consumatori conferiscono alle droghe e al drogarsi. Non intendo fare un’antropologia culturale della tossicodipendenza (pur ritendendo preziosi i contributi che l’etnologia ha dato in questo ambito di indagine). È mia intenzione, invece, studiare la tossicodipendenza come fenomeno storico-antropologico, all’incrocio tra il locale dei luoghi in cui ho condotto le mie etnografie e il globale delle teorie scientifiche che tentano di stabilirne un quadro esplicativo universale. Un fenomeno, quindi, che da un lato evolve storicamente (nei modelli di consumo, nei significati, nelle teorie che tentano di inquadrarlo, nelle misure legislative, nei dispositivi di cura e di presa in carico ecc.) e, dall’altro, è sempre implementato geograficamente, scindendosi in un numero indefinito di varianti locali; un fenomeno che va quindi compreso tanto in prospettiva storica, quanto in relazione ai contesti antropologici locali che si dedicano a questa problematica sotto il profilo medico, sociale ed esistenziale della cura, della prevenzione, della territorialità e della legalità.

L’antropologia simmetrica si qualifica entro questo contesto come un’antropologia che, tornata dai Tropici, non si accontenta di studiare gli aspetti folkloristici, marginali, periferici del mondo da cui proviene l’antropologo, ma cerca di trattare la società dell’antropologo allo stesso modo in cui tratta le comunità tribali: ossia, intende studiarne il centro – il luogo in cui scienza, politica, istituzioni sanitarie, la rete del mercato, il locale si

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intrecciano in una rete che si estende su tutta la società. In tal senso ho cercato di seguire la rete della presa in carico delle tossicodipendenze fino al centro della mia società, nel cuore del Servizio Sanitario Nazionale, confrontandomi con le teorie mediche e psichiatriche che oggettivano la tossicodipendenza e cercano di determinarne la direzione appropriata per una cura. Un’antropologia declinata in chiave critica, storica e simmetrica si configura, in questo modo, come un sapere pienamente attrezzato per studiare le società contemporanee anche e soprattutto in relazione a quegli aspetti del nostro mondo che ci appaiono come i più “naturali” e che di conseguenza riteniamo scontati e non modificabili.

Infine, l’interesse di uno studio antropologico sulla tossicodipendenza riguarda il fatto che oggi la risposta sociale alla tossicodipendenza muove dal presupposto che essa sia un problema medico (oltre che anche legale). La tossicodipendenza nella nostra società è oggettivata come malattia e così ridotta alla dimensione del singolo individuo, slegato dalla sua rete sociale e relazionale. La dimensione sociale irriducibile della tossicodipendenza, la sua dimensione storico-antropologica, rischiano così di perdersi entro un’oggettivazione che la confina all’interno della persona. Gli strumenti dell’antropologia medica si rivelano qui indispensabili per la capacità di riscattare i concetti di salute e malattia dal riduzionismo biomedico e di tematizzare in chiave critica l’orizzonte onto-epistemologico della biomedicina. Nel presente scritto, presterò particolare attenzione ai dispositivi di cura e di presa in carico della tossicodipendenza, seguendone l’evoluzione storica e locale, a lato dei mutamenti che hanno interessato la percezione della tossicodipendenza e i modelli esplicativi di riferimento.

La presente tesi si compone dunque di sei capitoli.

Nel primo esploro la letteratura antropologica in materia di alcol droghe e dipendenze, esaminando l’eterogeneità degli approcci che si sono sviluppati in questo campo – approccio socio-culturale, drug ethnography, etnografie biopolitiche, approccio incentrato sulla salute pubblica, approccio economico-politico, antropologia medica critica e anthropology of addiction. È mia intenzione, lungo questo tragitto, raccogliere gli indizi che narrano le

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trasformazioni che l’antropologia come disciplina sta attraversando, coinvolta in modo sempre più pressante dalle dinamiche della modernità.

Nel secondo capitolo dispiegherò invece l’orizzonte epistemologico che ha fatto da sfondo alla presente ricerca, quello dell’antropologia simmetrica, come complemento filosofico al movimento di auto-critica che ha coinvolto l’antropologia. Arricchirò inoltre la prospettiva che Bruno Latour ha elaborato, invitando l’antropologia a penetrare nel cuore scientifico e istituzionale del mondo contemporaneo, con l’etnocentrismo critico di Ernesto de Martino, l’etnopsichiatria e l’antropologia medica, ritendendoli contributi fondamentali alla presa di questa prospettiva in ambito etnografico e terapeutico.

Il terzo e lungo capitolo è, invece, metodologico. Qui, oltre a presentare i campi etnografici in cui ho condotto le mie ricerche – la Comunità Terapeutica Riviera Flowers di Ventimiglia (cooperativa L’Ancora ONLUS) e il Ser.T. di Lavagna (ASL4 Chiavarese) – introdurrò il movimento dell’ontological turn assecondandone la duplice percezione di una “rivoluzione silenziosa” in antropologia e di una corrente in forte continuità con la tradizione etnografica, presentando la metodologia di ricerca codificata in questa svolta e che mi ha accompagnato nei campi.

Il quarto capitolo è un affondo storico sulla storia delle Comunità Terapeutiche per tossicodipendenti, secondo le due linee storiche che risalgono al movimento della psichiatria sociale inglese e alle comunità per tossicodipendenti statunitensi. Tale capitolo è stata una scelta recente, dato il non più arginabile allungarsi della parte storica con cui intendevo introdurre il capitolo sulla ricerca di campo condotta in comunità. Qui si comincia a vedere anche in chiave storica il legame tra le concezioni della tossicodipendenza e i dispositivi di cura e/o detenzione predisposti in parte emerso nella sezione antropologica esposta nel primo capitolo.

Nel quinto capitolo analizzerò la Comunità Terapeutica in cui ho condotto il mio primo affondo etnografico nei termini di un dispositivo antropopoietico chiedendomi in che modo, nel tempo, in relazione al mutamento del contesto storico e del modello di presa in carico, il “potere antropopoietico” della comunità, la sua capacità di de-costruire e di ricostruire gli umani che l’attraversano, sia andato affievolendosi. In particolare, offrirò una comparazione tra il “modello rituale” originario, di tipo educativo, e

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l’attuale “modello incentrato sull’individuo”, di tipo clinico, secondo due astrazioni emerse dalle interviste all’equipe della comunità e ai suoi operatori “storici”.

Nel sesto capitolo, infine, seguirò la rete della presa in carico per le tossicodipendenze fin dentro al Servizio Sanitario Nazionale, definendo un’etnografia del Ser.T. di Lavagna in quanto “spazio politico della salute”. Qui, a partire dall’eterogeneità delle narrazioni sulla tossicodipendenza che circolano nel servizio, e in particolare dall’ambivalente matrice medico-legale del suo mandato, cercherò di analizzare le dinamiche di costruzione identitaria dei pazienti e di seguire in che modi, tramite quali dispositivi, le narrative sulla tossicodipendenza entrano nei loro corpi. L’etnografia del Ser.T. è, inoltre, un’etnografia ricorsiva. Partecipando alle attività dell’equipe etnopsichiatrica del servizio, del cui dispositivo darò un’approfondita analisi, ho ravveduto in essa “un campo ontografico nel campo etnografico”, ossia un luogo all’interno del mio campo enografico (il setting etnoclinico) che si struttura a partire da principi, e che usa procedimenti molto simili, a quelli con cui gli autori della svolta ontologica costruiscono e operano nei loro campi etnografici. Con la differenza, affatto irrilevante, che nella clinica etnopsichiatrica l’uso di questi strumenti è finalizzato a massimizzare l’efficacia terapeutica del dispositivo. L’accostamento della teoria antropologico-etnografica dell’ontological turn e la clinica etnopsichiatrica non intende risolversi in un’analogia fine a se stessa, ma interrogarsi se i due ambiti possano trarre spunti preziosi l’una dall’altra.

Seguiranno, infine, le conclusioni.

La presente tesi ha un profondo debito intellettuale nei confronti dei luoghi – accademici ed etnografici – in cui ho transitato. Desidero quindi ringraziare, in primo luogo, i “miei nativi”, gli operatori di Riviera Flowers che mi hanno accolto e accompagnato nell’esperienza in comunità, e in particolare coloro che si sono prestati alle mie interviste: quindi un grazie a Dani C., Marita, Giovanni, Luigi, Fulvio, Vincenzo, Don Angelo. Mi scuso invece con le persone che infine non ho intervistato. E il personale del Ser.T. di Lavagna, anche per la sua lungimiranza nel coinvolgere i professionisti antropologici in ambito socio-sanitario: un grazie in particolare al dott. Lorenzotti, alla dott.ssa Arcellaschi, a Giorgio, ad Alessandro, a Mara, alla dott.ssa Rolando e agli

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operatori della comunità L’Occasione, Stefano e Giancarlo, che mi hanno dedicato tempo e memorie. Ringrazio le persone incontrate in questi luoghi, che mi hanno confidato pezzi delle loro vite. Un grazie infinito e del tutto speciale va, infine, a Tullio Tinti, direttore di Riviera Flowers, e al dott. Simone Spensieri per la fiducia, l’ascolto e il confronto, sempre prezioso. Un grazie altrettanto profondo all’equipe etnopsichiatrica del Ser.T. di Lavagna, per l’amicizia e la professionalità con cui hanno accompagnato la mia esperienza: Katia, Marzia, Ilaria, Zelmira, Davide, Ahmed, Gianluca.

In secondo luogo desidero ringraziare sentitamente le persone che hanno letto e leggeranno questo lavoro ancora in fase di costruzione: la prof.ssa Stefania Consigliere, per i consigli e le minuziose correzioni; e i miei relatori esterni, prof. Stefano Allovio e prof. Giovanni Pizza, per la loro gentilezza e disponibilità.

La mia formazione, e in particolare il presente lavoro di ricerca, ha avuto luoghi di sedimentazioni e di crescita importanti: desidero quindi ringraziare le persone che, negli anni, ho incrociato al Tavolo di Antropologia e a Mondi multipli presso l’Università degli Studi di Genova; al Laboratorio Mappe (Oriss) e al Collettivo Oroboro; al collettivo AltroVerso (GLIS-Liguria). Desidero ringraziare in modo particolare le persone che negli anni mi hanno accompagnato nella mia formazione e hanno fatto crescere in me la passione per l’antropologia: oltre a Stefania, ringrazio Simona, Roberta e Federica; Emanuele, per le lunghe chiacchiere e l’amicizia; il prof. Guerci, “maestro di molti”; e Piero Coppo, che ha orientato la piega di questa ricerca; Deborah e Filippo, per i confronti al confine tra medicina e antropologia. Ringrazio il prof. Morra per i consigli e l’invito a esplicitare in modo sistematico la metodologia della ricerca.

Infine, gli amici – che non mi vedono da mesi! E Mario, infinita pazienza.

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Nota: in quel che segue, al fine di rendere scorrevole la lettura, ho ritenuto opportuno tradurre in lingua italiana tutte le citazioni tratte da libri, saggi e articoli in lingua inglese e francese; mi assumo, di conseguenza, la responsabilità di eventuali errori o di passaggi che non restituiscono in modo fluente il senso del discorso.

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Capitolo 1. Rassegna dei contributi

antropologici in materia di alcol, droghe e

dipendenze

In questo primo capitolo intendo offrire una panoramica sulla letteratura antropologica nell’ambito degli alcohol and drug studies, cercando di dare risalto alla posizione occupata dall’antropologia entro il più ampio panorama scientifico in materia di droghe e dipendenze e all’azione critica che ha potuto svolgere attraverso le sue acquisizioni etnografiche e socio-politiche. Il materiale utilizzato nell’assemblaggio del testo comprende rassegne già esistenti redatte, nei vari decenni, con tagli differenti, articoli e libri originali che hanno lasciato una loro impronta influenzando i colleghi antropologi, affondi sulla storia sociale delle sostanze esaminate, estratti di critiche mosse dai rappresentanti di altre discipline o di altri approcci.

Per la disamina del materiale raccolto ho adottato il metodo archeologico codificato dal filosofo francese Michel Foucault. In particolare, l’adozione di uno sguardo archeologico mi interessa non solo come espediente per riordinare il materiale, ma soprattutto perché consente di disarcionarsi da una “concezione evolutiva” del sapere, ossia dalla lettura del “divenire storico” di una disciplina nei termini di un progresso conoscitivo. Come nella teoria dell’evoluzione umana, in cui l’idea di un’unica linea evolutiva che, da ominidi primitivi, conduce dritta verso l’uomo moderno, in una corsa progressiva verso l’evoluzione, è stata di recente soppiantata da una visione ramificata, in cui differenti soluzioni evolutive coesistono alternando nel tempo caratteri “primitivi” e “moderni”, non vi è una tale progressione lineare e ineluttabile del sapere, da rozze credenze a conoscenze scientificamente fondate, quanto piuttosto «un oceano, sempre crescente, di alternative reciprocamente incompatibili (e forse anche incommensurabili)»1.

Con l’archeologia mi accosto al materiale senza pretendere di restituire lo sviluppo pulito del pensiero antropologico nell’ambito delle droghe, in un’astrazione che pare ambire alla purezza delle idee platoniche; tenterò di contestualizzare i vari approcci nello sfondo storico-antropologico e nell’orizzonte epistemologico cui appartengono, con l’obiettivo di mostrare come, più che una conoscenza sempre più approfondita, precisa, avanzata dello stesso oggetto di indagine, che gradualmente svela la sua natura, non potendo resistere alla seduzione del metodo scientifico, si dispiegano prospettive differenti (socio-culturale, subculturale, eco-politica, medica, bio-sociale ecc.) che costruiscono oggetti diversi (i modelli culturali di consumo, le subculture dei “tossici” di strada,

                                                                                                                1 Feyerabend 1975, p. 27.

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l’alcolismo come malattia, l’addiction ecc.). Questa eterogeneità impedisce di intendere i contributi dell’antropologia in chiave evolutiva. Con l’archeologia cercherò dunque di valorizzare al massimo le differenze, senza riassorbirle in una concezione omogeneizzante, nella consapevolezza che ogni modello ha apportato contributi insostituibili all’ambito di indagine, ma ha altresì i suoi limiti di applicazione.

Nel percorso frastagliato e puntuazionista che, dagli studi culturali sull’uso di droghe in contesti tribali, ci conduce dinanzi a un’antropologia che dialoga con le neuroscienze, accogliendo le dipendenze patologiche [addiction] come oggetto di indagine, cercherò inoltre di individuare dei segni che narrano le trasformazioni che l’antropologia come pratica discorsiva sta oggi attraversando, affrontando forse una profonda crisi di identità, una rinascita in una forma nuova, o un mutamento paradigmatico, in un coinvolgimento sempre più pressante con le dinamiche della modernità.

Una cornice archeologica

L’archivio

Nella sua archeologia del sapere, Foucault definisce l’archivio come «il gioco delle regole che determinano in una cultura la comparsa e la scomparsa degli enunciati, la

persistenza o la cancellazione, la loro esistenza paradossale di eventi e di cose»1,

sottolineando la presenza di condizioni storico-antropologiche che regolano l’articolarsi del detto: dato un particolare momento storico, un particolare contesto, un particolare orizzonte discorsivo, non si può dire qualunque cosa, né è così facile dire qualcosa di nuovo.

Come forse suggerito dal suo nome, l’archeologia è «la descrizione dell’archivio»2, e

tale descrizione avviene in funzione degli a priori storici e delle regolarità enunciative. Gli a

priori storici, ci dice Foucault, non sono condizioni di validità dei giudizi, ma condizioni di

emergenza degli enunciati, sono le condizioni di realtà delle cose effettivamente dette3; gli a

priori storici definiscono i limiti di quel che è possibile dire in momenti storici e in società

ben definiti. Ma l’archivio «è anche ciò che fa sì che tutte queste cose dette non si ammucchino all’infinito in una moltitudine amorfa […] ma si raggruppino in figure distinte, si compongano le une con le altre secondo molteplici rapporti, si conservino o si attenuino

secondo regolarità specifiche»4; esso non indica l’insieme dei documenti conservati da una

                                                                                                               

1 Foucault 1971, pp. 32-33. Per il concetto di “archivio”, cfr. Foucault 1969, pp. 172-176; Foucault 1971, pp. 80-83.

2 Foucault 1971, p. 80.

3 Per il concetto di “a priori storico”, cfr. Foucault 1969, pp. 170-172. 4 Foucault 1969, p. 173. Il corsivo è mio.

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data società, ma «il sistema generale di formazione e di trasformazione degli enunciati»1,

laddove «un enunciato è sempre un evento»2, qualcosa che accade nella storia, prima ancora

di offrirsi come dato di conoscenza. In sintesi, l’archeologia si sofferma sulla superficie del detto, sull’enunciato preso nella sua singolarità di evento, ne interroga le condizioni di esistenza e le regolarità che contraddistinguono le sue apparizioni e metamorfosi.

Invocare il concetto di archivio in vista di una rassegna sugli studi antropologi su alcol, droghe e dipendenze significa adottare uno sguardo archeologico nella disamina di questo materiale. L’archeologia non interroga il detto sulla sua verità o falsità, sulla fedele corrispondenza a una supposta realtà esteriore, ma interroga le condizioni storico-antropologiche che hanno reso possibile l’articolarsi del detto – la costruzione di certi oggetti del discorso, la posizione da cui i soggetti che hanno l’autorità di parlare possono di proferire un certo tipo di discorso, la circolazione dei concetti nel campo del discorso, le strategie

messe in atto per non inciampare in aporie3.

Rispetto alla storia delle idee, che riordina il movimento del pensiero umano a partire dallo schema di una progressione lineare e continua, riproducendo la percezione di una continuità che, a guardar bene, appartiene più all’occhio dello storico che alla storia in sé, l’archeologia muove in direzione ostinata e contraria: riporta in superficie le fratture, quelle discontinuità che l’altra cancellava pazientemente. Come scrive il filosofo francese,

l’archeologia prende per oggetto della sua descrizione ciò che normalmente si considera come ostacolo: non si propone di superare le differenze, ma di analizzarle, di dire in che cosa effettivamente consistano, e di differenziarle4.

Senza pretendere di applicare con dovizia la metodologia per la storia della cultura che Foucault codifica nel dettaglio, vorrei accostarmi alla letteratura antropologica in materia di alcol, droghe e dipendenze prendendo spunto dalla prospettiva che qui si dispiega e impiegando alcuni dei concetti che competono al metodo archeologico nella disamina del materiale. In particolare, mi interessa mettere in evidenza la discontinuità tra gli approcci, le fratture che hanno caratterizzato i diversi modi in cui l’antropologia si è accostata al tema del                                                                                                                

1 Foucault 1969, p. 174.

2 Foucault 1971, p. 30. L’enfasi in corsivo è aggiunta mia. Sempre qui, sull’enunciato-evento: «evento strano, senza dubbio: innanzitutto perché è legato da un lato a un gesto di scrittura o all’articolazione di una parola, ma dall’altra schiude a se stesso un’esistenza che permane nel campo di una memoria, o nella materialità dei manoscritti, dei libri o di qualunque altra forma di registrazione; in seguito perché esso è unico come qualunque altro evento, ma viene offerto alla ripetizione, alla trasformazione, alla riattivazione».

3 Cfr. Foucault 1969. 4 Foucault 1969, p. 224.

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consumo di droghe e alcol, le differenze tra gli oggetti, le posizioni e prospettive dei soggetti, le chiavi di lettura e le problematiche affrontate, differenze che rendono artificioso istituire un’unità disciplinare a partire da affondi e soluzioni così eterogenee. Guardando alla letteratura antropologica in materia di alcol e droghe a partire dal concetto di archivio e adottando uno sguardo archeologico, esplorerò il territorio in questione cercando anche di contestualizzare i contributi dell’antropologia nell’orizzonte storico-antropologico cui appartengono, nel suo a priori storico, e di relazionarli con i dibattiti e gli sviluppi di altre discipline. È mia intenzione, infine, leggere le discontinuità così individuate come sintomi di una trasformazione più ampia e generalizzata che interessa l’intera pratica discorsiva dell’antropologia.

Se consideriamo, infatti, l’approccio socio-culturale con cui l’antropologia ha esordito nello studio dei consumi di alcol e droghe e l’emergente paradigma dell’anthropology of

addiction assistiamo a una trasformazione così radicale della prospettiva antropologica da

farci supporre che, in termini archeologici, sia stato valicato un orizzonte di dicibilità del tutto differente. Come si è passati da “studi culturali” interessati ai consumi normali e non patologici di sostanze specifiche entro contesti locali, quotidiani o rituali, a un’antropologia “biologica” che si accosta al fenomeno della dipendenza come malattia cronica del cervello? Da affondi che non travalicavano mai l’ambito della credenza, dei significati culturali e della rappresentazione soggettiva, a indagini che immediatamente si confrontano, si compiacciono o si scontrano con conoscenze scientifiche acquisite grazie alle più avanzate tecnologie oggi disponibili? La lente dell’archeologia permette di leggere questo evento discorsivo non nei termini di una progressione lineare del sapere, da conoscenze più rozze ad acquisizioni sempre più solide e scientificamente fondate – una soluzione lineare che rischia di svalorizzare quanto appartiene al passato dell’antropologia – ma come una frattura senza soluzione di continuità, come un balzo in un altrove fino a poco tempo prima appena immaginabile.

Passando dunque in rassegna i contributi che l’antropologia ha prodotto entro un ambito di indagine decisamente eterogeneo quanto a oggetti, metodi e prospettive, cercherò di individuare dei segni che racchiudono la trasformazione epistemologica che l’antropologia sta attraversando. In particolare, affinché potesse emergere un’anthropology of addiction, sono state indispensabili due cose. Innanzitutto, l’antropologia ha dovuto abbandonare il suo terreno di elezione, la dimensione del culturale, o quanto meno estendere lo sguardo oltre i confini della cultura verso quello che fino a poco tempo prima era – come il discontinuo per la storia delle idee – il suo dato e il suo impensabile: la dimensione della natura. In secondo

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luogo, l’antropologia, per stare al passo coi tempi ed evitare di dissolversi in un primitivismo aporetico, ha dovuto volgere il proprio sguardo dalle comunità esotiche e tendenzialmente isolate con cui si era confrontata fino a poco prima, anche verso la nostra società, moderna, capillare e dilagante. E come la storia che comincia a misurarsi con la discontinuità, moltiplicando i livelli di analisi, stratificando la narrazione, senza però aver registrato né pensato tale mutamento epistemologico, senza promuovere una riflessione attiva su

quell’oggetto scomodo e imbarazzante che è la discontinuità 1, allo stesso modo

l’anthropology of addiction potrebbe non aver elaborato fino in fondo la trasformazione che l’antropologia ha dovuto attraversare, per partorire un paradigma così agli antipodi rispetto a quella che era la sua vocazione originaria – l’attrazione per l’esotico e l’attitudine al culturale,

in netta opposizione allo scientifico e al naturale2.

Scrive Foucault: «si griderà all’assassinio della storia ogni volta che in un’analisi storica si vedranno usare in maniera troppo manifesta le categorie della discontinuità e della

differenza»3. Analogamente, si potrebbe dire dalle nostre parti: si griderà all’assassinio

dell’antropologia ogni volta che in un’analisi antropologica la dimensione della natura diventa troppo manifesta.

L’altrove da cui scrivo

Secondo Foucault, oltre a non poter mai descrivere in modo esauriente l’archivio di una data società, non possiamo neanche descrivere l’archivio dentro cui ci troviamo «perché parliamo proprio all’interno delle sue regole, perché è lui che conferisce a ciò che possiamo dire – e a

se stesso, oggetto del nostro discorso – i suoi modi di apparizione»4. L’analisi dell’archivio

richiede una regione privilegiata, vicina a noi, ma differente dalla nostra attualità; questa regione privilegiata è «il bordo del tempo che circonda il nostro presente, che lo sovrasta e lo                                                                                                                

1 «Attualmente questo mutamento epistemologico della storia non è ancora concluso. Tuttavia […] non è stato registrato né ripensato […] come se, in questa storia che gli uomini riscrivono con le loro idee e le loro conoscenze, fosse stato particolarmente difficile formulare una teoria generale della discontinuità […] come se si trovasse difficoltà a teorizzare, a trarre le conseguenze generali e perfino a desumere tutte le implicazioni di quei concetti di soglia, di mutazioni, di sistemi indipendenti, di serie limitate che nella pratica vengono usati dagli storici. Come se avessimo paura di concepire l’Altro all’interno del tempo del nostro pensiero» (Foucault 1969, p. 17).

2 Nonostante l’antropologia abbia dedicato numerose pagine a tematizzare il volgimento dello sguardo dalle società primitive alle società moderne, pare molto più timida dinanzi alla legittimazione del proprio sguardo in relazione allo studio della “natura” e della “conoscenza scientifica”, forse con l’unica eccezione dell’antropologia medica; tale snodo è invece al centro dell’antropologia simmetrica di Bruno Latour (cfr. capitolo 2).

3 Foucault 1969, p. 20. 4 Foucault 1969, p. 174.

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indica nella sua alterità; è ciò che sta fuori di noi e ci delimita»1; possiamo descrivere

l’archivio solo «a partire dai discorsi che hanno appena cessato di essere nostri»2.

Rispetto alla letteratura antropologica in materia di alcol, droghe e dipendenze abitiamo una siffatta regione privilegiata, che ci permette la descrizione di un archivio a noi quasi contemporaneo, non tanto per lo iato temporale che ci separa dai primi contributi antropologici, ma soprattutto perché scriviamo da un altrove – geografico, politico, storico e in parte epistemologico – che offre il giusto scarto e un’adeguata distanza dall’archivio oggetto della nostra descrizione. La quasi totalità della letteratura accademica che compone le rassegne antropologiche dedicate a questo settore di ricerca è, infatti, anglofona e fa riferimento quasi esclusivo alla storia sociale statunitense, al limite britannica. Come sottolineano Hunt e Barker nella loro rassegna del 2001: «ci sono, naturalmente, antropologi e ricercatori qualitativi che operano in Europa e altrove, ma la maggior parte dei loro lavori è inaccessibile alla più estesa alcohol and drug research community, come accade ai documenti

che hanno limitata circolazione»3. Le ragioni della predominanza della letteratura statunitense

sono storiche, politiche e sociali. È sufficiente pensare alla precocità con cui gli Stati Uniti si sono trovati ad affrontare su larga scala il problema delle tossicodipendenze, mediante una politica di guerra alle droghe condotta sia su scala nazionale che internazionale; all’enorme mole di finanziamenti che sono stati investiti in questo settore di ricerca, soprattutto in seguito all’epidemia di HIV; e all’influenza che i trattamenti sperimentati e la percezione sociale del fenomeno in America hanno avuto sul resto del mondo. Anche il presente capitolo farà riferimento quasi esclusivo alla letteratura dominante, e questo motiva la mia propensione a utilizzare etichette di ricerca, e talvolta anche concetti, in lingua inglese. Sarà mia cura riassorbire lo scarto che ci separa dalla letteratura e dalla storia egemone nella sezione etnografica e locale della presente ricerca.

                                                                                                                1 Foucault 1969, p. 175.

2 Foucault 1969, p. 175.

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L’antropologia culturale e le droghe

1

 

Sebbene l’etnologia ha da sempre indagato l’uso di sostanze esotiche in contesti tribali, come capitoli di monografie olistiche sulle popolazioni studiate, affinché si consolidi una vera e propria tradizione di ricerca sui consumi di alcol e droghe occorre attendere la seconda metà del 1900.

La prima ondata di studi antropologici sui consumi di sostanze si caratterizza per l’adozione del metodo etnografico e per un approccio comparativo. Di norma, ogni studio si limita a esplorare il consumo di una singola sostanza entro un particolare contesto culturale, solitamente esotico; a partire da questa unità, possono poi comporsi studi comparativi tra due o più comunità native, o studi cross-culturali ad ampio spettro, che solitamente riguardano sempre l’uso di una stessa sostanza nei diversi contesti culturali. Le etnografie, anche quando si limitano ad affondi in una singola comunità nativa, offrono sempre e comunque un feedback comparativo nei confronti della società cui appartiene l’antropologo, un feedback retroattivo che ha un effetto destabilizzante, dal momento che mostra la “relatività etnica” degli assunti e degli stereotipi sulle droghe della cultura dominante; esse costituiscono quindi una forma di resistenza contro la tendenza a universalizzare le “credenze occidentali” sulle droghe.

Sono quindi le categorie di sostanza, il loro “genere naturale”, a determinare la configurazione strutturale del campo delle droghe dalla prospettiva dell’antropologia culturale. Si diramano diverse linee di ricerca, ciascuna dedicata a un singolo genere di consumo, che tendenzialmente non si incrociano mai. Questa configurazione a scompartimenti stagni è in parte dovuta alle peculiarità dell’approccio antropologico, in parte alle politiche di stanziamento dei fondi di ricerca, che ricalcano la logica settoriale dei generi naturali, essendo l’interesse primario quello di conoscere gli effetti e i modelli di consumo delle singole sostanze illegali o potenzialmente dannose per la salute. La più importante partizione che si genera a partire dalle agenzie di finanziamento è sicuramente quella tra gli

alcohol e i drug studies, finanziati rispettivamente dal NIAAA [National Institute of Alcohol Abuse and Alcoholism, istituito nel 1970] e dal NIDA [National Institute of Drug Abuse,

                                                                                                               

1 Tra le rassegne consultate per questa sezione si segnalano: Bennett e Cook 1990; Hunt e Barker 2001; Singer 2012; Singer e Page 2017; per rassegne dedicate alla letteratura antropologica sul consumo di alcolici: Heath 1987; Baer et al. 1997, cap. 5; Dietler 2006; per rassegne sulla drug ethnography: Waldorf 1979; Feldman & Aldrich 1990; Agar 2002; Carlson e Singer 2009; Page e Singer 2010; e l’interessante affondo storico sui rapporti tra etnografia e politica statunitense Campbell e Shaw 2008; sull’antropologia medica e le droghe: Baer et al. 1997, cap. 7; Page 2011.

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istituito nel 1973]; in seguito alla fondazione di queste agenzie, anche gli antropologi, finora impegnati nello studio degli usi socialmente approvati, cominceranno a interessarsi a

problemi di salute connessi all’uso e abuso di alcol e droghe1.

In quel che segue comincerò con l’introdurre il modello socio-culturale passando in rassegna i contributi più rilevanti, dedicando particolare attenzione agli studi sul consumo di alcolici e di cannabis, in quanto costituiscono gli affondi più cospicui e più rappresentativi del modello; mentre, dall’altra parte, sottolineerò come sintomatica una “grande assenza” in questo ambito: gli studi sugli usi rituali di sostanze allucinogene, i quali ricevono pochissimo spazio nelle rassegne esaminate, di cui si rimarca la non appartenenza a questo ambito di

ricerca2. Quali sono le ragioni di questa esclusione? Successivamente, prenderò in

considerazione le principali critiche che sono state avanzate verso il modello socio-culturale, con l’obiettivo di cominciare a individuare, sul piano archeologico, quegli indizi che raccontano il mutamento di paradigma che l’antropologia sta oggi attraversando. In seconda battuta, tratterò la drug ethnography, che condivide molte delle caratteristiche dell’approccio socio-culturale, ma sceglie come terreno d’elezione non più le comunità native, bensì i bassifondi delle metropoli statunitensi. Gli autori che riconoscono l’appartenenza della drug

ethnography al modello socio-culturale definiscono questo approccio “modello subculturale”

o life-style model.

Da un punto di vista archeologico, mi interessa evidenziare come, pur rimanendo dentro il medesimo orizzonte di dicibilità dell’antropologia culturale, la drug ethnography, volgendo lo sguardo verso quel che accade nella società da cui proviene l’antropologo, abbia

introdotto un’importante discontinuità rispetto all’esotismo geografico tipico

dell’antropologia. Come è avvenuto questo passaggio? Come si è conservato? E che cosa ne è conseguito? Per questa via, gli antropologi verranno arruolati sempre più spesso in progetti di ricerca e di promozione della salute pubblica, entrando in relazione con problematiche che interessano primariamente la dimensione del biologico, come le malattie infettive (AIDS, epatiti ecc.) che interessano i tossicomani. Vedremo come, per gli antropologi, sia l’etnografia della nostra società che l’incursione nel biologico siamo stati eventi non scontati, problematici e carichi di significato, tanto epistemologico, quanto politico.

                                                                                                               

1 Hunt e Barker 2001, p. 173: «La motivazione profonda degli antropologi per questa separazione è che, data la storia della ricerca delle singole sostanze e il loro status legale attuale, necessitano di approcci differenti. Le competenze e le posizioni professionali sono preservate da una serie di segnali di confine che dividono i rispettivi campi. Ad esempio, i campi di ricerca sull’alcol e sulle droghe illecite sono tenuti separati dagli enti di finanziamento federali (NIAAA e NIDA), da diverse riviste specialistiche […] e da conferenze separate». 2 Cfr. ad es. Hunt e Barker 2001, nota 6: «La Barre, Dobkin de Rios e Furst hanno prodotto importanti studi cross-culturali sugli allucinogeni, tuttavia questi lavori non rientrano nella ricerca antropologica sulle droghe».

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L’approccio socio-culturale ai consumi di sostanze

Possiamo definire l’approccio socio-culturale a partire da quattro tratti che, con una certa regolarità, accomunano un ampio insieme di contributi antropologici specialistici: (1) l’adozione del metodo etnografico; (2) l’interesse per gli usi “normali”, quotidiani o rituali, non problematici sotto il profilo medico e sociale; (3) l’attribuzione di un ruolo fondamentale alla cultura nel determinare gli effetti comportamentali che conseguono all’assunzione o all’abuso, quindi il rifiuto di ridurre questi ultimi alle proprietà chimiche e naturali delle sostanze assunte; (4) la tendenza a fornire osservazioni di tipo funzionalista, che valorizzano gli aspetti positivi che accompagnano i consumi.

Attraverso il metodo etnografico, l’osservazione e la partecipazione alla vita di una comunità, l’antropologo indaga i modelli di consumo, i significati e i comportamenti associati all’uso di alcol e droghe, contestualizzandoli entro la cultura particolare in cui avvengono. I primi studi sui consumi di sostanze entro società tradizionali avvennero quasi per caso, come appendici o sottoprodotti di ricerche etnografiche di più ampio respiro. Ne è un esempio paradigmatico l’articolo di Ruth Bunzel The Rôle of Alcoholism in Two Central American

Cultures del 1940, primo tra i contributi antropologici agli alcohol studies. In questo articolo,

l’autrice offre una lettura comparativa sul consumo di alcolici presso i Chamula del Messico e i Chichicastenango del Guatemala, ma, come afferma la stessa autrice i due campi etnografici sono stati condotti a sette anni di distanza l’uno dall’altro, e la messa in relazione dei dati raccolti è stata del tutto contingente:

non sono ritornata in nessuna delle due comunità mesoamericane in cui ho lavorato per parecchi anni. Né ho pensato di ristudiarle, sebbene sarebbe un’esperienza interessante. E da allora non mi sono mai dedicata all’alcol, all’alcolismo o alle abitudini al bere come specifica area di ricerca. Realizzai il mio articolo originale quasi per caso, come un sottoprodotto di studi etnografici più generali nelle due aree geografiche. I due progetti di ricerca erano separati da parecchi anni1.

Prima che si consolidasse una branca di ricerca autonoma in etnologia, erano più che altro i sociologi a riordinare e sistematizzare il materiale etnografico raccolto per caso entro correlazioni statistiche cross-culturali, sfruttando i dati contenuti nella Human Relations Area Files. Ad esempio Donald Horton nel 1943 analizza il comportamento connesso all’uso di                                                                                                                

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alcolici in 56 società descritte da antropologi, avviando una comparazione su larga scala del medesimo tratto comportamentale e valutando la variazione nell’intensità dell’uso in relazione alle condizioni sociali. Dal suo studio, pubblicato con il titolo The Functions of

Alcohol in Primitive Societies: a Cross-Cultural Study, Horton trasse la seguente

generalizzazione: «la funzione principale delle bevande alcoliche in tutte le società è la

riduzione dell’angoscia»1. Riproducendo lo studio di Horton, il sociologo Peter Field2

concluse, invece, che l’abuso di alcolici andava connesso non tanto al livello di ansietà accusato dagli individui, quanto alla presenza o assenza di certe relazioni fondamentali che garantiscono la coesione sociale, indicando un area di ricerca che sarà in seguito battuta dagli

stessi antropologi3.

Rispetto a questi primi studi sociologici condotti a partire da materiale etnografico, gli affondi antropologici si differenziano per due aspetti: innanzitutto, l’obiettivo dell’etnografo non è tanto fornire dei modelli esplicativi sui consumi, ma offrire descrizioni dettagliate e volutamente prive di incrostazioni teoriche; in secondo luogo, più che interessarsi ai fenomeni di abuso e a problematiche connesse all’uso di sostanze, gli etnografi focalizzarono le proprie ricerche sui consumi socialmente approvati. Laddove le sostanze dichiarate illegali in Occidente sono, in altre società, comunemente utilizzate da generazioni, si genera inevitabilmente un contrasto epistemologico e politico tra le acquisizioni etnografiche e la politica di guerra alle droghe adottata sul territorio statunitense almeno dall’introduzione

dell’Harrison Narcotic Act del 19144 (ma se vi includiamo anche l’alcol, arriviamo fino a

metà Ottocento1). Ne sono un esempio lampante gli studi etnologici sulla ganja in Giamaica2.

                                                                                                                1 Horton 1943, p. 223.

2 Field 1962.

3 Cfr. Bennett e Cook 1990, pp. 240-241. Si tratta dell’ambito spesso indicato come “studi sull’acculturazione e i cambiamenti culturali”, che prende in esame in particolar modo l’insorgere di problematiche alcol-correlate (aggressività, episodi di violenza, insorgere di malattie) nelle popolazioni degli indiani d’America, via via che i dispositivi di protezione della tradizione sono stati smantellati nel processo di modernizzazione. Uno studio rappresentativo e pionieristico è offerto da Graves 1967. Graves propone uno studio comparativo tra tre gruppi (spagnoli-americani, anglo-americani e indiani Utu) chiedendosi: sotto quali condizioni l’acculturazione si accompagna a sintomi di disorganizzazione sociale e psicologica? Il consumo abnorme e problematico di bevande alcoliche da parte degli Utu è quindi attribuito al cedimento dei dispositivi deputati al contollo sociale. Secondo Graves, però, l’acculturazione non è necessariamente un fattore di rischio, perché «quando le strategie tradizionali sono diventate inapplicabili […] l’acculturazione può aiutare a promuovere lo sviluppo di nuovi dispositivi di controllo» (Graves 1967, p. 319). Risiedono qui, nell’ambito acculturazione e cambiamenti sociali, le prime manifestazioni di interesse antropologico per le problematiche alcol-correlate. Cfr. anche Frank et al. 2000; Heath 2004.

4 Sull’Harrison Act, cfr. Baer et al. 1997, p. 138; Acker 1995, pp. 121-123; Conrad & Schneider 1981, pp. 123 e seg. Introdotto nel 1914, l’Harrison Act costituisce la prima legislazione contro la libera vendita di prodotti farmaceutici la quale, in particolare, sottoponeva oppiacei e altri narcotici sotto il controllo federale, imponendone la vendita solo dietro ricetta medica. La sua interpretazione in chiave repressiva ha portato, di contro, a criminalizzare tutti gli usi non-medici. L’introduzione di questa misura legislativa ha avuto un impatto profondo sulla storia della tossicodipendenza negli Stati Uniti, dal momento che, in seguito alla sua

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Gli studi antropologi sulla cannabis muovono dal presupposto che il suo consumo non costituisca né un vizio dell’individuo, né un crimine sociale, né un comportamento da patologizzare, quanto piuttosto, in termini più neutri e generali, un fenomeno socio-culturale. Analizzando l’uso di cannabis in Giamaica nei termini di un’“istituzione”, ossia di un insieme di modi standardizzati di co-attività che si caratterizza per la condivisione di valori, credenze

e abitudini e per la strutturazione degli stili dei consumi in base ai gruppi di età3, Comitas

scrive:

La credenza che la ganja agisca come uno stimolante sul lavoro, e i comportamenti osservabili che tale credenza induce, pone dubbi considerevoli sull’universalità di ciò che in letteratura è stato descritto come «la sindrome a-motivazionale» o come «una perdita del desiderio di lavorare, competere e affrontare le sfide»4.

La cannabis, additata in occidente come droga che rende pigri e altera la coscienza, in Giamaica pare stimolare, al contrario, una “sindrome motivazionale” e la concentrazione della persona, dal momento che viene assunta come “apporto energetico” per portare a termine lavori faticosi: «davanti a una terra difficile da pulire, si dice, il contadino-fumatore si siederebbe, accenderebbe uno spinello, e pochi minuti dopo sarebbe in grado di affrontare e

completare il compito»5. In generale, questi studi enfatizzano la variabilità culturale dei

modelli di consumo di cannabis e delle rappresentazioni che ne derivano: l’uso di cannabis funzionale al contesto e in chiave socializzate fa della cannabis giamaicana un “bene di consumo” più che una droga, mentre gli usi ricreativi finalizzati allo “sballo” dei giovani statunitensi stanno alla base della rappresentazione della cannabis come potente narcotico. Questi studi avevano inoltre non poco risalto in relazione alle politiche repressive statunitensi: è del 1937 la promulgazione del Marijuana Tax Act, con cui la cannabis diventa una sostanza

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                          approvazione, cominciarono a diminuire le dipendenze iatrogenetiche – ad es. dipendenze da morfina o da eroina “causate” dalle prescrizioni dei medici allora inconsapevoli del potenziale assuefacente di queste sostanze; di contro, aumentarono i tossicodipendenti di strada, che si rifornivano al mercato nero. Secondo Baer et al. 1997, questa nuova legge federale ha promosso l’etichettamento del consumatore di sostanze come criminale.

1 La prima legge proibizionista è del 1851 segnala una prima ondata repressiva nei confronti dell’alcol che culmina nel 1869, con la fondazione del Partito del Proibizionismo; la seconda ondata avanza fino agli anni Novanta dell’Ottocento, con la fondazione della Lega anti-osteria; la terza ondata culmina con l’approvazione del Diciottesimo Emendamento nel 1917 e la sua entrata in vigore nel 1920. Il proibizionismo statunitense durò fino al 1933. Cfr. Pivano 1964.

2 Cfr. Rubin 1975; Comitas 1975; Dreher 1984. 3 Cfr. Comitas 1975, p. 120.

4 Comitas 1975, p. 129. 5 Comitas 1975, p. 129.

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illegale, al quale seguirono periodicamente misure un incremento delle pene in relazione ai consumi di marijuana.

Lo stesso effetto destabilizzante tipicamente etnografico può verificarsi anche per sostanze legali e socialmente approvate, come l’alcol. Nel suo studio sui Camba boliviani, Heath mostra come presso questo popolo le ubriacature non siano un comportamento moralmente riprovevole e socialmente imbarazzante, bensì uno stato altamente valorizzato, nonché il fine principale del consumo di alcolici. I Camba, in sostanza, bevono per sbronzarsi, e lo fanno in contesti appropriati quali riti e festività, modalità che pare arginare l’insorgere di

fenomeni di dipendenza o di forme di abuso prolungati nel tempo1.

L’approccio socio-culturale tende a evidenziare le sole funzioni positive che i consumi delle diverse sostanze assolvono entro specifici contesti culturali, mentre gli aspetti disfunzionali, sconvenienti e deleteri tendono a passare inosservati. Gli antropologi culturali sostengono che le strutture della tradizione proteggono gli individui da fenomeni di abuso, dall’uso continuativo e dalla dipendenza da sostanze, e testimoniano la rarità o l’assenza di tali casistiche nelle culture studiate, oltre che l’insorgere di problemi sociali e di salute correlati al consumo di sostanze. Di contro, laddove emergono, i casi di dipendenza o di abuso vengono immediatamente attribuiti allo smantellamento delle tradizioni per opera della modernità – ma tale visione rischia di essere unilaterale, generalizzante e volutamente profetica, oscurando le complesse dinamiche tra modernità e tradizione che chiederebbero invece di essere analizzate. Il carattere funzionalista degli studi culturali, ossia la tendenza a spiegare il consumo di sostanze a partire dalla loro funzione positiva in relazione al contesto culturale in cui avvengono, è ben esplicito già nello studio della Bunzel, come si evince dalla seguente citazione. Nelle due culture studiate,

il bere svolge funzioni completamente differenti. Presso i Chichicastenango il bere serve innanzitutto a scaricare le pressioni eccessive delle culture circostanti. È anche un modo per rispondere all’ansia provocata da quelle pressioni esterne che, naturalmente, porta ad ansie ulteriori, in una sorta di feedback relazionale. Presso i Chamula, invece, il bere assolve la funzione di lubrificante delle relazioni sociali a un livello davvero elementare: non puoi entrare in nessun tipo di relazione con un'altra persona se non tramite il modello di condivisione di una bevanda2.

                                                                                                                1 Cfr. Heath 1958.

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Lo stesso Heath sottolinea come, presso i Camba, l’ubriacatura non sfoci mai in comportamenti anti-sociali, aggressivi o sessualmente disinibiti, ma assolva per lo più un ruolo integrativo: «il bere è un’attività di gruppo ritualizzata in modo elaborato […] l’alcol

serve a facilitare i rapporti tra individui normalmente isolati e introversi» 1. Bere al punto di

perdere la coscienza, nella società Camba, favorisce la solidarietà sociale, l’integrazione degli individui solitari e introversi e quindi contribuisce alla salute della comunità.

Per l’approccio socio-culturale, in conclusione, il bere alcolici o il fumare ganja non è un comportamento che può essere interamente spiegato a partire dalle sue proprietà farmacologiche, ma è un comportamento appreso mediante i processi educativi presenti in una determinata società: crescendo in contesti culturali specifici, le persone si formano credenze sugli effetti dell’alcol, interiorizzano aspettative su come bisogna comportarsi quando si beve e agiscono poi di conseguenza, diventando la conferma vivente degli

insegnamenti della propria società2. Come scrive Mandelbaum, «le conseguenze del consumo

di alcolici sul comportamento dipendono tanto dall’idea delle persone sugli effetti dell’alcol,

quanto dai processi fisiologici che l’alcol induce»3. Il comportamento disinibito che in

occidente viene attribuito al consumo di alcolici, pur essendo legato a fattori biochimici, non è un effetto universale, ma è tipico della nostra società – è, quindi, un effetto culturale, un

comportamento interiorizzato e socialmente codificato4.

La grande assenza: antropologia culturale e allucinogeni

Nelle diverse rassegne che ho utilizzato come bussola e come punto di partenza per

l’esplorazione di questo variegato territorio (di cui ho dato un elenco alla nota 17) solo una5

dedica un breve paragrafo agli studi di antropologia culturale dedicati ai consumi rituali di

sostanze allucinogene, nonostante le cospicue produzioni scaturite in questo ambito6; le altre

panoramiche o non citano niente in proposito, oppure danno solo qualche titolo in                                                                                                                

1 Heath 1991, p. 76 in: Baer et al. 1997, p. 81.

2 Cfr. MacAndrew & Edgerton 1969; Room (ed.) 1981. 3 Mandelbaum 1965, p. 282.

4 Il ruolo della cultura nel determinare gli effetti di una sostanza è stato ampiamente esplorato dagli studi sugli allucinogeni e sulla cannabis. Come scrive Rubin 1975, p. 264 «C’è una significativa differenza psicologica tra visioni e allucinazioni; le allucinazioni sono solitamente fenomeni idiosincratici che possono essere scatenati dalla personalità e/o da fattori farmacologici; le visioni sono esperienze culturalmente modellate, solitamente nel contesto di un rituale o di un rito di passaggio».

5 Bennett e Cook 1990.

6 Tra lavori più rappresentativi, Dobkin de Rios 1984; La Barre 1972 e 1975; Furst (ed.) 1972; Furst 1972 e 1976; Reichel-Dolmatoff 1972; Wasson 1972 Per una panoramica filosoficamente avveduta sull’ambito in questione cfr. Lanternari 2006; Warren 1982.

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