• Non ci sono risultati.

L'attività dell'oleuropeina sulla curva glicemica nel cane

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "L'attività dell'oleuropeina sulla curva glicemica nel cane"

Copied!
81
0
0

Testo completo

(1)

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN

MEDICINA VETERINARIA

TESI DI LAUREA SPERIMENTALE

L’ATTIVITÀ DELL’OLEUROPEINA SULLA CURVA

GLICEMICA NEL CANE

THE ACTIVITY OF THE ELEUROPEIN ON THE

GLYCEMIC CURVE IN DOG

Relatore:

Candidata:

Dott.ssa Lucia Casini

Marta Pigliapoco

Correlatore:

Prof.ssa Veronica Marchetti

(2)

“Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo.” Mahatma Gandhi

(3)

INDICE

Sommario

Riassunto ... 1

CAPITOLO I METABOLISMO GLUCIDICO NEGLI ANIMALI ... 3

1.1 I carboidrati ... 3

1.1.1 Digestione e assorbimento ... 4

1.1.2 Reclutamento dei trasportatori del glucosio ... 5

1.2 Il glucosio ematico ... 8

1.3 Regolazione dell’omeostasi del glucosio: insulina e glucagone ... 9

1.4 Altri ormoni regolatori del metabolismo glucidico ... 11

CAPITOLO II: ALTERAZIONI DEL METABOLISMO GLUCIDICO ... 14

2.1 Iperglicemia ... 14

2.2 Ipoglicemia ... 15

2.3 Il diabete mellito ... 16

2.3.1 Classificazione e patogenesi ... 16

2.3.2 Segnalamento e presentazione clinica ... 19

2.3.3 Diagnosi ... 20

2.3.4 Terapia ... 21

2.3.5 Monitoraggio ... 23

2.3.6 Dieta ... 25

2.3.7 Complicazioni e prognosi ... 28

CAPITOLO III: L'OLEOUROPEINA E I SUOI EFFETTI METABOLICI ... 30

3.1 Definizione ... 30

3.2 Biodisponibilità ... 32

(4)

3.3.4 Effetto ipoglicemizzante ... 34

3.3.1 Attività antiossidante e antimicrobica ... 36

3.3.2 Effetto antipertensivo ... 39

3.3.3 Effetto cardioprotettivo ... 39

3.3.5 Effetto anti-neurodegenerativo ... 41

3.3.6 Effetto ipocolesterolemico ... 42

3.3.7 Effetto antinfiammatorio e antitumorale ... 44

3.3.8 Effetto anti-aterosclerosi ... 45

3.4 Metodo di estrazione ... 47

3.5 Microincapsulazione ... 50

CAPITOLO IV: PARTE SPERIMENTALE ... 52

4.1 Introduzione ... 53

4.2 Materiali e metodi ... 54

4.3 Risultati e discussione ... 56

4.4 Conclusioni ... 61

(5)

[1]

Riassunto

Da tempo i polifenoli naturali hanno attratto crescente interesse per i loro effetti benefici sulla salute umana e nei confronti di numerose malattie tra cui il diabete. Uno dei principali composti fenolici recentemente studiati è l’oleuropeina, presente nelle foglie e nelle drupe oleaginose dell’olivo. Tra le diverse proprietà nutraceutiche dell’oleuropeina, il suo potere ipoglicemizzante ha trovato largo impiego clinico in medicina umana. Allo stato attuale non abbiamo a disposizione lavori che abbiano valutato il potenziale effetto ipoglicemizzante dell’oleuropeina nel cane. Lo scopo della tesi è stato quello di valutare l'effetto della oleuropeina sulla glicemia nel cane. Lo studio è stato effettuato su 10 cani di razza Labrador Retriever e Border Collie, di diversa età e clinicamente sani. I soggetti hanno ricevuto per due settimane un integratore nutrizionale contenente oleuropeina alla dose di 2 mg/kg/die. Prima della somministrazione dell’integratore e al termine di ciascuna settimana è stata valutata la curva glicemica posprandiale dopo somministrazione di un pasto costituito da soli carboidrati (6 mg/kg di amido). Per la valutazione della curva glicemica è stato utilizzato un test rapido (Pic Gluco Test) utilizzando una goccia di sangue a digiuno (T0)

e dopo il pasto a 30 (T30), 60 (T60), 90 (T90) e 120 (T120) minuti. Nonostante il breve periodo

di somministrazione i risultati ottenuti hanno mostrato valori più bassi di glicemia e una tendenza alla stabilizzazione precoce pur in assenza di significatività. Tali risultati stimolano sicuramente a proseguire le indagini con dosaggi più elevati e/o con somministrazioni prolungate.

Parole chiave: oleuropeina, diabete mellito, ipoglicemia, cane.

Abstract

Natural polyphenols have long attracted growing interest in their beneficial effects on human health and against many diseases including diabetes. One of the main phenolic compounds recently studied is oleuropein, present in olive leaves and oil drupes. Among the various nutraceutical properties of oleuropein, its hypoglycemic power has found wide clinical use in human medicine. At present, the potential hypoglycaemic effect of oleuropein in dogs are not evaluated. The aim of the thesis was to evaluate the effect of oleuropein on glycemia in dogs. The study was carried out on 10 dogs clinically healthy. Subjects received for two weeks a nutritional supplement containing oleuropein at a dose of 2 mg/kg/day. Prior to administration of the supplement and at the end of each week the posprandial glycemic curve was evaluated after administration of a carbohydrate-only meal (6 mg/kg of starch). For the evaluation of the glycemic curve a rapid test (Pic Gluco Test) was used using a drop of blood on a fasting basis (T0) and after the meal at 30 (T30), 60 (T60), 90 (T90) and 120 (T120) minutes. Despite the short period of administration, the results showed lower blood glucose values and the tendency towards early stabilization even in the absence of significance. These results certainly stimulate to continue the investigations with higher dosages and/or with prolonged administrations.

(6)

[2]

INTRODUZIONE

Il diabete mellito è una delle più frequenti malattie endocrine che colpiscono i cani di media età ed anziani e la sua prevalenza è in aumento (Guptill et al., 1999). Si tratta di una sindrome caratterizzata da una iperglicemia risultante o da difetti nella secrezione di insulina da parte delle cellule β del pancreas o da una diminuita sensibilità dei tessuti all’insulina stessa.

Da tempo i polifenoli naturali hanno attratto crescente interesse per i loro effetti benefici sulla salute umana e nei confronti di numerose malattie tra cui il diabete. Uno dei principali composti fenolici recentemente studiati è l’oleuropeina, presente nelle foglie e nelle drupe oleaginose dell’olivo. Tra le diverse proprietà nutraceutiche dell’oleuropeina, il suo potere ipoglicemizzante ha trovato largo impiego clinico in medicina umana.

Due sono i meccanismi suggeriti per spiegare questo effetto: la potenzialità di influenzare il rilascio d’insulina glucosio-indotto e l’incremento di un assorbimento periferico di glucosio (Al-Azzawie et al., 2006). Inoltre, parte dell’effetto ipoglicemizzante è attribuito alla capacità antiossidante dell’oleuropeina stessa (Sato et al., 2007). La somministrazione giornaliera dell’oleuropeina ha mostrato un significativo miglioramento dell’omeostasi del glucosio e della sensibilità cellulare all’insulina (Sangi et al., 2015). Per questo motivo l’integrazione alimentare di oleuropeina viene consigliata come supporto alla tradizionale terapia insulinica in soggetti umani affetti da diabete di tipo 2.

Risultati analoghi sono stati ottenuti in recenti studi su conigli e cavie con diabete indotto sperimentalmente (Al- Azzawie et al., 2006; Jemai et al., 2009). Allo stato attuale non abbiamo a disposizione lavori che abbiano valutato il potenziale effetto ipoglicemizzante dell’oleuropeina nel cane.

(7)

[3]

CAPITOLO I

METABOLISMO GLUCIDICO NEGLI ANIMALI

1.1 I carboidrati

I carboidrati sono composti aldeidici o chetonici costituiti da più gruppi ossidrilici. Sulla base del numero di unità costituenti si possono individuare tre classi principali di carboidrati: monosaccaridi, oligosaccaridi e polisaccaridi.

I monosaccaridi o zuccheri semplici sono costituiti da una sola unità chetonica. Il monosaccaride più abbondante è il glucosio, detto anche destrosio.

Gli oligosaccaridi, invece, sono costituiti da brevi catene di unità monosaccaridiche (da 2 a 20) legate l’una all’altra da legami chimici detti glicosidici. I più abbondanti sono i disaccaridi, composti da due monosaccaridi, tra cui: saccarosio (glucosio e fruttosio), lattosio (glucosio e lattosio) e maltosio (due molecole di glucosio).

Infine i polisaccaridi, polimeri che contengono da 20 a 10 milioni di unità monosaccaridiche, differiscono tra loro per i monosaccaridi che ricorrono nella struttura, per la lunghezza ed il grado di ramificazione delle catene o per il tipo di legami tra le unità. Sono definiti omopolisaccaridi i polisaccaridi che contengono un solo tipo di monosaccaride come amido, glicogeno e chitina; eteropolisaccaridi i polisaccaridi che contengono due o più differenti tipi di monosaccaridi come l’acido ialuronico.

I carboidrati che vengono assunti principalmente con la dieta sono costituiti da amidi, saccarosio, lattosio e da carboidrati fibrosi. Quest’ultimi comprendono le emicellulose (polimeri di pentosi o di esosi) e la cellulosa che contiene dei polimeri non ramificati del glucosio con legami β-1,4.

(8)

[4]

1.1.1 Digestione e assorbimento

Gran parte dei meccanismi digestivi e assorbitivi dei carboidrati avviene nella porzione prossimale dell’intestino tenue e può essere distinta in una fase luminale ed una mucosale.

La fase luminale della digestione dell’amido consiste in una idrolisi ad opera di una α-amilasi pancreatica dei legami interni α-1,4 della molecola di amido fino alla produzione finale di oligosaccaridi nel lume duodenale.

Considerato che l’α-amilasi possiede una bassa specificità per i legami esterni della molecola e non è in grado di scindere i legami α-1,6, i prodotti finali della digestione da parte dell’amilasi sono dei trisaccaridi e dei disaccaridi con legami α-1,4 (maltotriosio e maltosio) ed un gruppo di oligosaccaridi ramificati contenenti sia legami α-1,6 che legami α-1,4 conosciuti come α-destrine. L’idrolisi ad opera dell’amilasi pancreatica non è in grado di dar luogo a glucosio libero. Inoltre, l’α-amilasi pancreatica non è in grado di idrolizzare i polimeri del glucosio con legami in posizione β e pertanto i carboidrati fibrosi (cellulosa ed emicellulosa) contenenti questo tipo di legame non vengono digeriti a livello dell’intestino tenue.

I prodotti della digestione luminale dei carboidrati non possono essere assorbiti dalla mucosa ma devono essere ulteriormente degradati a monosaccaridi prima di poter essere trasportati all’interno della cellula epiteliale.

La fase mucosale di questa degradazione è dovuta a specifiche glicosidasi presenti sull’orletto a spazzola delle cellule epiteliali. Si tratta di glicoproteine con attività idrolasica che vanno ad agire sui prodotti dell’azione delle α-amilasi: maltosio, maltotrioso e α-destrine, nonché su due altri carboidrati, il saccarosio e il lattosio. Tali glicosidasi sono in grado di agire solo sui legami glicosidici; si parla pertanto di α-glucosidasi e nello specifico di: saccarasi, specifiche per il saccarosio; glucoamilasi, specifiche per i legami glicosidici α-(1→4) degli oligosaccaridi; alfa-destrinasi, specifiche per i legami glicosidici α-(1→6). L’unica β-glicosidasi presente a livello

(9)

[5]

intestinale è la lattasi che catalizza una reazione β-(1→4)-glicosidasica portando alla liberazione di glucosio e galattosio dal lattosio.

Dunque, solamente i prodotti finali dell’attività catalitica delle α e β-glucosidasi (glucosio, fruttosio, galattosio) saranno trasportati a livello intestinale e riversati nel circolo ematico per essere distribuiti a fegato e tessuti.

1.1.2 Reclutamento dei trasportatori del glucosio

La fase finale del processo di assimilazione dei carboidrati è costituita dal trasporto dei monosaccaridi all’interno della cellula epiteliale.

Nel caso del glucosio e del galattosio, il processo si attua ad opera di specifici meccanismi di trasporto presenti sulla membrana luminale che necessitano della presenza di sodio.

Il trasporto del fruttosio, al contrario, avviene per diffusione facilitata attraverso tutto l’epitelio intestinale con una velocità di trasporto che sarà la metà rispetto a quella di glucosio e galattosio per cui, una volta entrato nell’enterocita, viene fosforilato per essere convertito in glucosio e trasportato come tale fino al sangue (Swenson & Reece, 2002).

Si possono distinguere due stadi nel trasporto di sodio attraverso la membrana intestinale.

Il primo consiste nel trasporto attivo degli ioni sodio attraverso le membrane basolaterali degli enterociti negli spazi paracellulari, in modo tale da mantenere bassa la concentrazione intracellulare di sodio.

Nel secondo stadio, la diminuzione della concentrazione del sodio all’interno degli enterociti ne determina il passaggio, mediante un meccanismo di diffusione facilitata, dal lume intestinale all’interno delle cellule stesse, attraverso la membrana microvillare. Lo ione sodio, legandosi ad un trasportatore, potrà essere trasportato all’interno della cellula finché non si lega anche ad altri appropriati soluti, come per esempio il glucosio. Visto che il glucosio intestinale si lega allo stesso trasportatore contemporaneamente al

(10)

[6]

sodio, le molecole di sodio e glucosio possono essere trasportate insieme all’interno dell’enterocita. In questo modo, la bassa concentrazione di sodio nella cellula “trascina” letteralmente il sodio e contemporaneamente il glucosio verso l’interno. Una volta all'interno dell’enterocita, altri trasportatori ed enzimi determinano la diffusione facilitata del glucosio dalla cellula nello spazio paracellulare e da lì nel sangue (Guyton & Hall, 2012).

Il trasporto di glucosio tra sangue e cellule viene mediato da trasportatori localizzati nella membrana plasmatica, noti come trasportatori del glucosio (GLUT).

Sono state identificate quattro isoforme di trasportatori del glucosio che, in base all’ordine in cui sono state scoperte, sono state denominate GLUT-1, GLUT-2, GLUT-3 e GLUT-4. Ogni membro della famiglia dei GLUT svolge funzioni leggermente diverse. Il GLUT-1 trasporta il glucosio attraverso la barriera ematoencefalica, il GLUT-2 trasferisce nel flusso sanguigno limitrofo il glucosio entrato nelle cellule dei reni e dell’intestino per mezzo delle proteine che mediano il cotrasporto, mentre il GLUT-3 è il principale trasportatore di glucosio nei neuroni.

Il trasportatore del glucosio, responsabile della maggior parte della captazione di glucosio all’interno di quasi tutte le cellule dell’organismo è il GLUT-4, attivo soltanto in risposta all’insulina nei tessuti insulino-dipendenti. In assenza di insulina, le molecole di glucosio non possono attraversare la membrana della maggior parte delle cellule e ciò rende quasi tutti i tessuti fortemente dipendenti da questo ormone per la captazione del glucosio dal sangue e per il suo successivo utilizzo cellulare.

Il GLUT-4 è l’unico tipo di trasportatore del glucosio sensibile all’insulina. A differenza di tutti gli altri tipo di GLUT, che sono sempre presenti nella membrana plasmatica a livello dei siti dove svolgono la loro funzione, il GLUT-4, non è localizzato nella membrana plasmatica ma si trova in vescicole intracellulari. Le cellule dipendenti dall’insulina possiedono un pool di vescicole intracellulari contenenti molecole di GLUT-4. L’insulina, legandosi a recettori specifici presenti sulla membrana cellulare, induce il movimento di queste vescicole che si spostano verso la membrana plasmatica e si fondono con essa inserendovi le molecole di GLUT-4. In questo modo, l’aumento

(11)

[7]

della secrezione di insulina promuove un rapido incremento di 10-30 volte della captazione di glucosio da parte delle cellule dipendenti dall’ormone. Quando la secrezione d’insulina diminuisce, le molecole di GLUT-4 vengono recuperate dalla membrana e tornano a far parte del pool intracellulare (Fig 1).

Fig. 1: Effetto dell’insulina sui trasportatori del glucosio.

Diversi tessuti, vale a dire il cervello, i muscoli in attività e il fegato, non dipendono dall’insulina per l’assunzione di glucosio. Il cervello, che richiede un costante approvvigionamento di glucosio per il suo fabbisogno immediato di energia, è sempre liberamente permeabile al glucosio per mezzo del GLUT-1 e del GLUT-3. Durante l’esercizio, le fibrocellule muscolari scheletriche non dipendono dall’insulina per l’assunzione di glucosio anche se, ne sono dipendenti a riposo. La contrazione muscolare induce l’inserimento di molecole GLUT-4 nella membrana plasmatica delle fibrocellule muscolari in attività, in assenza di insulina. Anche gli epatociti non dipendono dall’insulina per l’assunzione di glucosio, dal momento che non utilizzano il

(12)

[8]

GLUT-4; l’insulina, tuttavia, aumenta il metabolismo del glucosio da parte del fegato stimolando la fosforilazione che forma glucosio-6-fosfato. La fosforilazione delle molecole di glucosio a mano a mano che esse entrano negli epatociti mantiene bassa la concentrazione intracellulare di glucosio “semplice”, mantenendo il gradiente che ne favorisce la diffusione facilitata all’interno delle cellule (Sherwood et al., 2006).

1.2 Il glucosio ematico

Il glucosio è il carboidrato caratteristico del sangue e di altri liquidi tissutali. Tuttavia dopo l’assorbimento intestinale possono essere occasionalmente presenti anche piccole quantità di galattosio e di fruttosio, prima della loro conversione a glucosio.

Nel torrente circolatorio ed in alcuni liquidi tissutali, il glucosio è di fondamentale importanza per la sopravvivenza dell’organismo, considerato il fatto che il suo trasferimento dal torrente ematico alle cellule permette la successiva produzione di energia sotto forma di adenosintrifosfato (ATP).

Non tutti i tessuti dipendono strettamente dal glucosio ematico circolante. Gli eritrociti e l’encefalo dell’individuo adulto, ad esempio, sono fortemente dipendenti dal glucosio. In alcune circostanze, come nel digiuno, il cervello è in grado di ottenere energia tramite l’ossidazione di quantità significative di corpi chetonici. Altri tessuti, come il muscolo scheletrico, sono in grado di derivare considerevoli quantità dell’energia chimica di cui necessitano dall’ossidazione dei corpi chetonici e degli acidi grassi e sono pertanto meno dipendenti dal glucosio ematico.

La concentrazione del glucosio ematico è importante per determinarne la concentrazione nel liquido interstiziale che, a sua volta, ha un’influenza notevole sulla velocità di trasporto nelle singole cellule (Swenson & Reece, 2002).

In condizioni post-assorbitive, le concentrazioni di glucosio ematico variano considerevolmente a seconda della specie. Il range fisiologico della glicemia sia nel cane

(13)

[9]

che nel gatto è di 80-120 mg/dl. Spesso però si osserva una certa variabilità anche tra animali della stessa specie e ciò dipende dallo stato nutritivo e dai depositi di carboidrati nell’organismo.

Il glucosio plasmatico può essere misurato utilizzando un glucometro, degli analizzatori ambulatoriali in chimica secca, oppure direttamente tramite analisi di laboratorio. Il glucosio è contenuto solo nella quota plasmatica del sangue, per cui, nel caso in cui la determinazione della glicemia venga effettuata su sangue intero, la sua concentrazione sarà influenzata dal valore dell’ematocrito (Packed Cell Volume o PCV). Ciò vuol dire che la concentrazione di glucosio sarà sovrastimata nei soggetti anemici e sottostimata nei pazienti con elevato PCV. Inoltre, la misurazione della glicemia effettuata utilizzando sangue intero, è in genere più bassa rispetto a quella effettuata sul plasma.

Per la corretta misurazione del glucosio ematico dovrebbero essere considerati diversi aspetti quali: tenere il paziente a digiuno per 12 ore; evitare stress o agitazione eccessiva durante il prelievo che porterebbero ad un aumento delle concentrazioni dello stesso; evitare l’utilizzo di alcuni sedativi (medetomidina); se non è possibile utilizzare un anticoagulante, separare il plasma dalla quota corpuscolata entro 30 minuti dal prelievo per evitare che il glucosio venga utilizzato da eritrociti e leucociti (Vercelli, 2017).

1.3 Regolazione dell’omeostasi del glucosio: insulina e glucagone

Fra gli organi endocrini che influenzano la concentrazione del glucosio ematico, le secrezioni pancreatiche rivestono un’importanza primaria e la loro secrezione è autocontrollata dagli stessi livelli ematici di glucosio.

Gli ormoni peptidici responsabili del mantenimento dell’omeostasi del glucosio sono l’insulina ed il glucagone, sintetizzati e secreti rispettivamente dalle cellule β ed α del pancreas (Fig. 2).

(14)

[10]

Fig. 2: Isolotto di Langherans con cellule β (in viola) e cellule α (in azzurro).

Agendo attraverso recettori localizzati sulla membrana plasmatica, l’insulina facilita il trasporto di glucosio nella maggior parte delle cellule, tra cui miociti ed adipociti, dove il glucosio viene convertito in glucosio 6-fosfato. Nel fegato invece, stimola la glicogenosintesi ed inibisce la glicogenolisi e la gluconeogenesi, diminuendo il rilascio di glucosio nel sangue dal fegato e favorendo così l’immagazzinamento dei carboidrati. Di conseguenza, l’insulina riduce la concentrazione ematica di glucosio sia promuovendo l’assunzione di glucosio dal sangue da parte delle cellule, che possono utilizzarlo oppure immagazzinarlo, sia bloccando i due meccanismi di glicogenolisi e gluconeogenesi attraverso i quali il fegato produce glucosio.

Il controllo principale della secrezione di insulina viene effettuato da un sistema diretto a feedback negativo tra le cellule β del pancreas e la concentrazione del glucosio nel sangue che fluisce nell’organo. Un elevato livello ematico di glucosio, per esempio durante l’assorbimento di un pasto, stimola direttamente la sintesi ed il rilascio di insulina da parte delle cellule β. L’aumento della secrezione di insulina, a sua volta, riporta la concentrazione ematica di glucosio a livello normale, promuovendone l’utilizzo e l’immagazzinamento. Al contrario, una diminuzione della concentrazione

(15)

[11]

ematica di glucosio sotto il livello normale, per esempio durante il digiuno, inibisce direttamente il rilascio di insulina stimolando invece, quello di glucagone.

Il glucagone antagonizza le azioni dell’insulina sul metabolismo dei carboidrati promuovendo la glicogenolisi, stimolando la gluconeogenesi e diminuendo la sintesi di glicogeno. Esercita dunque i suoi effetti iperglicemizzanti stimolando la produzione ed il rilascio di glucosio da parte del fegato, con conseguente suo aumento a livello ematico. Le variazioni della secrezione di questi ormoni pancreatici, prodotte in risposta alle fluttuazioni della concentrazione ematica di glucosio, agiscono quindi in modo omeostatico ripristinando il normale livello ematico di glucosio.

1.4 Altri ormoni regolatori del metabolismo glucidico

In condizioni normali, gli ormoni pancreatici sono i regolatori più importanti del metabolismo dei carboidrati. Tuttavia, altri ormoni esercitano effetti sul metabolismo glucidico, anche se il controllo della loro secrezione è affidato a fattori diversi. Tra questi, abbiamo gli ormoni dello stress, adrenalina e cortisolo, l’ormone della crescita (GH) e gli ormoni tiroidei (T3 e T4).

L’effetto complessivo che i glucorticoidi producono sul metabolismo è aumentare la concentrazione ematica di glucosio a spese delle riserve di proteine e lipidi. In particolare il cortisolo stimola la gluconeogenesi epatica, processo importante per rifornire i depositi epatici di glicogeno e di conseguenza, per mantenere i normali livelli ematici di glucosio nei momenti critici; riduce l’utilizzazione del glucosio da parte delle cellule, aumentando la concentrazione ematica di glucosio disponibile per il solo sistema nervoso; promuove, in risposta a stimolazioni stressanti di lunga durata, il catabolismo proteico per la mobilizzazione di amminoacidi utilizzabili nella gluconeogenesi. Anche l’adrenalina, l’ormone della risposta “combatti-o-fuggi”, stimola

(16)

[12]

la gluconeogenesi e la glicogenolisi al fine di fornire il combustibile addizionale necessario per favorire la contrazione muscolare (Sherwood et al., 2006).

L’ormone della crescita (GH) ha diversi effetti sul metabolismo dei carboidrati, in particolare: riduce l’assorbimento di glucosio nei tessuti, aumenta la produzione di glucosio da parte del fegato e promuove la secrezione di insulina. Questi effetti sono dovuti alla “resistenza all’insulina” indotta dall’ormone, fenomeno che riduce l’azione stimolante dell’insulina sulla captazione ed utilizzazione del glucosio nei tessuti muscolare e adiposo e inibente la gluconeogenesi epatica. Tutto ciò comporta un innalzamento della glicemia ed un aumento compensatorio della secrezione insulinica. Per questi motivi il GH ha effetti che si possono considerare diabetogeni; un eccesso della sua secrezione può provocare disturbi metabolici molto simili a quelli che si riscontrano del diabete di tipo 2 (Guyton & Hall, 2012).

Gli effetti degli ormoni tiroidei sul metabolismo glucidico sono molteplici e complessi; infatti, possono influenzare sia la sintesi sia la degradazione dei carboidrati, in base ai loro livelli plasmatici. Ad esempio, la gliconeogenesi è favorita da piccole quantità di ormoni tiroidei, mentre la glicolisi, avviene in presenza di livelli ormonali elevati. Agiscono inoltre sulla velocità di assorbimento di glucosio sia a livello cellulare che intestinale, stimolando perciò la secrezione d’insulina con conseguenti effetti secondari sul metabolismo glucidico.

Si noti che, a eccezione dell’effetto anabolico sulle proteine da parte dell’ormone delle crescita (GH), tutte le azioni metaboliche di questi ormoni sono di catabolismo e quindi opposte a quelle dell’insulina. Solo quest’ultima può di fatto ridurre i livelli ematici di glucosio ed è per questo che quando la sua attività anabolica è insufficiente, le reazioni cataboliche promosse dagli altri ormoni procedono senza controllo.

Bisogna dunque chiedersi perché sia così importante mantenere costante la glicemia, specialmente se si pensa che, in assenza di glucosio, il fabbisogno energetico può essere coperto dai grassi e dalle proteine, almeno per la maggior parte dei tessuti. La spiegazione va cercato nel fatto che il glucosio è l’unico nutriente che può essere utilizzato dal cervello, dalla retina e dall’epitelio germinativo delle gonadi in quantità

(17)

[13]

sufficiente per soddisfare il loro fabbisogno energetico. Quindi è importante che la glicemia resti a un livello sufficientemente alto da assicurare il necessario supporto nutrizionale a queste strutture. Quasi tutto il glucosio che si forma per glicogenogenesi tra un pasto e l’altro, viene utilizzato nel cervello. In realtà, è importante che in queste fasi interdigestive il pancreas non secerna affatto insulina, perché altrimenti, le parte del glucosio disponibile verrebbe utilizzato nei muscoli e negli altri tessuti periferici, lasciando il cervello privo di apporto.

E’ altrettanto importante che la glicemia non aumenti oltre il limite fisiologico. Ogni aumento della concentrazione di glucosio comporta un aumento della pressione osmotica nel liquido extracellulare ed oltre certi limiti provoca una forte disidratazione cellulare; livelli glicemici elevati determinano l’eliminazione di glucosio con le urine (glicosuria) con conseguente perdita di acqua per diuresi osmotica che potrebbe provocare una deplezione del patrimonio idrico ed elettrolitico dell’organismo; un aumento prolungato della glicemia può danneggiare molti tessuti, in particolare i vasi sanguigni. Il danneggiamento della parete vasale che si manifesta nel diabete incontrollato aumenta il rischio d’infarto, di patologie renali e di cecità (Sherwood et al., 2006).

(18)

[14]

CAPITOLO II

ALTERAZIONI DEL METABOLISMO GLUCIDICO

2.1 Iperglicemia

L’iperglicemia si instaura se la concentrazione di glucosio nel sangue è maggiore di 130 mg/dL sebbene i segni clinici si sviluppino solo quando viene superata la soglia di riassorbimento del glucosio da parte dei tubuli renali. Nel cane ciò si verifica ogniqualvolta questa concentrazione va oltre i 180-220 mg/dL. Nel gatto invece la soglia di riassorbimento sembra essere molto più variabile ed è compresa tra 200 e 280 mg/dL. La glicosuria determina diuresi osmotica, che a sua volta genera poliuria e polidipsia, il segno clinico più caratteristico di grave iperglicemia (>180 mg/dL nel cane e >200-280 mg/dL nel gatto).

La causa più comune di iperglicemia e glicosuria è il diabete mellito. Nei gatti che subiscono un evento stressante non è raro osservare una spiccata iperglicemia in assenza della glicosuria causata verosimilmente dal rilascio di catecolamine e forse di lattato. In alcuni gatti con iperglicemia indotta da stress grave o prolungato si può comunque assistere alla comparsa di glicosuria transitoria.

L’iperglicemia compresa tra i 130 e i 180 mg/dL (nel gatto fino a 280) è clinicamente silente ed è spesso un reperto occasionale nell’ambito di esami biochimici effettuati per varie cause. Se in un cane o un gatto che vengono portati alla visita perché presentano poliuria o polidipsia si rileva iperglicemia moderata (>180 mg/dL) senza glicosuria, bisogna sospettare una patologia diversa dal diabete mellito conclamato. In alcuni cani e gatti può insorgere una lieve iperglicemia nei seguenti casi: 2 ore dopo l’assunzione di un pasto con elevate quantità di monosaccaridi, disaccaridi, sciroppo di mais o glicole propilenico; in corso di nutrizione parenterale endovenosa; in soggetti “stressati”,

(19)

[15]

agitati o eccitabili; durante i primi stadi del diabete mellito e in soggetti trattati con farmaci o aventi disturbi che provocano insulino-resistenza.

2.2 Ipoglicemia

Si definisce ipoglicemia una concentrazione di glucosio nel sangue inferiore a 60 mg/dL. Può essere il risultato di un eccessivo utilizzo di glucosio da parte di cellule integre (per esempio durante transitori periodi di iperinsulinismo) o di cellule neoplastiche; di alterata gluconeogenesi e glicogenolisi a livello epatico (shunt portosistemici, cirrosi epatica); di carenza di ormoni diabetogeni (ipocorticosurrenalismo); di inadeguato apporto con la dieta di glucosio o altri substrati necessari alla gluconeogenesi (inappetenza nel neonato o nelle razze Toy); o di una combinazione di uno o più meccanismi (neoplasie extrapancreatiche, insufficienza epatica, sepsi, pancreatiti, insufficienza renale, policitemia grave). L’ipoglicemia iatrogena è un problema che si verifica spesso in cani e gatti diabetici a seguito di somministrazioni eccessive di insulina.

I segni clinici dell’ipoglicemia solitamente si sviluppano quando la glicemia è inferiore a 45 mg/dL, anche se questa soglia varia da paziente a paziente. La loro evoluzione dipende dalla gravità e dalla durata dell’ipoglicemia e della velocità con cui diminuisce la concentrazione di glucosio ematico. Questi segni sono il risultato di una neuroglicopenia e di una stimolazione del sistema nervoso simpatico indotta dall’ipoglicemia. Quelli di tipo nervoso includono convulsioni, debolezza, collassi, atassia e meno frequentemente letargia, cecità, comportamento anomalo e coma. Un aumento del rilascio di catecolamine induce, invece, irrequietezza, nervosismo, appetito e fascicolazioni muscolari. A seconda delle cause, i sintomi dell’ipoglicemia possono essere continui o intermittenti, sebbene solitamente le convulsioni siano a intervalli a prescindere dalla causa. Solitamente i cani e i gatti si riprendono dalle crisi

(20)

[16]

ipoglicemiche in un lasso di tempo che va da 30 secondi a 5 minuti, grazie all’attivazione di meccanismi controregolatori che bloccano gli effetti dell’insulina (secrezione di catecolamine e glucagone) e stimolano la secrezione del glucosio epatico (Nelson & Couto, 2015).

2.3 Il diabete mellito

Il diabete mellito è una delle più frequenti malattie endocrine che colpiscono i cani di media età ed anziani e la sua prevalenza è in aumento (Guptill et al., 2003). Non si tratta di una singola malattia ma di una sindrome caratterizzata da una iperglicemia risultante o da difetti nella secrezione di insulina da parte delle cellule β del pancreas o da una diminuita sensibilità dei tessuti all’insulina stessa. Indipendentemente dalla causa, si avranno anomalie nel metabolismo dei carboidrati, dei grassi e delle proteine. Le anormalità nella secrezione e nell’azione dell’insulina coesistono frequentemente nello stesso individuo e spesso, è impossibile determinare quale anomalia sia la causa primaria dell'iperglicemia. Una diagnosi accurata ed una classificazione di cani e gatti diabetici mediante il processo patologico di base è essenziale per gli studi attuali e futuri sui metodi di trattamento, la diagnosi precoce, il trattamento della malattia di base e la prevenzione (Gilor et al., 2016).

2.3.1 Classificazione e patogenesi

L’attuale classificazione del diabete mellito nell’uomo si basa sulla patogenesi e quindi fornisce una base razionale per la comprensione delle modalità terapeutiche. Adottare questi criteri per la stessa malattia nel cane offre vantaggi analoghi anche ai veterinari. Il diabete dell’uomo viene distinto in forme di tipo 1 o diabete mellito insulino-dipendente (Insulin-Dependent-DiabetesMellitus, IDDM), dovuto alla mancata

(21)

[17]

secrezione d’insulina; di tipo 2 o diabete mellito non insulino-dipendente (Non-Insulin-DependentDiabetesMellitus, NIDDM), causato da una minore sensibilità dei tessuti agli effetti dell’insulina; diabete gestazionale e altri tipi specifici di diabete (Diabetes Care, 1997). Al momento attuale non esiste alcun criterio accettato a livello internazionale per la classificazione del diabete canino. Se si applicano agli animali di questa specie i criteri fissati per la malattia nell’uomo, almeno il 50% dei cani diabetici risulta classificato nel tipo 1. I restanti sono probabilmente colpiti da altri tipi specifici di diabete che derivano da distruzione pancreatica o insulinoresistenza cronica, oppure presentano un diabete indotto dal diestro (Fleman & Rand, 2006).

Quella di tipo 1 sembra essere la forma di diabete più comune nel cane ed è caratterizzata dalla distruzione delle cellule β del pancreas che porta ad una ipoinsulinemia e mancato aumento della concentrazione di insulina endogena anche dopo la somministrazione di sostanze insulino-stimolanti (glucosio o glucagone). In questi soggetti la glicemia non può essere controllata con la dieta e/o con farmaci ipoglicemizzanti orali e di conseguenza è necessario fornire una fonte esogena d’insulina. Le cause di questa patologia non sono ancora chiare ma sicuramente essa è multifattoriale: sono considerati elementi scatenanti la predisposizione genetica, le infezioni, farmaci antagonisti dell’insulina, obesità, ileiti immunomediate e pancreatiti. Il risultato finale è comunque un’ipofunzionalità delle cellule β, ipoinsulinemia, insufficiente trasporto di glucosio nella maggior parte delle cellule e aumento di gluconeogenesi e glicogenolisi. Ciò conduce a iperglicemia e glicosuria, che a loro volta determinano poliuria, polidipsia, polifagia e perdita di peso. La perdita della funzionalità delle cellule β nei cani affetti da IDDM è irreversibile e la terapia con insulina, necessaria per mantenere costante la glicemia, sarà indispensabile per tutta la vita.

Al contrario dei gatti, nei cani raramente si instaurano forme transitorie o reversibili di diabete mellito: l’unica, peraltro comune, è quella della femmina in diestro (diabete gestazionale), che si risolve con l’ovarioisterectomia. La patogenesi di questa disendocrinia deriva dalla produzione di progesterone che induce quella dell’ormone

(22)

[18]

della crescita antagonizzando l’attività insulinica. Se vi sono ancora cellule β integre, con la sterilizzazione l’iperglicemia si risolve senza bisogno di terapia insulinica. Le cagne che sviluppano questa patologia comunque dispongono di una riserva di cellule β nettamente minori rispetto alla media (diabete subclinico), per cui potrebbero essere maggiormente predisposte a nuovi episodi iperglicemici e al diabete mellito, se per qualsiasi motivo si verificassero ancora fenomeni di insulino-resistenza. Meno frequente è il diabete subclinico in cani trattati con farmaci insulino-antagonisti (ad esempio i glucocorticoidi) o nelle prime fasi di patologie insulino-antagoniste (come l’iperadrenocorticismo), che però solitamente esitano in un IDDM con terapia insulinica per tutta la vita qualora fallisse un primo intervento di correzione dell’antagonismo insulinico. (Nelson & Couto, 2015).

La diagnosi di diabete mellito di tipo 2 non insulino-dipendente (Non-Insulin-Dependent Diabetes Mellitus, NIDDM) è molto rara nel cane e osservabile, invece, in circa il 30% dei gatti. In questo caso la patologia è imputabile sia ad un’alterata azione dell’insulina a livello cellulare (insulino-resistenza) che ad una insufficiente attività delle cellule β del pancreas. Col tempo infatti, il DM di tipo 2 può evolvere in DM di tipo 1, per cui la distinzione tra le due forme non risulta più essere netta. Si pensa che fattori ambientali, così come quelli genetici, abbiano un ruolo nello sviluppo di entrambi i difetti.

I principali fattori di rischio per lo sviluppo del DM di tipo 2 sono: l’età avanzata, il sesso maschile, la sterilizzazione, la somministrazione di glucorticoidi e progestinici e l’obesità. La sensibilità all’insulina differisce considerevolmente nei diversi individui e ciò suggerisce che i gatti con una bassa sensibilità all’insulina abbiano un rischio maggiore di sviluppare l’intolleranza al glucosio in caso di incremento ponderale. Sebbene l’obesità induca l’insulino-resistenza, non tutti i gatti obesi sviluppano il diabete mellito. Le cellule β sane infatti, si adattano all’obesità e all’insulino-resistenza, incrementando la secrezione d’insulina per mantenere una normale tolleranza al glucosio (Paltrinieri et al., 2010).

(23)

[19]

2.3.2 Segnalamento e presentazione clinica

La maggior parte dei cani, al momento della diagnosi, ha un’età compresa tra i 4 ai 14 anni, con un picco di prevalenza tra i 7 e i 9 anni; la forma giovanile è rara e si verifica in soggetti con meno di un anno. Le femmine presentano un rischio due volte più elevato rispetto ai maschi. Grazie alla scoperta di ricorrenze in determinate famiglie e alle analisi del pedigree, in alcune razze è stata dimostrata una certa predisposizione genetica allo sviluppo del diabete mellito.

Tutti i cani affetti da diabete mellito vengono presentati alla visita con un’anamnesi di polidipsia, poliuria, polifagia e perdita di peso. Poliuria e polidipsia non si sviluppano fino a quando l’iperglicemia non determina la glicosuria. A volte il proprietario porta il cane dal medico veterinario per un’improvvisa cecità causata da cataratta, ma non rileva o considera insignificanti i sintomi classici del diabete. Pertanto, se non si palesa la cataratta, un cane con una forma di diabete non complicata è fortemente a rischio di sviluppare progressivamente un quadro clinico sistemico per chetonemia e acidosi metabolica. In condizioni di deficit energetico si instaurano, infatti, dei meccanismi ormonali che portano alla sintesi dei corpi chetonici (acetoacetato, beta idrossibutirrato e acetone), molecole prodotte a livello epatico e derivanti dal metabolismo degli acidi grassi che costituiscono una fonte di energia alternativa al glucosio nel momento in cui questo non è più prontamente disponibile. Quando la concentrazione dei corpi chetonici nel fegato è tale da superare i sistemi tampone dell’organismo, si instaura un’acidosi metabolica. Il lasso di tempo che va dall’inizio dei primi segni clinici all’insorgenza della chetoacidosi diabetica (Diabetic Keto Acidosis, DKA) è variabile da giorni a settimane. Ciò che può emergere dall’esame fisico dipende dalla presenza di DKA e dalla sua gravità, dall’intervallo trascorso tra la comparsa del diabete e la sua diagnosi e dalla natura di altre patologie compresenti. Il diabete non chetogeno non è associato a particolari rilievi fisici. Molti cani diabetici sono obesi, ma in buone condizioni generali. Cani affetti da diabete su base cronica e non trattati possono al contrario subire perdita di peso, ma raramente sono emaciati, a meno che non ci siano

(24)

[20]

altre patologie concomitanti in atto (ad esempio un’insufficienza pancreatica cronica). Il pelo di sovente è rado, secco, fragile e opaco e possono esserci squame ipercheratosiche. Dal momento che i soggetti diabetici presentano una spiccata attività lipolitica, è frequente il riscontro di epatomegalia secondaria a lipidosi epatica. Un altro importante reperto clinico nel diabete mellito del cane è la comparsa della cataratta. In questo caso, a livello della lente, gli alterati rapporti osmotici indotti dall’accumulo di sorbitolo, potente agente idrofilo derivante dalla riduzione del glucosio ematico in eccesso, provocano un afflusso di acqua intracellulare che determina la rottura delle fibre del cristallino e sua conseguente opacizzazione. E’ una patologia progressiva e irreversibile che si manifesta rapidamente e con il tempo porta alla cecità (Fig. 3).

Fig. 3: Cataratta diabetica nel cane.

2.3.3 Diagnosi

La diagnosi si emette quando il cane presenta i caratteristici segni anamnestici associati a iperglicemia persistente e glicosuria. La misurazione della glicemia mediante uno strumento portatile e il rilevamento di glicosuria attraverso strisce reattive permettono

(25)

[21]

di confermarla con semplicità. La contemporanea presenza di chetonuria spinge invece verso la diagnosi di DKA e la presenza di acidosi metabolica la conferma. Per diagnosticare il diabete mellito è importante che vi sia la contemporanea presenza di iperglicemia persistente e glicosuria. Se infatti si individua solo glicosuria si tratta probabilmente di una glicosuria renale primaria; se si rileva solo l’iperglicemia bisogna sospettare uno stress indotto da un rilascio di adrenalina che si può verificare al momento del prelievo. Una volta stabilita la diagnosi è importante che il cane sia sottoposto a una valutazione ematochimica-urinaria, al fine di identificare qualsiasi alterazione che possa essere associata a insulino-resistenza e a intolleranza ai carboidrati, come per esempio iperadrenocorticismo o cistiti batteriche, o che possa imporre una modificazione della terapia (ad esempio pancreatiti). Gli esami di patologia clinica di base prevedono quello emocromocitometrico e un profilo biochimico completo, il test della immunoreattività della lipasi pancreatica e l’esame dell’urina con urinocoltura. La valutazione del progesterone diventa fondamentale se il paziente diabetico è una femmina integra oppure una cagna con status riproduttivo ignoto. Con l’esame ecografico, se disponibile, si possono evidenziare pancreatiti, iperplasie surrenaliche e piometre, come pure patologie a carico del fegato e delle vie urinarie (pielonefriti e cistiti). Non è frequente la misurazione basale dell’insulinemia o la realizzazione di una curva da carico. Altri esami specialistici andrebbero pianificati caso per caso, dopo aver raccolto un’anamnesi completa, aver realizzato l’esame fisico o eventualmente riscontrato uno stato di chetoacidosi.

2.3.4 Terapia

Il primo scopo della terapia è quello di eliminare i segni clinici notati legati all’iperglicemia e alla glicosuria. La loro persistenza e il progressivo sviluppo di complicazioni croniche sono infatti direttamente correlati alla durata e alla gravità dell’iperglicemia. Nel cane diabetico il controllo dell’iperglicemia è possibile grazie a una corretta terapia insulinica, alla dieta, all’attività fisica, alla prevenzione o al

(26)

[22]

controllo di concomitanti patologie antagoniste dell’insulina e alla sospensione di terapie che generano insulino-resistenza. Da tenere in attenta considerazione l’eventualità che si possa sviluppare ipoglicemia, potenziale complicanza grave in caso di dosi eccessive di insulina. I vantaggi di un rigoroso controllo della glicemia mediante dosi elevate di insulina vanno sempre attentamente valutate a fronte del rischio di insorgenza di ipoglicemia. Le insuline di prima scelta per il controllo della glicemia nel cane diabetico sono quella lenta e quella NPH (ricombinante umana). Per entrambi i tipi si utilizza una dose iniziale di circa 0,25 U/kg e 2 somministrazioni giornaliere. In questo modo, nelle fasi iniziali del trattamento è più facile raggiungere il controllo glicemico ed evitare complicazioni come l’ipoglicemia e l’effetto Somogy.

L’effetto Somogy deriva da una risposta fisiologica alla minaccia di ipoglicemia indotta da un eccesso di insulina. Quando la glicemia scende al di sotto di 65mg/dL oppure subisce una brusca riduzione a prescindere dal nadir raggiunto dal glucosio, la stimolazione diretta della glicogenolisi a livello epatico indotta dall’ipoglicemia e la secrezione di ormoni diabetogeni, in particolar modo adrenalina e glucagone, aumentano la concentrazione ematica del glucosio, riducono i sintomi dell’ipoglicemia e causano una marcata iperglicemia “compensatoria” entro 12 ore. La diagnosi di iperglicemia “compensatoria” necessita della dimostrazione della precedente ipoglicemia (<80 mg/dL) seguita da iperglicemia (<300mg/dL) dopo la somministrazione dell’insulina.

La complicazione frequente della terapia insulinica è dunque l’ipoglicemia. I suoi sintomi si manifestano nei cani per i quali la dose giornaliera d’insulina è stata recentemente aumentata oppure per l’uso d’insulina a durata maggiore di 12 ore, in caso di doppia somministrazione giornaliera, dopo un periodo prolungato d’inappetenza, in caso di attività fisica imponente. In queste situazioni l’ipoglicemia grave si verifica prima che la controregolazione (mediante secrezione di glucagone, catecolamine, cortisolo e ormone della crescita) riesca a compensarla e annullarla. La comparsa e la gravità della sintomatologia dipende dalla velocità con cui procede il calo glicemico e dalla sua gravità. In molti cani diabetici i sintomi non sono evidenti ai

(27)

[23]

proprietari e l’ipoglicemia si palesa durante la determinazione delle curve glicemiche o viene sospettata quando si rileva un abbassamento della concentrazione delle fruttosamine. Se l’ipoglicemia è sintomatica, la terapia insulinica va sospesa fino a che non si ripresentano iperglicemia e glicosuria.

Altra complicanza più comune è la ricomparsa o la persistenza della sintomatologia. Le cause più comuni sono l’errata tecnica di somministrazione da parte del proprietario; una posologia inadeguata per il tipo di insulina, per la dose, la specie trattata o la frequenza delle somministrazioni; oppure il caso di insulino-resistenza per concomitanti fenomeni infiammatori, infettivi, neoplastici o ormonali.

2.3.5 Monitoraggio

L’obiettivo di base della terapia con insulina è eliminare i segni clinici di diabete e nello stesso tempo evitare le complicazioni associate alla malattia. Quelle più comuni nel cane sono cecità originata dalla formazione di cataratta, perdita di peso, ipoglicemia, chetosi ricorrente e ricomparsa di poliuria e polidipsia. Nel cane le complicazioni croniche devastanti che si verificano nel diabete umano (nefropatie, vasculopatie, patologie coronariche) sono molto rare. Per questo motivo, in questa specie non c’è la necessità di ristabilire una glicemia rigorosamente vicina ai valori normali. In linea generale è sufficiente mantenere i suoi valori tra 100 e 250 mg/dL per avere cani in salute e relativamente asintomatici e proprietari soddisfatti. I parametri più importanti da considerare quando si controlla la glicemia sono quelli soggettivi del proprietario riguardo la gravità dei segni clinici e la salute del cane, l’esito dell’esame fisico e il peso dell’animale. Se il proprietario è soddisfatto del risultato della terapia, l’esame fisico è accettabile, la glicemia è bene controllata ed il peso è stabile, il cane è ritenuto sotto controllo.

La glicemia in genere viene determinata mediante apparecchiature per analisi ambulatoriali o con strumenti portatili. Questi garantiscono valori ragionevolmente vicini a quelli ottenuti con le metodologie di riferimento standard, sebbene possa

(28)

[24]

capitare che i risultati sovrastimino o sottostimino i valori reali. Misurando la concentrazione di glucosio ogni 1-2 ore per tutto l’arco della giornata, il clinico sarà in grado di stabilire se la terapia insulinica è efficace e di individuare: il valore minimo di glucosio (nadir), il momento del picco di effetto, la sua durata e l’entità delle fluttuazioni della glicemia in quel particolare soggetto. L’obiettivo delle determinazioni seriali della glicemia è di poter delineare l’efficacia dell’insulina nel paziente e di poter individuare la causa di un eventuale insuccesso della terapia. Per questo motivo la curva glicemica è obbligatoria nelle prime fasi della regolazione della glicemia e comunque utile in qualsiasi soggetto in cui si siano sviluppati segni clinici di iperglicemia o ipoglicemia. L’ideale sarebbe mantenere le concentrazione di glucosio ematico tra 100 e 250 mg/dL per tutto l’arco della giornata e della notte, sebbene molti cani diabetici stiano bene con concentrazioni comprese tra 100 e 300 mg/dL. Il valore più alto si ottiene tipicamente al momento di ogni somministrazione di insulina. Se il valore minimo della glicemia è maggiore di 150 mg/dL occorrerà aumentare la dose di insulina, mentre se è minore di 80 mg/dL essa andrà diminuita. La durata dell’effetto dell’insulina può essere valutata se il nadir della concentrazione del glucosio è maggiore di 80 mg/dL e non c’è stato un rapido abbassamento della glicemia dopo la somministrazione. La stessa valutazione perde di significato se la glicemia è inferiore a 80 mg/dL o cala rapidamente a causa dell’effetto Somogy, che può fare erroneamente sospettare una durata d’azione troppo breve.

Per la maggior parte dei cani con diabete ben controllato la glicemia iniziale al momento della somministrazione di insulina è inferiore a 300 mg/dL e il nadir del glucosio si verifica da 8 a 10 ore della somministrazione. Una concentrazione iniziale superiore a 300 mg/dL associata alla comparsa di un nadir prima delle 8 ore dopo la somministrazione di insulina e una successiva glicemia che supera i 250 mg/dL sono indice di ridotta durata dell’effetto. Un nadir che si presenta 12 o più ore dopo la somministrazione di insulina fa sospettare invece un effetto prolungato di questa. Se la durata dell’effetto insulinico si prolunga per più di 14 ore e si sta seguendo il protocollo con 2 somministrazioni al giorno, il paziente può sviluppare ipoglicemia o risposta di

(29)

[25]

Somogy.

Per valutare meglio e in maniera obiettiva a che livello sia il controllo della glicemia bisognerebbe però procedere con la misurazione della concentrazione sierica delle fruttosamine visto che il loro grado di glicosilazione dipende dalla concentrazione di glucosio nel sangue: più alta è la media di questa concentrazione nelle 2-3 settimane precedenti, maggiore sarà quella delle fruttosamine e viceversa. La loro concentrazione non è dunque influenzata dagli incrementi repentini di glucosio ematico, come può accadere in seguito a iperglicemia da stress o eccitazione, ma può essere modificata da concomitante ipoalbuminemia, iperlipidemia o ipertiroidismo.

E’ possibile inoltre monitorare il paziente mediante misurazioni periodiche della glicosuria e della chetonuria, per riconoscere il ricorrere di ipoglicemia e chetosi. Una glicosuria persistente durante il giorno e la notte suggerisce un inadeguato controllo dello stato diabetico e la necessità di una valutazione più approfondita (Nelson & Couto, 2015).

2.3.6 Dieta

La dieta nei cani diabetici deve assicurare l’apporto di calorie adeguate ad ottenere e mantenere una condizione corporea ottimale. I cani con diabete scarsamente controllato presentano una riduzione della capacità di metabolizzare i principi nutritivi assorbiti dal loro tratto gastroenterico e subiscono una perdita di glucosio attraverso l’urina e, quindi, possono aver bisogno di più calorie di mantenimento rispetto ai cani sani. I pasti devono essere idealmente offerti in momenti che facciano sì che il periodo postprandiale coincida con la massima attività dell’insulina esogena (Church, 1982). Poiché il protocollo giornaliero di dosaggio dell’insulina tende ad essere fisso per i cani diabetici, è anche importante che dopo ogni pasto si raggiunga una risposta glicemica prevedibile. Di conseguenza, ogni pasto deve contenere approssimativamente gli stessi ingredienti ed il medesimo contenuto calorico e deve essere offerto alla stessa ora ogni giorno. I proprietari dei cani diabetici devono essere consapevoli del fatto che la

(30)

[26]

soluzione ottimale è data dall’impiego di un dosaggio di insulina costante e dall’attuazione di una routine alimentare (Fleman & Rand, 2015).

Nei cani diabetici, la correzione dell’obesità e l’aumento del contenuto in fibra della dieta sono i due accorgimenti più utili da tentare per contribuire al controllo della glicemia. In questa specie l’obesità provoca insulino-resistenza ed è un importante fattore che dà ragione della variabilità di risposta alla terapia insulinica. Nel cane diabetico la riduzione del peso corporeo porta a una netta riduzione della resistenza all’insulina. Per arrivare a un’efficace perdita di peso è necessario limitare l’apporto calorico, offrire diete a basso contenuto calorico e aumentare il consumo di calorie mediante l’attività fisica. Questa, gioca un ruolo importante nel mantenimento della glicemia nel cane diabetico perché oltre a favorire la perdita di peso, elimina l’insulino-resistenza indotta dall’obesità stimolando il trasporto intracellulare del glucosio.

Le diete ideali sono quelle con alto contenuto di fibre; la loro capacità di formare un gel viscoso sembra avere grande importanza per rallentare l’assorbimento del glucosio per via intestinale. Più efficaci in questo senso e quindi migliori ai fini del controllo della glicemia rispetto alle fibre insolubili (cellulosa, lolla di arachidi), meno viscose, sembrano essere quelle solubili, più viscose, grazie alla loro capacità di trattenere l’acqua (gomma, pectina). La maggior parte dei prodotti dietetici ad alto contenuto di fibre contengono prevalentemente fibre insolubili, sebbene comincino ad essere disponibili prodotti con entrambe le tipologie. La percentuale di fibra varia considerevolmente da prodotto a prodotto, andando dal 3 al 25% sulla sostanza secca. In generale sembrano essere efficaci nel consentire il controllo della glicemia le diete che contengono il 12% o più di fibre insolubili o quelle con circa l’8% o più di fibre di tutti e due i tipi. In ultima analisi, i fattori che decideranno se e quale dieta somministrare devono essere: la predisposizione di ogni soggetto a sviluppare complicazioni a seguito dell’assunzione di diete ad alto contenuto di fibre, il peso corporeo e più in generale lo stato di nutrizione e la presenza di patologie concomitanti (pancreatiti o insufficienza renale) per le quali la dieta rappresenta un aspetto importante della terapia. Le complicazioni più comuni di una dieta ricca di fibre insolubili comprendono

(31)

[27]

defecazioni più frequenti, costipazione e stitichezza, ipoglicemia dopo 1 o 2 settimane dall’inizio della dieta e rifiuto del pasto perché non appetibile. Le complicazioni di un regime alimentare ricco in fibre solubili sono invece feci molli, eccessiva flatulenze, ipoglicemia dopo 1 o 2 settimane dall’aumento di fibre e ancora rifiuto del pasto perché non appetibile. Se le feci troppo solide o la costipazione diventano un problema grave con la dieta al alto contenuto di fibre insolubili, si possono aggiungervi fibre miste tra solubili e insolubili oppure solamente solubili, così da rendere le feci più soffici. Al contrario, se il problema è la diarrea o l’eccessiva flatulenza, si aggiungeranno fibre insolubili, in modo da bilanciare le altre già presenti (Nelson & Couto, 2015). La fibra insolubile infatti, regola il transito accelerando durante la costipazione e decelerando durante la diarrea (Guilford, 1996).Non essendo degradata dalla microflora del colon viene escreta quasi del tutto intatta nelle feci e ciò contribuisce a determinare la consistenza delle stesse nonché ad aumentarne il volume (Silvio et al., 2000).Se invece la questione è l’appetibilità, bisognerà abituare l’animale poco per volta, aggiungendo inizialmente al suo cibo consueto poche parti di fibra e poi dosi sempre maggiori fino alla quantità desiderata. Il rifiuto del cibo ricco di fibre, dopo mesi dal principio della somministrazione, è da attribuirsi alla noia di mangiare sempre gli stessi alimenti: il problema può essere risolto cambiando periodicamente tipo di dieta o mescolandovi di tanto in tanto del cibo normale. Infine, le diete con alto contenuto di fibre non dovrebbero essere offerte a cani diabetici magri o emaciati fino a che non è raggiunto il controllo della glicemia e si è arrivati a un peso corporeo normale utilizzando diete ad alto contenuto calorico e basso contenuto di fibra (Nelson & Couto, 2015).

La formulazione di una dieta raccomandata per i cani con diabete deve dunque soddisfare i seguenti criteri: elevata appetibilità, per garantire il consumo regolare; limitato contenuto di amido (<50% delle calorie totali apportate dai carboidrati) visto che è stato dimostrato che la quantità di amido della dieta è il principale fattore che determina la risposta glicemica postprandiale nei cani sani, indipendentemente dalla fonte o dal tipo di carboidrati, o dal profilo di composizione degli altri macronutrienti (Nguyenet et al., 1998); evitare amidi con elevato indice glicemico (riso e pane) e

(32)

[28]

prediligere cereali con amido che venga digerito più lentamente come il mais, il frumento, l’orzo ed il sorgo; garantire l’assunzione di fibra proveniente da fonti differenti (cellulosa, gomma, polpa di barbabietola); evitare diete con elevato tenore lipidico a causa del rischio di pancreatite ad esse associato(Simpson, 1993; Williams, 1994), aumentare l’apporto proteico data la restrizione di carboidrati e grassi nella dieta; garantire un’appropriata integrazione di antiossidanti, vitamine idrosolubili per compensare le perdite dovute a poliuria e di L-carnitina che sopprime l’acidosi e la chetogenesi durante il digiuno prolungato (Rodriguez et al., 1986) e accentua la conversione dell’energia dall’ossidazione degli acidi grassi, proteggendo i muscoli dal catabolismo durante il dimagramento (Gross et al., 1998; Sunvold et al., 1999; Center, 2001).

2.3.7 Complicazioni e prognosi

Nei cani diabetici le complicazioni risultanti dal diabete o dalla sua terapia cono comuni. Le più frequenti sono la cecità e l’uveite anteriore da cataratta, l’ipoglicemia, le pancreatiti croniche, le infezioni ricorrenti, l’inadeguato controllo della glicemia e la chetoacidosi. Molti proprietari sono esitanti a trattare il proprio animale cui è appena stato diagnosticato il diabete perché sono a conoscenza delle complicazioni croniche che i pazienti umani affrontano e temono che il loro cane vada incontro allo stesso destino. Va invece sottolineato che gli effetti devastanti della malattia (nefropatie, vasculopatie, malattie delle coronarie) tipici della specie umana impiegano dai 10 ai 20 anni per manifestarsi e negli animali sono perciò infrequenti.

La prognosi dipende dalla presenza e dalla reversibilità delle patologie concomitanti, dalla facilità del controllo del diabete con l’insulina e dalla collaborazione del proprietario nel trattamento della malattia. Il tempo di sopravvivenza medio di un cane diabetico è di circa 3 anni dal momento della diagnosi. Questo dato risulta tuttavia fuorviante, perché i cani di solito presentano dagli 8 ai 12 anni al momento della diagnosi, e una buona percentuale muore durante i primi 6 mesi a causa di patologie

(33)

[29]

concomitanti che possono mettere a repentaglio la vita (ad esempio chetoacidosi, pancreatite acuta, insufficienza renale). I cani diabetici che sopravvivono a questi primi 6 mesi, grazie all’impegno del proprietario, alla buona comunicazione tra questi e il medico curante e ai ripetuti e programmati controlli medici possono presentare una buona qualità di vita per oltre cinque anni (Nelson & Couto, 2015).

(34)

[30]

CAPITOLO III

L'OLEOUROPEINA E I SUOI EFFETTI METABOLICI

3.1 Definizione

L’oleuropeina è il principale polifenolo presente nelle foglie e nei frutti d’olivo (Sofi, 2017). E’ un polifenolo a struttura complessa appartenente alla classe dei secoiridoidi. Quest’ultimi, prodotti del metabolismo secondario dei terpeni, sono composti legati in genere glicosidicamente e caratterizzati dalla presenza nella loro struttura di un alcol feniletilico (idrossitirosolo, tirosolo) e di un acido elenolico che rappresenta, sia nella sua forma glucosidica che agliconica, la molecola comune ai glicosidi secoiroidi della famiglia delle Oleaceae di cui fa parte la pianta d’olivo (Olea europaea L.). L’estere prodotto dalla reazione tra l’idrossitirosolo e l’acido elenolico è l’oleuropeina (Fig. 4).

(35)

[31]

Altri principali secoiridoidi della famiglia delle Oleaceae sono la demetiloleuropeina, il ligstroside e la nuzenide (Bendini et al., 2007). L’Oleuropeina e la demetiloleuropeina sono presenti in tutte le parti costitutive del frutto ma più abbondantemente nella polpa (Espìn et al., 2000); il nuzenide invece, si trova solo nel seme (Servili et al., 1999).

Questi sono tutti metaboliti secondari sintetizzati durante i processi metabolici della pianta e come tali, non sono essenziali per la sua crescita ed il suo sviluppo ma la loro funzione è principalmente di natura ecologica, in quanto rappresentano un meccanismo sia di difesa contro predatori (animali erbivori, agenti patogeni, ecc.) che di competizione interspecifica (Fraenkel, 1959). In natura, l’oleuropeina si accumula nel frutto d'olivo durante la fase di crescita fino a raggiungere il 14% del peso netto (Amiot et al., 1986); al contrario, man mano che l'oliva diventa più verde e scura, la sua quantità si riduce. Il suo contenuto è infatti più alto nelle prime fasi della maturazione del frutto e nelle cultivar verdi rispetto alle nere (Fig. 5).

Fig. 5: Foglie e drupe verdi dell’olivo

Essendo un composto fenolico, è responsabile del sapore amaro caratteristico dell’olio d’oliva (Visioli & Galli, 2001) e la sua concentrazione nella spremitura del frutto dipende da diverse variabili quali: cultivar di olive e fase di maturazione (Ranalli et al., 2009); fattori ambientali (altitudine, pratiche di coltivazione e quantità di irrigazione); condizioni di estrazione (riscaldamento, aggiunta di acqua e calcinazione); sistemi di estrazione utilizzati per separare l'olio dalle paste di oliva (pressione, sistemi di

(36)

[32]

centrifugazione); condizioni e tempo di conservazione dovuti all'ossidazione spontanea e alla deposizione sospesa di particelle (Servili et al., 2002). Nel migliore dei casi, il contenuto di oleuropeina nell’olio extravergine d’oliva può raggiungere livelli superiori a 60 mg / 100 g (Rigacci et al., 2016).

3.2 Biodisponibilità

È essenziale stabilire se questi composti fenolici sono assorbiti nell'intestino e come sono distribuiti nell'organismo per verificare se hanno gli stessi effetti sia in vivo che in vitro (Tripoli et al., 2005). La letteratura attuale manca di dati sufficienti per comprendere appieno la biodisponibilità dei polifenoli come l'oleuropeina, l’idrossitirosolo ed il tirosolo. Tuttavia, è noto che l'oleuropeina è scarsamente assorbita a causa delle sue grandi dimensioni e della sua configurazione planare (El Sn & Karakaya, 2009).

Si è visto che il meccanismo del suo assorbimento varia in base alle condizioni osmotiche a livello luminale. In condizioni ipotoniche infatti, la permeabilità dell’oleuropeina risulta essere significativamente più alta rispetto a condizioni iso-osmotiche. Ciò è probabilmente dovuto ad un aumento del movimento paracellulare facilitato dall’apertura delle giunzioni paracellulari in risposta all’ipotonicità. In una soluzione iso-osmotica invece, l’assorbimento di oleuropeina avviene principalmente attraverso una via transcellulare e poiché l'oleuropeina è in qualche misura polare, è improbabile che si diffonda rapidamente attraverso il doppio strato lipidico della membrana cellulare epiteliale; deve quindi essere usato un vettore (Edgecombe et al.,2000). Essendo un glucoside, può probabilmente usare un trasportatore del glucosio. Sono stati identificati tre trasportatori a livello delle cellule epiteliali dell'intestino tenue: due di questi (Glut2 e Glut5) trasportano i monosaccaridi per diffusione facilitata, mentre il terzo è il trasportatore di glucosio Na-dipendente (SGLT1) che trasporta

(37)

[33]

attivamente il glucosio attraverso un gradiente di concentrazione (Takata, 1995). Sia il trasportatore Glut5 che Na-dipendente si trovano sul lato apicale delle cellule epiteliali intestinali; tuttavia, Glut5 è specifico per il trasporto del fruttosio ed è quindi improbabile che sia coinvolto nell'assorbimento dell’oleuropeina (Burant et al., 1992; Kane et al., 1997); Glut2 è localizzato nella porzione basolaterale delle cellule epiteliali ma media il passaggio di glucosio e substrati simili dalle cellule epiteliali alla circolazione (Sivitz et al., 1990; Nomoto et al., 1998).

3.3 Proprietà nutraceutiche

Composti fitochimici come l'oleuropeina e l'oleuropeina aglicone sono stati intensivamente studiati per alcuni risultati promettenti per quanto riguarda i loro effetti sulla salute umana e le loro potenziali proprietà nutraceutiche (Bendini et al., 2007). I composti fenolici presenti nelle foglie d’olivo, specialmente l’oleuropeina, sono stati associati ad effetto antipertensivo, cardioprotettivo, ipoglicemizzante, anti-neurodegenerativo ed ipocolesterolemico. Inoltre, gli studi associano l’oleuropeina ad un effetto antinfiammatorio nel trauma del midollo spinale e come supporto nel trattamento dell’obesità (Vogel et al., 2014). Molte di queste proprietà sono state suggerite come risultato del carattere antiossidante della sostanza (Visioli et al., 2001). Recentemente anche l’EFSA (Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare), secondo il Regolamento CE 1924/2006, ha approvato un “healthclaim” con il quale si riconoscono specifici effetti salutistici dell’olio d’oliva riferiti ai composti fenolici e polifenolici quali tirosolo, idrossitirosolo e oleuropeina: “i polifenoli dell’olio d’oliva contribuiscono alla protezione dei lipidi ematici dallo stress ossidativo” (EFSA, 2011). E’ noto infatti che i polifenoli si leghino alle lipoproteine a bassa densità (LDL, low-density lipoproteins) sottraendole così all’ossidazione da parte dei radicali liberi che è la principale causa dello sviluppo di malattie cronico-degenerative come l’aterosclerosi. Diversi studi

Riferimenti

Documenti correlati

La lettura del Rapporto 2009-2010 delinea un quadro complesso e difficile, in cui ci sono alcune luci (soprattutto le esperienze luminose di alcune realtà bibliotecarie e le

Hypomethylating agents (HMAs) are an important treatment option in patients with acute myeloid leukemia (AML) who are not considered to be candidates for intensive chemotherapy (

I pa- rassiti oggetto del presente articolo, ovvero Cytauxzoon spp., Spirocerca lupi, Onchocerca lupi e Angiostrongylus chabaudi, sono stati ampiamente studiati in altre regioni

Figura 2 - Cane meticcio, maschio intero di 7 anni - Pancreas normale. Scan- sione parasagittale mediana a livello mesogastrico sinistro: lobo sinistro del pan- creas in

leva positività in alcuno dei meningiomi, né nel tes- suto nervoso normale adiacente. L’anticorpo anti- caderina-E è immunoreattivo in 3 casi ed in parti- colare in un

Si descrive un caso di sarcoma istiocitico disseminato in un rottweiler, caratterizzato da interessamento di milza, fegato e mi- dollo osseo, ed in cui si riscontravano anche

I risultati dell’indagine sierologica per CPV-1 effettua- ta nelle province di Bari e Napoli 9 , i dati relativi all’isola- mento di CPV-1 in Italia 8 , i risultati riportati