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Il trattamento antiaggregante nella sindrome coronarica acuta in pazienti sotto nuovi anticoagulanti orali per fibrillazione atriale

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Farmacia

Corso di Laurea Magistrale in Farmacia

Tesi di Laurea

IL TRATTAMENTO ANTIAGGREGANTE NELLA SINDROME CORONARICA ACUTA IN PAZIENTI SOTTO NUOVI ANTICOAGULANTI ORALI PER FIBRILLAZIONE ATRIALE

Relatore:

Dott.ssa Maria Aurora Morales

Candidato:

Andrea Manca

Anno Accademico

2017 - 2018

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(3)

INDICE

ABSTRACT ... 1

La terapia antitrombotica ... 2

Anticoagulanti orali non vitamina K dipendenti. ... 5

Dabigatran ... 5

Rivaroxaban ... 6

Apixaban ... 7

Edoxaban ... 8

Il sovradosaggio dei NOAC ... 9

Sanguinamenti e terapia antitrombotica con NOAC vs AVK ... 11

La fibrillazione atriale. ... 14

Le opzioni terapeutiche antitrombotiche della FA. ... 18

Antagonisti della vitamina K ... 19

Farmaci anticoagulanti orali non vitamina K dipendenti. ... 19

Situazioni cliniche particolari. ... 21

La sindrome coronarica acuta. ... 23

Il trattamento farmacologico della SCA ... 24

Inibitori della ciclossigenasi 1. ... 25

Antagonisti del recettore P2Y12 ... 25

Clopidogrel ... 26

La terapia da riperfusione nella SCA ... 26

Stent tradizionale ... 29

Stent medicato (DES) ... 30

Stent riassorbibile ... 30

La problematica della terapia antiaggregante dopo PTCA nei pazienti sotto NOAC. ... 32

Trials attualmente conclusi sulla terapia antitrombotica nei pazienti con fibrillazione atriale e sindrome coronarica acuta. ... 34

PIONEER AF PCI ... 34

RE-DUAL PCI ... 36

Risultati dei due studi. ... 37

Trials ancora in corso. ... 39

AUGUSTUS ... 39

ENTRUST AF PCI ... 40

Conclusioni ... 42

BIBLIOGRAFIA ... 45

(4)

1

ABSTRACT

La duplice terapia antiaggregante rappresenta il trattamento antitrombotico raccomandato per i pazienti sottoposti a procedure di angioplastica coronarica percutanea (PTCA) in corso di sindrome coronarica acuta o in condizioni di elezione. Circa il 10% dei pazienti sottoposti a PTCA sono affetti da fibrillazione atriale (FA) che richiede una terapia anticoagulante orale cronica in aggiunta alla terapia antiaggregante.

Questa triplice terapia è gravata dal rischio di emorragie. Gli antagonisti della Vitamina K, i più comunemente utilizzati nei pazienti con FA richiedono aggiustamenti terapeutici periodici per ottenere il giusto bilanciamento tra il rischio tromboembolico e quello emorragico.

I nuovi farmaci anticoagulanti orali non-vitamina K dipendenti (NOAC) presentano un miglior rapporto rischio/beneficio e una maggiore compliance del paziente nella prevenzione tromboembolica della FA. La sicurezza delle nuove terapie con NOAC e inibitori P2Y12 è stata confrontata con la triplice terapia basata sugli AVK (più Aspirina e Clopidogrel) negli studi randomizzati PIONEER AF PCI e RE-DUAL PCI. Entrambi gli studi dimostrano che queste nuove strategie sono più efficaci come terapia antitrombotica senza aumentare il rischio di sanguinamento e forniscono una alternativa alla triplice terapia basata su AVK in pazienti con FA sottoposti a PTCA.

Sono attualmente in corso studi con altri NOAC quali AUGUSTUS e ENTRUST AF PCI, i cui risultati porteranno ad una maggiore definizione dell’efficacia e della sicurezza di queste nuove terapie in una situazione clinica fino ad ora considerata di difficile gestione e gravata da un importante rischio di sanguinamento maggiore.

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2

La terapia antitrombotica

Nelle ultime due decadi la ricerca sulla terapia antitrombotica si è in particolare incentrata sullo sviluppo e la validazione clinica di nuovi farmaci anticoagulanti orali. La loro introduzione nella pratica clinica in Italia risale ad oltre 4 anni fa, per cui piuttosto che “nuovi” sarebbe opportuno parlare di inibitori “diretti”, per la loro modalità di azione. La dizione Non-vitamin K antagonist oral anticoagulants (NOAC) è quella più diffusamente utilizzata (1).

Da un punto di vista storico, i primi farmaci anticoagulanti ad essere stati utilizzati sono stati eparine e cumarinici, scoperti più di 60 anni fa, molto prima che il loro meccanismo di azione fosse completamente compreso (2). Al contrario i nuovi anticoagulanti sono stati progettati per colpire specifici enzimi o vie della coagulazione selettive e sono stati scientificamente validati attraverso alcuni trials clinici su ampie popolazioni di pazienti (3). I cumarinici sono antagonisti della vitamina K (AVK), una vitamina che in parte viene introdotta con la dieta e in parte direttamente prodotta nel nostro organismo. I fattori della coagulazione vitamina K dipendenti sono tutti sintetizzati a livello epatico e sono il fattore II, VII, IX e X (figura 1).

(6)

3

Figura 1. Schema della coagulazione sanguigna con i livelli di azione dei farmaci.

Questi composti fin da subito hanno mostrato criticità nei dosaggi. Una delle possibili criticità è dovuta all’esistenza di un recettore per l’AVK Warfarin, la cui ridotta espressione a livello epatico configura uno stato di resistenza di grado variabile al farmaco, necessitando di aggiustamenti ripetuti del suo dosaggio terapeutico. Non c’è infatti una dose fissa come per altri farmaci, ma ogni paziente richiede una dose personalizzata per raggiungere il giusto livello di anticoagulazione. Per questo motivo il

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4 paziente è sottoposto a frequenti controlli ematochimici in cui viene misurato il tempo di protrombina, un valore che viene espresso in

International Normalized Ratio (INR). Un range di INR corretto

(generalmente tra 2 e 3) permette di prevenire, da una parte emorragie, dall’altra la formazione di trombi (4).

La difficoltà di gestione nella terapia con farmaci cumaricini non è legata solamente alla dose, ma anche all’interazione con altri farmaci e alla dieta. Come detto precedentemente la vitamina K può essere introdotta con la dieta; è quindi opportuno evitare prodotti che possono aumentarne i livelli quali le verdure a foglia larga ricche di vitamina K per un’azione competitiva per il recettore epatico.

I molti problemi degli anticoagulanti orali vitamina K dipendenti hanno portato allo studio di nuovi composti con un miglior profilo rischio/beneficio e costo/efficacia.

Da queste considerazioni sono stati sviluppati i farmaci ad azione anticoagulante non vitamina K dipendenti, più semplicemente NOAC (5).

(8)

5

Anticoagulanti orali non vitamina

K dipendenti.

Gli anticoagulanti orali non vitamina K dipendenti sono nuove sostanze che rispetto ai precedenti anticoagulanti inibiscono una singola fase della coagulazione. La cinetica farmacologica è pertanto più prevedibile, per cui non sono strettamente necessari i dosaggi per il controllo della coagulazione. Questo si traduce anche in una migliore compliance del paziente, e ad una riduzione dei costi di trattamento (6).

I NOAC possono essere suddivisi in due gruppi, quelli che inibiscono il fattore della coagulazione Xa e quelli che inibiscono il fattore IIa, che è la trombina.

Nel primo gruppo troviamo il Rivaroxaban, l’Apixaban e l’Edoxaban, mentre nel secondo il Dabigatran (7). Questi nuovi anticoagulanti sono stati sviluppati da organismi ematofagi, dall’applicazione della tecnologia del DNA ricombinante e da modelli strutturati di ricerca (3).

Dabigatran

Il Dabigatran (figura 2) è stato il primo NOAC studiato e approvato dalla Food and Drug Administration (8); è un inibitore diretto della trombina (fattore IIa), si somministra il dabigatran etexilato per via orale come profarmaco, la conversione in farmaco attivo avviene a livello epatico mediante idrolisi catalizzata da esterasi. Raggiunge i livelli plasmatici entro 2 - 3 ore. Una volta raggiunte le concentrazioni plasmatiche l’emivita del farmaco in soggetti anziani sani è di circa 11 ore. Mentre la sua emivita è di 12 - 14 ore dopo la somministrazione di dosi ripetute.

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6 Il farmaco viene escreto immutato principalmente dai reni, ha infatti un’escrezione dell'80%. A differenza degli AVK, il Dabigatran non presenta importanti interazioni con il cibo e poche interazioni con altri farmaci; in ogni caso è sconsigliata la somministrazione in concomitanza con inibitori della glicoproteina-P. La dose più comune di Dabigatran è di 150 mg due volte al giorno mentre una dose inferiore di 110 mg è raccomandata per i pazienti di età superiore a 80 anni o ad alto rischio di sanguinamento. È stata approvata, solo negli Stati Uniti, anche una dose da 75 mg per i pazienti con clearance della creatinina (CrCl) di 15 - 30 ml/min sulla base di modelli farmacocinetici (7).

Figura 2. Struttura Dabigatran.

Rivaroxaban

Il Rivaroxaban (figura 3) è stato il primo inibitore selettivo del fattore Xa approvato dalla FDA. Assunto per via orale, raggiunge livelli plasmatici dopo 2 - 4 ore con un’emivita compresa tra 5 e 13 ore. La sua biodisponibilità è di circa il 60%, ma questa aumenta considerevolmente se assunto con il cibo; per questo è suggerito di ingerire il farmaco preferibilmente durante un pasto la sera. L’escrezione renale è circa del 35%. Come il Dabigatran, il Rivaroxaban è substrato della glicoproteina-P

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7 ed è quindi sconsigliato l’uso in concomitanza di inibitori della glicoproteina-P (7).

Circa un terzo del farmaco viene eliminato per via renale, mentre i due terzi rimanenti vengono metabolizzati dal fegato dagli enzimi CYP3A4 e CYP2J2 facenti parte del meccanismo del citocromo P450.

La dose approvata è di 20 mg una volta al giorno, scende a 15 mg in pazienti con una CrCl compresa tra 15 - 50 ml/min. È sconsigliato l’uso del Rivaroxaban in soggetti con CrCl inferiore a 15 ml/min (9).

Figura 3. Struttura Rivaroxaban

Apixaban

L’Apixaban (figura 4) è un altro inibitore orale del fattore Xa. Ha un assorbimento rapido con un’emivita di 12 ore. Circa il 25% del farmaco viene eliminato per via renale (10).

Come per gli altri NOAC, l’Apixaban viene metabolizzato a livello epatico dal citocromo P450, in particolare dall’enzima CYP3A4. Deve quindi essere utilizzato con cautela nei pazienti in trattamento con inibitori del citocromo e della glicoproteina-P.

(11)

8 La dose consigliata è di 5 mg due volte al giorno per i pazienti con una funzionalità renale nella norma, scende invece a 2.5 mg due volte al giorno nei pazienti con due delle seguenti caratteristiche: un’età maggiore di 80 anni, un peso corporeo inferiore a 60 kg o con un livello sierico di creatinina maggiore di 1.5 mg/dl (7).

Figura 4. Struttura Apixaban

Edoxaban

L’Edoxaban (figura 5) è il più recente farmaco NOAC approvato (7,9). Fa parte del gruppo di farmaci inibitori del fattore Xa. Come l’Apixaban viene assorbito rapidamente e raggiunge la concentrazione plasmatica in 1 - 2 ore. Il 50% del farmaco è eliminato per via renale; è metabolizzato a livello del fegato ad opera dell’enzima CYP3A4, è anch’esso substrato della glicoproteina-P.

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9

Figura 5. Struttura Edoxaban

Il sovradosaggio dei NOAC

Gli antidoti dei NOAC in condizione di sovradosaggio sono di recente sviluppo. Infatti inizialmente nelle condizioni di sovradosaggio era consigliata la somministrazione orale di carbone attivo entro 1 - 2 ore dall’errata assunzione del farmaco, prima dell’assorbimento a livello intestinale. La somministrazione di fattori di coagulazione non si è dimostrata del tutto efficace. In caso di sanguinamento incontrollato si somministravano complessi attivati/non attivati di protrombina o ricombinante attivo del fattore VII. Ma per rimuovere completamente il farmaco dal sangue era necessaria una emodialisi (11).

Pertanto, lo sviluppo di antidoti efficaci e sicuri si è reso necessario, principalmente in caso di emorragie potenzialmente letali o in situazioni cliniche particolari come la chirurgia d’urgenza.

Gli antidoti agiscono legandosi direttamente al farmaco attivo nel caso dell’Idarucizumab e dell’Andexanet alfa, oppure occupando il sito attivo

(13)

10 del farmaco in genere un legame ad idrogeno non covalente nel caso dell’Aripazina o Ciraparantag (12).

L’Idarucizumab è un anticorpo monoclonale che esplica la sua azione come inibitore irreversibile non competitivo della trombina, della trombina legata al Dabigatran e dei suoi metaboliti attivi. Agisce in maniera rapida ed è stato dimostrato essere sicuro ed efficace con un regime di dosaggio semplice. È stato infatti approvato dalla FDA e dall’agenzia europea per i medicinali (EMA).

Andexanet alfa (attualmente approvato solo da FDA) invece è una proteina ricreata in laboratorio, si tratta di un derivato ricombinante modificato del fattore Xa. Possiede alta affinità per gli inibitori del fattore Xa e, come per l’Idarucizumab, agisce entro 2 minuti dalla somministrazione. L’Andexanet agisce sugli effetti anticoagulanti di Rivaroxaban, Apixaban ed Edoxaban poiché sono quelli che agiscono legandosi al fattore Xa.

Infine l’Aripazina (attualmente approvato solo da FDA) è una molecola non specifica che viene usata per tutti i NOAC e le eparine. Mediante legami ad idrogeno si lega con le frazioni attive dei NOAC, delle eparine e delle eparine a basso peso molecolare impedendo la loro funzione anticoagulante. La loro azione si osserva entro 30 minuti dalla somministrazione (13,14).

(14)

11

Sanguinamenti e terapia

antitrombotica con NOAC vs AVK

Anche i NOAC, come gli AVK presentano rischio di sanguinamento, che può essere particolarmente problematico in condizioni di comorbidità, e di polifarmacoterapia per le interazioni farmaco-farmaco, specialmente con l’Amiodarone e Dronedarone, principi attivi ampiamente utilizzati come antiaritmici, con antimicotici, come il Fluconazolo, o antibiotici come la rifampicina (15).

Tuttavia, rispetto al Warfarin, si ha un decremento medio del 51% nell’incidenza di emorragie intracraniche e di ictus emorragico. In termini di altri sanguinamenti maggiori, la riduzione cumulativa del rischio con i 4 farmaci NOAC rispetto al Warfarin è del 14%, in particolare la diminuzione dell’end-point di sicurezza è significativa per l’Apixaban (- 29%), per il Dabigatran 110 mg (- 20%) e per l’Edoxaban (- 20% nel braccio 60 mg) mentre non sono riportate differenze significative rispetto al Warfarin né per il Dabigatran 150 mg, né per il Rivaroxaban (16).

Nella tabella che segue sono riportati i registri di vari studi riferiti al rischio di sanguinamento dei NOAC rispetto al Warfarin (tratto da 17).

Registro Pazienti con fibrillazione atriale

Follow-up (mesi) Risultati vs Warfarin

Dabigatran Registro

Mini-Sentinel

> 10000 pazienti naïve alla terapia anticoagulante orale 12 ¯ Rischio di emorragia intracranica ¯ Rischio di sanguinamenti gastrointestinali

(15)

12 Registro danese

> 4000 pazienti naïve alla terapia

anticoagulante orale 12 = Rischio di ictus ischemico = Rischio di sanguinamenti maggiori ¯ Rischio di emorragia intracranica, infarto miocardio e mortalità

Registro danese naïve alla terapia > 61000 pazienti anticoagulante orale 22 = Rischio di ictus ischemico ed embolie sistemiche ¯ Rischio di sanguinamenti maggiori ¯ Rischio di Mortalità

Registro Medicare naïve alla terapia > 67000 pazienti anticoagulante orale 26 ¯ Rischio di ictus ischemico, embolie sistemiche, emorragia intracranica e mortalità = Rischio di sanguinamenti maggiori ed infarto miocardio ­ Rischio di Sanguinamenti gastrointestinali con dabigatran 150 mg bid Registro MonaldiCare > 2000 pazienti naïve alla terapia anticoagulante orale 6 Bassissimo rischio di sanguinamenti maggiori con entrambi i dosaggi di dabigatran Rivaroxaban Registro Dresda > 2700 pazienti naïve alla terapia anticoagulante orale 16 ¯ Rischio di ictus, attacco ischemico transitorio ed embolie sistemiche ¯ Rischio di sanguinamenti maggiori

Studio XANTUS > 6000 pazienti (50% naïve alla 12

¯ Rischio di ictus, attacco ischemico transitorio, embolie sistemiche, emorragia intracranica e mortalità

(16)

13 terapia anticoagulante orale) = Rischio di sanguinamenti maggiori ¯ Rischio di sanguinamenti fatali Studio RELIEF > 1000 pazienti naïve alla terapia

anticoagulante orale 12 ¯ Rischio di ictus, attacco ischemico transitorio, infarto miocardico ed emorragia intracranica Studio REVISIT-US > 30000 pazienti naïve alla terapia anticoagulante orale

33 ¯ Rischio di ictus ischemico/emorragia intracranica (endpoint combinato)

Apixaban

Registro Medicare

> 15000 pazienti naïve alla terapia anticoagulante orale 56 ¯ Rischio di ictus ed embolie sistemiche ¯ Rischio di sanguinamenti maggiori ¯ Rischio di sanguinamenti gastrointestinali Endoxaban Pubblicazioni

integrali non ancora disponibili

(17)

14

La fibrillazione atriale.

La fibrillazione atriale (FA) è l’aritmia cardiaca sostenuta di più comune risconto e colpisce l’1% della popolazione generale oltre i 60 anni e il 5% della popolazione sopra i 70 anni. In uno studio (18) condotto su uomini e donne di età superiore a 65 anni la prevalenza di FA era del 9.1% nei pazienti affetti da una cardiopatia clinicamente manifesta, del 4.6% nei pazienti affetti da una malattia cardiovascolare subclinica e del 1.6% nella popolazione senza malattia cardiovascolare. Si stima che nel 2030 in Europa ci saranno 14 - 17 milioni di pazienti affetti da FA, con 120.000 - 215.000 nuovi casi ogni anno.

La FA è associata in maniera indipendente ad un rischio aumentato di mortalità e ad elevata morbilità, compreso lo scompenso cardiaco e l’ictus, così come a frequenti ospedalizzazioni e ad un peggioramento della qualità di vita (19). In particolare l’incidenza di ictus ischemico nei pazienti affetti da FA risulta essere del 5% annuo.

Nel cuore normale il battito cardiaco viene iniziato da un gruppo di cellule che nel loro insieme costituiscono il nodo del seno situato al confine tra atrio destro con la vena cava superiore. Da qui l’impulso si propaga in maniera ordinata attraverso l’atrio destro e sinistro e raggiunto il nodo atrio-ventricolare la velocità di propagazione viene rallentata per permettere che gli atri si contraggano, per effetto dell’accoppiamento elettro-meccanico muscolare, favorendo il riempimento ventricolare ottimale. Dal nodo atrio-ventricolare l’impulso cardiaco viene quindi condotto in maniera molto veloce a tutta la massa ventricolare attraverso il sistema delle fibre del Purkinje. Questo al fine di ottenere una contrazione sincrona dei ventricoli. Il ritmo sinusale, che origina dal nodo del seno, ha

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15 una frequenza tra 60 e 80 battiti per minuto (bpm) in condizioni basali ma aumenta durante emozioni o sforzi fisici fino a 150 – 160 bpm ed oltre. Per la presenza di varie patologie, ma anche per il semplice invecchiamento, si formano all’interno della muscolatura atriale dei fasci fibrosi che creano un rallentamento della propagazione dell’impulso e una sua frammentazione portando ad aritmie con origine focali ma anche da rientro (micro- o macrorientri). Tra le aritmie che possono essere generate, una delle più frequenti è la fibrillazione atriale, che a differenza del ritmo sinusale normale, è caratterizzata da una depolarizzazione totalmente desincronizzata dell’atrio che porta a una mancata contrazione (20). Questo crea i presupposti per la formazione di coaguli a livello di un’appendice dell’atrio sinistro chiamata auricola. Infatti all’interno dell’auricola durante la fibrillazione atriale il sangue ristagna e per la triade di Virchow viene facilitata la formazione di un coagulo. La triade di Virchow descrive le tre grandi categorie di fattori di rischio che si ritiene contribuiscano sinergicamente alla trombosi:

• Danno all’endotelio.

• Stasi o turbolenza del flusso ematico. • Iper-coagulabilità del sangue.

Il danno all’endotelio è la causa principale che da sola può causare trombosi.

La turbolenza contribuisce alla trombosi arteriosa e cardiaca, per la formazione di sacche di stasi che provocano il contatto delle piastrine con l’endotelio e la conseguente attivazione della coagulazione.

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16 L’iper-coagulabilità è la condizione meno frequente, dovuta a vari fattori fra cui le cause genetiche.

La FA viene riconosciuta anche solamente dalla palpazione del polso arterioso o dalla misurazione della pressione arteriosa per la presenza di un ritmo cardiaco estremamente irregolare. Infatti, in questa aritmia, l’attività elettrica atriale viene condotta in maniera molto irregolare attraverso il nodo atrio-ventricolare ai ventricoli. La frequenza atriale desincronizzata durante la FA è tra 400 e 600 bpm e solo parte di questi impulsi riescono a passare attraverso il nodo ai ventricoli in maniera disordinata. Da qui l’irregolarità della frequenza ventricolare che può variare molto da una fibrillazione atriale bradicardica, con frequenza cardiaca di 50 - 60 bpm, fino alla FA tachicardica con frequenza ventricolare superiore a 120 - 140 bpm.

La diagnosi di certezza di FA si effettua con un elettrocardiogramma ed è facilmente riconoscibile poiché si registrano intervalli RR irregolari e onde P assenti (figura 6) mentre la linea di base presenta onde f legate all’attività desincronizzata degli atri.

Figura 6. Elettrocardiogramma normale in confronto con FA.

La fibrillazione atriale può decorrere in maniera asintomatica ed essere diagnosticata in maniera occasionale come durante un controllo della

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17 pressione arteriosa in cui viene rilevato un ritmo cardiaco caotico o quando si presenta una complicanza legata all’aritmia. Circa 20% delle FA si presentano con un ictus cerebrale come primo segno. Lo screening opportunistico, ad esempio l’aritmia riscontrata durante una visita medica ambulatoriale, si è dimostrato più efficace di una strategia di screening sistematica per l’aritmia stessa (21).

L’insorgenza della fibrillazione atriale può essere attribuita a problemi clinici come l’ipertensione, l’obesità, il diabete mellito e a fattori di rischio come fumo e il consumo eccessivo di alcool. Non sono ancora chiari i meccanismi che contribuiscono allo sviluppo, ma sono diversi i fattori possibili tra cui l’attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone e l’alterazione strutturale degli atri con presenza di aree focali che innescano l’aritmia. Ultimamente anche i fattori genetici sono sotto studio come possibile componente favorente l’insorgenza della malattia (21).

La fibrillazione atriale incrementa di 5 volte il rischio di ictus e i pazienti con un ictus correlato alla FA presentano una mortalità e una morbilità maggiori rispetto a pazienti con ictus non correlato alla FA. Da segnalare inoltre che gli ictus sono nelle maggior parte ischemici (90%). Ma oltre all’ictus, quindi embolizzazione nel circolo cerebrale, possiamo assistere anche ad una embolizzazione nel circolo periferico come per esempio ad un arto o circolo splancnico.

Per questo motivo diventa fondamentale una diagnosi precoce della FA per effettuare la tromboprofilassi appropriata. Infatti l’uso di anticoagulanti nei pazienti con FA determina una notevole riduzione dei fenomeni trombo-embolici (TE) e della mortalità.

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18

Le opzioni terapeutiche antitrombotiche della FA.

La fibrillazione atriale è un fattore di rischio indipendente per l’ictus; nei pazienti con FA il rischio di ictus è da 2 a 17 volte superiore a quello della popolazione generale (22).

Per molti anni la terapia antitrombotica con Aspirina o Clopidogrel è stata considerata efficace nella profilassi del TE. Tuttavia, la terapia antiaggregante è stata dimostrata aumentare il rischio di sanguinamento, in particolare la combinazione di ASA + Clopidogrel, senza reali benefici. La protezione nei soggetti con FA contro il TE con gli antiaggreganti in mono somministrazione è stata abbandonata perché la riduzione degli eventi è solo del 22% rispetto agli anticoagulanti che li riducono del 67% mentre il rischio di sanguinamento rimane pressoché invariato nelle due tipologie di trattamento (23).

Per questi motivi, le linee guida della European Society of Cardiology (ESC) 2016 per la gestione della fibrillazione atriale sviluppate in collaborazione con la European Association for Cardio-Thoracic Surgery (EACTS), considerano la monoterapia con antiaggreganti in classe III, ovvero del tutto controindicata (19).

Le opzioni terapeutiche nella fibrillazione atriale rientrano in due ampie categorie. La prima è quella con AVK di cui il più usato è il Warfarin, la seconda invece è quella con NOAC. L’Aspirina non è efficace per la prevenzione di ictus nei pazienti con FA, anche nei pazienti anziani a cui, a torto, è stata consigliata per molti anni come trattamento alternativo nella prevenzione del TE presupponendo che comportasse un minor rischio di sanguinamento (24).

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19

Antagonisti della vitamina K

Il Warfarin è stato utilizzato nella terapia antitrombotica orale (OAC) dal 1954. Meta-analisi hanno dimostrato una riduzione dell’ictus di due terzi nei pazienti con FA e una riduzione della mortalità di quattro volte rispetto a soggetti di controllo con Aspirina o placebo (25). Per questo motivo è stato il farmaco di elezione contro il TE nella fibrillazione atriale ed era l’unica opzione terapeutica fino all’avvento dei NOAC.

Ha però alcune limitazioni all’uso. L’insorgenza d’azione è lenta e la finestra terapeutica è molto stretta, per questo richiede un preciso monitoraggio ematochimico con aggiustamenti continui della dose per ottenere un aumento dei tempi nell’intervallo terapeutico (TTR).

Le interazioni farmacologiche e dietetiche del Warfarin sono comuni e possono comprometterne l’efficacia. Quando il TTR è superiore al 70% l’azione degli AVK è accettabile, efficace e sicura per l’anticoagulazione. È stato sviluppato un sistema di punteggio SAMe-TT2R2 (26) che aiuta a prevedere quali pazienti possono ottenere un TTR accettabile e quindi avere una protezione contro l’ictus ischemico. I punteggi 0 - 1 sono relativi ad un buon controllo dell’INR con TTR soddisfacente, mentre un punteggio di ≥ 2 è indicativo di probabilità minore di raggiungere un TTR soddisfacente.

Farmaci anticoagulanti orali non vitamina K dipendenti.

I quattro NOAC attualmente autorizzati per la prevenzione dell’ictus nei pazienti con fibrillazione atriale non valvolare hanno il vantaggio di una farmacocinetica prevedibile con una rapida insorgenza d’azione. Grazie a questa loro prevedibilità non sono necessari monitoraggi terapeutici o aggiustamenti della dose, come nel caso degli AVK. In più non sono presenti interazioni alimentari, ma ci sono alcuni farmaci che hanno interazioni clinicamente rilevanti, tra cui gli inibitori della Glicoproteina-P

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20 e del CYP3A4 (7). I trials sui NOAC hanno dimostrato la loro efficacia al pari del Warfarin nella prevenzione di ictus o embolia sistemica nei pazienti con fibrillazione atriale non valvolare (27).

Di conseguenza le linee guida della Società Europea di Cardiologia (ESC) sulla FA (19) consigliano l’uso dei NOAC rispetto agli AVK in pazienti che devono iniziare una terapia anticoagulante orale de novo e nei pazienti in trattamento con AVK che presentano un TTR scadente nonostante la corretta aderenza alla terapia (28).

In linea generale, la terapia anticoagulante orale presenta un’indicazione come prevenzione dei fenomeni TE per i pazienti che hanno un rischio sufficientemente elevato da sovrastare l’eventuale rischio emorragico legato alla terapia stessa. Pertanto sono stati studiati i fattori di rischio che - se presenti nei pazienti- ne aumentano il rischio di TE. Negli studi fino ad ora condotti sono stati evidenziati molti fattori predisponenti l’ictus e l’embolia periferica e sono stati elaborati acronimi che servono per ricordare i fattori di rischio stessi. Uno dei primi studi ha evidenziato come lo scompenso cardiaco, l’ipertensione, l’età, il diabete e un pregresso ictus siano fattori predisponenti del TE. Da questa considerazione è nato il primo sistema di punteggio CHADS2 che comprende i fattori di rischio sopramenzionati dando un punteggio unitario per i primi quattro fattori e un punteggio di 2 all’ultimo (pregresso ictus). Al momento attuale viene utilizzato un sistema di punteggio, derivato dal primo ma più articolato, che si chiama CHA2DS2VASc in cui tanto più alto è il valore tanto maggiore è rischio TE. Questo punteggio, il più utilizzato attualmente nella pratica clinica, e considerato come riferimento nelle linee guide europee, permette di selezionare quei pazienti che non hanno necessità di un trattamento anticoagulante orale, malgrado l’aritmia (29).

Di converso esiste un ulteriore sistema di punteggio per definire il rischio emorragico. Il più seguito, anche nelle linee guida, è rappresentato dal

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21 sistema HAS-BLED in cui vengono tenuti in considerazione l’ipertensione arteriosa non controllata, l’età, l’ictus pregresso, la tendenza al sanguinamento, utilizzo di FANS e corticosteroidi, la variabilità dell’INR in trattamento con AVK, insufficienza renale ed epatica e consumo di alcool. Tanto maggiore è il punteggio, tanto maggiore è il rischio emorragico (30).

Situazioni cliniche particolari.

Secondo le nuove linee guida, e basata sui criteri di arruolamento dei pazienti nei grossi studi randomizzati con i nuovi farmaci anticoagulanti, la scelta terapeutica nel trattamento preventivo del TE della FA si basa sulla differenziazione della fibrillazione atriale valvolare e fibrillazione non valvolare. In effetti negli studi fino ad ora condotti venivano sempre esclusi i pazienti con stenosi valvolare mitralica, di media e grave entità, e quelli con protesi valvolari meccaniche. Attualmente quindi la terapia con AVK è indicata nei pazienti con FA valvolare mentre vengono consigliati come prima scelta i NOAC nella FA non valvolare (31).

Si ipotizza, infatti, che ci sia un diverso meccanismo di formazione dei trombi in pazienti con fibrillazione atriale e stenosi mitralica. Uno studio che valutava l’efficacia di Dabigatran nella prevenzione dell’ictus in pazienti con sostituzioni valvolari meccaniche rispetto a Warfarin è stato interrotto precocemente a causa di eccessivi eventi tromboembolici e sanguinamenti con l’uso di Dabigratran (28).

Per quanto riguarda i pazienti con fibrillazione atriale e grave insufficienza renale la malattia renale cronica è associata ad un aumento del rischio di ictus ischemico paragonata ai pazienti con funzionalità renale normale. I farmaci AVK possono essere utilizzati in tutti i pazienti con insufficienza renale cronica (IRC), inclusi quelli che necessitano di un trapianto renale,

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22 questo è dovuto al tipo di eliminazione di questi farmaci. I VKA hanno una minima eliminazione renale, al contrario i NOAC presentano una percentuale più o meno elevata di eliminazione per via renale (figura 7). Per questo i pazienti con IRC trattati con NOAC sono a rischio elevato di sanguinamenti (32).

(26)

23

La sindrome coronarica acuta.

L’occlusione completa o parziale di un vaso coronarico epicardico dovuto alla rottura di una placca aterosclerotica vulnerabile rappresenta il meccanismo fisiopatologico alla base della sindrome coronarica acuta (SCA). L’aterosclerosi è un processo infiammatorio cronico che colpisce vasi di medio e grosso calibro, tra cui le arterie coronarie che portano il sangue al miocardio. La placca vulnerabile, quella che più facilmente va incontro a rottura con formazione di un trombo che può occludere totalmente o parzialmente il vaso, è generalmente riscontrata nei vasi con gradi meno significativi di stenosi e, pertanto le SCA possono non essere precedute da eventi come l’angina pectoris ma avvenire a ciel sereno. Le SCA si distinguono in due grandi categorie sulla base dei reperti elettrocardiografici: l’infarto miocardico con sopraslivellamento persistente del segmento ST (STEMI: ST elevation myocardial infarction) causato da un’occlusione completa del vaso coronarico e le SCA senza sopraslivellamento persistente del segmento ST (NSTE) determinate da occlusione incompleta o intermittente della coronaria (figura 8). Le SCA NSTE a loro volta si suddividono in angina instabile, quando i marcatori enzimatici specifici sono negativi e l’infarto NSTEMI quando esiste un innalzamento dei marcatori di necrosi (20, 33).

(27)

24

Figura 8. Confronto elettrocardiogramma normale, NSTEMI, STEMI.

Il trattamento farmacologico della SCA.

Il meccanismo fisiopatologico comune delle SCA è rappresentato dall’aterotrombosi, legato alla rottura della placca aterosclerotica, attivazione delle piastrine e sovrapposizione di un trombo che può occludere totalmente o parzialmente il vaso coronarico. La terapia fondamentale delle SCA è basata sui farmaci antiaggreganti e anticoagulanti e sulla riperfusione coronarica mediante fibrinolisi o angioplastica percutanea (PTCA).

I farmaci approvati per il trattamento e la prevenzione di eventi ischemici in SCA agiscono in tre modi diversi:

• Inibitori della ciclossigenasi 1 (COX-1).

(28)

25 • Inibitori della glicoproteina IIb/IIIa (GPI).

Ai fini specifici della tesi, incentrata sul trattamento antiaggregante nei soggetti sotto terapia farmacologica con NOAC, gli unici farmaci studiati in associazione sono rappresentati dall’Aspirina e dal Clopidogrel.

Inibitori della ciclossigenasi 1.

Tra gli inibitori della COX-1 il farmaco più noto e ampiamente utilizzato è l’Aspirina che rappresenta, storicamente, il primo farmaco antitrombotico nei pazienti con SCA. Il meccanismo d’azione è legato a un blocco irreversibile della COX-1 che è la principale isoforma espressa dalle piastrine, dove è coinvolta nella sintesi del più potente agonista dell’aggregazione piastrinica il trombossano A2 (TXA2) che ha la funzione di potenziare e di amplificare l’attivazione piastrinica. L’Aspirina di conseguenza diminuisce l’attivazione e l’aggregazione piastrinica mediata dalle vie dei recettori TP.

La dose corretta è oggetto di dibattito, ma l’efficacia dell’Aspirina a basse dosi è supportata da vari studi, tenendo conto anche del rischio di

sanguinamento dose-dipendente, in particolare emorragie di tipo gastrointestinale (34).

Antagonisti del recettore P2Y12

L’adenosina difosfato (ADP) è un agonista piastrinico che agisce attraverso i recettori P2Y1 e P2Y12 presenti sulla membrana plasmatica delle piastrine. Tra i due recettori è il P2Y12 che si occupa dell’attivazione e stabilizzazione dell’aggregazione piastrinica. I farmaci antagonisti del recettore P2Y12 approvati per uso clinico sono tre generazioni di tienopiridine: Clopidogrel, Ticlopidina e Prasugrel.

(29)

26

Clopidogrel

È un farmaco relativamente recente, è stato infatti approvato come terapia antiaggregante nel 1997. Per la sua maggiore sicurezza è stato preferito alla ticlopidina di cui ha preso il posto.

Si tratta di un profarmaco che viene attivato nel fegato tramite un doppio processo di ossidazione ad opera delle isoforme del citocromo P450. Una volta attivato inibisce irreversibilmente e selettivamente il recettore P2Y12 dell’adenosina difosfato. Essendo una inibizione irreversibile gli effetti del Clopidogrel durano per l’intero ciclo vitale della piastrina, cioè circa 7 - 10 giorni (34,36).

Spesso il Clopidogrel si associa all’Aspirina per la duplice terapia antiaggregante (DAPT) nella SCA.

Questa associazione si basa su diversi studi che mostrano un marcato beneficio del trattamento con Clopidogrel in aggiunta all’Aspirina nella prevenzione di eventi aterotrombotici.

Il Clopidogrel presenta dei limiti nella risposta antiaggregante, in quanto il suo effetto si manifesta con un discreto ritardo a causa della variabilità interindividuale nella risposta piastrinica cui potrebbero contribuire meccanismi genetici e cellulari. Anche l’utilizzo di inibitori della pompa protonica inibiscono l’attività del Clopidogrel a causa di un’interferenza con l’enzima che metabolizza il farmaco (34,36).

La terapia da riperfusione nella SCA

La completa ricanalizzazione del vaso responsabile della SCA e pertanto il contenimento del danno miocardico rappresenta lo scopo principale della terapia in questi pazienti. L’aspetto fondamentale di questo tipo di trattamento è rappresentato dalla sua precocità: prima si interviene, minore è il danno residuo (20). Da un punto di vista farmacologico la riperfusione

(30)

27 coronarica può essere perseguita con la fibrinolisi sistemica (37). I farmaci fibrinolitici utilizzati nella SCA agiscono principalmente sul plasminogeno legato alla fibrina. I farmaci utilizzati prevalentemente al momento attuale sono rappresentati dalla Streptokinasi, dall’Alteplase (attivatore tissutale ricombinante del plasminogeno (tPA), dal Reteplase (variante ricombinante del tPA) e dal Tenecteplase (38,39). La fibrinolisi rappresenta l’alternativa principale all’angioplastica primaria non eseguibile entro 90 minuti dagli esordi della sintomatologia e comunque preferibilmente entro 3 ore dall’insorgenza dei sintomi.

L’angioplastica primaria e cioè la ricanalizzazione mediante procedura interventistica della coronaria responsabile della SCA è in assoluto il trattamento di prima scelta, quando possibile e cioè quando ci troviamo in una struttura dotata di una sala di emodinamica e di personale in grado di eseguire la procedura di rivascolarizzazione entro i 90’ dall’esordio dei sintomi. La PTCA primaria, infatti è superiore alla fibrinolisi nel ridurre il re-infarto, la mortalità precoce e l’ischemia miocardica ricorrente. Questi risultati positivi sono legati alle maggiori probabilità di ripristinare un flusso coronarico efficace nella coronaria ostruita e nel prevenire una sua ri-occlusione precoce (20).

L’angioplastica percutanea si esegue utilizzando dei cateteri inseriti attraverso l’arteria radiale o femorale che presentano alle estremità un palloncino che può essere gonfiato ad una pressione che va da 5 a 20 atm. Una volta giunto all’altezza dell’ostruzione il palloncino viene gonfiato così da schiacciare e rompere il trombo e la placca aterosclerotica sottostante (figura 9). In questo modo il flusso coronarico può riprendere normalmente. Anche questo tipo di trattamento ha comunque delle complicanze tra cui le più comuni sono dovute ad una ri-occlusione del vaso poche ore dopo l’intervento, ma anche la nuova formazione del

(31)

28 restringimento vasale dopo pochi mesi a causa di una cicatrizzazione eccessiva nel tratto sottoposto ad intervento.

Figura 9. Rappresentazione dell’angioplastica.

Nel corso degli anni però l’utilizzo degli stent coronarici ha contribuito ad un innalzamento delle percentuali di successo di queste procedure che dall’80 - 85% adesso rasentano il 100%.

Gli stent sono endoprotesi in metallo, simili ad una rete cilindrica, della lunghezza di 10 - 20 mm e con un diametro che va da 3 a 6 mm una volta espansi.

(32)

29 La principale funzione dello stent è quella di sostegno e quindi di rinforzo della parete dopo che è stata dilatata con l’utilizzo del palloncino, in modo da ridurre il rischio di collasso del vaso (figura 10).

L’accuratezza dell’impianto è fondamentale per far aderire lo stent in maniera regolare a tutta la circonferenza così da evitare un’occlusione dello stent stesso. Da alcuni studi è emerso che l’uso di stents riduce anche il rischio di ristenosi, per questo motivo l’uso di queste endoprotesi è cresciuto molto in confronto all’angioplastica con il solo palloncino (40). Il crescente uso di stent ha portato ad un ulteriore perfezionamento del dispositivo che ad oggi esiste di 3 tipologie:

• Stent tradizionale (BMS: bare metal stent). • Stent medicato (DES: drug eluting stent).

• Stent riassorbibile (BVS: bioadsorbable vascular stent).

Stent tradizionale

Il BMS è lo stent classico, utilizzato da oltre 25 anni. Uno dei suoi principali vantaggi è il rapido rivestimento dello stent da parte dell’endotelio, in questo modo la rete metallica non rimane esposta a lungo ed è possibile interrompere la doppia terapia antiaggregante piastrinica più precocemente. Questo aspetto è molto importante nei pazienti che devono affrontare un intervento chirurgico per i quali la mancata sospensione della terapia antiaggregante può incrementare il rischio di emorragie durante l’intervento. Lo svantaggio dei BMS è da ricercarsi nella restenosi, un processo che porta alla formazione di una nuova placca aterosclerotica con restringimento del lume. Il progresso tecnologico ha portato a nuove forme

(33)

30 delle reti metalliche consentendo un tasso di restenosi del 15% rispetto al 30 - 45% dei primi stent. Tuttavia, problemi legati all’iperplasia neointimale ha spinto verso lo sviluppo dei cosiddetti stent medicati (41).

Stent medicato (DES)

Il DES ha una forma uguale al BMS, sulla rete metallica però è presente una matrice contente un farmaco che contrasta una successiva restenosi. I primi stent medicati rilasciavano Rapamicina, un citostatico o Paclitaxel, un farmaco derivato dal taxolo con proprietà antimitotiche. Successivamente, sono stati utilizzati stent a base di Zotarolimus e di Everolimus, che hanno portato ad una minore incidenza di restenosi. Questi stent di ultima generazione sono costituiti da polimeri biocompatibili che permettono di ridurre non solo la percentuale di restenosi ma anche il rischio di trombosi tardiva (42,44).

Stent riassorbibile

È di recente sviluppo lo stent riassorbibile, uno stent medicato in cui la matrice di farmaco non è più inserita su una maglia metallica, ma su una di tipo polimerico PLLA (derivato dall’acido polilattico) con la caratteristica di essere biodegradabile e di riassorbirsi nell’arco di alcuni mesi. Questa caratteristica permette al vaso in cui vengono applicati di rimodellarsi sullo scheletro dello stent che si dissolverà; questo dovrebbe minimizzare il rischio di restenosi, caratteristico dei BMS e il rischio di trombosi tardiva dei DES (41,45).

(34)

31

(35)

32

La problematica della terapia

antiaggregante dopo PTCA nei

pazienti sotto NOAC.

Le linee guida della ESC per l’intervento coronarico percutaneo suggeriscono che i pazienti sottoposti a procedure elettive devono ricevere una combinazione di Aspirina e Clopidogrel (duplice terapia antiaggregante) per 4 settimane dopo il posizionamento di uno stent BMS, la terapia con Aspirina continua quindi per tutta la vita. Per i pazienti trattati con stent DES, la raccomandazione è che l’Aspirina e il Clopidogrel vengano somministrati per 6 - 12 mesi, a causa del rischio di trombosi tardiva caratteristico da questo tipo di stent (46).

Il trattamento per i pazienti che presentano una SCA con sopraslivellamento del tratto ST è di 9 - 12 mesi come terapia di mantenimento post-stenting. La stessa raccomandazione è per i pazienti senza sopraslivellamento del tratto ST (47,48).

Una eventualità clinica da non sottostimare è rappresentata dall’insorgenza di un evento coronarico acuto in un paziente in FA cronica sotto trattamento con anticoagulanti orali. In questi soggetti fino ad ora è stata consigliata la triplice terapia costituita da un anticoagulante che non può essere interrotta per il rischio di ictus ischemico e da due diversi antiaggreganti (28).

L’aggiunta di agenti antiaggreganti agli anticoagulanti orali aumenta il rischio di emorragie. La problematica della triplice terapia risiede nel bilanciare il rischio tromboembolico rispetto al rischio emorragico, evidentemente più elevato.

(36)

33 La messa a punto dei NOAC ha permesso negli ultimi anni una rivalutazione importante della problematica legata all’associazione della doppia antiaggregazione con gli anticoagulanti orali.

Sono vari i trials clinici in cui sono presi in considerazione i diversi NOAC somministrati contemporaneamente agli antiaggreganti dopo una SCA in pazienti in FA.

(37)

34

Trials attualmente conclusi sulla terapia antitrombotica nei pazienti con fibrillazione atriale e sindrome coronarica acuta.

Negli ultimi 3 anni sono stati pubblicati due studi su ampie popolazioni di pazienti con fibrillazione atriale cronica sotto trattamento con NOAC ricoverati per sindrome coronarica acuta. Rispettivamente i farmaci studiati sono stati:

• Rivaroxaban (studio PIONEER AF PCI). • Dabigatran (studio RE-DUAL PCI).

PIONEER AF PCI

Lo studio PIONEER è stato il primo randomizzato controllato a fornire risultati di un approccio basato su AVK rispetto alle strategie basate sui NOAC per valutare il rischio relativo di complicanze emorragiche in pazienti con FA dopo PTCA con posizionamento di stent. Lo studio ha confrontato la sicurezza di tre strategie di trattamento.

• Rivaroxaban 15 mg una volta al giorno più un inibitore P2Y12 (Clopidogrel).

• Rivaroxaban 2.5 mg due volte al giorno più una doppia terapia antitrombotica con ASA e Clopidogrel per 1, 6 o 12 mesi. A coloro che hanno ricevuto il trattamento per 1 o 6 mesi è stato somministrato Rivaroxaban 15 mg una volta al giorno più Aspirina a basso dosaggio per il resto del periodo di 12 mesi.

(38)

35 • Triplice terapia con Warfarin e ASA e Clopidogrel per 1, 6 o 12

mesi. Chi ha ricevuto il trattamento per 1 o 6 mesi ha poi ricevuto AVK più una bassa dose di Aspirina per il resto del periodo di 12 mesi.

Ai soggetti con clearance della creatinina di 30 - 50 ml/min è stato somministrato Rivaroxaban 10 mg una volta al giorno.

Lo studio è stato svolto su una popolazione di 2124 pazienti con fibrillazione atriale sottoposti ad angioplastica coronarica con impianto di stent arruolati in 26 paesi, per una durata di 12 mesi (figura 11).

Di questi pazienti il 52% aveva una sindrome coronarica acuta, il resto erano pazienti con cardiopatia coronarica sottoposti a PTCA elettiva.

Il sanguinamento clinicamente significativo ha rappresentato l’end-point primario, in particolare il sanguinamento maggiore, minore o un sanguinamento che comunque richiedesse cure mediche (49,50).

(39)

36 RE-DUAL PCI

Lo studio RE-DUAL PCI ha confrontato la sicurezza di tre dosi di trattamento.

• Dabigatran 110 mg due volte al giorno e singolo antiaggregante piastrinico (Clopidogrel).

• Dabigatran 150 mg due volte al giorno più Clopidogrel.

• Triplice terapia convenzionale con Warfarin, Aspirina e Clopidogrel. I pazienti studiati provenivano da 42 diversi paesi per un totale di 2725 soggetti con fibrillazione atriale non valvolare sottoposti ad angioplastica coronarica con impianto di stent, per una durata media di follow-up di 14 mesi (figura 12). Il 50.5% dei pazienti è stato sottoposto a PTCA in seguito a SCA. L’end-point primario era rappresentato da sanguinamenti clinicamente rilevati (51).

(40)

37

Risultati dei due studi.

Entrambe le strategie basate su Rivaroxaban e Dabigatran hanno offerto risultati di sicurezza significativamente migliori rispetto alla triplice terapia.

Il rischio di emorragia clinicamente significativa, composito di sanguinamento maggiore o sanguinamento minore è stato ridotto del 37 - 41% per Rivaroxaban, mentre per Dabigatran il rischio di emorragia clinicamente rilevabile è stato del 28 - 48% mentre del 36 - 48% per il sanguinamento maggiore (52).

Il rischio di eventi cardiovascolari avversi, tra cui morte, infarto del miocardio o ictus, era simile tra i tre gruppi di trattamento ma entrambi i trials non sono stati eseguiti per mostrare differenze significative di eventi ischemici tra i gruppi.

In un’analisi post hoc, le strategie basate su Rivaroxaban hanno ridotto significativamente l’ospedalizzazione del 23 - 26% rispetto alla triplice terapia, inclusa la riduzione del 34 - 36% del ricovero ospedaliero a causa di sanguinamento.

Dalla figura 13 si nota che la percentuale di sanguinamenti con le combinazioni di Rivaroxaban dello studio PIONEER nei soggetti del gruppo 1 e 2, sono più basse di circa il 10%.

(41)

38

Figura 13. Grafico risultati studio PIONEER.

Nella figura 14 invece è evidente la maggior sicurezza della combinazione di Dabigatran con la duplice terapia. La percentuale di riduzione di eventi dell’end-point primario è del 11.5% nel gruppo di pazienti con doppia terapia e Dabigatran 110 mg, del 5.5% nel gruppo con doppia terapia da 150 mg di farmaco, rispetto alla triplice terapia tradizionale.

Figura 14. Grafico dei risultati dello studio RE-DUAL.

Cr it e ri di san g u in am en to TI M I ma g g io re o mi n o re ri c h ie d e in te rv e n to me d ic o ( %) Tempo (giorni) 30 25 20 15 10 5 0 0 30 60 90 180 270 360 26.7% 18.0% 16.8% Gruppo 2 (Rivaroxaban 2.5 mg BID più DAPT) Gruppo 1 (Rivaroxaban 15 mg OD più single antiplatelet)

Gruppo 3 (VKA più DAPT)

ARR 8.7% ARR 9.9% NNT= 12 NNT= 11

(42)

39

Trials ancora in corso.

Ci sono altri due studi che sono attualmente in corso utilizzando Apixaban (AUGUSTUS) o Edoxaban (ENTRUST).

AUGUSTUS

Il trial AGUSTUS prevede arruolamento di 4600 pazienti di 30 paesi con fibrillazione atriale sottoposti ad angioplastica coronarica con impianto di stent ad Apixaban 5 mg due volte al giorno e Clopidogrel o Warfarin e Clopidogrel per un periodo di 6 mesi (figura 15). In pazienti con un’età maggiore di 80 anni, un peso inferiore a 60 kg e creatinina maggiore di 1.5 mg/dl la dose di Apixaban somministrata è di 2.5 mg due volte al giorno. In entrambi i gruppi si somministra anche Aspirina o placebo in modo randomizzato.

Come per gli altri studi l’end-point primario è il sanguinamento maggiore o clinicamente rilevante fino a 6 mesi (53).

(43)

40 ENTRUST AF PCI

Si tratta di uno studio con 1500 pazienti con FA sottoposti a PTCA della durata di 12 mesi. Ai pazienti è somministrato in maniera randomizzata Edoxaban 60 mg una volta al giorno e Clopidogrel 75 mg una volta al giorno o Warfarin, Clopidogrel e Aspirina da 1 a 12 mesi (figura 16).

Per i soggetti con clearance della creatinina inferiore o uguale a 50 ml/min o peso inferiore a 60 kg, la dose di Edoxaban è ridotta a 30 mg una volta al giorno.

Anche in questo caso l’end-point primario è l’emorragia maggiore e minore ma clinicamente rilevante (54).

Figura 16. Schema dello studio ENTRUST.

Precedentemente è stato eseguito lo studio APPRAISE (Apixaban for Prevention of Acute Ischemic and Safety Events ), in cui è stato valutato Apixaban in 1715 pazienti con recente sindrome coronarica acuta con sopraslivellamento o senza sopraslivellamento del tratto ST.

(44)

41 I pazienti sono stati assegnati in modo casuale al trattamento per 6 mesi con placebo (n=611), oppure con Apixiban a diversi dosaggi (2.5 mg due volte al giorno, (n=317), 10 mg in unica somministrazione (n=318), 10 mg due volte al giorno (n=248), e 20 mg in mono-somministrazione (n=221).

La quasi totalità dei pazienti aveva assunto Aspirina mentre la somministrazione di Clopidogrel era a discrezione del medico curante. La fase 3 di APPRAISE 2 è stata interrotta su raccomandazione del Data Monitoring Committee a causa di un eccesso di sanguinamenti (55).

(45)

42

Conclusioni

Sulla base dei recenti studi le line guida ESC sulla terapia di associazione con NOAC e agenti antipiastrinici sono state aggiornate (46) contenendo indicazioni specifiche sulle terapie antiaggreganti e anticoagulanti combinate nei pazienti con fibrillazione atriale sottoposti a PTCA per NSTE. Tra le principali modifiche sono presenti le seguenti raccomandazioni:

• Quando si utilizza un NOAC in combinazione con Aspirina e/o Clopidogrel, deve essere presa in considerazione la più bassa dose approvata e testata in studi di fase III in pazienti con FA che sia efficace per la prevenzione dell’ictus

• Il Rivaroxaban 15 mg una volta al giorno in combinazione con un inibitore P2Y12 può essere usato al posto della dose da 20 mg.

• L’interruzione del trattamento antiaggregante nei pazienti trattati con terapia anticoagulante orale deve essere presa in considerazione a 12 mesi dalla procedura.

• La doppia terapia, antiaggregante singola e anticoagulante orale, deve essere considerata come un’alternativa alla triplice terapia in pazienti per i quali il rischio di sanguinamento è maggiore del rischio ischemico (figura 17).

(46)

43

Figura 17. Diagramma di flusso di trattamento dopo SCA.

Questa presa di posizione della Società Europea di Cardiologia e delle società nazionali ad essa associate riveste una particolare importanza clinica dal momento che la comorbidità FA e SCA non è infrequente e circa il 10% di pazienti può presentare FA in corso di SCA.

Un aspetto particolarmente innovativo è rappresentato dalla personalizzazione della terapia: se nel passato esistevano schemi definiti di trattamento, al momento attuale ed in particolare per l’utilizzo dei punteggi di rischio TE e di sanguinamento (CHA2DS2VASc e HAS-BLED)

(47)

44 l’avvento dei NOAC ha permesso una maggiore flessibilità nel trattamento combinato antiaggregante/anticoagulante con la finalità di ridurre al massimo il rischio TE e contemporaneamente il rischio emorragico, che rappresenta la conseguenza più drammatica della terapia combinata (56). In una recentissima review è stato infatti sottolineato come i risultati degli studi completati sui NOAC in SCA e FA non valvolare possano permettere di concludere come nella maggior parte dei pazienti una duplice terapia con Clopidogrel e NOAC sia sufficiente a ridurre significativamente il rischio di TE senza le gravi complicanze di sanguinamenti maggiori (57). Sulla base di questi risultati, possiamo prevedere che a breve gli AVK nei pazienti con FA e SCA sottoposti a riperfusione mediante PTCA non rappresenteranno più il trattamento di prima scelta, a favore dei NOAC.

(48)

45

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