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La poesia contesa. Il dibattito critico sulla canzone d'autore e cinque esempi genovesi (1960 - 1975)

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Introduzione

Poesia e canzone d’autore tra specificità e«fantasie

d’avvicinamento»

Da trent’anni di dibattito storico-critico la canzone emerge come un oggetto di studio privilegiato e peculiare, in quanto risultante di componenti numerose e profondamente diverse fra loro: il linguaggio musicale e quello verbale, la performance e le tecniche esecutive, il contesto di produzione, distribuzione e fruizione.1

Proprio per via della sua complessità, tuttavia, essa si configura come un oggetto di studio “a rischio”: da una parte, potrebbe considerarsi il subiectum di una disciplina sospesa in una “terra di nessuno”, in bilico tra teoria letteraria, metricologia, musicologia, scienza della comunicazione, sociologia e analisi dei bilanci delle case discografiche; dall’altra, senza l’individuazione di nuovi e specifici strumenti di lavoro, l’unità artistica e semiotica che le è propria potrebbe doversi sacrificare irrevocabilmente alla frammentazione dei campi d’interesse e delle competenze degli studiosi.2

Ciò che spinge chi si occupa di poesia a studiare la canzone è naturalmente la parola, l’elemento comune a poesia e canzone, che le affratella «stimolando ben più d’una legittima fantasia di avvicinamento».3

La parola incontra la musica e si fa insieme suono e voce: così nasce la canzone, ossia un prodotto artistico complesso, ovvero «un'unità narrativa e

1 Nel contesto di produzione, distribuzione e fruizione delle canzoni rientrano fattori

determinanti ed eterogenei quali la poetica dell’artista, la linea editoriale della casa discografica, il target di destinazione e la specificità del veicolo mediale.

2 La problematicità della metodologia di studio del nostro oggetto è da esso condivisa con tutte le

arti riprodotte ed elettroniche, giocate cioè – come la canzone – fra arte, sociologia, industria e tecnologia.

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metrica inscindibile»4 e non riducibile alla somma di parole e musica, legata com’è – per statuto ontologico – all’atto performativo, che salda inscindibilmente la parola alla melodia in una nuova unità semiotica.

Roberto Vecchioni spiega, riprendendo la terminologia saussuriana, che «nella canzone d’autore i “significanti” sono almeno tre»:5

il suono, la parola e la voce che emette l’atto comunicativo.

Nella medesima direzione portano le osservazioni di Stefano La Via, che articola sui tre livelli musicale, poetico e poetico-musicale (ossia performativo) – perfettamente corrispondenti, nonostante la differente terminologia, a quelli appena visti – il significante della canzone (e non solo della canzone d’autore), pensato invece come unico e complesso.6

Qual è, dunque, il ruolo delle parole in una canzone? O meglio, citando Simon Frith, «why do songs have words»?7

La questione è affrontata negli studi di popular music8 che superano l’approccio esclusivamente tematico ai lyrics e si preoccupano soprattutto di cogliere la fenomenologia e il funzionamento dell’interazione tra musica e parole.

Questo è il dichiarato intento di Richard Middleton, per il quale le parole sono, in primo luogo, una componente dal grande valore denotativo, uno strumento espressivo che serve a chiarificare o semplificare i significati della musica.9

E’ quindi abbastanza frequente che i significati originari delle parole si prestino a essere «trascesi o modificati, specialmente quando si impongono

4 V

ECCHIONI 2000 in

http://www.treccani.it/enciclopedia/la-canzone-d-autore-in-italia_(Enciclopedia_Italiana).

5

VECCHIONI 1996 in COVERI (a c.di)1996, p. 10.

6 Fondamentale per questo lavoro e per il dibattito critico degli ultimi anni L

A VIA 2006.

7

S. Frith intitola così un capitolo del volume Music for pleasure: Essays on the sociology of pop, Cambridge University press, 1988.

8 F

RANCO FABBRI chiarisce che l’espressione popular music indica «la musica di larga diffusione che circola attraverso media come il disco, la radio, la televisione», e non la musica popolare o di tradizione orale (folk music, traditional music, ...); insistendo, inoltre, sull’ambiguità dell’aggettivo «popolare», ribadisce l’opportunità di continuare a parlare di popular music anche in Italia, al fine di evitare difficoltà di individuazione del campo e degli oggetti di studio. Cfr. FABBRI 2002, pp. 11-12.

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convenzioni musicali particolarmente forti o quando gli effetti verbali sono trasformati dal trattamento delle parole», come osservava Dave Laing in un saggio del 1969.10

Infatti non si devono sottovalutare, da una parte, il “trattamento musicale” delle parole – ossia il modo in cui la musica le assorbe o le riplasma, e i significati che risultano da tali interazioni – e, dall’altra, il loro statuto di «segni di una voce, veicoli per la voce».11

Middleton conclude che le parole sono prima di tutto suono prodotto dallo “strumento” vocale; sono, poi, racconto che procede rispettando o influenzando la costruzione ritmica e armonica del livello musicale; sono, infine, veicolo di una comunicazione paralinguistica, e dunque portatrici di un valore o di un’urgenza performativa, che tende ad adattarsi alla melodia. Le parole delle canzoni sono, cioè, contemporaneamente «gesto», «storia» ed espressione («affezione»).12

Se i musicologi insistono sul valore strutturale “strumentale” dei lyrics, un’ampia fetta del pubblico ne riconosce invece, prima di tutto, il valore poetico.

Quando Guido Mazzoni prospetta, nel fondamentale saggio Sulla poesia moderna, l’avvento di un «nuovo canone umanistico»,13 in cui la canzone provveda da sola a soddisfare l’inestinguibile bisogno umano di poesia, non fa che lanciare una provocazione, partendo però dalla solidità di un preciso dato sociologico:14 il consumo (enorme) di canzoni – e della loro poeticità semplice e immediata, oltre che capillarmente diffusa dai media – è inversamente proporzionale alla frequentazione della poesia, sempre più spesso avvertita dal pubblico (e qualche volta, ammonisce Umberto Fiori, anche pensata dai poeti) come un esercizio intellettuale impegnativo, elitario, “sofisticato”.

10

LAING 1969, cit. in ivi, p. 311.

11 F

RITH 1983, cit. inMIDDLETON 1994, p. 311.

12

MIDDLETON 1994, p. 315, fig. 6.13.

13

MAZZONI 2005, p. 229.

14 Cfr. M

AZZONI 2005, pp. 221-233. Francesco Stella osserva giustamente che le «dure» parole di Mazzoni non mettono in discussione il valore e la «dignità letteraria» della poesia, ma ne denunciano semmai la perdita di «rappresentatività sociale, di mandato sociale», e prospettano una distinzione delle specifiche funzioni di poesia e canzone (Cfr. STELLA 2009, p. 298).

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Come dimostrano le considerazioni di Mazzoni, la pratica di “consumo poetico” della popular music ha finito per coinvolgere negli studi accademici sulla canzone anche i critici letterari e i teorici della letteratura.15

Il loro intervento è stato senza dubbio incoraggiato anche dall’attuale riflessione sulla poesia, che insiste in particolare sulla «perdita del mandato sociale del poeta»,16 sul recupero dell’oralità e sulla fortuna sempre maggiore dei readings.

A partire da tali problematiche e dal riconoscimento dell’indiscutibile valenza sociologica della popular music, il dibattito critico è arrivato a riflettere sullo statuto “letterario” della canzone: i testi delle canzoni sono o no testi poetici?

La questione, divenuta ben presto vexata, richiede evidentemente un’indagine specifica e lucida, pronta a rimettere al centro l’oggetto di studio nella sua specificità: bisogna vincere la tentazione di studiare la canzone in funzione della poesia pura, ovvero di postulare un rapporto ancillare e/o sostitutivo – in ogni caso condizionante ai fini degli studi – tra tipi di testualità che, pur condividendo alcuni strumenti tecnici, risultano in definitiva molto diversi.

La difficoltà nel mettere bene a fuoco il discrimine tra testi di canzoni e poesia cresce ulteriormente quando si limitino le ricerche alle poetiche individuali e ai generi della popular music che programmaticamente valorizzano il testo verbale.

15

Secondo le ricostruzioni di Francesco Stella, è in seguito alle reazioni suscitate dall’uscita, nel 1964, del volume di Umberto Eco Apocalittici e integrati (cfr. ECO 1965,e in particolare pp.

277-296, in cui è esplicito il riferimento a Le canzoni della cattiva coscienza, altro lavoro fondamentale, pubblicato anch’esso nel 1964) che la canzone comincia a divenire oggetto di studi accademici: in ambito letterario, a fiorire per primi, intorno alla metà degli anni Settanta, sono gli studi linguistici (cfr. infra, p. 27, n. 54), a cui hanno fatto seguito solo negli ultimi dieci anni adeguati studi metricologici (cfr. infra, pp. 24-30) e riflessioni teoriche. In quest’ultimo ambito è stato decisivo il ruolo svolto dalla rivista di poesia comparata «Semicerchio» (cfr. infra, p. 13, n. 8) e dal citato MAZZONI 2005. Per una bibliografia ricca e aggiornata, che include anche i principali lavori di ambito musicologico e di storiografia della canzone, cfr. STELLA 2011, pp. 9-10 e 20.

16

«Ispirandosi al lessico della politica, Benjamin battezzò mandato sociale la delega che il pubblico concede all’artista perché questi produca opere sottratte al ciclo della necessità economica e dotate di un valore simbolico» (MAZZONI 2005, p. 221).

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Rientra certamente in quest’ambito la “canzone d’autore”, l’innovativo oggetto artistico e culturale – vero e proprio prodotto industriale, pensato per la distribuzione di massa – forgiato dai “cantautori”17 a partire dai primissimi anni Sessanta.

Già gli anni Cinquanta – il primo momento di significativa apertura alle produzioni e ai modelli esteri, ovvero di «risveglio» dopo gli anni della stagnazione e della guerra – avevano offerto numerosi stimoli di rinnovamento alla musica (e all’intera cultura) italiana, come dimostrano i fatti, molto diversi fra loro ma ugualmente decisivi per il futuro del nostro mercato discografico, che si concentrano nel 1958.

La canzone “sanremese”, tipicamente costruita sulla melodia e sul virtuosismo del canto melodico,18 conosce infatti proprio quell’anno, con il trionfo di Nel blu dipinto di blu di Domenico Modugno, un momento di svolta: il vincitore dell’ottavo Festival della canzone italiana canta, su musica di suo pugno, un testo dai contenuti onirici e “surrealisti” (scritto per lui da Franco Migliacci), per di più dando alla performance un’impostazione teatrale altrettanto innovativa. Il 1958 è un anno di grande fermento anche per il gruppo di musicisti e poeti, tra i quali Liberovici, Amodei, Jona, Calvino e Fortini (solo per citarne alcuni), che solo l’anno prima avevano dato inizio al cruciale esperimento dei Cantacronache torinesi, destinato a protrarsi fino al 1963 e guidato dal bisogno di «evadere dall’evasione»19

, ossia di reagire – dall’esterno della tradizione

17 Secondo le ricostruzioni delle «fasi della diffusione del neologismo» proposte in T

OMATIS 2010, il termine “cantautore” viene introdotto, con l’attuale accezione, tra l’estate e l’autunno del 1960, subentrando ai sinonimi “cantante-compositore”, “autore-interprete” e “autore-cantante”, tuttavia ancora in uso nel 1961. Gli studiosi sono ormai pressoché unanimi nel riconoscere che l’introduzione del neologismo è dovuta a una precisa strategia di mercato messa in atto dall’industria discografica; tra gli altri, è di questo avviso Marco Santoro (cfr. SANTORO 2002, spec. p. 113).

18

Queste scelte stilistiche musicali e performative fanno della canzone sanremese una continuazione del filone melodico-sentimentale “tradizionale”; i suoi più rappresentativi esponenti sono Nilla Pizzi, Claudio Villa, Luciano Tajoli.

19

Nel “manifesto” dei Cantacronache Emilio Jona scrive: «Non ci siamo mai occupati prima d’ora di musica così detta leggera [...]; abbiamo collettivamente maturato la volontà di intervenire in questo campo in cui, in Italia, più appariscente e grossolana è l’apologia dell’evasione. In questo clima sono nate le nostre canzoni; e lo spirito di rottura, la polemica, la implicita dichiarazione di guerra a quel mondo estraneo ed evasivo, sono naturalmente uno dei loro aspetti più appariscenti, se non il più tipico.» (cit. in JONA 1996,p.97).

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6

festivaliera – allo stereotipo di canzone orientata alla “facilità” formale e tematica e di sicuro successo commerciale.

Sebbene non adeguatamente sancito da successo di pubblico, con l’andare del tempo il contributo apportato all’evoluzione della canzone dai Cantacronache si rivela decisivo su più fronti.20 Infatti, è nella loro produzione che si rintracciano per la prima volta alcune delle caratteristiche della scrittura e della “voce” artistica dei nostri cantautori: l’attitudine alle rappresentazioni critiche e la «sollecitazione alla produzione del senso»,21 la semplicità degli arrangiamenti, la rinuncia alla tradizionale impostazione della voce performante a vantaggio della sincerità della comunicazione. La loro rivendicazione del pensiero “impegnato” (non solo politicamente), unita all’urgenza artistica di tentare strade espressive meno tradizionali, ha inoltre i meriti di aver aperto il dibattito critico italiano intorno alla canzone e di aver coinvolto nella produzione musicale anche intellettuali di primo ordine22 quali, come si diceva, Calvino e Fortini.23

Ancora alla fine del decennio, inoltre, si affermano «alcuni astri della canzone francese e altri stranieri di passaggio»24, divulgati anche a mezzo televisivo già tra il 1955 e il 1956, e gli urlatori.25

E’ dunque nel clima effervescente di questi anni, e grazie anche al contributo di alcune di queste esperienze, che “nascono” i cantautori, i quali

20

Il valore storico decisivo dei Cantacronache è rivendicato dalle pagine citate di Emilio JONA e sottolineato con chiarezza anche in BORGNA 1992, pp. 259 ss.

21 G

IOVANNETTI 1996, p. 730.

22

Quella dei Cantacronache è l’unica esperienza organica e programmatica in grado di smentire quanto sostiene, in un’intervista degli anni Settanta (pubblicata in BORGNA –DESSÌ 1977, pp. 118-132), Gino Paoli, che lamenta – in un confronto con l’ambiente e l’esperienza degli chansonniers francesi – il mancato apporto dei nostri intellettuali alla canzone, riconoscendo inoltre nel solo Pasolini l’apertura mentale e la vastità di interessi necessari per osare un simile esperimento (cfr.

ivi, p. 125).

23

A Italo Calvino si devono i testi di Dove vola l’avvoltoio? (1958), Canzone triste (1958), Oltre il

ponte (1959) e Il padrone del mondo (1959), tutti musicati da Sergio Liberovici; sono invece di

Fortini i testi di Fratelli d’Italia, tiriamo a campare (musica di Sergio Liberovici), Quella cosa in

Lombardia (composta insieme al musicista Fiorenzo Carpi) e Canzone del bel tempo.

24

ECO 1965, p. 341 cit. in SANTORO 2010, p. 55, n. 28. Il passo citato si riferisce agli chansonniers francesi che tanta parte avranno nell’esperienza del cantautorato nostrano; negli stessi anni, però, arrivano anche il rock and roll e i songwiters americani, mentre la British invasion si data ai primi anni Sessanta.

25 Così vengono definiti i cantanti che, a partire dagli ultimi anni Cinquanta, abbandonano

l’impostazione vocale allora in voga in ambito discografico italiano per sfoggiare la potenza di un canto a voce spiegata e a volume alto. Tra gli urlatori Tony Dallara, Betty Curtis, Mina e Adriano Celentano.

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riescono a «rimodernizzare definitivamente la canzone, riportandola su elevati toni artistici e poetici».26

A garantire la loro riconoscibilità nel panorama musicale di fine decennio è il ricorso a «schemi, moduli, strutture – come la ballata, il recitar cantando, il rock o il rhythm and blues – ricavati dai modelli francesi e americani, e in parte anche da modelli italiani folk»27, attraverso i quali affrontare temi “esistenzialisti”, quotidiani ma non banali ed anzi perfino provocatori (anche dal punto di vista politico); non meno riconoscibile è il loro modo di cantare, innovativo tanto rispetto alla tradizione quanto alle novità coeve: istintivo, “naif”, straordinariamente comunicativo non solo nel suo rifiuto di tecnicismi ma anche nelle sue imperfezioni.28

Ma è soprattutto il fatto che il cantautore sia al contempo autore e interprete dei propri brani a rappresentare la cifra maggiormente innovativa del fenomeno cantautorale, percepita dal pubblico come un’inedita garanzia di sincerità e di autenticità: l’essenza del cantautorato è l’originalità della voce d’autore, ossia l’autorialità.29

«Canzone d’autore» è, quindi, anche la definizione, giocata tra serialità e unicità e perciò evidentemente ambigua,30 con cui si indica un genere musicale

26

R.GALANTI, Piccola storia della canzone italiana, in «Musica e Dischi», XXIV, 218, cit. in SANTORO

2010, p. 41.

27 S

ANTORO 2010, p. 43.

28 Cfr. analisi infra. 29

Una parte della critica, richiamando le teorie esposte da Adorno nel saggio On popular music (in ADORNO 2009, pp. 280-290), insiste sulla necessità di smascherare l’“unicità” della voce autoriale, in verità frutto dell’illusorio e contraddittorio meccanismo costitutivo della popular

music. Secondo il filosofo, nonostante che la musica rientri certamente nell’ambito dei prodotti di

lusso, il cui consumo è cioè legato più al «gusto e alla libera scelta» dell’ascoltatore che al soddisfacimento di un bisogno primario, «the whole structure of popular music is standardized, even where the attempt is made to circumvent standardization» (ivi, p. 281): il consumatore è quindi privato dell’effettiva possibilità di scegliere. Tale ineliminabile contraddizione viene aggirata attraverso la dissimulazione della standardizzazione nel suo necessario «corrispettivo», la pseudo-individualizzazione: «By pseudo-individualization we mean endowing cultural mass production with the halo of free choice or open market on the basis of standardization itself» (ivi, p. 288). L’individualità autoriale sarebbe dunque, in primissima istanza, l’esito di precise strategie di pseudo-individualizzazione.

30

Come osserva Vecchioni, «un termine dovrebbe per sua natura circoscrivere e quindi segnare dei limiti: qui invece i confini restano aleatori e indefiniti» (cfr. VECCHIONI 1996, p. 11). La sua «perplessità» è condivisa da Tomatis, che – introducendo la citazione appena riportata – provocatoriamente si chiede: «Può esistere una canzone che non sia d’autore?» (TOMATIS 2010, p. 4).

(8)

8

problematico, il cui “paradosso” «lies in [the] claim to conflate the idea of the author with the function of a genre».31

La legittimazione culturale del cantautorato, tra gli anni Settanta e Ottanta, è conseguenza della legittimazione culturale del cantautore, che affonda le sue radici sociologiche, come bene rileva Marco Santoro, in quel «trauma collettivo» rappresentato dal suicidio (in difesa della propria voce d’autore) di Luigi Tenco, durante il Festival di Sanremo del 1967. Al nome di Tenco è legato anche l’altro decisivo fattore di riconoscimento del valore intellettuale e artistico della canzone d’autore: il lavoro svolto dal Club Tenco, un’associazione costituita nel 1972 allo scopo di «valorizzare la canzone d’autore, ricercando, anche nella musica leggera, dignità artistica e poetico realismo».32

Ciò che permette di riconoscere, con Mollica e Sacchi, «dignità artistica e poetico realismo» nei prodotti nati dalla “rivoluzione” dei cantautori33 è il programmatico e decisivo sbilanciamento dell’equilibrio strutturale della canzone in favore delle parole: per i nostri cantautori, come per i Cantacronache e gli chansonniers francesi, «words became central and songs aspired to literary dignity».34

Per questo, molti degli autori-cantanti sono avidi e sistematici frequentatori della letteratura, che non solo offre spunti e suggestioni per la finzione artistica, ma diviene anche – essa stessa – oggetto di traduzioni, rielaborazioni, terreno di contaminazione di poetiche e di voci d’autore.

Anche in ragione di questa densità letteraria, la canzone d’autore è stata considerata

31 S

ANTORO 2002, p. 127. Per il dibattito teorico riguardante il riconoscimento del cantautorato

come genere musicale, si rimanda a TOMATIS 2010 (cfr. part. p. 5). E’ invece di Marco Santoro la definizione della canzone d’autore come «oggetto culturale paradossale» (SANTORO 2002, p. 112): «what the discourse of the canzone d’autore produces is precisely the articulation between individuality and genre, with the question of authenticity working as a bridge between the two and a fence around their coupling» (ivi, p. 126).

32 M

OLLICA –SACCHI (a c. di), Noi, i cantautori. Club Tenco e dintorni, Roma, Lato Side, 1982, p. 9, cit. in SANTORO 2010, p. 143.

33

La “rivoluzione dei cantautori” è stata tuttavia ridimensionata da Umberto Eco e dal critico Daniele Ionio, che hanno sottolineato che anche i prodotti artistici del cantautorato sono stati pensati e confezionati nel rispetto di dettami ed esigenze del mercato discografico. Cfr. SANTORO

2010, p. 47 e p. 59, n. 45.

34

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9 ora come un genere che ha le sue principali radici nell’ambito della cultura di massa e si rivolge a un pubblico che ha bisogno di essere coinvolto non solo dalla suggestione della parola ma anche da un complesso contesto performativo; ora come una forma di poesia orale postmoderna, legata a modalità comunicative immediate, che contamina l’universo della parola scritta e si confonde in parte con gli esperimenti di poesia orale accompagnata dalla musica.35

A partire da queste premesse teoriche, e in particolare dagli aggiornamenti del dibattito rappresentati dal lavoro uscito per le cure di Lorenzo Coveri36 e dal convegno organizzato a Siena dal Centro studi Fabrizio De André nell’ottobre 2007,37 questo lavoro si propone di riflettere principalmente sugli aspetti formali della poesia pura che la canzone d’autore, cioè il genere della nostra popular music che con essa ha maggiore continuità, sviluppa come specificità.

Attraverso l’analisi di alcuni tra i più significativi brani dei cantautori “genovesi”38

, si avrà modo di tornare su alcuni problemi sollevati dal dibattito teorico e di procedere a un’osservazione e a una raccolta di dati che permetterà, se non di dare delle risposte, almeno di riformulare alcuni interrogativi.

Il campo d’indagine è qui limitato alla produzione di Luigi Tenco, Gino Paoli e Fabrizio De André: è con la loro collaborazione con la Ricordi di Milano, per la realizzazione della quale risulta decisivo il tramite di Gianfranco Reverberi, che la canzone d’autore nasce come prodotto industriale, coerente con la linea

35 Così,aprendo il convegno deandreiano del 2007, riassume le tesi di Umberto Fiori e Paolo

Giovannetti (GUASTELLA 2009, p. 7); la sua ricostruzione dello stato attuale del dibattito intorno

alla canzone d’autore individua nel rapporto fra literacy, oralità, performance e canzone il punto di maggiore interesse.

36

COVERI (a c. di), 1996.

37

Si tratta del convegno Poesia e canzone d’autore in Italia. Evoluzioni contemporanee e fantasie

d’avvicinamento, i cui atti sono stati raccolti e pubblicati in CENTRO STUDI FABRIZIO DE ANDRÉ (a c. di) 2009.

38

La definizione di “genovesi” è, come si vedrà, un’etichetta comoda per indicare i molti futuri protagonisti della musica italiana – Bindi, Lauzi, Tenco, Paoli, i fratelli Reverberi e, più tardi, Fabrizio De André – che si incontrarono negli anni Cinquanta a Genova (dove alcuni di loro si trovavano per ragioni contingenti) e che si dedicarono alla musica collaborando e influenzandosi a vicenda, e rendendo la vita culturale genovese tra le più ricche e feconde dell’Italia dell’epoca.

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10

editoriale di svecchiamento della discografia italiana voluta da Nanni Ricordi, «l’uomo che inventò i cantautori».39

Fu costui, infatti, il primo a cercare al di fuori dell’ambiente discografico milanese «qualcuno che aveva qualcosa da dire, usando la canzone»,40 e a incoraggiare prodotti simili a quelli dei songwriters americani e degli chansonniers d’Oltralpe.41

39

C.RICORDI intitola così il libro-tributo al discografico pubblicato nel 2010 dalla casa editrice milanese Excelsior 1881.

40

N.RICORDI, 1958-1960: appunti per una sottostoria della canzone, in BORGNA –DESSÌ 1977, pp. 148-151 (cit. anche in SANTORO 2010, p. 83).

41 E’ opinione molto diffusa tra i nostri studiosi e storiografi della canzone che il ritardo italiano

rispetto alle coeve esperienze musicali in Europa e in America (dove Woodie Guthrie era attivo già dagli anni Trenta) sia stato causato principalmente dall’esperienza del regime fascista, che aveva relegato la canzone (come esperienza e prodotto artistico) alla sola funzione di intrattenimento leggero, alla sola “evasione”. P.DIVIZIA aggiunge come concausa l’osservazione che il boom economico non sia riuscito a innescare, in Italia, un adeguato svecchiamento dei costumi e della mentalità (cfr. DIVIZIA 2012, pp. 15-22).

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