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Esperienza preliminare con 18F-Florbetapir nella valutazione PET/TC del paziente con deficit cognitivo

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Academic year: 2021

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Indice

1 Introduzione 2

1.1 Epidemiologia . . . 2

1.2 Storia della Malattia . . . 3

1.3 AD vs Normale invecchiamento cerebrale . . . 3

1.4 Presentazione dell’AD . . . 4

1.4.1 La Malattia di Alzheimer fase iniziale . . . 4

1.4.2 La Malattia di Alzheimer in fase moderata . . . 4

1.4.3 La Malattia di Alzheimer in fase severa . . . 5

1.5 Eziologia . . . 5

1.5.1 Ipotesi genetica . . . 5

1.5.2 Ipotesi vascolare . . . 6

1.5.3 Ipotesi psicosociale . . . 9

1.5.4 Altre ipotesi eziologiche . . . 10

1.6 Patogenesi . . . 10

1.6.1 Ipotesi della cascata dell’amiloide . . . 11

1.6.2 Ipotesi della cascata mitocondriale . . . 13

1.6.3 Stress ossidativo . . . 13

1.6.4 Le vie del segnale dell’insulina . . . 14

1.6.5 Infiammazione . . . 14

1.7 Diagnosi . . . 16

2 Studio sperimentale 24 2.1 Scopo dello studio . . . 24

2.2 Materiali e metodi . . . 24

2.3 Risultati . . . 29

2.4 Casi Clinici . . . 32

2.5 Discussione . . . 37

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Capitolo 1

Introduzione

1.1 Epidemiologia

La malattia di Alzheimer rappresenta la causa più frequente di demenza nella po-polazione occidentale[1]. La prevalenza globale della demenza in tutto il mondo è stata stimata essere il 3.9% in persone con più di 60 anni con una incidenza regiona-le che va dall’1.6% in Africa al 6.4% in Nord America[2]. Più di 25 Milioni di persone nel mondo soffrono ad oggi di demenza, per la maggior parte si tratta di Malattia di Alzheimer (AD) con circa 5 milioni di nuovi casi all’anno[3]. La prevalenza specifi-ca per età della sindrome di Alzheimer raddoppia cirspecifi-ca ogni 5 anni dopo i 65 anni, in particolare nelle nazioni sviluppate più o meno una persona su 10 con più di 65 anni è affetta da un qualche grado di demenza, mentre più di un terzo delle perso-ne con più di 85 anni hanno segni o sintomi legati alla demenza[4, 5]. Per quanto riguarda la situazione nei paesi in via di sviluppo, una ricerca epidemiologica sulla demenza e l’AD ha stimato che la prevalenza della sindrome di Alzheimer in queste nazioni è il 3,4 %[6], fa eccezione la Cina nella quale la prevalenza della AD, in per-sone con più di 65 anni di età, raggiunge il 4.8% nelle aree urbane[7]. Questi valori sono comparabili con quelli delle nazioni occidentali. Simili valori di prevalenza sono stati segnalati nelle popolazioni urbane di nazioni Americane come L’Avana, Cuba, (6.4%) e San Paolo in Brasile (5.1%)[8]. Il rate di incidenza della AD aumen-ta quasi esponenzialmente all’aumenaumen-tare dell’età fino agli 85 anni. Tutaumen-tavia rimane incerto se l’incidenza continui ad aumentare o raggiunga un plateau ad una certa età. Questo dato è importante per capirne l’eziologia. Ad esempio un consistente aumento esponenziale con l’aumentare dell’età nella incidenza della AD suggeri-rebbe che la malattia sia una conseguenza inevitabile dell’invecchiamento, mentre una convergenza ad un valore in declino, ad una certa età, indicherebbe che persone molto anziane potrebbero avere una vulnerabilità ridotta dovuta ad esempio a fat-tori genetici o ambientali[9]. Quest’ultima conclusione sembrerebbe essere validata da uno studio del Cache County[10]; tuttavia alcune metanalisi e studi su larga scala in Europa non hanno evidenziato declino nell’incidenza della demenza nel gruppo di persone più anziane[11]. Sembrano esserci delle variazioni geografiche nella AD,

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in dati incrociati di 8 studi europei suggeriscono una dissociazione geografica attra-verso l’Europa, con rate di incidenza più alte tra le persone più anziane in paesi nord occidentali rispetto a paesi del sud[12].

1.2 Storia della Malattia

La malattia di Alzheimer fu scoperta nel 1906 da Alois Alzheimer, un neurologo e psichiatra tedesco[13]. La malattia fu osservata inizialmente in una donna 51 che chiamò Auguste D. La sua famiglia la portò a Dott. Alzheimer in 1901 dopo avere notato cambi nella sua personalità e nel suo comportamento. La famiglia riportò al medico di problemi mnemonici, di difficoltà nell’eloquio e di un danno nella com-prensione. Dott. Alzheimer descrisse più tardi Auguste come un paziente affetto da una forma aggressiva della demenza, manifestatasi con un deficit mnemonico-linguisico e comportamentale[14]. Il Dott. Alzheimer notò molti sintomi anormali, incluso la difficoltà con l’eloquio, l’agitazione e la confusione[15]. Egli seguì la pa-ziente per cinque anni, fino alla sua morte nel 1906. Subito dopo la morte il Dott. Alzheimer eseguì un’autopsia durante la quale mise in evidenza una marcata ridu-zione volumetrica della corteccia cerebrale, depositi ateromasici nei vasi sanguigni e cellule cerebrali atrofizzate[13]. Scoprì inoltre la presenza di grovigli neurofibrillari e di placche senili, in seguito ritenuti patognomonici dell’AD[14]. Questa condizione morbosa fu discussa per la prima volta in letteratura medica nel 1907 e fu battezzata Malattia di Alzheimer nel 1910.

1.3 AD vs Normale invecchiamento cerebrale

L’AD spesso è confusa con il normale invecchiamento cerebrale, ma una severa per-dita di memoria, caratteristica dell’AD, non è un sintomo del normale invecchia-mento. L’invecchiamento sano può comportare la perdita graduale di capelli, peso, altezza e massa di muscolo. La pelle può divenire più fragile e la densità di osso può essere ridotta, si può notare un calo nell’udito e nella vista, così come una riduzione nel metabolismo. Nell’anzianità vi è comune una moderata perdita della memoria, così come un più rallentato richiamo d’informazioni, ma un deterioramento cogni-tivo che ha un impatto sulla vita quotidiana non è una parte normale del processo di invecchiamento[16]. La demenza è definita come la perdita delle abilità cognitive così severa da interferire con le funzioni sociali[17] e può essere il risultato di va-rie malattie che provocano danni alle cellule cerebrali. Ci sono molti tipi diversi di demenze, ognuno con causa e sintomatologia propria. Per esempio, la demenza va-scolare è determinata dal ridotto afflusso di sangue in una parte del cervello, come risultato di un ictus. La demenza può essere anche presente in pazienti con la ma-lattia di Parkinson e l’idrocefalo. L’AD è la forma più comune di demenza, causata dall’accumulo di placche di amiloide nell’encefalo[18].

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1.4 Presentazione dell’AD

L’AD può progredire gradualmente per decenni. Ci sono tre tappe principali della malattia, ognuna con proprie caratteristiche e sintomi. Identificando lo stato cor-rente della malattia, i medici possono predire i sintomi e pianificare i trattamenti più idonei da intraprendere. Ogni stadio di AD si presenta con un set unico di sintomi, variabili in gravità.

1.4.1 La Malattia di Alzheimer fase iniziale

In questo stadio, che di solito dura da 2 a 4 anni, è possibile effettuare una diagnosi della malattia. In questa fase, famiglia ed amici possono cominciare a comprendere che c’è stato un decremento nell’abilità cognitiva del paziente. Sintomi comuni in questo scenario sono[19]:

• La difficoltà a trattenere informazioni nuove;

• La difficoltà nella soluzione dei problemi o nella presa di decisione. I pazien-ti possono cominciare a trovare problemi nella gespazien-tione delle finanze o nelle altre attività di vita quotidiana;

• Il cambio di personalità. La persona può cominciare a ritirarsi socialmente o ad avere mancanza motivazionale;

• La difficoltà ad esprime pensieri;

• La difficoltà nel ritrovare gli oggetti una volta riposti o nell’orientarsi in luoghi abitualmente frequentati.

1.4.2 La Malattia di Alzheimer in fase moderata

Questa fase può durare dai 2 ai 10 anni ed è caratterizzata da un aumento del di-sturbo amnesico e da una graduale perdita di autonomia nelle attività quotidiane. I sintomi comunemente riportati durante questo periodo includono[19]:

• Il peggioramento nella facoltà di giudizio e la comparsa di uno stato confusio-nale. Il paziente può cominciare a confondere membri di famiglia, a perdere l’orientamento spazio-temporale e cominciare a vagare;

• La difficoltà ad effettuare compiti complessi, incluse molte delle attività di vita quotidiana, come dirigere le finanze, fare compere, progettare ed organizzare; • L’ incremento della perdita di memoria. I pazienti possono cominciare a

di-menticare dettagli della loro storia personale;

• Il cambiamento significativo di personalità. La persona riduce le interazioni sociali e sviluppa sospetti nei confronti di chi si prende cura di lei.

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1.4.3 La Malattia di Alzheimer in fase severa

In questa fase finale della malattia, la capacità cognitiva continua a declinare e l’a-bilità fisica è severamente compromessa. Questo periodo può durare da 1 a 3 anni. Sintomi comuni che appaiono in questo periodo sono[19]:

• La perdita dell’abilità di comunicare. Il paziente può ancora esprimersi ma con frasi corte e non è capace di mantenere una conversazione attinente; • L’inabilità nelle funzioni fisiche. La persona non è capace di camminare o

se-dere in maniera autonoma. I muscoli possono divenire rigidi e anche la facoltà di deglutire può essere compromessa, molti pazienti divengono incontinenti. Le persone devono affidarsi ad altri per le cure personali.

La durata media della malattia è di circa 8-10 anni ma può variare da 1 a 25 anni. Il decesso sopravviene in genere per malnutrizione, infezioni, embolia polmonare o disturbi cardiaci.

1.5 Eziologia

La demenza di Alzheimer è una malattia multifattoriale nella quale l’età avanzata è il fattore di rischio più importante, suggerendo che i processi biologici invecchiamento-correlati possono essere implicati nella patogenesi della malattia. Inoltre l’associa-zione forte dell’AD con l’incremento dell’età può riflettere solo parzialmente l’ef-fetto cumulativo di diversi fattori di rischio e protettivi sulla durata, incluso l’efl’ef-fetto d’interazioni complesse tra la suscettibilità genetica, i fattori psicosociali e biologici, e l’esposizioni ambientali. Seguendo varie ipotesi eziologiche la Tabella 1.1 riporta i fondamentali fattori protettivi e di rischio dell’AD[20].

Un’evidenza importante, supportata dalla maggior parte dei dati epidemiologici e di neuroimaging, avvalora il ruolo dei fattori genetici, vascolari, psicologici nello sviluppo dell’AD.

1.5.1 Ipotesi genetica

La forma familiare di AD a comparsa precoce è spesso causata da alcune mutazio-ni autosomiche dominanti (es., le mutaziomutazio-ni nei precursori proteici dell’amiloide, i geni della presenilina-1 e -2). I casi di AD riconducibili a questi tipi di mutazioni ammontano approssimativamente solo al 2% - 5% di tutti i pazienti con Malattia di Alzheimer[21]. Per la gran parte i casi sono sporadici e presentano una eteroge-neità considerevole in termini di di fattori di rischio e caratteristiche neuropatolo-giche. I parenti di primo grado dei pazienti con AD hanno un rischio più elevato di sviluppare la malattia rispetto alla popolazione generale o ai parenti di individui non dementi[22]. Inoltre alcuni studi suggeriscono che l’aggregazione familiare nel-l’AD possa essere spiegata solo parzialmente da componenti genetiche conosciute come la mutazione dell’alleleε4 del gene che codifica l’apolipoproteina E (APOE), indicando che altri geni possano essere coinvolti[23]. L’alleleε4 è l’unico fattore genetico riconosciuto per l’insorgenza sia precoce che tardiva dell’AD. L’alleleε4 è

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Ipotesi Eziologica Fattori di rischio (FR) e protezione (FP)

Evidenza epidemiologica Suscettibilità Genetica FR: APOEε4 e aggregazioni

familiari

Elevata Ipotesi vascolare FR: pressione sanguina

elevata in età adulta e elevato indice di massa corporea, diabete, malattie cerebrovascolari, fumo; RP: moderata assunzione di

alcool, terapia antiipertensiva

Moderata o Sufficiente

Ipotesi psicologica FP:scolarità elevata, ricca vita sociale, attività lavorativa complessa,

attività fisica

Moderata o Sufficiente

Ipotesi dietetica FR: deficit in folati,vitamine B12, C, E,A.

FP:Acidi grassi Omega-3 e assunzione di verdura

Insufficiente o Limitata

Altri fattori FR: esposizione a tossine, campi elettromagnetici a bassa frequenza, depressione FP:antiinfiammatori non steroidei Insufficiente o Limitata

Tabella 1.1: Fattori di rischio e protettivi

un fattore di predisposizione per l’insorgenza dell’AD, non essendo né necessario né sufficiente per sviluppo della malattia. L’effetto di rischio dell’alleleε4 sull’in-sorgenza dell’AD cala all’aumentare dell’età dei pazienti e approssimativamente dal 15% al 20% di tutti casi di Alzheimer sono attribuibili a questo[24].

1.5.2 Ipotesi vascolare

A partire da ricerche multidisciplinari è emersa una prova abbastanza forte che sup-porta l’ipotesi dell’esistenza di fattori di rischio vascolari (es. fumo, l’obesità, e cole-sterolo totale alto) e la morbidità vascolare (es. pressione alta, diabete, ictus e lesioni alla sostanza bianca) associate ad un aumentato rischio di insorgenza della demen-za, inclusa l’AD.

Tabagismo

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aumenta-to rischio di AD (pooled relative risk 1.79; CI del 95%: 1.43-2.23)[25, 26].

Consumo di alcool

L’effetto deleterio dell’assunzione eccessiva di alcol emerge da uno studio il quale rileva che i consumatori assidui di alcool in età media hanno rischio triplo di svi-luppare AD in tarda vita, specialmente se portatori dell’alleleε4[27]. Al contrario il consumo leggero di alcool è stato frequentemente associato ad una ridotta inciden-za della demeninciden-za ed dell’ AD, conducendo all’ipotesi che l’assunzione moderata di alcool possa proteggere contro lo sviluppo della demenza[28]. Tuttavia il ruolo del consumo moderato di alcol nello sviluppo della demenza rimane controverso per-ché molti sono i fattori che possono influenzare questa valutazione. Effettivamente, l’alcol può avere influenze benefiche su molti fattori cardiovascolari, incluso i livelli di lipidi e di lipoproteine, i fattori infiammatori ed emostatici[29].

Sovrappeso ed obesità

Una relazione causa-effetto tra indice di massa di corpo (BMI) e rischio di demen-za è emersa in review sistematica che ha messo in evidendemen-za come un BMI più alto in età adulta è un fattore di rischio per l’AD, mentre un decremento rapido del BMI durante l’età avanzata può anticipare l’insorgenza della demenza[30].

Pressione sanguigna e terapia per l’abbassamento della pressione sanguigna

Pressione del sangue elevata in età adulta, specialmente se incontrollata, è stata col-legata ad un aumento del rischio di AD in età avanzata[31, 32]. Tuttavia molti studi di follow-up, specialmente quelli con un periodo relativamente breve di follow-up (es, 3 anni), non hanno evidenziato nessuna associazione o anche un’associazio-ne inversa tra livello di pressioun’associazio-ne del sangue e il rischio dell’AD[33], portando alla conclusione che una bassa pressione sanguigna in età avanzata possa addirittura contribuire allo sviluppo e all’espressione clinica dell’AD. Inoltre studi longitudinali hanno più volte mostrato la presenza di un effetto protettivo dell’uso di antiiperten-sive nella malattia di AD[34, 35]. Recenti studi hanno suggerito che l’effetto protet-tivo della terapia antiipertensiva sulla demenza di AD possa dipendere dalla durata del trattamento e dall’età in cui le persone assumono i farmaci; l’efficacia più evi-dente fu vista fra persone di età <75 anni, con trattamento antiipertensivo di lungo termine[36, 37]. Questo trattamento può proteggere contro l’AD posticipando il pro-cesso aterosclerotico, riducendo il numero di lesioni cerebrovascolari e migliorando la perfusione cerebrale. Si è inoltre osservato che alcuni agenti antiipertensivi (es, antagonisti di calcio-canale) possono avere effetti neuro protettivi[38].

Ipercolesterolemia

Livelli sierici elevati di colesterolo in età adulta sono stati correlati ad un rischio aumentato di insorgenza dell’AD in età avanzata[39, 40]. La relazione tra l’iperco-lesterolemia in età avanzata e la demenza è meno chiara; gli studi indicano o

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nes-suna associazione o associazione inversa tra l’ipecolesterolemia e l’AD[41]. È sta-ta suggerista-ta una relazione bidirezionale tra i livelli sierici di colesterolo tosta-tale e la demenza[42]. La demenza associata al decremento dei livelli pressori e di BMI so-no diagso-nosticabili tra 3 e 6 anni prima dell’espressione clinica della malattia, men-tre la riduzione del colesterolo totale sembra cominciare molto prima[43]. Questi cambi possono spiegare, almeno in parte, i risultati incoerenti dagli studi cross-sectional e di follow-up a breve termine così come dagli studi nei quali è stato mi-surato in tarda età il livello di colesterolo nel siero. Poche informazioni sono attual-mente disponibili riguardo ai sottotipi di colesterolo (lipoproteina a bassa-densità, lipoproteina ad alta densità e trigliceride) nell’AD. È importante notare che i livelli di colesterolo sierici e cerebrali sono due entità separate e le connessioni tra loro non sono del tutto chiare. Una possibile via è rappresentato dagli ossisteroli, meta-boliti monoossigenati del colesterolo, con l’abilità unica di attraversare la barriera ematoencefalica[44]. I dati epidemiologici e clinici attualmente disponibili sul rap-porto tra i farmaci riducenti i livelli del colesterolo totale sierico (statine) e il rischio di AD sono contraddittori[45, 46, 47, 48, 49]. Studi sperimentali suggeriscono che le statine possano ridurre la produzione di amiloide in vitro ed in vivo. Le statine svolgono inoltre una varietà di azioni delle quali può beneficiare il sistema nervoso centrale, inclusa una protezione endoteliale attraverso il sistema di sintesi di ossido nitrico, un’azione antiossidante, antinfiammatoria ed un effetto antigreggante.

Fattori legati alla dieta

Molti studi di follow-up hanno riferito di un decremento del rischio di AD associato all’aumentata assunzione di antiossidanti (es, vitamine E e C)[50]. Inoltre alcuni stu-di hanno provato che ad un’aderenza più alta alla "stu-dieta Mestu-diterranea" si associa un rischio ridotto di AD[51, 52], mentre risultati contrastanti sono stati riportati sull’as-sociazione tra la presenza nel siero di: vitamina B12, folati, omocisteina ed il rischio di AD[53]. La revisione sistematica di Cochrane ha concluso che le integrazioni di B12 ed acido folico non hanno benefici sulla cognizione, anche se il supplemento di folati e vitamina B12 hanno un effetto nella riduzione dell’omocisteina nel siero[54]. Infine è stato riportato che una dieta ricca in grassi saturi e colesterolo aumenta il rischio di AD[55],mentre acidi grassi polinsaturi e di pesce potrebbero proteggere dalla AD[56, 57], attraverso le loro proprietà antinfiammatorie. In aggiunta lo stress ossidativo è una delle caratteristiche principali nei pazienti affetti da AD, sembra quindi plausibile che l’integrazione o la dieta ricca in antiossidanti e vitamine E e C possano proteggere dall’AD.

Diabete

Un aumentato del rischio di demenza, non solo vascolare ma anche neurodegene-rativa, tra le persone con diabete, è stato riportato in molti studi longitudinali[58, 59, 60], ed il rischio insito in questa patologia per l’insorgenza dell’AD è stato conferma-to da una revisione sistematica[61]. Il diabete in età adulta o il diabete di più lunga durata possono giocare un ruolo cruciale nell’AD[62, 63]. Inoltre l’intolleranza gluci-dica è collegata ad un aumento del rischio di AD in persone molto anziane[64]. Tale

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associazione può riflettere un effetto diretto ed a lungo termine dell’iperglicemia in-controllata o dell’iperinsulinemia sulla neurodegenerazione, o l’azione che alcune comorbidità diabete-correlata, come l’ipertensione e dislipidemia, possono avere sulle funzioni cerebrali[65, 66, 67]. La sindrome metabolica, insieme di molteplici fattori di rischio vascolari, è stato scoperto essere associata ad un aumentato del ri-schio di AD in una popolazione anziana finlandese[68]. Al contrario uno studio di follow-up multietnico su una popolazione anziana negli Stati Uniti non ha eviden-ziato nessuna associazione tra la sindrome metabolica e l’AD, ma due componenti della sindrome, diabete e iperinsulinemia, sono state associate ad un rischio au-mentato di AD[69].

Patologia cerebro-vascolare

L’infarto e gli ictus clinicamente non evidenziabili, così come l’iperintensità della sostanza bianca osservati alla RM, aumentano significativamente il rischio di AD anche se questa associazione è rilevabile anche in caso di demenza non AD[70, 71]. I dati di follow-up dello studio “Health Cardiovascular” hanno mostrato che le pato-logie cardiovascolari, tra cui l’aterosclerosi periferica diffusa, sono associate ad una aumentata incidenza di AD[72, 73]. Altre malattie cardiovascolari tra cui la fibril-lazione atriale e l’arresto cardiaco sono state anch’esse correlate all’AD[72, 73, 74]. Studi neuropatologici hanno suggerito che le lesioni cerebrovascolari, l’ateroscle-rosi e i cambiamenti neurodegenerativi spesso coesistono nel cervello e possono essere processi promuoventi danni aggiuntivi in età avanzata e l’espressione clinica della demenza[75, 76].

1.5.3 Ipotesi psicosociale

Una review sistematica ha confermato che fattori psicosociali e uno stile di vita at-tivo nell’intera durata della vita possano ridurre il rischio di AD[77]. Questi fattori includono il raggiungimento di buoni obiettivi educazionali in giovane età, una ele-vata complessità del lavoro nella vita adulta, una buona integrazione sociale in età avanzata, un alto livello di coinvolgimento sociale e la partecipazione frequente ad attività stimolanti sia fisiche che mentali.

Livello educativo e status socio-economica

Una associazione tra un basso livello educativo e un rischio aumentato di AD è stato riportato in numerosi studi cross-sectional e longitudinali[78, 79].

Coinvolgimento sociale

Un basso coinvolgimento sociale in età avanzata ed un declino nella socialità dall’e-tà media- avanzata sono state associate ad un rischio doppio di sviluppo dell’AD[80, 81] .

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Attività fisica

L’esercizio fisico regolare è stato associato ad un ritardo nella comparsa dell’AD tra persone mentalmente sane in età avanzata[82].

Attività intellettiva

Vari tipi di attività intellettivamente stimolanti sono state esaminate dimostrando spesso un effetto protettivo nei confronti dell’AD[83].

1.5.4 Altre ipotesi eziologiche

Infiammazione

Un alto livello di proteina C reattiva nel siero in età adulta è stato correlato ad un rischio aumentato di AD, suggerendo che i marcatori infiammatori riflettano sia malattie periferiche che processi cerebrali relativi alla demenza e che questi siano misurabili per lungo tempo prima che la demenza si manifesti[84].

Esposizione ad agenti tossici

Il lavoro manuale come occupazione principale nel corso della vita è stato correlato all’AD in alcuni studi[85], suggerendo una possibile correlazione tra l’esposizione a sostanze tossiche e la comparsa dell’AD. L’esposizione lavorativa a metalli pesanti come alluminio e mercurio è stato ipotizzato essere un fattore di rischio[86]. Inol-tre l’esposizione a campi magnetici a bassissima frequenza è stato correlato con un aumentato rischio di AD in diversi studi di follow-up[87, 88].

1.6 Patogenesi

Fin dai tempi del Dott. Alzheimer si è dibattuto sul rapporto causa-effetto in relazio-ne a questa malattia. Alzheimer personalmente credeva che le caratteristiche isto-patologiche osservate nei malati fossero il marcatore di un processo antecedente e non la causa principale della malattia[89]. Esistono studi biochimici che supportano questa ipotesi. Ad esempio, l’inibizione della catena di trasporto degli elettroni del-l’enzima citocromo ossidasi altera la sintesi della proteina precursore dell’amiloide[90]. Lo stress ossidativo attiva la beta secretasi, un evento questo necessario nel pas-saggio dalla proteina precursore dell’amiloide all’amiloide beta (Aβ)[91]. Dati co-me quelli sopra riportati suggeriscono coco-me l’amiloidosi sia un evento secondario nell’AD. D’altronde è chiaro che a volte l’AD si presenti sotto forma di amiloidosi primaria. Nel 1991 infatti, fu dimostrato che la mutazione del gene della proteina precursore dell’amiloide causa una variante dell’AD a comparsa precoce e autoso-micamente dominante[92]. Inoltre è stato osservato che anche la mutazione di altri due geni (presenilina -1 e -2) determina la stessa condizione patologica[93, 94]. Stu-di funzionali hanno rivelato che queste mutazioni alterano la sintesi della proteina

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precursore dell’amiloide[95]. Il dibattito sull’amiloidosi primaria o secondaria nel-l’AD è il nucleo fondamentale della discussione sulla patogenesi delnel-l’AD e ha dato luogo a due ipotesi patogenetiche: l’ipotesi della cascata dell’amiloide e l’ipotesi della cascata mitocondriale.

1.6.1 Ipotesi della cascata dell’amiloide

Le placche corticali osservabili negli encefali colpiti da AD consistono in larga parte di proteina Aβ. L’amiloide beta è sintetizzata dalla sua proteina precursore (APP). Il gene che codifica la proteina precursore dell’amiloide è situato sul cromosoma 21. Il ruolo fisiologico specifico della proteina precursore dell’amiloide non è ancora del tutto chiaro, ma sembra che in generale contribuisca al corretto funzionamen-to neuronale e forse allo sviluppo cerebrale[96]. L’ipotesi originaria proponeva che una sintesi alterata della proteina precursore dell’amiloide promuovesse la produ-zione di amiloide beta e che quest’ultima,formando le placche, determinasse una neurodegenerazione. Questa perdita neuronale risultava apprezzabile nella sindro-me di desindro-menza clinica tipo dell’AD[97, 98]. Mentre ricerche seguenti hanno fallito nel dimostrare che la mutazione della APP sia una causa comune di AD, i risultati di altri studi genetici e molecolari hanno dato supporto all’ipotesi della cascata di amiloide. Nello specifico alcune mutazioni in altri due geni, la presenilina 1 sul cro-mosoma 14 e la presenilina 2 sul crocro-mosoma 1, sono state individuate come cause dell’AD in quanto sembrano aumentare la produzione del prodotto di degradazio-ne C-terminale della APP a amiloide beta 42 a scapito del prodotto di degradaziodegradazio-ne amiloide beta 40[99]. L’amiloide beta 42 è tossico per le cellule in coltura, tende ad aggregarsi ed è stato ritrovato nelle placche. Dati più recente suggeriscono che i prodotti dei geni codificanti la presenilina 1 e 2 comprendono parte del comples-so gamma-secretasi che è strettamente coinvolto nella sintesi dell’APP[100, 101]. L’ipotesi della cascata dell’amiloide si è significativamente evoluta dalla sua prima formulazione. Mentre la presenza di amiloide beta raggruppata in placche fu da prima proposta come elemento tossico per il sistemo nervoso centrale, versioni più recenti della teoria suggeriscono che l’amiloide beta non raccolto in placche sia il responsabile della malattia[102, 103]. Alla luce di questi studi l’ipotesi della cascata di amiloide sembra applicabile per lo più in casi di AD a comparsa precoce e auto-somicamente dominante. Sicuramente questi casi sono quelli nei quali si ha una amiloidosi primaria. Se individui con una forma a sviluppo più tardivo di AD ab-biano o meno queste mutazioni genetiche non è ancora chiaro. Se risultasse che nelle forme a comparsa più tardiva della patologica non siano presenti tali muta-zioni altre ipotesi patogenetiche dovranno essere considerate. Inoltre si è osservato che la degradazione della’amiloide è effettata dagli enzimi neprilisina e l’enzima de-gradante insulina (IDE). E’ interessante che nei casi di AD non legati a mutazioni autosomiche dominanti, la sovrapproduzione di amiloide è accompagnata da una down-regulation dell’ IDE[104]. Questo suggerisce che l’amiloidosi nell’AD non sia un fattore di tossicità, ma piuttosto parte di una risposta cellulare coordinata ad evento più generale. La definizione di questo evento potrebbe fare sviluppare ul-teriormente l’ipotesi della cascata dell’amiloide. Attualmente l’ipotesi della cascata dell’amiloide presuppone che tutti i casi di AD derivino da un amiloidosi

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prima-ria, questa assunzione è estrapolata da un numero ristretto di casi di AD che quasi certamente sono amiloidosi primarie. Se fosse individuato un evento scatenante la cascata dell’amiloide, risulterebbe che l’amiloidosi, nella maggioranza dei casi di AD, è un evento secondario. Da questa nuova ipotesi alcuni hanno anche ipotizzato che non solo amiloidosi nell’AD rappresenti un evento secondario ma addirittura compensatorio[105].

In seguito molte ricerche tuttavia si sono soffermate sulla presenza di grovigli neurofibrillari. Queste aggregazioni intracellulari contengono proteina tau confi-gurata in modo anomalo ed eccessivamente fosforilata. Nelle cellule differenziate la proteina tau non è normalmente fosforilata ed è associata ai microtubuli del ci-toscheletro. Questo differisce nella situazione delle cellule indifferenziate, in cui i microtubuli e la proteina tau non formano una citoscheletro permanente e la stessa tau è fosforilata. Mutazioni nel gene che codifica la proteina tau sono associate alla demenza fronto-temporale congenita, specialmente nei casi con concomitante par-kinsonismo e istopatologia neurofibrillare[106]. Quindi mentre la taupatia primaria può causare neurodegenerazione, non è riconosciuta come la causa di un fenotipo predisponente l’AD. Come prima osservato l’AD e l’invecchiamento sono epidemio-logicamente interconnessi, la forza di tale relazione suggerisce che questi processi condividano modalità patogenetiche. Clinicamente l’AD non è una malattia dicoto-mica, ma piuttosto un continuum. Le fasi inziale, moderata e tardiva sono definite arbitrariamente. Prima dell’insorgere dell’AD propriamente detta esiste una fase di transizione riconoscibile MCI (Mild Congnitive Impairement). Test neurofisio-logici suggeriscono oggigiorno che la MCI sia a sua vota preceduta da un periodo di cambiamento cognitivo[107], alcuni hanno definito questa fase, che può dura-re anche decenni, pdura-re-MCI. Alcuni dati suggeriscono che inizi pdura-recocemente in età adulta[108, 109]. La pre-MCI potrebbe spiegare in parte il fenomeno della riserva cognitiva dell’AD[110]. Inoltre è stata ipotizzata un’ alterazione della normale sop-pressione del ciclo cellulare nell’AD[111]. Sono stati infatti individuati markers di rientro aberrante nel ciclo cellulare in tutti gli stadi di AD e nei paziente MCI con una predominanza nel passaggio dalla fase G1-S. Ciò potrebbe portare una replicazione del DNA, provocando neuroni tetraploidi ed un’attivazione delle cicline mitotiche, ma in assenza di mitosi[112]. Anche gli inibitori della Kinasi ciclino-dipendenti sono alterati nell’AD. Lo stress ossidativo e gli agenti che danneggiano il DNA, includendo l’Aβ danno inizio alla replicazione ed alla morte del DNA nei neuroni in coltura[113]. Quindi i neuroni in AD spesso rientrano nel ciclo cellulare, ma non riescono a com-pletare la mitosi, e alla fine muoiono[114, 115]. Considerando questa prospettiva innovativa sull’AD come un problema del ciclo cellulare, il dottor Bloom, i colleghi dell’UVA e della University of Alabama di Birmingham, hanno scoperto quello che chiamano un "percorso ironico" verso la morte delle cellule neuronali. Il processo richiede l’azione coordinata sia della Aβ che della tau, gli elementi costitutivi rispet-tivamente di placche e grovigli. I risultati del Dr. Bloom mostrano quanto possono essere tossiche le due proteine anche quando sono libere in soluzione e non aggre-gate in placche e grovigli. Usando neuroni di topo in coltura, i ricercatori dell’U-VA hanno scoperto che gli oligomeri Aβ (piccoli aggregati, ciascuno composto solo da poche molecole di Aβ inducono i neuroni a rientrare nel ciclo cellulare. È inte-ressante notare che i neuroni devono produrre ed accumulare tau perché avvenga

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questo ciclo cellulare di rientro. Il meccanismo di questo rientro fuori posto nel ciclo cellulare richiede che gli oligomeri Aβ attivino diversi enzimi chinasi, ciascuno dei quali deve quindi attaccare un fosfato ad un sito specifico sulla proteina tau. A segui-to dei risultati della coltura cellulare, il dotsegui-tor Bloom e colleghi hanno confermasegui-to che il ciclo cellulare di rientro, indotto dall’Aβ e tau-dipendente, avviene nel cervello dei topi geneticamente modificati per simulare il cervello umano con AD. Il cervel-lo dei topi, a 6 mesi, ha dimostrato di accumulare un numero massiccio di neuroni passati da uno stato permanente del ciclo cellulare, noto come G0 (G zero), al G1, al-la prima fase del ciclo cellual-lare. Sorprendentemente, topi altrimenti identici ma che non avevano i geni funzionali tau, non hanno evidenziato alcun segno di rientro nel ciclo cellulare, confermando i risultati delle cellule in coltura. Il rientro neuronale nel ciclo cellulare, un passo fondamentale per lo sviluppo di AD, può quindi essere causato dalla segnalazione dell’Aβ attraverso la tau. Quindi Aβ e tau sono complici nell’innescare gli eventi seminali della patogenesi di AD, indipendentemente dalla loro incorporazione in placche e grovigli[116].

1.6.2 Ipotesi della cascata mitocondriale

L’ipotesi della cascata mitocondriale tenta di dare una unica spiegazione riguardo le caratteristiche cliniche, biochimiche e istopatologiche dell’AD[117]. Questa ipotesi assume che medesimi meccanismi fisiologici sottostiano all’AD e all’invecchiamen-to cerebrale e che fatall’invecchiamen-tori genetici non-mendeliani contribuiscano all’insorgenza di una AD non-autosomicamente dominante. Inoltre essa postula che i mitocondri disfunzionanti dei neuroni nell’AD causino l’amiloidosi, la fosforilazione della pro-teina tau e il rientro nel ciclo cellulare. La disfunzione mitocondriale si è osservata in numerosi tessuti colpiti dall’AD[118]dove sono implicati almeno i mitocondri delle cellule neuronali, dei fibroblasti e delle piastrine. L’Aβ è un potente veleno mitocon-driale, alterando soprattutto il pool sinaptico. Nell’AD l’esposizione all’Aβ inibisce gli enzimi-chiave mitocondriali a livello cerebrale. In particolare, viene attaccato il citocromo C, di conseguenza, il trasporto elettronico, la produzione di ATP, il consu-mo d’ossigeno ed il potenziale di membrana mitocondriale, si alterano. L’incremen-to della formazione di radicali superossido e la conversione in idrogeni perossido provoca stress ossidativo, rilascio di citocromo C ed apoptosi. L’alcol deidrogenasi è uno è uno dei target di ancoraggio dell’Aβ intraneuronale nell’AD[119]. Sia nell’AD che nell’invecchiamento fisiologico, il DNA mitocondriale (mtDNA) predispone ad alti livelli di danno ossidativo. L’instabilità e l’irreparabilità del materiale genetico mitocondriale permette un accumulo graduale di mutazioni del mtDNA. La fram-mentazione di mitocondri provocata dall’ossidazione di proteine trasporto simili alla dinamina, può determinare una perdita sinaptica nell’AD[120].

1.6.3 Stress ossidativo

I mitocondri non funzionanti rilasciano radicali liberi ossidanti, provocando nell’AD e nell’invecchiamento fisiologico un importante stress ossidativo. Studi sperimen-tali mostrano che marker di danno ossidativo precedono i cambiamenti anatomo-patologici[121]. L’Aβ, potente generatore di specie reattive dell’ossigeno (ROS) e

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del-l’azoto (RNS), è un primo determinante di questo danno. Il recettore per i prodotti avanzati a terminale glicato (AGE) media l’effetto pro-ossidante dell’Aβ sulle cellule neurali, microgliali e cerebrovascolari. Il perossido d’idrogeno mitocondriale si dif-fonde prontamente nel citosol per partecipare alla formazione di radicali idrossilici catalizzati da ioni metallo. La microglia stimolata è una fonte importante di radi-cali d’ossido nitrico altamente diffusibili. Queste ROS e RNS danneggiano numero-se molecole. La perossidazione delle membrane lipidiche porta alla formazione di aldeidi tossiche, che a loro volta alterano gravemente gli enzimi mitocondriali. Al-tre proteine essenziali vengono ossidate direttamente, producendo derivati nitrati e carbonilici. Di conseguenza, l’aumentata permeabilità di membrana al calcio, altri disequilibri ionici e l’alterato trasporto del glucosio, aggravano lo scompenso ener-getico. Inoltre, elevati livelli di ioni metallici di transizione liberi in forma divalen-te (ferro, rame, zinco) e l’alluminio prendono pardivalen-te al danno mediato dalle ROS in diversi modi. Inoltre questi metalli promuovono l’aggregazione della tau ed il cam-biamento della sua conformazione e la sua fosforilazione. Lo zinco, che si riteneva fosse un tipico agente tossico responsabile dell’AD, potrebbe invece avere a basse concentrazioni un effetto protettivo bloccando i canali Aβ o antagonizzando il rame nel suo legame con l’Aβ[122].

1.6.4 Le vie del segnale dell’insulina

Un’altra alterazione metabolica di emergente importanza nell’AD è rappresentata dal segnale cerebrale dell’insulina, legata all’omeostasi sinaptica ed energetica[123]. Un sottogruppo di pazienti con AD in stato avanzato presentano livelli di insulina a digiuno elevati ed una riduzione dei tassi di glucosio disponibile (resistenza peri-ferica). L’intolleranza al glucosio ed il diabete di tipo 2 sono considerati fattori di rischio per la demenza. Alcuni studi inoltre dimostrano che i livelli di recettore per l’insulina, le proteine trasportatrici del glucosio ed altri componenti delle vie del-l’insulina sono ridotti nell’AD (resistenza centrale). L’insulina (nella maggior parte ematica) ed il fattore di crescita cerebrale insulino-simile I iniziano i segnali cerebra-li attivando la via della proteinkinasi B e la via della proteinkinasi mitogeno-attivata. È tuttavia ancora da chiarire se queste vie di segnale siano sovra-regolate (in modo compensatorio) o sotto-regolate (in modo patologico) nell’AD. Anche l’invecchia-mento e l’aspettativa di vita sono influenzati dall’insulina. La resistenza all’insulina rende i neuroni privi di energia, vulnerabili agli insulti metabolici ed ossidanti ed al-tera la plasticità sinaptica. Inoltre alti livelli di glucosio, che sono comuni nell’invec-chiamento fisiologico, danneggiano direttamente le strutture ippocampali, sovra-regolano le tau-kinasi, le kinasi glicogeno-sintetasi e riducono i livelli degli enzimi degradanti l’insulina nel cervello dei pazienti affetti da AD[124].

1.6.5 Infiammazione

Oggi sappiamo che l’attivazione microgliale riveste un ruolo centrale nella patoge-nesi infiammatoria dell’AD[125]; la microglia è infatti responsabile della produzione di citochine pro-infiammatorie, proteine del complemento, enzimi e sostanze neu-rotossiche in grado di determinare alterazioni neurodegenerative[126]. Studi

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au-toptici e sperimentali hanno rilevato nelle lesioni caratteristiche di malattia citochi-ne prodotte dalla microglia come l’IL-1, l’IL-6, il TNF-α e l’α1-antichimotripsina, sovraespresse nei tessuti cerebrali dei pazienti affetti. Studi successivi hanno poi confermato che il rischio di malattia è effettivamente modulato dai polimorfismi dei geni che codificano per queste molecole. Questi polimorfismi, frequentemente localizzati nella regione del promotore, aumentano infatti la quantità di prodotto genico espresso e sono quindi più frequenti nei pazienti affetti da malattia di Alz-heimer rispetto ai controlli sani[127].

RAGE (Receptor for Advanced Glycation End products)

RAGE è un recettore che appartiene alla superfamiglia delle immunoglobuline ed è capace di interagire con un ampio spettro di ligandi, tra i quali gli AGEs, le S100 calgranuline, le anfoterine e i peptidi diβ-amiloide (Aβ). L’elevata espressione di RAGE è stata riscontrata in diversi tipi cellulari presenti all’interno del SNC: neu-roni, microglia, astrociti, cellule endoteliali e muscolari lisce della barriera emato-encefalica. RAGE sembra intervenire nella patogenesi della malattia di Alzheimer ad almeno tre livelli:

• l’interazione tra RAGE e i peptidi di Aβ attiva la microglia, aumentando l’e-spressione di citochine pro-infiammatorie, la produzione di fattori neurotos-sici e di specie reattive dell’ossigeno, amplificando quindi il danno neuronale[128]; • a livello della barriera emato-encefalica RAGE agisce come trasportatore di

peptidi di Aβ: una sua aumentata espressione aumenta la concentrazione di Aβ a livello liquorale e quindi encefalico;

• altera la plasticità sinaptica inibendo i processi di comprensione e di consoli-damento della memoria ed accelerando quindi il processo di deterioramento cognitivo[129].

Tutti questi studi suggeriscono quindi che RAGE rivesta un ruolo nella patogenesi della disfunzione neuronale associata all’AD, indotta dall’amiloide a diversi livelli. Del gene RAGE sono stati esaminati due polimorfismi del promotore 374 T/A e -429 T/C che regolano la trascrizione genica e di conseguenza i livelli quantitativi di tale recettore.

TNF-α(Tumor Necrosis Factor Alpha)

TNF-α è una citochina pro-infiammatoria che partecipa alla regolazione della ri-sposta immune, aumenta l’espressione di molecole d’adesione sulla superficie delle cellule endoteliali favorendo la migrazione leucocitaria e aumenta la produzione di chemochine. La principale fonte di TNF-α sono i fagociti mononucleati attivati ma è prodotto anche da linfociti T, cellule NK e mastociti. Esercita inoltre diverse altre funzioni: modula l’espressione genica, il metabolismo energetico, può indur-re apoptosi in diversi tipi cellulari ed è un potente inibitoindur-re della carcinogenesi e della replicazione virale. La prima indicazione del coinvolgimento del TNF-α nella

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malattia di Alzheimer si ebbe quando, durante l’analisi autoptica di cervelli affetti, fu riscontrata la presenza di questa citochina nelle placche di amiloide[130]. Studi in vitro hanno successivamente dimostrato che TNF-α aumenta la produzione dei peptidi di Aβregolando il complesso gamma secretasico[131]; si crea così un

mec-canismo feed-forward per cui il TNF-α aumenta la sintesi di peptidi Aβ che a loro volta inducono infiammazione e produzione di TNF-α. Ulteriori studi condotti su modelli murini transgenici hanno confermato che l’infiammazione, e in particolare l’azione esplicata dal TNF-α, contribuisce sia all’insorgenza che alla progressione della malattia[132].

1.7 Diagnosi

Criteri Diagnostici

L’unico metodo per una diagnosi definitiva è l’esame autoptico, comunque i te-st di funzionalità mentale e comportamentali permettono di effettuare un’accurata diagnosi di AD nel 90 % dei casi[133]. I criteri diagnostici di disordini mentali posso-no essere trovati nel Manuale di Diagposso-nosi e Statistica dei Disordini Mentali (DMS-V). Questi criteri includono la demenza, una manifestazione insidiosa con un deterio-ramento progressivo e l’esclusione di tutti gli altri tipi di demenza dall’esame fisico ed anamnestico. Una diagnosi di demenza include la perdita così grave di abilità intellettive da interferire con le abilità sociali e occupazionali, il danneggiamento di memoria, ed una varietà di altri sintomi[134]. Il primo passo per giungere ad una diagnosi sta nel valutare la storia clinica del paziente. Durante questa visita il medico determinerà se sono presenti sintomi, quando sono cominciati e come hanno progredito nel tempo. Anche l’anamnesi familiare è un criterio diagnosti-co importante, diagnosti-come pure gli esami neurofisiologici che possono essere usati per identificare sintomi cognitivi. Il test comunemente utilizzata è il Mini Mental Sta-te Examination (MMSE)[135]. Il medico comincia ponendo una serie di domande prestabilite per esaminare l’abilità del paziente a richiamare alla memoria e a no-minare un elenco di oggetti, a compiere operazioni semplici di aritmetica, ed a se-guire le istruzioni date. Al paziente è assegnato poi un punteggio con un massimo di 30 punti; un risultato inferiore a 17 punti indica demenza severa. I risultati dei pazienti generalmente calano di 2.4 punti ogni anni 2. Il medico può usare Alzhei-mer’s Disease Assessment Scale- Cognitive Subscale (ADAS Cog)[136] per misurare la gravità della malattia; l’ADAS Cog valuta l’orientamento del paziente, la memo-ria, il ragionamento e il linguaggio su una scala di 0 a 70. Più un risultato è alto e più alto è il danneggiamento cognitivo. L’ADAS Cog è sensibile nella stima di mol-te abilità cognitive, inclusa l’abilità di trovare parole corretmol-te, di eseguire comandi e l’orientamento spazio-temporale. Oltre a prove mentali il dottore può compiere un esame neurologico per stimare la funzionalità del cervello e del sistema nervoso del paziente. Con questo esame controllerà: riflessi, coordinazione, equilibrio, sen-sazioni, forza muscolare, parola e funzioni oculari. L’utilizzo dell’imaging cerebrale può essere effettuato sia per la diagnosi ma anche per escludere tumori, incidenti cerebrovascolari, traumi ed infezioni. Le indagini di imaging sono utili anche

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nell’i-dentificare i grovigli neurofibrillari e le placche di Aβ presenti nell’AD. Le metodiche di imaging includono la risonanza magnetica (MRI) e la tomografia computerizzata (CT), che danno informazioni sulla forma e volume dell’encefalo, inoltre è possibile determinare l’efficacia funzionale dei neuroni. A tale scopo possono essere impie-gate la MRI funzionale o la tomografia ad emissione di positroni (PET)[137].

Tecniche di Imaging

Il neuroimaging è un promettente campo di ricerca per quanto riguarda l’AD. Ci sono varie tecniche di imaging cerebrale che posso essere usate per identificare le alterazioni patologiche di questo organo, come la PET, la MRI e la TC. Ogni tecnica è in grado di farci vedere anomalie in specifiche strutture celebrali. L’imaging cere-brale non è ad oggi il test di elezione per la valutazione dell’AD, ma comunque molti studi hanno dato risultato promettenti al punto che potrebbero far cambiare le pro-cedure di diagnosi dell’ AD attualmente utilizzate.

TC

La Tomografia computerizzata (TC) esegue una serie d’immagini in sezione trasver-sale del corpo, grazie ad una elaborazione computerizzata le singole scansioni so-no integrate a formare una immagine dettagliata e fornisce al medico informazioni sulla densità dei tessuti . Per una miglior chiarezza può essere iniettato un mezzo di contrasto per permettere una distinzione tra i singoli tessuti[138]. Le immagini TC possono essere così accurate, nella diagnosi di AD, da escludere altre possibili cause della sintomatologia o da valutare la contemporanea presenza di altre patologie (es. malattia cerebrovascolare); comunque questo tipo di scansione è più efficace nelle fasi tardive della malattia. Questa tecnica è spesso usata per identificare i grovigli neuro fibrillari e le placche di beta-amiloide. Nella diagnosi iniziale la ricerca ha mostrato che MRI e PET sono più efficaci.

MRI

La Tomografia a Risonanza Magnetica (MRI), per la prima volta utilizzata nel 1977, crea due immagini tridimensionali del corpo, può essere usata per diagnosticare lesioni e malattie. Il componente essenziale del sistema di MRI è il magnete di su-perconduttore che produce un grande e stabile campo magnetico. Lavori svolti da ricercatori, sull’argomento, hanno stabilito che un MRI può scoprire efficacemente cambi strutturali e morte cellulare nel cervello di pazienti con AD. L’atrofia dell’ip-pocampo è visibile nell’AD ancor prima dell’esordio dei sintomi. Lo Studio “Nun”, condotto in 2002, ha interessato 56 individui, con gradi diversi MCI, con scansio-ni di MRI postmortem. Il MRI fu usato per scoprire il volume dell’ippocampo e determinare il suo significato come un indicatore di neuropatologia da AD[139]. I risultati indicarono che le scansioni potevano essere usate per identificare nell’an-ziano l’AD anche prima di aver evidenziato danneggiamenti di memoria. Anche un studio condotto dal Centro della Ricerca della Malattia dell’Alzheimer della Flori-da ha dimostrato, che questa tecnica sarebbe valiFlori-da per una diagnosi precoce della

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malattia[140].

PET

La tomografia ad emissione di positroni sfrutta le radiazioni per creare un’imma-gine a colori e tridimensionale del corpo umano[141]. Al paziente viene iniettato una radio-tracciante formato da un isotipo radioattivo ed un composto chimico in questo caso organico, il desossi-glucosio. Il radiofarmaco viene captato dagli organi che sono in grado di metabolizzarlo, in questo caso l’encefalo. Un volta che il trac-ciante viene captato e metabolizzato, rilascia positroni. Questi ultimi, grazie ad un evento di annichilazione con gli elettroni, danno vita ai raggi gamma che sono ri-levati dal tomografo PET, il quale converte questo input in una immagine. Questa immagine così formata evidenzia come i diversi organi del corpo umano siano in grado di captare il desossi-glucosio radioattivo grazie al18F. Il quantitativo di raggi gamma emessi crea una varietà di colori e di intensità che rispecchia la funzionalità delle diverse aree cerebrali. La PET ha la capacità di rilevare i cambianti nel me-tabolismo loco regionale nelle diverse aree cerebrali. In particolare in uno studio pubblicato nel 1996 sul Journal of Clinical Psychiatry descrive come la PET rilevi nei pazienti con AD zone di ipometabolismo glucidico, in particolare a livello del lobo parietale, temporale e della zona del cingolo posteriore[142]. Small et al. scoprirono come la PET poteva evidenziare i cambianti del metabolismo glucidico ben prima che si presentassero sintomi clinicamente rilevabili. Inoltre questa tecnica è efficace in modo particolare nel distinguere la demenza frontotemporale (FTD) dall’AD. In casi di FTD, la diminuzione del metabolismo del glucosio sarà osservato nella parte più anteriore degli emisferi, mentre le zone di ipometabolismo nell’AD sono apprez-zabili nella porzione più posteriore dell’encefalo[143]. Tuttavia, recentemente, si è resa disponibile una nuova classe di traccianti PET, apparentemente più specifici perché permettono di visualizzare direttamente i depositi di Aβ a livello della cor-teccia encefalica. I criteri neuropatologici utilizzati per la diagnosi post-mortem di AD considerano la presenza di placche di Aβ al momento dell’autopsia come una caratteristica diagnostica necessaria; sulla base di questa definizione serve un test che escluda la presenza di livelli significativi di placche di Aβin soggetti con segni e

sintomi clinici di compromissione cognitiva, in modo da eliminare l’AD come possi-bile diagnosi e portare a una valutazione più precisa e a un trattamento appropriato per cause alternative di deficit cognitivi (come ad esempio demenza vascolare, de-menza frontotemporale, dede-menza di Parkinson). Inoltre tale test, confermando la presenza di livelli anormali di Aβ nei soggetti con sintomatologia sospetta, dovreb-be aumentare la fiducia nella diagnosi clinica di AD. Il consenso emergente suggeri-sce che l’associazione tra la ricerca di Aβ nel CSF (liquido celafo-spinale) e l’imaging PET con ligandi ad alta affinità per Aβ possa fornire elevata specificità e sensibilità per il riconoscimento di AD anche prima della comparsa dei sintomi più significativi della demenza. Ciò dovrebbe consentire una precoce diagnosi specifica, permetten-do l’identificazione dei soggetti con AD prima dell’aggravarsi della sintomatologia, quando sia ancora possibile un trattamento efficace. In questo modo sarà possibile ridurre gli elevati costi sanitari per la cura dei pazienti con AD in forma conclama-ta, utilizzare farmaci neuro-protettori già nelle fasi iniziali in modo da prevenire o

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rallentare lo sviluppo della malattia e valutare gli effetti di terapie anti-Aβ tramite imaging PET specifico.

Radiofarmaci per l’imaging dell’amiloide

Grazie agli studi sulle colorazioni istologiche, sono stati messi a punto diversi ra-diotraccianti (emettitori di positroni e specifici per Aβ) che permettono l’effettua-zione di imaging nella neuropatologia di AD. Gli studi clinici hanno dimostrato una chiara efficacia dei radiofarmaci PET nell’individuare il contenuto di Aβ (in parti-colare la forma 40 e 42) in vivo nel cervello di soggetti affetti da AD ed in soggetti con decadimento cognitivo lieve (Mild Cognitive Impairment, MCI); pertanto tali traccianti saranno importanti agenti diagnostici per individuare in vivo il patologi-co accumulo cerebrale di Aβ. Storicamente la maggior parte dell’imaging sull’ami-loide in esseri umani è stato effettuata in con il tracciante PET (N-methyl[11 C]2-(4-methylaminophenyl)-6-hydroxy-benzothiazole, Pittsburgh compound B, [11C]PIB). Il breve tempo di dimezzamento fisico (20 min) del carbonio-11, che richiede quindi la disponibilità di un ciclotrone in sito per la produzione dell’isotopo, ne ha però li-mitato l’impiego clinico. I primi risultati promettenti riguardanti l’imaging PET con [11C]PIB nei pazienti con AD furono ottenuti da Klunk[144] e da Rabinovici[145] . Nello suo studio, Klunk comparò 16 pazienti con AD a 9 pazienti sani, la captazione di [11C]PIB era statisticamente più alta nelle aree che contenevano grandi quantità di depositi di amiloide (corteccia frontale, corteccia parietale, corteccia tempora-le, corteccia occipitatempora-le, striatum). Rabinovici osservò invece che tutti e 7 i pazienti con AD presentavano un uptake positivo di [11C]PIB. Tuttavia tra i pazienti con FDT (demenza frontotemporale) 4 presentavano una significativa captazione delle radio farmaco; ciò significa che [11C]PIB PET aiuta a discriminare la AD dagli altri tipi di neuro degenerazione ma che comunque è necessaria una correlazione con il quadro clinico - patologico per giungere ad una corretta diagnosi[146]. Successivamente in alcuni studi si è cercato di validare una possibile quantizzazione della captazione del radiofarmaco da parte della diverse aree cerebrali. E’ stato pertanto introdot-to il SUVr (standardized uptake value ratio: lo standardized uptake value

cortica-le normalizzato per lo standardized uptake value della sostanza grigia cerebellare) per misurare il carico di amiloide[147, 148]. Questo è comprensibile perché SUVr

ha numerosi vantaggi come una semplicità computazionale, una durata di scansio-ne più breve e una minore vulscansio-nerabilità al movimento del paziente. Ciononostan-te questo metodo è sensibile alle differenze in “washin” e “washout” del traccianCiononostan-te tra i soggetti[149]. Benché il SUVr possa essere accettato per scopi diagnostici -ad

esempio, [11C]PIB-positive versus [11C]PIB-negative— un metodo molto più accu-rato sarebbe necessario nei casi di studio longitudinali per misurare la variazione di captazione dei questo tracciante nel tempo[150].

Radiofarmaci per l’imaging dell’amiloide marcati con18F

Poiché la marcatura tramite carbonio-11 non è ideale per la commercializzazio-ne, sono stati sviluppati vari traccianti marcati con fluoro-18. I traccianti marca-ti con fluoro-18 e sviluppamarca-ti per la PET attualmente proposmarca-ti per l’imaging

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dell’a-Figura 1.1: Formule di struttura dei tre traccianti marcati con fluoro

miloide, sono tre: flutemetamol (GE-067, [18F]3’-F-PIB), florbetapir (BAY-94-9172, [18F]AV-45) e florbetaben ([18F]AV-1); le formule di struttura dei tre composti sono rappresentate in figura 1.1, mentre le caratteristiche principali delle tre molecole sono riassunte in tabella 1.2 .

Questi traccianti sono attualmente in fase di sperimentazione clinica formale per stabilire se possano essere utilizzati per l’imaging di precisione dell’amiloide fi-brillare e per distinguere pazienti con AD da HC e da altri pazienti con differenti forme di demenza. Essi possono anche essere usati come biomarker per predire lo sviluppo di AD prima che insorga la demenza e di valutare gli effetti della terapia a anti-amiloide. Le scansioni che mostrano negatività per l’amiloide indicano as-senza di i AD con un alto livello di precisione, ma volontari anziani sani potrebbero avere scansioni positive per l’amiloide, quindi alla luce di questo il loro valore pre-dittivo risulta meno chiaro. Attraverso l’utilizzo del18F-florbetapir in uno studio di fase 3 è stata mostrata una stretta associazione tra i risultati dell’imaging dell’ami-loide in vivo e le scoperte istopatologiche post-mortem. 18F-flutemetamol è il 3’-fluoro-derivato del [11C]PIB, mentre18F-florbetaben e18F-florbetapir sono derivati dello stilbene e della stiril-piridina e presentano alta affinità di legame per l’ami-loide fibrillare in modo simile al [11C]PIB, hanno un elevato assorbimento iniziale nel cervello, seguito da un wash-out del tracciante che non si è legato in aree

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cor-Pittsburg Compound B

Flutemetamol Florbetapir Florbetaben Specie Chimica Benzotiazoli Benzotiazoli Stiril-piridine Stilbene

Isotopo di marcatura

Carbonio-11 Fluoro-18 Fluoro-18 Fluoro-18

Metaboliti Plasmatici

Polari Polari Polari e non polari Polari e non polari Dose inettata (MBq) 250-400 185 300 300 Ritardo per l’imaging (min) 40-90 80-100 50-70 90-130

Tabella 1.2: Caratteristiche dei traccianti PET per l’imaging di Aβ.

ticali prive di amiloide fibrillare. La captazione non specifica nella sostanza bianca è quasi due volte maggiore rispetto al [11C]PIB. La maggior parte dell’attività della sostanza iniettata viene eliminata dal flusso di sangue attraverso il fegato e il tratto gastrointestinale, e il resto viene eliminato attraverso l’escrezione renale.

18F-flutemetamol ([18F]3’F- PIB)

L’imaging dell’amiloide (in particolare la forma Aβ 40 e 42) con18F-flutemetamol sembra essere migliore eseguendo l’acquisizione PET circa 90 minuti dopo l’inie-zione del tracciante, quando il rapporto SUVr rispetto al cervelletto raggiunge il

plateau. Al pari del [11C]PIB, si verifica un rapido metabolismo sistemico con con-seguente produzione di metaboliti polari, che si ritiene non riescano ad attraver-sare la barriera emato-encefalica e quindi non interferirebbero con l’imaging cere-brale. L’analisi cinetica del tracciante legato mostra una quantificazione affidabile mediante l’uso di SUVrs con la corteccia cerebellare come regione di riferimento.

L’acquisizione dei dati per questa analisi richiede solo 20 minuti di scansione ed è fattibile in un contesto clinico standard. Recentemente una valutazione in vivo del-l’uptake di flutemetamol ha dimostrato la presenza di una stretta concordanza con la stima in vivo dell’amiloide[151]. Anche Wong in un suo articolo ha riportato valori di specificità e sensibilità del 100 % con il flutemetamol PET per la individuazione dei depositi di Aβ nel cervello di soggetti viventi con idrocefalo normoteso[152]. 18F-florbetapir ([18F]-AV-1)

L’imaging con18F-florbetapir si ottiene di norma 60 minuti dopo l’iniezione. So-no stati segnalati dati per metaboliti plasmatici e tissutali nei topi. Dopo 30 minuti più della metà dell’attività plasmatica è associata ad un derivato demetilato e a un derivato acetilato del18F-florbetapir, entrambi in grado di attraversare la barriera ematoencefalica, ma non di legarsi all’amiloide con elevata specificità. In particola-re esso è in grado di legaparticola-re la forma Aβ 40 e 42[153]. Uno studio di fase III ha

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dimo-strato che sia la valutazione visiva delle immagini che il SUVrcorrela con la quantità

di Aβ rilevata nella successiva analisi istopatologica post-mortem[154]. Inoltre in un suo studio Wong ha dimostrato che il valore del SUVrè utile per una significativa

di-scriminazione tra i pazienti con AD e gli HC[155]. 18F-florbetaben ([18F]-AV-45)

Chimicamente il18F-florbetaben è strettamente correlato al18F-florbetapir ma ha una cinetica di wash-out lenta, risultando in una lunga finestra di imaging fino a 130 minuti dopo l’iniezione. Vi è un rapido metabolismo sistemico e nel plasma umano sono presenti metaboliti idrofili e lipofili. Il più ampio studio di fase 2 di un traccian-te marcato con18F per l’amiloide è stato effettuato con florbetaben confrontando 81 pazienti con probabile AD (età 71 ± 8 anni, MMSE 23 ± 2, 59% portatori ApoEε4) con 69 controlli sani (età 68 ± 7 anni, MMSE 29 ± 1, 19% portatori ApoEε4), la sensibilità diagnostica è stata dell’80% e la specificità è stata del 91%[156]. In uno studio di fase III sono stati arruolati 32 HC, 20 pazienti MCI, 30 con AD, 11 FTD, 7 with DLB (Lewy Body disease), 5 con PD (Parkinson disease), and 4 con demenza vascolari. Tutti i pazienti hanno effettuato imaging PET dopo iniezione intravenosa di 300 MBq di 18F-florbetaben. I pazienti con AD hanno mostrato un valore di SUV

r

significativa-mente più alto (P , 0.0001) in nelle aree neocorticali. Il 96% dei pazienti con AD e il 60% dei soggetti con MCI ho mostrato avere un diffuso uptake del radiofarmaco nelle aree corticali. Al contrario solo 9% dei FTD, 25% dei VaD, 29% dei DLB, nessun PD and 16% HC hanno mostrato la presenza di un uptake in sede corticale. In con-clusione il18F-florbetaben presenza un’alta sensibilità per l’ AD (in particolare lega la forma Aβ 42[157]), riesce a distingue chiaramente tra pazienti con FTD e AD ed inoltre mostra risultati comparabili a quelli riportati [11C]PBC in diverse patologia neurodegenerative[158].

I dati qui discussi suggeriscono che tutti e tre i ligandi per l’amiloide marcati con fluoro-18 potrebbero essere utilizzati in studi clinici per rilevare, con elevata sensi-bilità, le fibrille di amiloide in pazienti con AD. I metaboliti plasmatici lipofili, che sono stati riportati per due traccianti, potrebbero aumentare l’attività non specifica di fondo e quindi ridurre il contrasto tra corteccia normale e amiloide. Il maggiore assorbimento non specifico nella sostanza bianca non sembra interferire sostanzial-mente con l’interpretazione visiva dell’immagine, a causa della separazione spaziale dalle regioni della materia grigia. Tuttavia con l’analisi quantitativa dell’immagine è stato notato un eccesso significativo di attività tra la sostanza grigia e quella bianca a seguito di effetti di volume parziale e della risoluzione limitata dello scanner PET. Per tutti questi traccianti, l’escrezione epatobiliare sembra essere il predominante meccanismo di clearance e pertanto la parete della cistifellea è l’organo critico. Una stima preliminare di dosimetria indica che 185 MBq di [18F]3’F- PIB raddoppia la quantità di dose di radiazioni nella cistifellea (50 mSv) rispetto agli altri due trac-cianti fluorinati . La dose efficace per tutti e tre i tractrac-cianti marcati con fluoro-18 è compresa tra 3 e 6 mSv per una dose tipica diagnostica (185 MBq). Un breve con-fronto di dosimetria delle radiazioni dei quattro radiofarmaci specifici per la PET di Aβ è mostrato nella tabella 1.3.

(23)

Dose Efficace (mSv/dose diagnostica) Organo [11C]PIB (555 MBq) [18F]3’F- PIB (185 MBq) [18F]-AV-1 (185 MBq) [18F]-AV-45 (185 MBq) Encefalo 2,18±0.80 2,20±0.22 1,9±0,29 2,55±0,2 Parete della colecisti 24,86±16,26 53,10±30.34 24,49±8.03 25.53±13,88

Parete della vescica 14,60±4,72 11,40±1,22 4,58±1,36 6,44±1,84 Fegato 11,03±1,99 11,82±2,07 7,23±1,54 8,21±1,47 Rene 7,17±1,87 7,42±1,07 3,71±1,03 3,07±0,24 Dose efficace

(mSv/MBq)

2,94±0,37 6,25±0,63 2,71±0,26 3,33±0,19

(24)

Capitolo 2

Studio sperimentale

2.1 Scopo dello studio

Lo scopo di questo studio è stato quello di stimare la perfomance e la sicurezza del 18F- florbetapir nella valutazione PET/TC dei pazienti con deficit cognitivo. E’ stata inoltre quantificata la concordanza interoperatore sull’interpretazione dell’imaging e la concordanza tra il dato PET e la valutazione clinica di ogni paziente.

2.2 Materiali e metodi

Da Luglio 2013 ad Aprile 2014, presso il Centro Regionale di Medicina Nucleare di Pisa, sono stati arruolati nell’ambito dello studio multicentrico, multi-stato, ran-domizzato18F-AV-45-A18 e sottoposti a PET con18F-Florbetapir, 20 pazienti di età compresa tra 50 ed 85 anni (media 72 ± 7,5 anni). I criteri di inclusione sono stati:

• età compresa tra 50 e 90 anni

• partner nello studio (qualcuno interessato al benessere del paziente con no-tevole interazione con lui)

• deficit cognitivo verificato

• punteggio MMSE da 24 a 30 o tra 16 e 24 • buona compliance

I pazienti sono stati sottoposti a valutazione neurologica con anche ausilio di test cognitivi ADAS Cog e MMSE ed è stata posta una diagnosi iniziale riportata nella tabella 2.1.

Il valore di ADAS cog medio è stato pari a 20, mentre la media dei MMSE è stata pari a 22,5. Ad una prima analisi, secondo l’ADAS cog due pazienti risultavano nor-mali (punteggio inferiore a 10), otto risultavano dubbi(punteggio compreso tra 10 e

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Codice Sospetto iniziale Età ADAS Cong Iniziale MMSE iniziale 2000-001 AD (MCI amnesico) 75 8 24,3 2000-002 nonAD (MCI multidominio) 72 8 23,4 2000-003 / 71 2000-004 AD in DLB 69 21 21,3 2000-005 nonAD (FTD) 62 16 20,2 2000-006 Depressione o AD 76 27 15,7 2000-007 AD (MCI amnesico) 65 17 23,9 2000-008 nonAD (FTD - afasia non fluente) 74 38 15,4 2000-009 AD 74 20 19,3 2000-010 AD (MCI amnesico) 74 13 27,3 2000-011 AD in DLB 85 19 25,5 2000-012 AD (MCI amnesico/logopenico) + vascolare 72 11 29 2000-013 nonAD (MCI multidominio) 78 13 23 2000-014 nonAD (FTD) 75 25 18,3 2000-015 AD (MCI amnesico) 69 14 21 2000-016 AD (variante logopenica) 69 15 26,2 2000-017 AD (atrofia corticale posteriore) 50 33 20,2 2000-018 nonAD 79 21 22,7 2000-019 nonAD 77 31 20 2000-020 nonAD (FTD) 63 38 25,9 2000-021 nonAD (FTD) 75 12 27,3

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Tabella 2.2: Protocollo di Acquisizione

17), mentre dieci presentavano un deficit cognitivo (punteggio superiore a 17); se-condo il MMSE otto pazienti risultavano normali (punteggio compreso tra 30 e 24), dodici mostravano un lieve deficit (punteggio compreso tra 24 e 17) e nessun pazien-te presentava un deficit grave (punpazien-teggio inferiore a 17). Pertanto ad una prima valu-tazione neurologica i pazienti sono stati classificati come 11 sospetti per AD e 9 non sospetti per AD. E’ stata poi effettuata la valutazione con imaging PET/TC utilizzan-do il18F-florbetapir. Prima dell’esame al paziente non è stata richiesta alcuna pre-parazione particolare. L’iniezione di18F-florbetapir è avvenuta per via endovenosa; gli effetti collaterali riportati sono stati lievi e transitori e solitamente considerati in-dipendenti dall’assunzione del farmaco. Una volta ricevuti i risultati del controllo di qualità su18F-florbetapir, al paziente sono stati somministrati 259 MBq ± 10% del radiofarmaco, con un volume massimo di 10 ml in bolo, nell’arco temporale di 5 se-condi, seguita dalla somministrazione di 15-20 ml di fisiologica per il lavaggio della via di iniezione. L’indagine PET/TC è stata effettuata con tomografo Discovery ST/8 (GE Healthcare, Milwaukee, Wisconsin, USA). La scansione PET è iniziata dopo 50 ± 5 minuti dall’iniezione del tracciante; dopo circa 45 minuti dalla somministrazione si invitava il paziente alla minzione e si procedeva per l’acquisizione delle immagi-ni. Le caratteristiche del protocollo di acquisizione e ricostruzione delle immagini sono riportate nella tabella 2.2.

Sono stati eseguiti esami ibridi PET/TC per sfruttare i vantaggi derivanti dalla correzione per l’attenuazione effettuata grazie ai valori densitometrici ricavati dal dataset TC; la dose efficace rilasciata al paziente è stata minimizzata poiché non era richiesta una TC di qualità diagnostica. L’esame PET/TC è iniziato con l’acquisizio-ne dello scout sul quale sono state poi decise e localizzate le acquisizioni successive. In questo caso lo scout è stato effettuato in proiezione latero-laterale sul piano a 90° al fine di semplificare la localizzazione dell’acquisizione PET/TC: in questa pro-iezione, infatti, risulta più immediato verificare che l’intero encefalo sia compreso nell’acquisizione, potendo visualizzare chiaramente le strutture ossee del cranio, dal

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vertice fino a tutta la fossa cranica posteriore. Poiché il controllo del corretto allinea-mento dei piani anatomici è stato effettuato durante la procedura di centraggio TC e il protocollo TC non prevede l’utilizzo della funzione di regolazione automatica dei mA, non è stato necessario effettuare un ulteriore scout in proiezione postero-anteriore. Una volta localizzata la scansione TC e quindi il corrispondente lettino PET secondo le indicazioni precedentemente descritte, si è passati all’acquisizio-ne della TC cranio in modalità spirale. I parametri caratteristici del fascio X sono stati scelti per ottenere dati densitometrici utili per eseguire una valida correzione per l’attenuazione, ma applicando un adeguato algoritmo di ricostruzione sui dati grezzi acquisiti è possibile anche ottenere una qualità di immagine sufficiente per la refertazione a monitor dell’esame PET/TC sempre minimizzando l’esposizione del paziente. In particolare la necessaria correlazione spaziale tra TC e PET fa si che la scansione TC sia eseguita esattamente sullo stesso volume oggetto dell’acquisizio-ne PET e quindi per una lunghezza fissa di 15 cm, tanti quanti misura il FOV PET in direzione assiale. Successivamente alla TC si è passati alla scansione PET, che con-siste in un solo lettino acquisito 2 volte per 5 minuti, in modalità 3D, per un tempo totale di acquisizione di 10 minuti. Al termine della scansione PET/TC si è verifica-ta la ricostruzione delle immagini su worksverifica-tation dedicaverifica-ta e si è valuverifica-taverifica-ta la qualità dei risultati dell’acquisizione. In caso di esito positivo il paziente è stato comun-que tenuto in osservazione per le due ore successive all’iniezione di18F-Florbetapir per valutare potenziali effetti collaterali e quindi compilare il modulo “Adverse Event

Reporting Fax Forms for Imaging Centers”. Trascorse due ore il paziente è potuto

tor-nare al proprio domicilio con la sola istruzione di mantenersi ad almeno due metri di distanza da donne in gravidanza e bambini fino a 16 anni per l’intera giornata; sebbene l’attività somministrata per l’esame non preveda secondo il D.Lgs. 230/95 e s.m.i. alcuna indicazione particolare, questo accorgimento permette di evitare l’e-sposizione della popolazione più radiosensibile. Le immagini PET così ottenute so-no state visionate in modo indipendente da tre operatori, utilizzando i 5 passaggi, descritti nella tabella 2.3, per la lettura delle scansioni PET con il18F-Florbetapir proposti dalla casa farmaceutica Eli Lilly. I tre operatori erano autorizzati alla letture di queste scansioni PET perché già formati a tale scopo. Tra gli elementi fondamen-tali di questi criteri vi è l’utilizzo della scala bianco-nero con la valutazione di tutti i lobi del cervello, al fine di ricercare un’eventuale perdita di contrasto tra la sostan-za grigia e la bianca e la presensostan-za o meno di aree in cui l’uptake della grigia supera quello della bianca. Nei casi dubbi, quelli nei quali l’atrofia può determinare una difficoltà nella valutazione delle scansioni PET, è utile la valutazione delle immagini TC per discriminare tra aree di ridotto uptake del tracciante ed aree atrofiche.

La concordanza tra i risultati ottenuti tra i tre operatori interni e la successiva, includendo anche la lettura del centro coordinatore, è stata valutata con il test Kap-pa di Fleiss. La KapKap-pa di Fleiss è una misura statistica adottata per stimare il grado di concordanza tra un numero fisso di osservatori, quando questi esprimono un giudizio di tipo qualitativo. Si tratta quindi di un indice di accettazione negli studi inter-osservatore, che quantifica il livello di accordo inter-osservatore per ridurre la soggettività del metodo utilizzato (test di mobilità) e stabilire se il grado di accordo è dovuta al caso (alla sorte). Questo coefficiente è compreso tra 0 e 1. Un valore di zero corrisponde a una correlazione che è identica a quello riscontrata

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