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LA SICUREZZA TRASFUSIONALE:NUOVI STRUMENTI DI PREVENZIONE E ANALISI NELL'APPLICAZIONE DELLA BUONA PRATICA

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Academic year: 2021

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La frase più pericolosa in assoluto è:

‘’Ma abbiamo sempre fatto così’’

Grace Murray Hopper

Desidero ringraziare tutti coloro che hanno collaborato con me: Mila, Cinzia, Simona, Marco, Sauro, Domenico e in fine ma non per ultima la Dottoressa Luciana Traballoni .

Un ringraziamento particolare a Catia, è grazie a Lei se ho iniziato e soprattutto terminato questo percorso.

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INDICE Pag. 1

RIASSUNTO Pag. 2

INTRODUZIONE Pag. 3

CAPITOLO PRIMO: La sicurezza del paziente: dagli esordi ad oggi Pag. 5 1.1 Le origini del Rischio Clinico “ 1.2 La situazione internazionale “

1.3 La situazione italiana “ 8

1.4 Contesto regionale “ 9

1.5 Contesto Aziendale “ 14

CAPITOLO SECONDO: Panorama dei concetti principali Pag. 16 2.1 Definizione di Sicurezza del paziente, Evento Avverso ed Evento Sentinella “ 17

2.2 Clinical Risk Management “ 2.2.1 L’Incident Reporting “ 2.3 Il Governo Clinico “ 2.4 L’approccio sistemico “ 18

CAPITOLO TERZO: L’infermiere e la sicurezza del paziente Pag. 21 3.1 La formazione infermieristica “ 3.2 Nursing malpractice “ 23

CAPITOLO QUARTO: La terapia trasfusionale Pag. 24 4.1 Le origini “ 4.2 La situazione internazionale “ 25

4.3 La situazione italiana “ 30

4.3.1 Contesto regionale “ 35

4.3.2 Contesto aziendale “ 38

CAPITOLO QUINTO: La ricerca Pag. 40 5.1 Scopo dello studio “ 5.2 Contesto “ 41 5.3 Materiali e metodi “ 45 5.4 Risultati “ 46 5.5 Discussione “ 52 CONCLUSIONI Pag. 55 BIBLIOGRAFIA Pag. 57 ALLEGATI Pag. 62

RIASSUNTO

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La sicurezza del paziente è oggi una priorità per il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) e obiettivo primario in tutte le cure sanitarie.

Questa tematica, affermatesi recentemente, investe tutto il mondo sanitario ed è al centro di numerosi programmi di governo. La strada da percorrere affinché siano garantite sempre cure di qualità è però, ancora lunga e necessita dell’impegno coordinato di tutti gli stakeholders della sanità, dei ministri di governo e dei pazienti stessi. In particolare l’infermiere, poiché operatore sanitario più vicino al paziente, è coinvolto in primis in questa problematica e, pertanto, è necessario che la sua competenza sia sviluppata e indirizzata alla sicurezza sin dalla formazione di base.

La Regione Toscana in relazione anche ai recenti eventi di malasanità legati alla terapia trasfusionale ha posto attenzione sulle manovre correttive da adottare sia con l’aggiornamento della delibera n.730 del 2/09/13 e con la conseguente introduzione della Buona Pratica da parte del Gruppo Regionale del Rischio Clinico.

Diventa così prioritario focalizzare l'attenzione su come le aziende sanitarie toscane hanno recepito la nuova Buona Pratica e su quali nuove introduzioni sono state adottate per far sì che non vi siano più reazioni trasfusionali da incompatibilità ABO.

E’ nell’ambito di tutto ciò che questa tesi vuole analizzare la percezione del problema nelle aziende sanitarie della Toscana attraverso un questionario compilato a cura delle Direzioni Infermieristiche e Ostetriche che mira a fare emergere l’attenzione e le azioni di miglioramento intraprese in tal merito. Infine di verificare come nella azienda in cui lavoro, l’Azienda USL 2 di Lucca, è stato affrontato questo tema e soprattutto come vorrà sviluppare in futuro le azioni necessarie per far sì che l’errore trasfusionale non sia più un’emergenza sanitaria.

Compete infatti alle singole Aziende la decisione di affrontare l’argomento e, sul versante opposto, è compito del singolo operatore realizzare approfondimenti personali o richiedere esplicitamente una risposta ai propri bisogni di conoscenza.

Il lavoro non ha l’intenzione di esprimere un giudizio ma piuttosto vuole fornire uno stimolo futuro per promuovere la tematica del rischio clinico e l'infermieristica.

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L’ospedale e le strutture sanitarie sono nati come luogo rivolto alla cura delle persone. Ciò nonostante, negli ultimi anni, con la crescente complessità dei sistemi sanitari, quest’accezione sta lasciando sempre più posto alla paura di accedervi, poiché spesso accade che la degenza si prolunghi per cause sopravvenute all’interno, prima non presenti. Quella cui ci si sta riferendo, è la dimensione dell’errore, peculiare a tutte le professioni. “Chi lavora sbaglia” o per meglio dire “sbagliare è umano”, come il titolo di uno storico lavoro statunitense: “To err is human - Building a safer Health System”1ma quando

sono i sanitari a sbagliare i mass media tempestano sull’argomento indicando gli episodi come fatti di “malasanità”.

La motivazione di tale condanna è racchiusa nell’importanza che l’ambiente sanitario riveste per la comunità. Infatti, un errore sanitario può in alcuni casi trasformarsi in un danno estremamente grave, provocando rilevanti ricadute. È così che, negli ultimi anni, il tema della sicurezza del paziente ha gradualmente assunto una maggiore rilevanza nell’ambito dei sistemi di governo dei servizi sanitari, e allo stesso tempo ne è mutato l’approccio. In passato, infatti, parlando di errore si faceva riferimento al solo “errore medico”, del singolo professionista ma, con il progredire degli studi, si è visto come la sua origine deriva da una concatenazione di eventi dove l’errore umano ne è solo l’ultima conseguenza. Inoltre colpevolizzare, si sa, non ha mai risolto nessun problema anzi, contribuisce a nasconderlo. Di là di questo, bisogna poi accettare che è umanamente impossibile eliminare del tutto il rischio, sia pure in un sistema con alti standard di qualità, con medici e personale competente.

Questa consapevolezza non deve però impedire di pensare che non sia possibile arginare la possibilità di errore. Ciò, infatti, è realizzabile costruendo una cultura della sicurezza che coinvolga attivamente tutti (nazioni, regioni, aziende sanitarie etc.) ivi compresi gli attori del sistema, dai dirigenti, ai medici ed infermieri e tutti gli operatori, affinché diventi per loro un obiettivo primario2. In questo scenario,

l’infermiere assume un ruolo di vasta importanza poiché figura più vicina al paziente e in stretto rapporto con esso. Sulla scia della radicale evoluzione che lo ha coinvolto negli ultimi anni, soprattutto in termini di responsabilità, anche l’International Council of Nurses ne ha riconosciuto il fondamentale contributo, stabilendo recentemente che: “La sicurezza del paziente è un elemento fondamentale per garantire qualità nelle cure infermieristiche … Gli infermieri devono essere orientati alla sicurezza del paziente in tutti gli aspetti di assistenza...”.

La sicurezza del paziente è perciò parte integrante dell’attività di quest’operatore. Pur non esistendo dati certi sugli errori degli infermieri in questo momento, ciò che è di prioritaria importanza è agire sulla prevenzione, fondata innanzitutto su un’azione formativa, che si concretizza nell’acquisizione di tutte le conoscenze circa le potenziali minacce, le aree di maggiore criticità e gli eventi indesiderati

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ipotizzabili. Di fondamentale importanza è che tale intervento coinvolga, oltre alla dirigenza, tutti coloro che prestano e presteranno la propria attività nei servizi sanitari.

Come si deduce dalla celebre citazione di Socrate: “C’è un solo bene: il sapere, e un solo male: l’ignoranza”, contribuire ad alzare il livello di consapevolezza in materia di sicurezza del paziente di molti dipendenti rende più sicure le condizioni di cura del paziente e, conseguentemente, le condizioni di lavoro del personale sanitario.3

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La sicurezza del paziente: dagli esordi ad oggi

1.1 Le origini del Rischio Clinico

Il rischio clinico e la sua gestione, anche detta Risk Management, sono nati in ambito aziendale da non più di cinquant’anni, ma le sue origini risalgono a molto tempo prima. Infatti, seppur in termini diversi, la problematica veniva messa in luce già nella metà dell’800 quando Florence Nightingale affermava, con chiarezza d’intenti, la necessità di evitare al paziente ulteriori sofferenze causate dalle indesiderate conseguenze dell’assistenza loro prestata, in aggiunta a quelle derivanti dalla malattia.

La questione è riemersa poi con maggiore chiarezza negli anni ’70 negli Stati Uniti, come risposta alla crisi del “malpractice”. Gli Ospedali e altre strutture sanitarie si trovarono, infatti, a fronteggiare un preoccupante aumento della tendenza dei ricorsi legali da parte dei pazienti che avevano subito “incidenti clinici” non previsti, avvenuti durante i trattamenti sanitari ricevuti, portando al conseguente incremento dei premi assicurativi.

Per far fronte al problema, l’allora presidente Nixon, formò una commissione governativa che, esaminando le denunce, stabilì due principi che ancora oggi sono ritenuti fondamentali per il risk management ovvero:

non tutti i danni sono dovuti a negligenza non tutti i danni sono prevedibili

La piena affermazione della sicurezza arrivò, però, nel 1999 con la pubblicazione del noto rapporto statunitense dell’Institute of Medicine (IOM) “To Err s Human. Building a safer health system”, che metteva in luce come il fenomeno avesse un’alta rilevanza e costi sociali elevatissimi. Lo scalpore suscitato condusse a ritenere che, il miglior modo per far fronte al problema, fosse quello di sviluppare un sistema di prevenzione degli errori per tutti gli ospedali.4

Da qui in poi si è assistito ad un progressivo aumento degli studi sull’argomento, facendo sì che la sicurezza del paziente divenisse nel tempo una problematica di rilevanza nazionale e internazionale che interessa vari settori dell’assistenza, oltre a porsi quale obiettivo prioritario dei Sistemi e dei Piani Sanitari Nazionali.

1.2 La situazione internazionale

La sicurezza del paziente è un problema che riguarda i sistemi sanitari di tutto il mondo. In numerose nazioni sono stati condotti studi epidemiologici, in particolare nel periodo che va dal 1984 al 2000, dimostrando una marcata relazione fra numero di ricoveri e incidenza di eventi avversi. La rilevanza

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maggiore è stata registrata in un ospedale australiano nel 1992 nel quale, a seguito di 14179 ricoverati oggetto di studio, si sono segnalati circa 2353 casi di eventi avversi anche gravi.

Negli anni successivi, in altre strutture sanitarie, sono emersi i seguenti dati: Nuova Zelanda 12,9% -1998, Svezia 12,3% - 2006 e Regno Unito 10,8% - 1999. Il tasso di eventi avversi più basso è stato registrato negli stati di Utah e Colorado 2,9% - 1992 e negli Stati Uniti 3,7% - 1984. Si sono mantenuti comunque sotto il 10% anche Danimarca 9% - 1998, Spagna 8,4% - 2005, Canada 7,5% - 2000, Francia 5,1% - 2004 e Paesi Bassi 5,7% - 2006.5

Tutti questi Paesi hanno, e stanno tutt’ora continuando ad affrontare la sicurezza del paziente con proprie iniziative. Soprattutto nei contesti sanitari più avanzati (Stati Uniti, Canada, Australia, Gran Bretagna) diversi sono i sistemi in atto volti a contenere il rischio clinico. Sono stati istituiti centri e programmi dedicati alla promozione della sicurezza che hanno costruito sistemi di sorveglianza e prodotto raccomandazioni e iniziative d’intervento e formazione.

Per quanto riguarda lo scenario europeo, mentre negli altri paesi (Spagna, Francia, Irlanda e Germania) si registravano solo sporadiche iniziative, nel Regno Unito il problema degli errori è esploso dopo la pubblicazione del rapporto “An organization with a memory” del giugno 2000.

Nel luglio 2001 è nata la National Patient Safety Agency (NPSA), con l’intento di realizzare un sistema per la denuncia dei danni, degli eventi sfavorevoli e delle situazioni di “quasi - errore”, e trovare perciò soluzioni affinché si potesse bloccare l’errore umano prima che il danno si verifichi. Nel 2007, il National Health System britannico ha progettato una campagna per la sicurezza, la “Patient Safety First”, lanciata nel giugno 2008 e conclusa a marzo 2010. La sicurezza del paziente è, altresì, uno dei 6 obiettivi inclusi nella strategia nazionale per il Miglioramento della Qualità in Sanità pubblicata nel marzo 2011 dal Dipartimento di Salute e Servizi Umani.

Per quanto riguarda il resto d’Europa, in Francia il problema è emerso nei primi anni novanta con il concetto di Sécurité Sanitaire (sicurezza sanitaria delle persone contro i rischi terapeutici di qualsiasi natura), scaturita nella nascita di vari enti e agenzie responsabili della sicurezza.

In Danimarca, è in vigore una legge sulla malpractice compensation già dal 1997, imponendo alle Contee di coprire i danni relativi alle denunce. È però con la partecipazione alla conferenza sul Risk Management del British Medical Journal del 2000 che è emersa l’evidenza che la sicurezza doveva occupare un ruolo centrale. Nel dicembre 2001 fu quindi istituita la Danish Society for Patient Safety (DSPS), che ha realizzato diverse azioni formative e campagne.6

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migliorare gli esiti per i pazienti. Tra il 2000 e il 2001 sono stati costituiti alcuni organismi, tra cui il Consiglio Australiano per la sicurezza e la qualità dell’assistenza sanitaria (ACSQHC) per dare vita alle azioni nazionali.

In Nuova Zelanda è stato finanziato uno studio dalla Zeland quality of Healthcare Study (NZQHS), con l’obiettivo di individuare il verificarsi, la causalità, l’impatto e la comprensione della qualità dell’assistenza sanitaria e migliorare la qualità delle cure ricevute dai pazienti in ospedale.

In Canada, è avviato dal 1958 l’Accreditation Canada. È presente, inoltre, il Canadian Patient Safety Institute (CPSI), un’associazione senza fini di lucro fondata dall’Health Canada nel 2003. Nello stesso anno, il Canadian Council on Health Services Accreditation (CCHSA) si è impegnato nello sviluppo di un documento, contenente alcune raccomandazioni, che ha esplorato il programma di accreditamento in materia di sicurezza dei pazienti.

Negli Stati Uniti, grazie all’attività dell’Agency for Healthcare Research and Quality (AHRQ) è stato promosso, nel 2001, l’impiego diffuso di diverse misure, stanziando fondi per la ricerca e fornendo formazione. Dagli anni ‘80 vi operano, inoltre, due associazioni non governative quali la Joint Commission on Accreditation of Healthcare Organizations (JCHAO) e l’Institute for Healthcare Improvement (IHI) di Boston. Quest’ultimo ha lanciato nel 2005 una campagna per incrementare la sicurezza e l’efficacia negli ospedali.

Anche molti organismi internazionali si sono messi in azione per affrontare la problematica, prima fra tutte l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che, il 27 ottobre 2004, ha costituito la World Alliance for Patient Safety. Questa si è fatta promotrice di diverse iniziative, come il programma del 2005 “Global patient Safety Challenge”, e diverse campagne tra cui: “Clean Care is Safer Care” del 2006, “Safe Surgery Saves Lives” per il periodo 2007-2008 e infine la terza sfida, iniziata nel 2009 e sancita nel 2010, focalizzata sul problema crescente della resistenza agli antibiotici.7/8 Nel gennaio

2006, ha inoltre pubblicato la dichiarazione di Londra, “Patients for patient safety”, e nel 2009 ha elaborato, avvalendosi della collaborazione dell’APSF, la “Classificazione Internazionale per la Sicurezza del Paziente (ICPS) ”, costruendo una tassonomia standardizzata per i concetti chiave della sicurezza del paziente.9

Infine, nell'ottobre 2011, ha rilasciato il nuovo “Curriculum Multi - professionale. Guida alla sicurezza del paziente.” per promuovere il bisogno di educazione rispetto la problematica.10

Altresì nel 2005, l’European Society for Quality in Healthcare (ESQH), ha elaborato la “Stakeholders’ Position Paper On Patient Safety” che presenta Raccomandazioni concordate dalle più rappresentative associazioni europee di pazienti e operatori.

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Nell’aprile dello stesso anno la Commissione Europea, con la “Luxembourg Declaration on Patient Safety”, ha riconosciuto che l'accesso alle cure sanitarie di qualità è un diritto umano fondamentale, che deve essere valorizzato dall'Unione europea, dalle sue istituzioni e dai cittadini europei. In seguito, nel 2009, con l’aiuto del Gruppo ad Alto Livello sulla sicurezza dei pazienti, ha elaborato una raccomandazione nella quale si considera “la sicurezza del paziente come una questione sempre più preoccupante per i sistemi sanitari di tutto il mondo”.

Nel 2006, all’interno del Consiglio d’Europa, sono state redatte le “Raccomandazioni del Comitato dei Ministri sulla gestione della sicurezza del paziente e la prevenzione di eventi avversi in ambito sanitario” ed, infine, l'OCSE/OECD (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) ha rilasciato, nel 2008, un nuovo documento (OECD Health Technical Paper) che fornisce un manuale per facilitare le comparazioni nazionali di indicatori per la sicurezza dei pazienti.

1.3 La situazione italiana

Nel nostro paese si è iniziato a parlare di errori in medicina in seguito ai dati delle segnalazioni di eventi sfavorevoli del Tribunale dei diritti del Malato nel 2000, quando studi nazionali completi non c’erano ancora. Proprio questo ente ha promosso alcuni importanti impegni italiani allo scopo di favorire la fiducia con i cittadini, tracciando le linee guida attorno alle quali si devono organizzare le Unità di gestione del rischio. Successivi dati ricavati dalla rivista “Rischio sanità” nel 2001 indicavano che, ogni anno, il 4% circa delle persone ricoverate usciva dall’ospedale riportando danni e malattie dovuti a errori nelle cure o a disservizi ospedalieri.11

Si è così sviluppata una progressiva attenzione al tema della sicurezza delle cure, cui il Ministero della Salute fa da cabina di regia. Quest’ultimo, infatti, ha realizzato diverse normative e azioni.

Inizialmente, con il D.M. 5 marzo 2003, è stata istituita la Commissione tecnica sul rischio clinico, che ha prodotto il documento “Risk Management in sanità. Il problema degli errori”. Avvalendosi del supporto di questo Gruppo sono state avviate numerose attività, tra cui:

il monitoraggio e l’analisi degli eventi avversi;

la stesura e diffusione delle “Raccomandazioni”, volte a fornire indicazioni per prevenire il verificarsi degli eventi avversi;

la formazione, attraverso la diffusione di strumenti di studio, come il documento “Sicurezza dei pazienti e gestione del rischio clinico: Manuale per la formazione degli operatori sanitari”

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Con il Decreto del febbraio 2006 è stato nominato il Gruppo di lavoro per la Sicurezza dei Pazienti. In seguito, è stato attivato il Sistema Nazionale di Riferimento per la Sicurezza dei Pazienti (Decreto del 10 gennaio 2007), garantendo anche l’attività dell’Osservatorio per la Sicurezza del paziente e del gruppo di lavoro.

Il ministero si è attivato, altresì, per coinvolgere i cittadini, e ha creato delle guide rivolte alle strutture sanitarie per migliorare la qualità delle cure che rientrano nella campagna ‹‹Uniti per la sicurezza››. I dati più recenti forniti dal Tribunale dei diritti del Malato offrono una panoramica sul trend delle segnalazioni di “malpractice” dal 1996 al 2008, facendo registrare in quest’ultimo anno una lieve flessione dei casi di malasanità (-0,2% rispetto al 2007). È emerso, inoltre, come la metà delle strutture sanitarie pubbliche non conosca il numero e le tipologie degli errori che si commettono, riducendo in questo modo al minimo la propria capacità di prevenzione.12

Infine, dai dati della Commissione parlamentare sugli errori in sanità, raccolti da aprile 2009 al 30 settembre 2011, si segnala che in Italia, in media, ogni mese si contano 16 casi di presunta malasanità. Più di uno ogni due giorni.13

Gli ultimi dati pervenuti emergono da una ricerca realizzata per la prima volta in Italia, promossa e finanziata dal Ministero della Salute e realizzata dalla regione Toscana. Analizzando10mila cartelle cliniche di cinque grandi policlinici italiani e valutando i risultati delle cure, è emerso che il tasso di eventi avversi è del 5,17%. Un dato che però non deve far abbassare la guardia è quello che riguarda la “prevedibilità degli eventi avversi” che in Italia è più alta in confronto a quella riscontrata in altri Paesi: 56,7% rispetto al 43,5%.14

1.4 Contesto regionale

I dati della letteratura internazionale15 oramai da anni evidenziano la gravità del problema degli eventi

avversi in medicina sia in termini di costi umani che economici. Nel panorama nazionale italiano il Centro per la Gestione del Rischio Clinico e la Sicurezza del Paziente Toscano (GRC) è forse la prima struttura appositamente creata per dare una risposta ai problemi correlati alla sicurezza del paziente a livello regionale. Si tratta di una struttura di Governo clinico, collocata all'interno della Direzione Generale Diritto alla Salute della Regione Toscana con il compito di promuovere e coordinare le iniziative per la sicurezza del paziente nel servizio sanitario toscano.

Le Aziende Sanitarie Toscane devono considerare la struttura di governo clinico regionale non come l’organismo che fornisce la “linea” ma soprattutto come struttura di supporto al cambiamento. La scelta politica di aver collocato delle strutture di “governo clinico” all’interno dell’apparato politico ed

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amministrativo regionale, che potremo definire in lingua inglese di “political governament”, esprime una volontà di cooperazione molto forte tra professionisti della sanità e rappresentanti dei cittadini. In questa logica, i dati ed i risultati delle analisi più strettamente “tecniche” devono essere occasione di ispirazione e punto di partenza di scelte politiche e gestionali.

Si tratta di una proposta innovativa che ha l’obiettivo di rendere sempre più vicini e funzionali al sistema il governo clinico ed il governo politico ed economico regionale.

In questo contesto pur assumendo il termine “governo” significati diversi, a secondo che lo si applichi ai clinici o alla dirigenza amministrativa, ha una medesima finalità: favorire decisioni da parte del “political governament” coerenti e calibrate ed orientate a rendere il servizio sanitario più omogeneo nel complesso delle sue prestazioni, assicurando al cittadino gli standard di qualità ed appropriatezza più elevati mediante una opera costante e continua di confronto e valutazione delle prestazioni. Creare un ambiente basato sui principi del “coinvolgere”, “condividere”, “collaborare”, “comunicare”, “imparare dall’esperienza” significa dare rilievo alle persone, più che alle strutture.

Questa affermazione, che deriva dalla pratiche quotidiane di lavoro di un centro d governo clinico regionale, ha totale corrispondenza nella definizione originale di Clinical Governance16: What is

clinical governance? Clinical governance is a system through which NHS organisations are accountable for continuously improving the quality of their services and safeguarding high standards of care by creating an environment in which excellence in clinical care will flourish. (Il governo clinico

è un sistema attraverso il quale le organizzazioni sanitarie diventano responsabili di un miglioramento continuo della qualità dei loro servizi e della salvaguardia di standard elevati di cura attraverso la creazione di un ambiente in cui l’eccellenza delle performance cliniche fiorirà). In questa definizione è chiaro che per creazione di un ambiente eccellente si intende la presenza di una armonia e comunicazione costante tra ambiente sociale, professionale e organizzativo.

Il Governo Clinico17si pone, ai diversi livelli di responsabilità del sistema sanitario regionale, lo scopo

ambizioso di tentare di regolare il processo decisionale in sanità, tra il ruolo professionale degli operatori sanitari, quello autonomo dei cittadini e quello organizzativo degli amministratori. E’ quindi un patto di reciproca responsabilità. Il Governo Clinico è un mezzo perché una società democratica e fortemente partecipativa definisca modi e strumenti per consentire i migliori risultati delle cure nel rispetto delle esigenze comunitarie. Da un lato quindi si pongono la sicurezza e la soddisfazione del paziente, dall’altro le competenze professionali e quelle manageriali a costituire insieme una via

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coordinamento operante nello staff di direzione sia sul piano formativo del personale sia su quello operativo con particolare riguardo a azioni trasversali rispetto alla organizzazione aziendale quale la gestione del rischio clinico, la sicurezza del paziente, la relazionalità, l’uso dei farmaci, l’appropriatezza ed ottimizzazione dei percorsi assistenziali, le infezioni e le problematiche ad esse afferenti”

Tali azioni si basano su alcuni dei principi generali del management:

1. Coinvolgere il personale

2. Condividere i programmi di attività 3. Imparare dall’esperienza

4. Collaborare con l’amministrazione

5. Far comunicare costantemente il sistema tra le sue diverse componenti. Gli Organismi tecnico professionali del Governo Clinico sono:

1. Consiglio Sanitario Regionale;

2. Istituto Toscano Tumori; Organizzazione Toscana Trapianti; 3. Centro regionale per il Rischio Clinico e la sicurezza del paziente;

4. Centro Sangue (CRCC); Commissioni di coordinamento regionale (Linee guida, Lotta al dolore).

Per la Gestione del Rischio Clinico in Toscana ogni azienda è tenuta ad avere: Un sistema di coordinamento aziendale per la Gestione del rischio Clinico (GRC); un piano aziendale per la GRC che specifica gli strumenti di identificazione, analisi e prevenzione dei rischi; un programma di formazione per preparare il personale alla GRC: un sistema informativo per la gestione dei sinistri e la diffusione delle azioni di prevenzione.18

Il Modello Toscano per la Gestione del rischio Clinico si suddivide in attività e attori:

 Le attività : Analisi rischi, Gestione rischi, Segnalazioni, partecipazione ad Audit e M&M.

 Gli attori collettivi come supporto e addetti al coordinamento sono: Centro Regionale GRC, Comitato GRC, Gruppo Aziendale GRC, Coordinamenti di Area Vasta per gestione rischio clinico e coperture assicurative.

 Gli attori individuali : l'operatore sanitario/ utente, il facilitatore, e il Clinical Risk Manager. La premessa19 per l’attuazione del sistema di gestione del rischio é la definizione di un assetto

organizzativo aziendale, condiviso a livello regionale, che individui gli attori principali ed i relativi ruoli all’interno del sistema stesso. Gli attori sono:

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politecnica o psico-sociale, responsabile del sistema di gestione del rischio clinico. E’ nominato dalla direzione aziendale ed è tenuto a seguire il corso di formazione organizzato dal centro regionale al fine di poter ottenere l’attestazione come clinical risk manager. Coordina tutte le attività relative alla gestione del rischio clinico all’interno dell’azienda sanitaria, rappresenta l’interfaccia fra l’azienda stessa e l’esterno (area vasta, centro regionale, altre aziende) per quanto riguarda la sicurezza dei pazienti. Ha il compito di organizzare e coordinare il piano aziendale di gestione del rischio clinico con il supporto del gruppo di lavoro aziendale; fornisce supervisione e supporto ai facilitatori; gestisce il data base dove sono raccolte le informazioni sul rischio clinico e gli alert report; risponde del suo operato al comitato per la sicurezza del paziente ed al centro regionale GRC.

2. il gruppo di lavoro aziendale per la gestione del rischio clinico coordinato dal referente per la gestione del rischio clinico, è composto da una équipe di lavoro in cui sono presenti professionisti appartenenti alle aree cliniche a maggior rischio. Il gruppo di lavoro è responsabile della fase di attuazione del sistema, è l’interfaccia tra gli operatori della “front line” e la direzione e tutti gli altri attori aziendali che si occupano di rischio clinico sotto diversi aspetti, ovvero gli Uffici Affari Legali, gli Osservatori Medico Legali, gli Uffici Relazioni con il Pubblico. Sintetizza e si fa portatore delle istanze emerse dall’analisi fatta sul campo relativamente ai bisogni di gestione del rischio.

3. il comitato aziendale per la sicurezza del paziente con funzioni consultive e di indirizzo, rappresenta il committente aziendale ed in esso sono presenti tutti i responsabili dei dipartimenti o delle unità operative aziendali.

A livello dell’Unità Operativa, sono previsti due ruoli operativi:

Il facilitatore è la figura che svolge l’importante ruolo di raccolta delle segnalazioni di eventi avversi ed organizzazione dei momenti di analisi mediante audit clinico GRC o rassegna di mortalità e morbilità. E’ un professionista sensibile agli aspetti di gestione della qualità e della sicurezza. Ha delle buone abilità relazionali riconosciute da parte dei colleghi e dei pazienti. Viene nominato dalla direzione aziendale ed è tenuto a seguire un corso di formazione specifico della durata di almeno 30 ore.

L’utente interno, questo ruolo può essere ricoperto da ogni operatore sanitario che partecipa al piano di gestione del rischio clinico. L’unico requisito per diventare utente è la frequenza

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attivarsi per migliorare la sicurezza del paziente. Senza dimenticare il:

Il Coordinatore è la figura che svolge un ruolo di coordinamento in un programma di miglioramento continuo della qualità dell'assistenza, un ruolo fondamentale nell'implementazione delle linee guida, nella gestione e sviluppo delle competenze degli operatori, nella leadership, nella direzione, nella supervisione e nelle continue verifiche dei cambiamenti condivisi per il raggiungimento dell'obiettivo previsto. Coordina e gestisce un pool di persone con qualifiche diverse, ne dispone numericamente e qualitativamente le presenze secondo le attività da erogare, ne gestisce le assenze garantendo il miglior utilizzo delle stesse; organizza le attività dei componenti dell’équipe attraverso l’elaborazione di piani di lavoro o indirizzando verso il conseguimento degli obiettivi prestazionali; verifica l’operato prestazionale ed il raggiungimento degli obiettivi, garantendo la presenza di tutti i supporti tecnici e materiali; crea le relazioni ed i collegamenti tra tutti gli operatori; si avvale di strumenti operativi quali le procedure e protocollo di lavoro ; modula l’organizzazione del lavoro; favorisce la formazione e l’aggiornamento continuo del personale; dispone l’inserimento di personale neo-assunto all’interno della struttura organizzativa di afferenza; motiva e valorizza il personale per migliorare in modo continuo gli standard di performance; stimola il mantenimento di un clima sereno e collaborativo.

L’obiettivo del centro che opera a livello regionale è quello di costruire, all’interno delle aziende e a livello regionale, una struttura a rete per la gestione del rischio clinico. La base di questa rete è lo sviluppo di una comunità di esperti che grazie allo scambio continuo producono innovazione e miglioramento. I membri di questa comunità appartengono alle diverse figure professionali che convivono nelle strutture sanitarie: medici, infermieri, tecnici, responsabili della qualità e dell’amministrazione. Per affrontare un problema così complesso è di vitale importanza l’interdisciplinarietà, il confronto e la combinazione di punti di vista tra discipline (medicina, ergonomia, management, design, ecc) e professioni (medici, ingegneri, comunicatori, psicologi, ecc.) molto diverse, che possono contribuire alla qualità ed alla sicurezza del sistema sanitario.

La rete per la gestione del rischio ha come priorità la creazione di un sistema in ciascuna azienda sanitaria e a livello regionale.

Le attività fondamentali del GRC sono: l'identificazione del rischio, l'analisi e la valutazione del rischio, la prevenzione e il contenimento del rischio.

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L'identificazione del rischio presente nella struttura in termini qualitativi e quantitativi è il primo passo per attuare il sistema GRC. Esistono diverse fonti informative che contribuiscono all'identificazione delle componenti del rischio e sono riassunte :

 L'Ufficio affari legali (Gestione sinistri)  L'Osservatorio medico legale

 URP (Gestione Reclami)  Eventi sentinella (CRM)

 Sistemi di segnalazione volontaria

 Ufficio Amministrativo (Cartelle cliniche, SDO, Dati).

A fornire informazioni ,contribuiscono il numero dei sinistri aperti in seguito a denunce da parte dei pazienti e dei parenti dei pazienti e i reclami che arrivano dall'URP. Inerenti a problematiche di tipo Tecnico professionale. Per l'identificazione della parte sommersa dei rischi, quelli che sono molto più frequenti ma anche meno visibili perchè non hanno effetti clamorosi, la fonte informativa è il sistema dell'incident reporting, cioè la segnalazione volontaria degli incidenti da parte degli operatori sanitari.

1.5 Contesto aziendale

La attività del GGRC aziendale della AUSL 2 Lucca si è realizzata attraverso riunioni e lavori di sottogruppi mensili/bimensili, aperte al contributo di tutti i settori aziendali impegnati sul fronte della gestione del rischio clinico, spesso col contributo dei facilitatori.

Nel 2011 sono state normalmente svolte le attività organizzative di coordinamento, attuazione, supervisione e valutazione della gestione del rischio clinico al livello aziendale.

Le riunioni del GGRC sono state 5 nel 2011 delle quali 2 con il Comitato di Governo Clinico e Sicurezza.

Inoltre sono stati organizzati incontri con i Dipartimenti Ospedalieri alla presenza di tutti i Direttori di UO in merito agli obiettivi di budget in materia di gestione del rischio clinico.

Vi sono state inoltre 1 riunione col servizio infermieristico ed 2 riunioni con i facilitatori. Il 27 gennaio 2011 vi è stata la visita regionale del GRC con valutazione definita soddisfacente.

Sono state effettuate dal CRM 93 riunioni tra Audit, MMR, incontri aziendali e regionali comprendenti anche l'avvio di altre Buone Pratiche e Raccomandazioni Ministeriali, aggiornamenti in tema di LR 51/2009 e accreditamento in materia di rischio clinico ed altresì sono stati effettuati 17 eventi formativi

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Nel 2011 sono state inoltre preparate ed approvate due importanti deliberazioni in tema di Ambulanza Infermieristica ed in tema di organizzazione funzionale e gestionale di Buone Pratiche e Raccomandazioni Ministeriali come da allegati.

Lo sviluppo del sistema di incident reporting ha avuto le difficoltà condivise con le altre aziende per l'impossibilità del software a registrare le UO partecipanti.

In tema di gestione del contenzioso si è realizzato anche per il 2011 un ottimo risultato sia in tema di consulenze rilasciate,(55 consulenze su 65 casi esaminabili), sia in tema di transazioni dirette effettuate.

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CAPITOLO SECONDO

Panorama dei concetti principali

2.1 Definizione di Sicurezza del paziente, Evento Avverso ed Evento Sentinella

La Sicurezza del paziente non va intesa come la sola mancanza di errori, ma come la “Dimensione della qualità dell’assistenza che garantisce, attraverso l’identificazione, l’analisi e la gestione dei rischi e degli incidenti possibili per i pazienti, la progettazione e l’implementazione di sistemi operativi e processi che minimizzano la probabilità di errore, i rischi potenziali e i conseguenti possibili danni per i pazienti”.20

Affrontando questo tema, però, ci si scontra spesso con alcuni termini le cui definizioni talvolta sono sovrapposte e confuse. Innanzitutto, il significato del termine rischio. Spesso, infatti, per motivi di consuetudine, si tende ad utilizzarlo come sinonimo di pericolo che indica, al contrario, una circostanza o situazione da cui può derivare un danno. Il rischio equivale, invece, alla possibilità di subire un danno, o una perdita, come eventualità generica o per il fatto di essere esposti ad un pericolo.21

In termini sanitari, il rischio clinico è la “Probabilità che un paziente sia vittima di un evento avverso, subisca cioè un qualsiasi danno o disagio imputabile, anche se in modo involontario, alle cure mediche prestate durante il periodo di degenza, che causa un prolungamento del periodo di degenza, un peggioramento delle condizioni di salute o la morte”.22

L’evento avverso può essere prevenibile, se attribuibile ad un errore, o non prevenibile. Inoltre, al suo interno sono posti sullo stesso piano sia gli eventi che hanno comportato un danno, sia quelli che oggettivamente non hanno portato a nessuna conseguenza alle persone coinvolte.

Degli eventi avversi fanno parte anche gli eventi sentinella ovvero, “un evento avverso di particolare gravità, potenzialmente indicativo di un serio malfunzionamento del sistema, che può comportare morte o grave danno al paziente e che determina una perdita di fiducia dei cittadini nei confronti del servizio sanitario. Il verificarsi di un solo caso è sufficiente per dare luogo a un’indagine conoscitiva diretta ad accertare se vi abbiano contribuito fattori eliminabili o riducibili e per attuare le adeguate misure correttive da parte dell’organizzazione”.23

Proprio per la loro particolare gravità il Ministero della Salute ha avviato, nel 2005, il monitoraggio degli eventi sentinella e, successivamente, ha avuto inizio l’attività dell’Osservatorio Nazionale sugli Eventi Sentinella attraverso il Sistema Informativo per il Monitoraggio degli Errori in Sanità (SIMES),

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2.2 Clinical Risk Management

Il mezzo attraverso il quale può essere contenuto il rischio clinico è il Clinical Risk Management CRM (Gestione del Rischio Clinico).25

Tale strumento, definito come un sistema fondato su una metodologia logica e sistematica, è realizzato attraverso fasi concatenate di identificazione, valutazione, analisi, comunicazione, ed eventualmente eliminazione e monitoraggio dei rischi, consentendo di migliorare la qualità delle prestazioni sanitarie e garantire la sicurezza del paziente. Perché siano efficaci, le iniziative di CRM vanno messe in atto a livello di singola struttura, a livello aziendale, regionale e nazionale e deve, dunque, prevedere strategie di lavoro integrate che includano la partecipazione di numerose figure che operano in ambito sanitario.

2.2.1 L’Incident Reporting

L’Incident Reporting (IR) è il sistema più diffuso e maggiormente promosso per la gestione del rischio clinico. Documentato in letteratura da oltre 25 anni, fonda le sue origini nel settore Aereonautico alla fine degli anni ’70, dove veniva utilizzato per le denunce volontarie. In seguito è stato trasferito nelle Organizzazioni Sanitarie di Australia nel 1996 e nel Regno Unito nel 2001.

Il Ministero della Salute lo ha definito come una modalità di raccolta, in modo strutturato, delle segnalazioni relative al verificarsi di eventi avversi e/o quasi eventi, allo scopo di rilevare le criticità del sistema o delle procedure, che presenta determinate caratteristiche quali: non punitiva, confidenziale, indipendente, analizzata da esperti, tempestiva, orientata al sistema e rispondente.26

Questo sistema di segnalazione, volontario e anonimo, previa compilazione di una scheda, non si sostituisce, ma affianca, i sistemi obbligatori di segnalazione di eventi avversi (farmacovigilanza, infezioni ospedaliere, vigilanza su dispositivi medici, eventi sentinella). Esso permette di identificare i pericoli e i rischi presenti, le cause profonde sottostanti e indurre la conseguente riprogettazione dei processi che hanno manifestato dei difetti, per prevenire il ripetersi dell’evento. Inoltre, la diffusione dei risultati consente di diffondere e acquisire informazioni su casi simili e di porre attenzione su nuovi pericoli. L’unica tipologia di evento che non può essere segnalata è l’evento sentinella che, per gravità e importanza, segue un percorso diverso.

2.3 Il Governo Clinico

Il concetto di Governo Clinico, introdotto in Inghilterra dal Department of Health alla fine degli anni ’90, definisce il sistema attraverso il quale, le organizzazioni sanitarie, si rendono responsabili del

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miglioramento continuo della qualità dei loro servizi e garantiscono elevati standard assistenziali, creando le condizioni ottimali nelle quali far prosperare l’eccellenza clinica.27

Per la sua messa in pratica esso implica la presenza di alcune condizioni necessarie, quali: la condivisione multidisciplinare, la responsabilizzazione degli operatori e la partecipazione28 degli utenti.

Perché si concretizzi, inoltre, necessita dell’integrazione di alcuni determinanti che devono essere tra loro interconnessi e complementari. Essi sono:

Formazione continua Gestione del rischio clinico Audit clinici

Medicina basata sull’Evidenza: Evidence-Based Nursing, (EBM), Evidence-based Health Care (EBHC)

Comunicazione e gestione della documentazione Ricerca e sviluppo29

2.4 L’approccio sistemico

Il settore sanitario è un sistema altamente complesso, caratterizzato da molteplici dimensioni tecnico professionali e organizzativo - gestionali che bisogna armonizzare per espletare la funzione cui è preposto, ovvero il miglioramento dello stato di salute dei cittadini. Ma quando questo non avviene e il paziente subisce un danno, si assiste al fallimento non solo della prestazione, ma dell’intero sistema. Subentra allora un fabbisogno di controllo del sistema cui alla base stanno diversi fattori, quali la richiesta crescente di sicurezza e di cura da parte dei pazienti, sempre più consapevoli ed esigenti, le aspettative di cura e di guarigione maggiormente elevate ecc..30

Partendo dal presupposto che ciò di cui ci si vuole occupare è l’errore, e non certo assumere la logica di additare i colpevoli ricercando la responsabilità individuale dell’operatore come avveniva in passato, bisogna allora considerare tutti gli elementi di complessità che sono ugualmente coinvolti nella generazione dell’errore, e imparare da essi secondo il celebre principio “que noche dolen” – “quello che fa male insegna”.

Accostandosi a questo pensiero, lo psicologo James Reason fu il primo a spingersi al di là del modello del fattore umano, sposando un nuovo approccio allo studio degli errori soprannominato “la teoria degli errori latenti”, o più comunemente “l’approccio sistemico”.

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Esso si basa sul presupposto teorico che gli incidenti sono solo la punta dell’iceberg; vale a dire che per ogni incidente accaduto ce ne sono stati molti altri che non sono avvenuti solo perché qualcosa o qualcuno ha impedito che accadesse, i cosiddetti near-miss (quasi errore).31

Questo approccio è stato chiarito anche attraverso la metafora del formaggio svizzero. (Figura1)

Figura 1

Ogni fetta, paragonata a una difesa del sistema, rappresenta le barriere per contrastare il verificarsi di errori, che a volte possono presentare dei buchi, cioè delle perdite o punti critici. Queste lacune sono dovute a due tipologie di errori: errori attivi (active failure) o errori latenti (latent failure). I primi sono gli errori commessi dagli operatori che sono in diretto contatto con il paziente, probabilmente errori di esecuzione (slips e lapsus), mentre quelli latenti rappresentano gli errori remoti nel tempo e riferibili a decisioni di progettazione del sistema, come errori di pianificazione (mistakes).32

Errori che da soli non sono pericolosi ma che, connessi ad altri fattori eziologici e in condizioni facilitanti, possono trasformarsi in evento avverso. E’ perciò importante eliminarne quanti più possibile per ridurre il verificarsi di eventi.

La presenza dei buchi nel sistema di per sé non è sufficiente al verificarsi di un incidente ma quando, in seguito ad un susseguirsi di azioni e condizioni, essi si allineano e quindi sono nella condizione (traiettoria) delle opportunità, si ha il superamento di tutte le difese e l’incidente si verifica.

Poiché gli errori attivi sono una componente inevitabile degli esseri umani che non possiamo cambiare, bisogna agire quindi su ciò che si può modificare, ovvero le criticità latenti, come le condizioni di

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lavoro. Inoltre, bisogna prevedere in anticipo delle difese atte ad arginare le conseguenze degli incidenti che si sono verificati.33

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CAPITOLO TERZO

L’infermiere e la sicurezza del paziente

3.1 La formazione infermieristica

La sicurezza del paziente è, per l’infermiere, un valore ed un impegno operativo da perseguire in ogni ambito del proprio agire, dall’assistenza diretta alla promozione dei cambiamenti culturali ed organizzativi, necessari per la gestione del rischio e la prevenzione degli errori. Per assumere a pieno titolo il proprio ruolo in questa tematica, questo professionista deve disporre di una piena consapevolezza e cultura della sicurezza, intesa come impegno che coinvolge tutti i livelli di un’organizzazione, dalla direzione al personale in prima linea. La conoscenza e la coscienza del rischio sono il primo passo verso la sicurezza.34

Gli infermieri dovrebbero possedere, perciò, informazioni pertinenti sul Clinical Risk Management all’inizio del loro impiego ed essere educati ad affrontare il problema degli errori con una visione sistemica considerandoli, in altre parole, fonte di apprendimento e stimolo per il miglioramento. Ma come ciò debba avvenire è tutt’oggi una questione aperta.35

L’acquisizione di competenze sulla sicurezza del paziente va sviluppata sin dalla formazione di base. Esiste, quindi, un bisogno urgente per i programmi di laurea in infermieristica di rafforzare la qualità e la conoscenza della sicurezza nel loro curriculum,36 cosicché gli infermieri, nel momento della loro

assunzione, possiedano già delle nozioni di base che gli facilitino successivamente di tradurre queste informazioni nella pratica quotidiana. In questo modo è possibile modellare il ruolo degli infermieri in linea con gli odierni obiettivi del SSN. “La sicurezza dei pazienti dovrebbe far parte integrante dei programmi di studio universitari e post-universitari […] del personale sanitario, ovvero coloro che forniscono le cure in prima persona”,37 così da creare e rafforzare una forma mentis diffusa, idonea alla

gestione del rischio clinico. Inoltre, sarebbe opportuno, in considerazione della rilevanza del tema, che i programmi formativi fossero omogenei sul territorio nazionale per contenuti, modalità didattica e durata.

La necessità di una formazione infermieristica sulla sicurezza del paziente ha trovato ampia condivisione altresì a livello mondiale. Il contributo determinante degli infermieri nel migliorare la sicurezza del paziente è stato riconosciuto anche dall’OMS che, tra gli indirizzi strategici per il rafforzamento dei servizi infermieristici 2011-2015, ha inserito l’importanza di standardizzare i programmi educativi e di sviluppare l’istruzione della formazione infermieristica, al fine di rafforzarne le competenze e il contributo e sostenere la realizzazione dei programmi nazionali.38

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La Commissione Europea con la Luxembourg Declaration on Patient Safety del 2005, ha chiesto di inserire la promozione della sicurezza dei pazienti nella formazione universitaria degli operatori sanitari. Successivamente, nel maggio 2006, il Consiglio d’Europa, con la raccomandazione Management of Patient Safety and Prevention of Adverse Events in Health Care, ha incoraggiato la promozione dello sviluppo di programmi di formazione per tutto il personale sanitario.39

Da una verifica formativa internazionale sulla sicurezza del paziente, è emerso come le scuole che dimostrano un maggior numero di iniziative formative sulla sicurezza siano in paesi come la Gran Bretagna, dove l’attenzione a questo tema si è sviluppata da tempo.

Altre nazioni come Danimarca, Irlanda, Francia, Olanda e Svizzera, propongono invece una preparazione specifica solo a livello di Master o di corsi brevi, classificabili come Executive Education.40

In America, come in Gran Bretagna, si inserisce questo tipo di formazione già nel corso di laurea, utilizzando metodiche quali la simulazione del paziente, strategia raccomandata anche nel rapporto dello IOM, con effetti positivi sull’apprendimento.41

Altresì, il progetto Quality and Safety Education for Nurses (QSEN), lavora all’obiettivo di aiutare la formazione infermieristica nel cambiamento, per creare infermieri preparati con le competenze per assicurare il miglioramento della qualità e della sicurezza.

In Canada, invece, è l'attenzione esclusiva sui singoli errori, e non sugli errori di sistema, che è di preoccupazione per quanto riguarda la formazione infermieristica e la sicurezza del paziente.

La formazione va ritenuta quindi una leva strategica, in primo luogo per creare la necessaria sensibilità al problema. Inoltre, essa ha la funzione di creare:

un cambiamento culturale (dall’errore individuale ad organizzazione che apprende dagli errori);

la formazione di una “massa critica” competente (conoscenze, abilità, atteggiamenti) per gestire la sicurezza a tutti i livelli dell’organizzazione;

il miglioramento della percezione del rischio (riconoscimento e segnalazione delle situazioni pericolose per la sicurezza del paziente);

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3.2 Nursing malpractice

Si è visto fin qui come la dimensione degli errori sia una problematica che investe tutti gli operatori sanitari ivi compresi gli infermieri che, in particolar modo negli ultimi anni, hanno vissuto una graduale evoluzione, acquisendo sempre maggiori competenze e responsabilità.

Con il termine “nursing malpractice” sono rappresentati l’insieme di eventi avversi che avvengono durante l’espletamento dell’assistenza infermieristica. Esso è strettamente correlato a casi di negligenza, imperizia e incapacità professionale da parte degli operatori sanitari nel fornire un’adeguata assistenza al malato, risultante in un danno a colui che riceve la prestazione.

Tutt’oggi non esiste ancora una banca dati nazionale relativa agli errori degli infermieri. Gli unici esempi provengono dalla casistica giudiziaria, in particolare quella statunitense.

L’American Nurses Association stima che ci sono 3.000.000 errori sanitari negli ospedali degli Stati Uniti ogni anno. A partire dal 2001, pertanto, anche gli infermieri sono stati chiamati sempre con maggiore frequenza come imputati in cause legali. Ciò legato anche all’aumento del carico di lavoro dovuto alla carenza di infermieri che molti paesi, come Belgio, Francia, Gran Bretagna, Olanda, Australia e Scandinavia, a eccezione della Spagna, hanno e ancora accusano. Di conseguenza ai turni lunghi e pesanti, si crea un maggior affaticamento del personale, con l’aumentare dell’eventualità del verificarsi dell’errore. Una ricerca americana (pubblicata da Accident Analysis and Prevention) afferma, infatti, che il maggiore rischio di errore (il 20 % di tutti gli errori) deriva da orari di lavoro innaturali.43

Altresì, uno studio sulla relazione tra numero di personale infermieristico ed eventi avversi del 1988 di Kovner e Gergen ha dimostrato come, ad un aumento di 0,5 ore di assistenza infermieristica per giorno di degenza/paziente, è associata una riduzione:

del 4.5% di infezioni tratto urinario del 4.2% di polmoniti

del 2.6% di trombosi

dell’1.8% di problemi polmonari.44

Viceversa, i campi in cui si verificano maggiormente gli errori degli infermieri, come documentato dall’American Society of Hospital Pharmacy, sono: errori di terapia, errore trasfusionale, errore di campionamento, errori che arrecano infezioni, ulcere da pressione ed errori che arrecano cadute. Oltre ad errori di “manualità”, il termine nursing malpractice si riferisce anche alla mancata individuazione e registrazione di bisogni assistenziali, come la mancata osservanza di ordini del medico, ritardare le cure

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del paziente e/o incapacità di monitorare il paziente, non corretta esecuzione di una procedura, o tentativo di eseguire una procedura senza formazione.45

In Italia, come negli altri paesi, le principali cause di errore, rilevate attraverso una ricerca internazionale sui near misses, sono riferibili a: stanchezza, doppi turni di lavoro, diminuzione del personale, aumento dei carichi di lavoro, turn over del personale, comunicazioni errate od omesse, interferenze ambientali, deficit strumentali e organizzativi.

Attualmente gli infermieri italiani dimostrano un atteggiamento positivo e attivo. Si attrezzano per combattere il rischio di errori non intervenendo sull’errore compiuto ma prevenendolo, operando opportunamente sull’area degli errori mancati.46

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CAPITOLO QUARTO

La terapia trasfusionale

4.1 Le origini

Fra riti e magia, alchimie e medicina il sangue, come farmaco e strumento terapeutico e non solo (nu-merosi furono anche i tentativi di somministrarlo o di trasfonderlo a scopo di ringiovanimento) compa-re nella storia sin dalle prime civiltà.

Nella storia si trovano numerose testimonianze di come il sangue fosse bevuto: per trasmettere potenza si beveva il sangue dei gladiatori uccisi nell’arena, mentre per rinvigorire i vecchi ed allungarne la vita, Marsilio Ficino ancora nel 1479 suggeriva far bere loro sangue di giovani sani e forti.

Fra intrugli di sangue e di erbe somministrate ai malati, la paura di chi sosteneva il malato avesse nel sangue demoni malvagi da scacciare. Anche per questo venivano applicate alla pelle le sanguisughe, af-finché succhiassero via, assieme al sangue, anche gli spiriti maligni, (la pratica divenne così frequente che presso gli antichi Sassoni i medici vennero addirittura chiamati “sanguisughe”. Per esempio, il co-mune mal di testa veniva curato versando sangue di gallo selvatico sulla testa del paziente; oppure un guscio di uovo riempito col sangue del malato, dopo averlo fatto covare da una gallina, si teneva sospe-so sul malato nella speranza che la malattia entrasse nell’uovo, liberando l’uomo).

Le prime trasfusioni di sangue potrebbero già essere state praticate da Egizi, Greci e Romani.

E’ noto il progresso della medicina Egizia che portava i suoi medici perfino ad eseguire operazioni al cervello, operazioni che avevano successo, quindi una trasfusione poteva essere conosciuta e praticata. Nell’antico Egitto la pratica della trasfusione poteva essere inserita nell’ambito delle cure geriatriche prestate al faraone per impedirne l’invecchiamento.

Per quasi 2.000 anni, in Egitto e altrove “…il sangue fu considerato il rimedio sovrano per la lebbra…”.47

I due più grandi esponenti della Scuola Alessandrina Erofilo di Calcedonia nel "Traitè d’anatomie" III a.C. ed Erdasistrato di Giulide, conoscessero l’uso della trasfusione infatti nelle loro opere compare il termine: "trasfondere", rimane il dubbio che questo si riferisca esattamente alla pratica come noi la co-nosciamo.

Nel 577 a.C. a Roma la moglie di Tarquinio Prisco V: Tanaquilla in un disperato tentativo di salvare dalla morte il marito, ci narra la leggenda, gli fece dono del proprio sangue.

Ippocrate di Cos (460 - 355 a.C.) prescriveva la somministrazione di sangue nel trattamento del "mal caduco", anche se non è specifica se per ingestione o per trasfusione.

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Nelle Metamorfosi di Publio Ovidio Nasone si legge il seguente passaggio "…stringite, ait, gladios ve-teremque haurite cruorem ut repleam vacuas juvenili sanguine venas…"48 dell’episodio che vede la

maga Medea cedere alle preghiere di Giasone e consigliare alle figlie del vecchio Pelia di far scorrere nelle vene dell’anziano il sangue di un giovane, (a questo passaggio si deve la nomea di "trattamento Medeano" per descrivere le trasfusioni sanguigne.

I romani curavano l’epilessia bevendo il sangue umano, tant’è che Tertulliano (ca. 160-230 a.C.) inorri-dito lamentava “…dove mettete tutti quelli che durante uno spettacolo gladiatorio corrono a bere ingor-damente, per curarsi il morbo comiziale [l’epilessia], il sangue ancor caldo sgorgante dalla strozza dei delinquenti sgozzati nell’arena?…” ed ammonendo sulle implicazioni etico-religiose dei cristiani: “… come potete mai credere bevano sangue umano coloro che siete ben persuasi abbiano orrore di quello animale…”. 49

La prima trasfusione di sangue documentata pare sia stata praticata nel 1492 all’allora Papa Innocenzo VIII. La narrazione: “…Nella città [Roma], intanto, tribolazioni e decessi non sono mai cessati; in pri-mo luogo, infatti, in poco tempo sono pri-morti tre bambini di dieci anni, dalle cui vene un certo medico ebreo (che aveva promesso la guarigione del papa) ha tolto del sangue. L’ebreo, infatti, aveva detto loro che intendeva guarire il pontefice, se solo avesse avuto una certa quantità di sangue umano e giovane; per cui ha ordinato che venisse tolto ai tre bambini, ai quali dopo la flebotomia ha dato un ducato cia-scuno; poco dopo essi sono morti. L’ebreo è fuggito, e il papa non è guarito…” In "Storia della città di Roma nel medioevo", l’evento viene narrato da Gregorovius che cita il tentativo effettuato sul Papa di trasfusione di sangue prelevato da tre ragazzini di 10 anni appositamente acquistati. Più precisamente, la storia racconta che tali “cellule fresche”gli furono fatte ingerire. Innocenzo VIII morì la sera stessa preceduto dai tre ragazzini mentre il medico personale del Papa fuggiva e la storia racconta che non se ne seppe più nulla.

Per i successivi esperimenti trasfusionali si ricorse a sangue animale che si devono far risalire probabil-mente ad un toscano, Francesco Folli di Poppi.

I primi esperimenti in tal senso prevedevano l’assunzione di sangue per bocca ma solo più tardi, nel 1600, William Harvey scoprì la funzione della circolazione sanguigna. Questa scoperta suggerì di tra-sfondere il sangue direttamente nelle vene; ma i mezzi erano rudimentali (vesciche urinarie di animali, aculei di porcospini, pesanti tubi d’argento, e così via) nessuno dei quali ebbe successo.

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diretta-Nell’inverno del 1667, venne sottoposto alle cure di Jean-Baptiste Denis, medico di Luigi XIV re di Francia, Antoine Mauroy, un uomo affetto da pazzia. Il sedativo: una trasfusione di sangue di vitello con l’esito che, dopo una seconda trasfusione ed un sorprendente miglioramento delle condizioni del paziente, sopraggiunse la morte.

A Roma, il 10 dicembre 1667, l’anatomista e chirurgo, Guglielmo Riva, trasfuse sangue di montone nel braccio di Francesco Sinibaldi, affetto da tisi polmonare; l’operazione riuscì, ma Sinibaldi morì del suo male nel febbraio del 1668.

Gli insuccessi di Parigi e di Roma, l’insufficienza dottrinale e la violenta polemica degli oppositori fecero cadere la teoria della trasfusione diretta e nel 1678 la Società Parigina dei Medici dichiarò la tra -sfusione illegale e ad uguale provvedimento giunse l’Inghilterra e lo Stato Pontificio.

In Italia, il medico Bartolomeo Santiello, nella seconda metà del XVII secolo, espresse il suo scettici-smo alla sperimentazione trasfusionale e sulla sua utilità in medicina, rincarando la dose di dissenso an-che sul piano etico: “…ci sia consentito di superare un po’ i confini della medicina e, per soddisfare più che a sufficienza il lettore curioso, dopo aver già provato l’incoerenza della trasfusione per ragioni me-diche, ci sia concesso di confermare ulteriormente quell’incoerenza con la testimonianza delle sacre pa-gine così che infatti divenga chiara la ripugnanza della trasfusione non solo per i medici, ma anche per qualunque erudito…Tuttavia lo scopo di quel vietato uso del sangue era che gli uomini non se ne nu-trissero, perciò sembra interessare meno alla nostra causa; nondimeno lo scopo di quel comando con-trasta così con l’odierna trasfusione, così che colui che ne fa uso [della trasfusione di sangue], sembra opporsi a Dio che tende alla mitezza…” (Bartolomeo Santiello, medico italiano del XVII secolo). Nella Danimarca del 1673, un uomo di cultura, Thomas Bartholin, motivò la sua critica alle di trasfu -sione di sangue: “…in anni recenti l’intervento della trasfu-sione ha superato i limiti, dato che ha intro-dotto nel cuore del malato, attraverso un’apertura in una vena, non solo liquidi fortificanti, ma sangue caldo di animali o [sangue] da un uomo a un altro … In effetti il dott. Elsholtz 50 adduce come pretesto

che il decreto apostolico deve effettivamente essere compreso in relazione al prendere sangue

per bocca, non in relazione all’infusione in vena, ma entrambi i modi di prendere [sangue] servono al medesimo scopo, quello di alimentare o risanare con questo sangue un corpo malato…”.

Nel XVIII secolo non si riscontrano esperimenti e solo dopo 150 anni di silenzio, nel XIX le trasfusioni di sangue tornarono a far parlare di se ad opera di James Blundell, medico ostetrico inglese che rivalutò la terapia assumendone la validità in virtù di tecniche e strumenti moderni e, soprattutto, dell’uso tra-sfusionale di sangue umano. Nel 1818, Blundell capì che “…solo il sangue umano poteva essere trasfu-so ad esseri umani…”, tuttavia non riuscì nei primi tentativi a realizzare la sua teoria in quanto, dopo

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aver raccolto il sangue del donatore in una ciotola, poi tentava di trasfonderlo, versandolo in un tubo connesso con una vena del malato. Evidentemente questo primitivo sistema non poteva funzionare in quanto il sangue esposto all’aria coagula, e la massa coagulata non poteva certo essere trasfusa.

Per questo alcuni medici tentarono di aggirare l’ostacolo collegando direttamente un’arteria del donato-re con una vena del malato; ma il metodo non era facile, sopratutto per la chirurgia di quei tempi e per il grande rischio di infezioni. Il donatore dovevano giacere l’uno accanto all’altro, mentre l’arteria e la vena dei due erano collegate tramite una piccola cannula di metallo. Il flusso di sangue dal donatore al ricevente era garantito dalla differenza di pressione vigente nei due sistemi: l’arterioso ed il venoso. (A parte le difficoltà della tecnica, il rischio di errori, il dolore da sopportare, la facilità delle infezioni, non si poteva inoltre regolare la quantità di sangue che veniva trasfuso. Si pensò allora di collegare una vena del donatore con una vena del ricevente per mezzo di aghi collegati fra loro tramite un tubo. Al centro il tubo era collegato ad un raccordo a forma di “Y”, a sua volta collegato ad una siringa. Attra-verso quest’ultima si poteva aspirare il sangue dalla vena del donatore spingendolo poi nella vena del ricevente. Ma queste prime esperienze non risolvevano ancora tutti i problemi: se alcuni malati miglio-ravano, altri peggioravano finanche a morire durante o poco dopo la trasfusione).

Nel 1873, un medico polacco di nome F. Gesellius, denunciò i primi rischi legati all’uso terapeutico del sangue: di fatto otre la metà dei soggetti trasfusi erano deceduti. L’allarme suscitò perplessità e critiche fra gli addetti e l’entusiasmo sulle trasfusioni si smorzò.

Nel 1878, Georges Hayem, medico francese, elaborò il primo sangue artificiale attraverso una soluzio-ne salina dall’assunta idosoluzio-neità a sostituire il prezioso liquido vitale: non presentava effetti collaterali, non coagulava e si poteva trasportare.

Dalla diffusione della soluzione di Hayem si tornò con fiducia all’uso terapeutico del sangue umano quando, nel 1900 vennero scoperti i gruppi sanguigni, e la loro compatibilità relativa, da parte del pato-logo austriaco Karl Landsteiner. Ciò significava che i precedenti insuccessi erano dovuti alla incompa-tibilità di alcuni gruppi sanguigni, che ora si potevano preventivamente conoscere e confrontare per gruppi.

Karl Landsteiner (al quale fu assegnato il premio Nobel) scoprì che ciascun uomo possiede un partico-lare tipo di sangue ed i diversi tipi identificati vennero chiamati: gruppo 0 (zero), gruppo A, gruppo B, gruppo AB. Per non avere reazioni avverse, il malato doveva ricevere solo sangue del suo stesso grup-po; il gruppo 0 poteva essere trasfuso a tutti indifferentemente, solo il gruppo AB poteva ricevere il

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Nel 1914, Hustin scoprì anche il modo di impedire che il sangue prelevato e raccolto in una bottiglia coagulasse: bastava semplicemente aggiungere un sale, il citrato di sodio.

La fiducia per le emotrasfsuioni aumentò con l’uso massiccio sui soldati nella prima guerra mondiale, che stimolò la ricerca alla sperimentazione di anticoagulanti capaci di impedire che il sangue, portato dal luogo del prelievo al campo di battaglia, si coagulasse.

Nel XX secolo l’americano Richard Lewisohn (Mount Sinai Hospital, New York) iniziò la sperimenta-zione del citrato di sodio come coagulante. Fu un successo, tant’è che nella comunità scientifica qual-cuno affermo: …era quasi come se qualqual-cuno avesse fermato il sole…” (Dott. Bertram M. Bernheim, il-lustre medico dell’epoca).

Nel 1940 ci si accorse che, aggiungendo anche zucchero, il sangue prelevato poteva essere conservato anche per alcune settimane, purché fosse conservato in frigorifero. Nello stesso anno Landsteiner e Wiener scoprirono il fattore Rh.

Ancora negli anni ‘30 i donatori versavano il loro sangue in contenitori di vetro da cinque litri dove questo veniva miscelato con quello di altri donatori dello stesso gruppo, mentre fino agli anni ‘45-‘50 era frequentissimo l’utilizzo della trasfusione diretta da donatore a paziente tramite apposite siringhe. Durante la seconda guerra mondiale la domanda si sangue venne amplificata.

Negli Stati Uniti, durante la seconda guerra mondiale, furono donate circa 13 milioni di unità di san-gue. Si calcola che a Londra ne siano stati raccolti e distribuiti più di 260.000 litri.

Dopo la seconda guerra mondiale, grandi progressi in campo medico resero possibili interventi chirur-gici un tempo inimmaginabili. Di conseguenza sorse un’industria mondiale con un giro d’affari di molti miliardi di dollari l’anno allo scopo di fornire il sangue per le trasfusioni, che i medici cominciavano a considerare una procedura di routine.

Più di recente, la tecnologia ha ulteriormente evoluto il sistema di prelievo e di conservazione; grazie all’uso di sacche di plastica è stato possibile dividere il sangue, subito dopo il prelievo, nei suoi compo-nenti principali (plasma, globuli rossi, globuli bianchi, piastrine) senza pericolo di inquinamenti esterni. In questo modo è possibile usarli separatamente, trasfondendo a ciascun malato soltanto il prodotto ri-tenuto necessario alla cura del caso particolare.

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4.2 La situazione internazionale

Oggi, nei paesi sviluppati, gli emocomponenti hanno raggiunto un elevato grado di qualità e di sicurez-za, il rischio di trasmissione di agenti virali è il più basso attualmente ottenibile, sono state sviluppate e adottate in molti paesi misure specifiche per la prevenzione della TRALI. Tuttavia, la trasfusione del sangue è ancora causa di reazioni indesiderate gravi e di eventi fatali, principalmente causati da errori nel processo di assegnazione, consegna e somministrazione della trasfusione. Nel recente report prodotto dalla Food and Drug Administration (FDA) in merito alle morti da trasfu-sione registrate nell’anno 2011, le reazioni trasfusionali emolitiche dovute ad incompatibilità ABO ri-sultano aumentate anche se il trend dal 2001 al 2011 appare in costante discesa. Il report di emovigilan-za SHOT, relativo all’anno 2011, riferisce un globale miglioramento della sicurezemovigilan-za trasfusionale, ma conferma la presenza di numerosi errori trasfusionali, ricompresi nella categoria Incorrect Blood Component Transfused.

Infatti le Autorità competenti in ambito di sangue ed emocomponenti dei paesi dell’Unione Europea, possono condividere e scambiare, attraverso una piattaforma web dedicata, informazioni rilevanti per la sicurezza dei prodotti trasfusionali e quindi dei pazienti trasfusi. In particolare ogni nuova infezione emergente o riemergente segnalata in uno Stato Membro, che può avere impatto sulla sicurezza trasfusionale (possibilità di trasmissione ai pazienti attraverso donazioni raccolte da soggetti donatori portatori asintomatici dell’infezione), può essere segnalata attraverso la piattaforma web e genera immediatamente una comunicazione (un “alert”) a tutti gli altri Stati, che possono tempestivamente adottare le opportune misure di sorveglianza e di prevenzione della trasmis-sione attraverso il sangue e i suoi componenti sul proprio territorio di competenza.

4.3 La situazione italiana

In Italia il Sistema Trasfusionale è pubblico e fa parte del Sistema Sanitario Nazionale. Eroga prestazioni di diagnosi e cura di medicina trasfusionale e realizza attività di produzione che com-prendono oltre agli emocomponenti ad uso trasfusionale anche la raccolta del plasma e il trattamento e la conservazione delle cellule staminali emopoietiche.

Per quanto riguarda la terapia trasfusionale e la sicurezza il Ministero della Salute ha definito una lista di eventi sentinella (tabella n.1) nelle attività sanitarie, per i quali è stabilito obbligo di notifica. La rea -zione trasfusionale per somministra-zione di trasfusione ABO incompatibile rientra tra gli eventi

(32)

senti-Tabella n.1

I dati italiani di emovigilanza hanno evidenziato una crescente partecipazione dei Servizi Trasfusionali con un progressivo aumento delle segnalazioni, segni di un costante miglioramento del reporting e

del-la compliance degli operatori verso il sistema.

Gli effetti indesiderati più frequentemente segnalati tra il 2009 e il 2012 sono state le reazioni allergi -che e febbrili non emoliti-che, -che rappresentano più del 70% di tutte le reazioni. Tra le reazioni indesi-derate più gravi, quelle da incompatibilità AB0 sono state il 7.3%, tutte dovute ad errori di identifica-zione del paziente o ad utilizzo di unità non destinate al paziente.

La legge 21 ottobre 2005, n. 219 52 ha ridisegnato il sistema nazionale per lo svolgimento delle attività

trasfusionali e l’Italia si è dotata di strumenti organizzativi che hanno rafforzato l’impegno diretto a conseguire l’autosufficienza nazionale di sangue ed emocomponenti, in armonia con i principi fondanti del S.S. N., ovvero: efficacia, efficienza, equità ed omogeneità di cura, appropriatezza.

Il Centro Nazionale Sangue è stato istituito con Decreto del Ministro della Salute del 26 aprile 2007.53 Ha iniziato il mandato il 1° agosto 2007. È un centro nazionale del Ministero della Salute che

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