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Ius linguae e status civitatis: verso un nuovo paradigma della cittadinanza italiana?

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© 2017-2019 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza. Tutti i diritti riservati. ISSN 1972-4799

Le istanze di accesso civico come strumento di trasparenza democratica in

di Giammaria Milani

Abstract: Con l’approvazione della legge n. 132/2018 di conversione del decreto-legge n. 113/2018, la legge n. 91/1992 sulla cittadinanza italiana è stata modificata con l’introduzione della conoscenza della lingua italiana tra i requisiti per poter richiedere la cittadinanza per matrimonio o per naturalizzazione. Il presente contributo propone un’analisi di questa modifica, in ottica comparata, al fine di comprendere se è possibile parlare dell’emergenza, in Italia, di un nuovo paradigma in materia di cittadinanza.

Abstract: With the approval of Law n. 132/2018 converting Decree Law n. 113/2018, the Law on Italian citizenship n. 91/1992 has been amended to introduce the knowledge of Italian language among the necessary requirements for applying for citizenship by marriage or by naturalisation. This essay aims to analyse this amendment, in a comparative perspective, for the purpose of understanding whether it is possible to consider that a new paradigm of citizenship is emerging in Italy.

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di Giammaria Milani*

SOMMARIO: 1. Introduzione: cittadinanza e integrazione nelle società multiculturali. – 2. La

conoscenza della lingua per l’acquisto della cittadinanza in Europa. – 3. La conoscenza della lingua nella legge italiana sulla cittadinanza. 4. Verso un nuovo paradigma della cittadinanza italiana?

L’integrazione nella società di nuovi individui è senza dubbio una delle sfide più difficili e più ambiziose che l’Unione europea si trova ad affrontare nei primi decenni del secolo attuale1. Dopo l’epoca della grande emigrazione verso l’America, nel XIX secolo, e quella della transizione migratoria, nel XX secolo, il continente europeo si caratterizza, nel XXI secolo, per essere meta di flussi migratori sempre più imponenti e sempre più compositi2.

Secondo gli ultimi dati ufficiali disponibili, oltre 22 milioni di persone residenti nel 2018 nell’Unione europea non sono cittadini UE (il 4,4% della popolazione totale); soltanto nel 2017, 2,7 milioni di immigrati provenienti da Stati terzi sono entrati in un Paese UE e 825 mila persone hanno ottenuto la cittadinanza di un Paese UE3.

La sfida posta dai fenomeni migratori che interessano l’Unione europea non può essere raccolta se non attraverso una riflessione sul significato dello status civitatis e sulla sua capacità di fungere da strumento di integrazione, nonostante il fatto che parte della

* Assegnista di ricerca in Diritto costituzionale, Università di Siena.

1. V. Piergigli, Integrazione linguistica e immigrazione. Approcci e tendenze nel diritto comparato europeo, in

Federalismi, 2013, p. 2, segnala che «il tema dell’integrazione, prima di tutto linguistica, degli immigrati

extracomunitari è ricorrente da almeno un decennio nell’agenda europea ed ha assunto un rilievo centrale nell’ambito delle politiche nazionali».

2. Per riferimenti sulla storia delle migrazioni internazionali si vedano, tra gli altri, P. Corti, Storia delle

migrazioni internazionali, Roma-Bari, Laterza, 2003; J.-P. Bardet, J. Dupâquier (a cura di), Histoire de Populations

de l’Europe, Paris, Fayard, 1997-1999; K.J. Bade, L’Europe en mouvement. La Migration de la fin du XVIIIe siècle à

nos jours, Paris, Seuil, 2002; D. Hoerder, L.P. Moch (a cura di), European Migrants. Global and Local Perspectives,

Boston, Northeastern University Press, 1996; S. Collinson, Europe and International Migrations, London, Pinter, 1994.

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dottrina ritenga tale concetto superato4. La cittadinanza nazionale si è affermata, con l’emergere dello Stato liberale, come strumento di definizione della comunità nazionale e conseguente esclusione dell’altro, dello straniero5. Nello Stato costituzionale, che si

caratterizza per essere democratico e sociale, la natura potenzialmente escludente della cittadinanza si scontra con la tendenza a far coincidere i diritti del cittadino con quelli della persona umana, per cui i confini disegnati dallo status civitatis sembrano cedere di fronte all’universalismo dei diritti umani.

In questa prospettiva, fin dalla fine degli anni Sessanta la Corte costituzionale italiana ha esteso agli stranieri l’ambito soggettivo di applicazione del principio di uguaglianza, riservato dalla Costituzione ai cittadini, affermando che «se è vero che l’art. 3 si riferisce espressamente ai soli cittadini, è anche certo che il principio di eguaglianza vale pure per lo straniero quando trattisi di rispettare quei diritti fondamentali»6. Sempre seguendo

questa linea, più recentemente la Corte ha chiaramente affermato che «lo straniero è anche titolare di tutti i diritti fondamentali che la Costituzione riconosce spettanti alla persona»7.

A partire dalla medesima prospettiva può altresì essere letto lo sviluppo di forme nuove di cittadinanza che vanno oltre il dato formale e che potrebbero essere raccolte sotto il titolo comune di “cittadinanza sostanziale”. In tale ottica, mediante il riconoscimento agli stranieri di un crescente numero di diritti, soprattutto di carattere sociale, si verrebbe a creare una nuova categoria, di “quasi cittadini”8, in grado di annacquare la distinzione tra

cittadini e stranieri tipica della “cittadinanza formale”9.

4. Sull’opportunità di superare il concetto di cittadinanza si veda soprattutto L. Ferrajoli, Dai diritti del cittadino

ai diritti della persona, in La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, a cura di D. Zolo, Roma-Bari, Laterza,

1994, p. 263 ss. Si veda anche C. Corsi, Diritti fondamentali e cittadinanza, in Diritto pubblico, 2000, p. 793 ss., che affronta il tema della soggettività dei diritti riconosciuti dalla Costituzione italiana tra diritti del cittadino e diritti dell’uomo.

5. Sulla cittadinanza come strumento di esclusione vedi P. Lombardi, Giudice amministrativo e cittadinanza: quale

contributo per un concetto sostenibile di cittadinanza?, in Federalismi, 2018, p. 3.

6. Corte cost., sentenza n. 120/1967, p. 2 cons. dir. La Corte è più volte tornata sul punto, ribadendo l’orientamento e, talvolta, estendendo il ragionamento anche oltre la tutela dei soli diritti fondamentali. Vedi, per altri riferimenti giurisprudenziali e per quelli alla copiosa dottrina che si è espressa sul punto, C. Corsi, Stranieri, diritti

sociali e principio di eguaglianza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Federalismi-Focus Human Rights,

2014, pp. 2-3.

7. Corte cost., sentenza n. 148/2008, p. 3 cons. dir. La Corte ha in quell’occasione espresso un orientamento che, in realtà, era emerso già in altre sentenze, a partire dalla fine degli anni Novanta. Su questa giurisprudenza si veda, tra i tanti, il recente contributo di L. Mezzetti, I sistemi sanitari alla prova dell’immigrazione. L’esperienza italiana, in

Rivista AIC, 2018, pp. 1-11.

8. In realtà, esiste almeno un esempio risalente di semi-cittadinanza, la denization, affermatasi nel Regno Unito già a partire dal XIII secolo come alternativa alla naturalization. Quest’ultima veniva conferita dal Parlamento e aveva effetti retroattivi, mentre la prima era concessa dalla Corona e non agiva che per il futuro. I diversi effetti temporali avevano conseguenze sul principale diritto riconosciuto ai sudditi inglesi, ovvero il possesso delle terre; mentre i

naturalized potevano acquistare, possedere ed ereditare proprietà terriere, i denized potevano trasmettere il proprio

patrimonio soltanto ai figli nati dopo la concessione dello status. Sulla distinzione tra naturalization e denization vedi W.E. Davies, The English Law Relating to Aliens, London, Stevens and Sons, 1931, pp. 262-273; R. Karatani,

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Il proposto superamento del concetto di cittadinanza pare tuttavia sottostimarne la capacità di essere non soltanto strumento di esclusione, ma anche, e forse soprattutto, di inclusione. Si è detto che la cittadinanza nasce con lo Stato liberale come strumento di definizione della comunità nazionale. Tale scopo, se da un lato viene perseguito per mezzo dell’esclusione dello straniero, dall’altro determina anche un processo di integrazione. La funzione integrativa della cittadinanza, intesa in un primo momento in senso verticale, tesa cioè al riavvicinamento delle diverse classi economiche e sociali politicamente attive, in età contemporanea dovrebbe essere recuperata e sviluppata nella sua dimensione orizzontale. L’aumento dei flussi migratori e la loro natura sempre più composita spostano infatti l’attenzione dalle differenze verticali a quelle orizzontali, di tipo culturale, per cui la sfida principale diventa la costruzione di una società unita, ovvero integrata, senza tuttavia annullare i patrimoni culturali degli individui10.

Vista da questa prospettiva, la cittadinanza continua ancora oggi ad essere un concetto essenziale per comprendere e definire le modalità di appartenenza e partecipazione dei nuovi individui – stranieri, immigrati – alle società che li accolgono11. In questo senso, è strettissimo il legame che corre tra integrazione e cittadinanza: in un rapporto di reciproca influenza e condizionamento, il diverso modo di intendere la loro

Defining British Citizenhip: Empire, Commonwealth, and Modern Britain, London, Frank Cass Publisher, 2003, pp.

50-51. Sulle forme di denization in tempi moderni si vedano T. Hammar, Democracy and the Nation State: Aliens,

Denizens and Citizens in a World of International Migration, Avebury, Gower Pub, 1990; K. Groenendijk, The Long-Term Residents Directive, Denizenship and Integration, in Whose Freedom, Security and Justice? EU Immigration and Asylum Law and Policy, a cura di A. Baldaccini, E. Guild, H. Toner, Oxford and Portland, Hart, 2007.

9. L’emergere di forme di “cittadinanza sostanziale” può essere riferita, almeno in Italia, tanto al ruolo delle Regioni, che nell’esercizio delle loro competenze regolano materie collegate alla garanzia dei diritti sociali, quanto a quello dell’Unione europea, che attraverso l’approvazione di una serie di direttive, e in particolare la direttiva 2003/86/CE sul ricongiungimento familiare e la direttiva 2003/109/CE sullo status di soggiornante di lungo periodo, ha inteso assicurare agli stranieri diritti e doveri comparabili a quelli dei cittadini europei. Sulla “cittadinanza sostanziale regionale” si rimanda a L. Ronchetti, La cittadinanza regionale come cittadinanza sostanziale, disponibile su http://www.issirfa.cnr.it/. Per le forme di “cittadinanza sostanziale europea” si veda, tra gli altri, D. Acosta Arcarazo,

The Long Term Residence Status as a Subsidiary Form of EU Citizenship, Leiden, Brill, 2011.

10. Vedi P. Costa, Cittadinanza e integrazione: dall’Ottocento a oggi, in Diritto, tradizioni, traduzioni. La tutela

dei diritti delle società multiculturali, a cura di T. Mazzarese, Torino, Giappichelli, 2013, pp. 18-19. L’autore fa

riferimento a R. Dahrendof, Il conflitto sociale della modernità, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. 39-42 e alla distinzione operata da quest’ultimo tra le differenze in grado di influire sul processo di integrazione: queste possono essere di tipo “verticale”, ovvero le diverse posizioni economiche e sociali occupate dagli individui, oppure di tipo “laterale”, vale a dire quelle nate dal confronto tra membri di diverse società d’origine.

11. Così A. Morrone, Le forme della cittadinanza nel Terzo Millennio, in Quaderni costituzionali, 2015, pp. 304-305: «Nonostante tutto, quello di “cittadinanza” continua ad essere un concetto essenziale: non solo perché ad esso si riferiscono direttamente o indirettamente gli ordinamenti costituzionali degli Stati, non solo perché è sempre presente all’interno degli Stati e nella comunità internazionale una lotta per il diritto alla cittadinanza, ma soprattutto perché il concetto di cittadinanza, specie dopo le rivoluzioni borghesi del XVII e XVIII secolo, “appartiene alla sfera politica”, in quanto il “cittadino nella democrazia è un citoyen, non un uomo privato o un bourgeois”».

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relazione è alla base di differenti visioni della comunità politica e della posizione, al suo interno, dei nuovi membri.

Tradotta nel diritto positivo, questa riflessione si esprime attraverso l’adozione di strumenti per regolare l’ingresso di nuovi membri nella comunità politica. In quest’ottica, la conoscenza della lingua sta diventando, specialmente negli ultimi anni, un requisito sempre più diffuso tra quelli previsti dalle norme che disciplinano l’acquisto della cittadinanza da parte degli immigrati.

La legislazione italiana in materia di cittadinanza sembra essersi da ultimo adeguata a questa tendenza, con l’introduzione nella legge n. 91/1992, a seguito dell’approvazione della legge n. 132/2018 di conversione del decreto-legge n. 113/2018, della conoscenza della lingua italiana tra i requisiti per poter richiedere la cittadinanza per matrimonio o per naturalizzazione. Nel presente contributo, dopo aver ricostruito il quadro comparato delle normative che collegano la verifica delle competenze linguistiche all’acquisto della cittadinanza (par. 2), si analizzeranno le modifiche di recente apportate alla legislazione italiana (par. 3), con il fine di comprendere quale tipo di relazione tra integrazione e cittadinanza si cela dietro tali novità e se è possibile parlare dell’emergenza di un nuovo paradigma in materia (par. 4).

I requisiti linguistici per l’acquisto della cittadinanza non costituiscono certamente una novità nel panorama comparato. Gli Stati Uniti12, il Regno Unito13 e i Paesi di tradizione giuridica anglosassone 14 hanno introdotto simili requisiti nelle proprie leggi sulla cittadinanza già all’inizio del XX secolo. Tra le due guerre mondiali, la diffusione ha interessato diversi Paesi dell’America latina, tra i quali l’Argentina15, il Messico16 e il Brasile17. Nella seconda metà del Novecento, sotto la spinta della decolonizzazione e della circolazione dei modelli e dei principi in materia di cittadinanza, la previsione dei requisiti linguistici ha interessato un gran numero di Stati dell’Africa e dell’Asia. Soltanto tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, i Paesi del continente europeo hanno modificato le

12. Vedi il Naturalization Act 1906, art. 8.

13. Vedi il British Nationality and Status of Aliens Act 1914, art. 2.

14. Cfr. per il Canada: Naturalization Act 1914, art. 2; per l’Australia: Naturalization Act 1920, art. 7; per la Nuova Zelanda: The British Nationality and Status of Aliens (in New Zealand) Act 1928, art. 3; per il Sudafrica: The British Nationality in the Union and Naturalization and Status of Aliens Act 1926, art. 2.

15. Decreto n. 258/1931 (Reglamentación de la ley n. 346/1869 (Ley de ciudadanía)), art. 10. 16. Ley de nacionalidad y naturalización de 1934, art. 12.

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proprie leggi prevedendo la conoscenza della lingua tra le condizioni richieste all’individuo che intende ottenere la cittadinanza.

L’affermazione di tale strumento in Europa è avvenuta a causa di numerosi fattori politici, economici e sociali che hanno profondamente mutato il panorama europeo negli ultimi decenni: la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione sovietica, il consolidamento e l’allargamento dell’Unione europea, l’evoluzione del sistema economico europeo e, soprattutto, la definitiva trasformazione dell’Europa da area di emigrazione a meta di immigrazione. Analizzando, più in particolare, proprio il contesto europeo, si possono individuare diversi modelli in relazione al rapporto che può instaurarsi tra integrazione e cittadinanza18 e al significato che, di conseguenza, i requisiti di integrazione (linguistica) possono assumere19.

Un primo modello, che possiamo definire selettivo ed è diffuso nell’Europa orientale20,

è caratterizzato dalla presenza di una serie di elementi che, da una parte, rendono difficile l’acquisto della cittadinanza per gli immigrati e, dall’altra, favoriscono l’acquisto della cittadinanza per gli individui ritenuti affini (culturalmente o etnicamente): in questo senso, ad esempio, alcuni Paesi adottano disposizioni che prevedono procedure facilitate per gli individui ritenuti affini, mentre solitamente non prevedono modalità alternative per dimostrare l’avvio di un percorso di integrazione, né attuano politiche di sostegno all’integrazione linguistica degli immigrati.

La cittadinanza, in questo senso, non costituisce uno strumento prioritario per favorire l’integrazione degli immigrati né, d’altro canto, si pone come risultato di un percorso di integrazione; essa serve piuttosto a rafforzare, costruendola o ricostruendola, l’identità nazionale dello Stato e mira a far coincidere la nazione con il popolo. Lo status di cittadino, dunque, è concesso principalmente agli individui che dimostrano di condividere l’identità nazionale. In questo contesto, la conoscenza della lingua costituisce un fattore chiave per valutare l’adesione dell’individuo alla società nazionale e, di conseguenza, per selezionare i cittadini.

18. Per un’analisi dei tre modelli sia consentito rinviare a G. Milani, Cittadini jure linguae. Test linguistici e

cittadinanza in Europa, Milano, Giuffrè, 2017. Vedi anche G.L. Neuman, Justifyng U.S. Naturalization Policies, in Immigration and Nationality Law Review, 1994-1995, pp. 83-124; R. van Oers, Citizenship Tests in the Netherlands, Germany and the UK, in A Re-definition of Belonging? Language and Integration Tests in Europe, a cura di R. van

Oers, E. Ersbøll, D. Kostakopoulos, Leiden, Brill, 2010, pp. 53-58; R. van Oers, Justifying Citizenship Tests in the

Netherlands and the UK, in Illiberal Liberal States. Immigration, Citizenship and Integration in the EU, a cura di E.

Guild, K. Groenendijk, S. Carrera, Farnham, Routledge, 2009, pp. 113-115.

19. Sui possibili rapporti tra integrazione e cittadinanza vedi, tra gli altri: F. Maciocie, Il nuovo noi. La migrazione

e l’integrazione come problemi di giustizia, Torino, Giappichelli, 2014, pp. 155-159; P. Costa, Cittadinanza e integrazione, cit., p. 18.

20. Gli Stati riconducibili al primo modello sono Bulgaria, Croazia, Grecia, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Slovenia, Ungheria.

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Un secondo modello, che possiamo definire assimilativo e che trova applicazione nei Paesi dell’Europa centrale e settentrionale 21 , è invece caratterizzato da soluzioni

normative che, da una parte, rendono difficile l’acquisto della cittadinanza, ma che, dall’altra, non pongono barriere finalizzate alla costruzione o al rafforzamento dell’identità della nazione. Piuttosto, l’intento selettivo, presente anche in questo secondo modello, è finalizzato alla scelta dei cittadini che sono già particolarmente integrati dal punto di vista sociale, economico, politico e culturale: l’esenzione a favore di cittadini di altri Stati ritenuti culturalmente e socialmente affini, le modalità di prova di conoscenza della lingua particolarmente gravose dal punto di vista economico, la mancanza di sostegni alla preparazione dei test e la richiesta di livelli di conoscenza della lingua medi o alti sono tutti elementi che possono essere letti in questo senso.

La cittadinanza è considerata un premio da concedere agli individui che hanno concluso il proprio percorso di integrazione all’interno della società. La verifica delle competenze linguistiche è, in questo senso, uno strumento indispensabile per valutare l’effettiva e completa integrazione dell’immigrato nella società.

Un terzo modello, che definiamo multiculturale ed è utilizzato in Europa occidentale22,

prevede la presenza di elementi che, più che costituire un ostacolo all’acquisto della cittadinanza in via derivata, concorrono a verificare la volontà dell’individuo di integrarsi nella società di accoglienza. Ad esempio, la conoscenza della lingua può essere sostituita da altri elementi che dimostrano l’avvio di un percorso di integrazione all’interno della società, sia dal punto economico, sia sociale, che politico; anche il basso livello di conoscenza linguistica richiesto nella maggior parte di questi Paesi contribuisce a individuare nella volontà di integrazione il fattore determinante per l’acquisto della cittadinanza; infine, la pubblicazione di materiale per il superamento del test e l’organizzazione di corsi e percorsi di integrazione dimostrano la consapevolezza della corresponsabilità dell’integrazione dell’immigrato, che deve presupporre la volontà di quest’ultimo e l’attiva partecipazione dello Stato e della società di accoglienza.

La cittadinanza, che è considerata un diritto per coloro che risiedono stabilmente sul territorio dello Stato, è lo strumento più efficace per favorire la partecipazione degli individui alla società: in questo senso, la verifica della conoscenza della lingua serve per dimostrare l’inizio di un percorso di integrazione e la volontà dell’individuo di far parte della società di accoglienza e non già la conclusione di tale percorso.

21. Il secondo modello caratterizza Austria, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Repubblica Ceca, Slovacchia.

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Con la recente introduzione, nella legge italiana, della conoscenza della lingua tra i requisiti per l’acquisto della cittadinanza, sono soltanto quattro i Paesi dell’Unione europea che non prevedono simili requisiti nelle loro leggi in materia. È interessante sottolineare come questa scelta sembri essere dettata principalmente dalla volontà di preservare il più ampio margine di discrezionalità della pubblica amministrazione nelle decisioni di concessione della cittadinanza, margine che invece verrebbe a comprimersi con l’introduzione di requisiti oggettivamente verificabili.

Soltanto in Svezia, infatti, la scelta di non prevedere un requisito linguistico o un test di cittadinanza da superare per poter ottenere lo status di cittadino sembra determinata dalla decisione di rendere più semplice la procedura di naturalizzazione. Sebbene non sia mai stata prevista nella normativa di riferimento, nella prassi amministrativa la conoscenza della lingua è stata una delle condizioni, negli anni Settanta e fino all’inizio degli anni Ottanta, da dover soddisfare per poter richiedere la cittadinanza svedese23. Peraltro occorre segnalare come, a partire dai primi anni Duemila, si sia sviluppato un intenso dibattito circa l’opportunità di introdurre un test linguistico tra i requisiti per l’acquisto della cittadinanza; sembra comunque improbabile che l’introduzione di tale test nella legge sulla cittadinanza svedese si concretizzi24.

A prevalere sembra dunque, ancora oggi, la volontà di preservare una disciplina che non ostacoli l’acquisto della cittadinanza per gli individui che vivono sul territorio svedese, decisione che si accompagna all’adozione di avanzate politiche per l’integrazione degli immigrati e il mantenimento delle particolarità culturali 25: la Svezia ha favorito l’integrazione dei migranti già presenti e dei numerosi comunque in arrivo, gli stranieri sono stati fortemente incoraggiati e aiutati ad acquisire la cittadinanza svedese e i governi hanno messo a disposizione ingenti risorse non soltanto per l’insegnamento agli stranieri della lingua svedese, ma anche per l’istituzione di classi di insegnamento della lingua madre degli immigrati26.

23. Vedi E. Ersbøll, Nationality Law in Denmark, Finland and Sweden, in Towards a European Nationality.

Citizenship, Immigration and Nationality Law in the EU, a cura di R. Hansen, P. Weil, New York, Palgrave, 2001 p.

243.

24. L. Nygren-Junkin, Language, Migration and Citizenship in Sweden, in Language Testing, Migration and

Citizenship. Cross-National Perspectives on Integration Regimes, a cura di G. Extra, M. Spotti, P. van Avermaet,

London, Bloomsbury, 2009, p. 63, affermava nel 2009 che: «Neither the current nor the past government in Sweden has made any serious attempts to put language testing for Swedish citizenship at the top of the political agenda. It is perceived as potentially too divisive … ».

25. Così M.M. Howard, The Politics of Citizenship in Europe, Cambridge, Cambridge University Press, 2009, p. 75: «Sweden has been home to a large number of immigrants (…), thus making it one of the most diverse and tolerant countries in Europe».

26. Vedi T. Hammar, Sweden, in European immigration policy. A comparative study, a cura di T. Hammar, Cambridge, Cambridge University Press, 1985, pp. 37-39.

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Negli altri Paesi (Irlanda, Cipro e Malta) che, ad oggi, non prevedono requisiti di integrazione, tale scelta non sembra essere, invece, il risultato di una decisione di apertura verso il fenomeno migratorio e di conseguente semplificazione delle procedure per ottenere la cittadinanza; al contrario, essa deriverebbe dal fatto che tali Paesi non hanno sviluppato politiche di integrazione efficaci e continuano a considerare la permanenza di lungo periodo e la concessione della cittadinanza agli immigrati come eventi eccezionali27.

L’ulteriore conseguenza di questa situazione è l’ampia discrezionalità che connota le procedure di acquisto della cittadinanza in vigore in questi Stati: la concezione della naturalizzazione come un’eccezione ha infatti rallentato la definizione di regole chiare e trasparenti e la determinazione di condizioni oggettivamente verificabili, favorendo al contrario la permanenza di requisiti la cui valutazione lascia maggiore spazio alla discrezionalità delle autorità competenti28.

È il caso, ad esempio, dell’Irlanda: la legge29 è chiara, in tal senso, quando afferma che

la cittadinanza può essere conferita con un certificato concesso dal Ministro (art. 14) e che egli può decidere in tal senso nella più assoluta discrezionalità (art. 15)30. La disciplina in vigore prevede, inoltre, condizioni di non facile interpretazione. Ad esempio, la legge dispone che l’individuo interessato all’acquisto della cittadinanza dimostri di essere di buon carattere. La definizione del requisito, pur essendo spesso interpretata come mancanza di gravi condanne penali, è interamente rimessa al Ministro della giustizia31. Analogamente, la legge prevede che l’individuo possa essere naturalizzato, pur non soddisfacendo tutti i requisiti previsti, se ha ascendenti irlandesi o legami con l’Irlanda; in questo secondo caso,

27. In tal senso sembrano andare le riflessioni di A.K. von Koppenfels, Citizenship tests could signal that

European states perceive themselves as immigration countries, disponibile su http://eudo-citizenship.eu: «I would take the

argument one step further and argue that a liberal citizenship test can in fact even institutionalize naturalization, making it a normal and expected procedure for immigrants, rather than an exceptional step. The introduction of liberal citizenship testing in Europe could thus be, rather than an exclusive phenomenon, a significant step on European countries’ path to becoming incontrovertible “countries of immigration”».

28. Ibidem: «Citizenship testing, on the other hand, can enable a government to establish clear criteria and demonstrate what it feels is important for new citizens to know, while maintaining a transparent procedure».

29. Irish Nationality and Citizenship Acts (1956).

30. Una consolidata giurisprudenza conferma la discrezionalità del Governo nella materia: vedi Abuissa v MJELR [2010] IEHC 366: «The Court must accept the plain meaning of the words absolute discretion. There is no ambiguity in the expression. If the legislature had intended that the Minister should provide reasons, it is highly unlikely that he would have been given absolute discretion by the Act of 1956 or that the words absolute discretion would have been retained in the amendment in 1986. The Courts must respect the wording of the Statute»; precedentemente, tra le altre, Tabi vs. Minister for Justice [2010] IEHC 109; H vs. Minister for Justice [2009] IEHC 78; B vs. Minister for Justice [2009] IEHC 449; Mishra vs. Minister for Justice [1996] 1 IR 189.

31. Vedi H. Becker, C. Cosgrave, Naturalisation Procedures for Immigrants: Ireland, EUDO Citizenship Observatory, 2010, disponibile su http://eudo-citizenship.eu: «Moreover, the assessment of the requirement that an applicant be of ‘good character’ is entirely at the discretion of the Minister for Justice and Equality. In that regard, he is in a position to assess an individual’s criminal record and its implications for that person’s character on an individual basis for each applicant».

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uno dei criteri che può essere preso in considerazione è quello dell’affinità che, analogamente al requisito del buon carattere, è definito in maniera discrezionale dall’autorità competente32.

La scelta di non prevedere requisiti di integrazione nella legge sulla cittadinanza può rispondere, dunque, a due diverse – e per certi versi opposte – esigenze: da una parte, com’è intuitivo pensare, il fatto di non prevedere alcuna verifica dell’integrazione del candidato determina la mancanza di un ostacolo all’acquisto della cittadinanza; dall’altra parte, la stessa mancanza di test linguistici o di cittadinanza può inserirsi nell’ambito di discipline che, pur prevedendo il soddisfacimento di pochi requisiti, sono caratterizzate dall’ampia discrezionalità di cui godono le autorità competenti, la quale finisce per determinare un’importante barriera per l’acquisto della cittadinanza in via derivata33.

Fino alla recente modifica che ha introdotto la conoscenza della lingua come condizione per l’acquisto della cittadinanza, l’assenza di tale requisito nella disciplina italiana era riconducibile alla seconda delle ipotesi adesso accennate, inserendosi nel quadro di una disciplina caratterizzata dalla determinazione di limitati requisiti e dall’ampia discrezionalità riconosciuta alla pubblica amministrazione nel concedere lo status civitatis. Questo dato ci consente di comprendere la traiettoria seguita dall’Italia e l’impatto della novella normativa sulla legge italiana.

Il dibattito sull’opportunità di introdurre requisiti linguistici e sulle eventuali modalità di verifica di conoscenza della lingua è in effetti risalente, come dimostrano i tanti disegni di legge in materia presentati nelle passate legislature34. Tale dibattito, tuttavia, è

32. Vedi J. Handoll, Country Report: Ireland, EUDO Citizenship Observatory, 2012, disponibile su http://eudo-citizenship.eu: «Whilst “affinity” is not defined in the legislation, the Minister for Justice has asserted that it covers relationships by marriage, embracing the relationship between a spouse and the other spouse’s blood relations. A more generous approach than that adopted in sect. 16(2) may have been inspired by reference to art. 2 of the Constitution, stating that “the Irish nation cherishes its special affinity with people of Irish ancestry living abroad who share its cultural identity and heritage”».

33. Pare significativa, in tal senso, la posizione di J. Carens, The Most Liberal Citizenship Test Is None At All, disponibile su http://eudo-citizenship.eu, che, pur affermando la preferenza per l’assenza di test per la naturalizzazione, riconosce come questi possano rispondere allo scopo positivo di ridurre la discrezionalità delle autorità competenti: «While I think there is reason to criticize the American test, it is a relatively minor criticism of what is, on the whole, a fairly welcoming naturalization process. The same may be true of some of the European tests, especially when the tests represent moves away from discretionary and subjective examinations in a particular context».

34. Per un’analisi delle proposte di legge presentate in passato sia consentito rinviare a G. Milani, Cittadinanza e

integrazione. La disciplina italiana in prospettiva comparata, in I diritti al tempo delle crisi. Nuove esigenze di ponderazione, a cura di E. Ceccherini, Napoli, Editoriale scientifica, 2018, pp. 131-156; G. Milani, Cittadinanza e integrazione. L'influenza del diritto comparato sulla disciplina italiana e sulle proposte di riforma, in Federalismi,

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risultato a lungo sterile, non avendo prodotto nel corso di molti anni risultati evidenti sulle norme che regolano le modalità di acquisto della cittadinanza. Al contrario, il tema dell’integrazione e i requisiti legati alla conoscenza della lingua hanno trovato spazio, già alla fine del XX secolo, all’interno delle leggi in materia di immigrazione.

Nel 1998 la legge c.d. “Turco-Napolitano”35 prevede tra i compiti dello Stato e tra le finalità delle politiche in materia «l’integrazione culturale degli stranieri residenti in Italia, nel rispetto delle diversità e delle identità culturali delle persone» (art. 3). L’integrazione, che come ha rilevato la dottrina costituisce nell’impostazione adottata nel 1998 un diritto degli immigrati36, conosce una rapida evoluzione che la trasforma, in un solo decennio, in un dovere a carico prevalentemente dello straniero. Già nel 2002 la legge c.d. “Bossi-Fini”37 lascia emergere una visione decisamente più restrittiva di quella alla base della legge del 199838. La breve parabola trova il suo compimento nel 2009, quando con il c.d. “pacchetto sicurezza” l’obbligo dell’immigrato di integrarsi nella società si concretizza in diverse disposizioni inserite nel Testo unico sull’immigrazione39.

L’accordo di integrazione e la verifica delle conoscenze linguistiche per ottenere il permesso di soggiorno di lungo periodo, previsti rispettivamente all’art. 4-bis e all’art. 9 del Testo unico sull’immigrazione, sono significativi della trasformazione dell’integrazione in dovere dell’immigrato40.

L’accordo di integrazione è disciplinato nel dettaglio dal d.p.r. n. 179/2011. In base a tale normativa, l’individuo di almeno 16 anni che fa ingresso per la prima volta nel territorio nazionale è tenuto a firmare l’accordo, che lo impegna ad acquisire un livello sufficiente di conoscenza della lingua italiana, della Costituzione, delle istituzioni e della società. Il regolamento istituisce un sistema a punti, secondo il quale lo straniero deve

35. Legge n. 40/1998 (Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero).

36. Vedi E. Gargiulo, Integrazione o selezione? I meccanismi di selezione dei non cittadini tra livello statale e

livello locale, in questa Rivista, n. 1.2014, p. 41: «Nell’ambito della legge 40, tali misure si inserivano all’interno di una

visione strutturale dei processi migratori, ed erano ispirate da un’idea di eguaglianza giuridica tra cittadini e non cittadini. L’integrazione era considerata un diritto – seppur riservato agli stranieri regolari – e non un dovere».

37. Legge n. 189/2002 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo).

38. Vedi C. Finotelli, G. Sciortino, The Importance of Being Southern: The Making of Policies of Immigration

Control in Italy, in European Journal of Migration and Law, 2009, pp. 125-126: «Unsurprisingly, the legislative action

of the centre-right coalition was driven not only by the intention of limiting legal entries. It was also, and above all, meant to deliver, through the increasing severity of controls, a sharp reduction in the volume of unwanted inflows … The law n. 189/2002 was clearly inspired by a strong restrictive ambition».

39. Decreto legislativo n. 286/1998 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero).

40. Così, tra gli altri, E. Gargiulo, Integrazione o selezione?, cit., 45; N. Zorzella, L’accordo di integrazione: ultimo

colpo di coda di un governo cattivo?, in questa Rivista, 4.2011, p. 58; F. Biondi dal Monte, M. Vrenna, L’accordo di integrazione ovvero l’integrazione per legge. I riflessi sulle politiche regionali e locali, in La governance dell’immigrazione. Diritti, politiche e competenze, a cura di E. Rossi, F. Biondi dal Monte, M. Vrenna, Bologna, il

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raggiungere un determinato livello di integrazione, pena la revoca del permesso di soggiorno.

Le modalità di verifica della lingua italiana sono invece specificate nel decreto del Ministero dell’interno 4 giugno 2010, il quale prevede, tra l’altro, che il livello richiesto sia A2 del Quadro comune di riferimento europeo per la conoscenza delle lingue e che la valutazione verta sulla comprensione di brevi testi e sulla capacità di interazione del candidato.

È del tutto evidente che tali disposizioni hanno avuto ricadute sostanziali anche sulla disciplina della cittadinanza. La legge n. 91/1992, nel regolare la procedura di naturalizzazione, pone infatti un periodo di residenza di 10 anni come requisito principale per poter inoltrare la domanda; il permesso di soggiorno di lungo periodo, che è a tempo indeterminato e prevede una serie di vantaggi rispetto agli altri permessi di soggiorno41, costituisce uno dei titoli preferenziali per poter risiedere legalmente sul territorio per un lungo periodo di anni, così come richiesto dalla legge sulla cittadinanza.

Peraltro, si deve segnalare che la conoscenza della lingua, pur non richiesta dalla legge sulla cittadinanza, è spesso valutata dalle autorità preposte alla verifica del soddisfacimento delle condizioni previste dalla legge sulla cittadinanza42. Il giudice amministrativo ha più volte esaminato ricorsi presentati contro tale tipo di controllo, ritenendolo legittimo e non irragionevole, sulla base del fatto che «la scarsa conoscenza della lingua italiana, orale e scritta, costituisce, all’evidenza, un elemento determinante nella valutazione della non ancora sufficiente integrazione dello straniero nel tessuto sociale e nella comunità nazionale»43.

Ciononostante, l’esplicito e formale collegamento tra acquisto della cittadinanza e conoscenza della lingua è stato introdotto soltanto nel 2018 con l’adozione del c.d. “decreto sicurezza”. Il requisito linguistico, non previsto in realtà nel testo del decreto-legge n. 113/2018, è stato inserito in sede di conversione con l’approvazione della decreto-legge n. 132/2018. L’art. 9.1 della legge n. 91/1992, introdotto da tale recente normativa, prevede che «La concessione della cittadinanza italiana ai sensi degli articoli 5 e 9 è subordinata al possesso, da parte dell'interessato, di un’adeguata conoscenza della lingua italiana, non inferiore al livello B1 del Quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue (QCER). A tal fine, i richiedenti, che non abbiano sottoscritto l’accordo di integrazione di cui all’articolo 4-bis del Testo unico di cui al decreto legislativo

41. Vedi G. Savio, Il diritto amministrativo dell’ingresso e del soggiorno, in Manuale breve di diritto

dell’immigrazione, a cura di P. Morozzo della Rocca, Santarcangelo di Romagna, Maggioli, 2013, p. 36.

42. Vedi G. Tintori, Naturalisation Procedures for Immigrants: Italy, EUDO Citizenship Observatory, 2013, disponibile su http://eudo-citizenship.eu.

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25 luglio 1998, n. 286, o che non siano titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo di cui all’articolo 9 del medesimo Testo unico, sono tenuti, all’atto della presentazione dell’istanza, ad attestare il possesso di un titolo di studio rilasciato da un istituto di istruzione pubblico o paritario […], ovvero a produrre apposita certificazione rilasciata da un ente certificatore […]».

Un primo aspetto meritevole di approfondimento è l’ambito soggettivo di applicazione della disposizione. La legge afferma la necessità di provare la conoscenza della lingua con riferimento a due modalità di acquisto della cittadinanza previste dalla legge n. 91/1992: il matrimonio (art. 5) e la naturalizzazione (art. 9). Mentre appare condivisibile applicare il requisito linguistico ai casi di naturalizzazione, qualche dubbio desta l’estensione di tale norma alla modalità di acquisto della cittadinanza a seguito di matrimonio.

In verità, a livello comparato si osserva una chiara tendenza a prevedere la dimostrazione della conoscenza della lingua anche per ottenere la cittadinanza per matrimonio. Tra le poche eccezioni si segnalano la legge croata (art. 10)44 e quella

finlandese (art. 22)45. Il codice francese, all’art. 21-4, stabilisce invece che il Governo può

opporsi alla concessione della cittadinanza per matrimonio per indegnità del candidato, ovvero per mancanza di assimilazione, specificando tuttavia che non deve essere presa in considerazione l’integrazione linguistica del soggetto46.

Nella maggior parte dei casi, invece, si chiede al coniuge di dimostrare la conoscenza della lingua nazionale o ufficiale, al pari di quanto previsto per le procedure di naturalizzazione: sono esempi di questo approccio il codice belga, che all’art. 12-bis stabilisce che può ottenere la cittadinanza l’individuo sposato con un cittadino belga da almeno tre anni e residente in Belgio legalmente da almeno cinque anni se dimostra la conoscenza di una delle tre lingue nazionali47, e la legge del Regno Unito, che all’art. 6

regola la cittadinanza per matrimonio, in favore delle persone maggiorenni sposate con cittadini britannici, residenti nel Regno Unito da almeno tre anni e che dimostrino di conoscere in maniera sufficiente l’inglese, il gallese o lo scozzese48.

Nonostante la prevalenza di questo secondo approccio, al quale si è adeguato il legislatore italiano, la previsione appare criticabile, dal momento che sembra porre un

44. Zakon o hrvatskom državljanstvu [legge sulla cittadinanza croata] (1991). 45. 359/2003 Kansalaisuuslaki [legge sulla cittadinanza] (2003).

46. Code civil (Livre Ier, Titre Ier bis: De la nationalité française). 47. Code de la nationalité belge (1984).

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ostacolo eccessivo alla realizzazione dell’obiettivo sotteso a questa forma di acquisto della cittadinanza, quello dell’unità della famiglia e della cittadinanza al suo interno49.

Nell’ordinamento italiano, tale norma appare ancor più problematica se si pone mente al fatto che, ai sensi dell’art. 5 della legge n. 91/1992, la cittadinanza può essere acquisita anche senza risiedere in Italia, dopo almeno tre anni di matrimonio, termine dimezzato in caso di presenza di figli. In questo caso, la necessità di dimostrare la conoscenza della lingua potrebbe rivelarsi un notevole ostacolo all’acquisto della cittadinanza, soprattutto in riferimento a quei nuclei familiari ove l’italiano non costituisce la principale lingua di comunicazione, come è probabile che accada laddove la residenza sia fissata all’estero.

Al contrario, appare razionale la scelta di non estendere l’applicazione del requisito linguistico all’acquisto della cittadinanza per beneficio di legge di cui all’art. 4, comma 2, della legge n. 91/1992. La nascita sul territorio italiano e la residenza ininterrotta fino al raggiungimento della maggiore età richieste dalla legge per l’acquisto della cittadinanza mediante questa procedura lasciano infatti presumere che il candidato possegga, al momento della domanda, il livello di conoscenza linguistica previsto dalla legge.

Parimenti, si può considerare condivisibile l’esenzione dalla necessità di soddisfare il requisito linguistico in favore di coloro che hanno sottoscritto l’accordo di integrazione o che sono titolari di permesso di soggiorno UE di lungo periodo previsti dal citato Testo unico sull’immigrazione. In entrambi i casi, infatti, «la legge già presuppone una valutazione della conoscenza della lingua italiana»50, per cui sarebbe irragionevole esigere

una documentazione diversa e ulteriore a dimostrazione del possesso di una adeguata competenza linguistica.

Tale esenzione non si applica evidentemente ai cittadini UE, finendo per produrre un effetto paradossale perché renderebbe l’acquisto della cittadinanza più difficile per i cittadini UE che per quelli extra UE, almeno con riferimento al livello di conoscenza linguistica richiesto51. Infatti, mentre per i cittadini UE si applica quanto previsto dalla

legge n. 91/1992, che richiede la dimostrazione di un livello di conoscenza pari a B1 del Quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue, il livello verificato in relazione alla sottoscrizione dell’accordo di integrazione o al rilascio del permesso di soggiorno UE di lungo periodo è più basso, pari ad A2.

Sempre con riferimento alle possibili esenzioni dall’onere di dimostrare la conoscenza della lingua, colpisce la mancanza, nella normativa novellata, di disposizioni che esonerino

49. Vedi, per quanto riguarda lo iuris communicatio ma con un ragionamento estendibile anche alla cittadinanza per matrimonio, C. Romanelli Grimaldi, Cittadinanza, in Enc. Giur. Treccani, VII, 1988, p. 3.

50. Così nella Circolare del Ministero dell’interno 25.1.2019, prot. 666.

51. Resta nondimeno invariata la differente configurazione del periodo di residenza richiesto per poter richiedere la cittadinanza, che per i cittadini UE è di 4 anni, mentre per i cittadini extra UE è generalmente di 10 anni.

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individui incapaci, in ragione della loro condizione di disabilità, di soddisfare tale requisito. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 258/2017, ha affrontato una questione per certi aspetti simile, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 10 della legge n. 91/1992 «nella parte in cui non prevede che sia esonerata dal giuramento [di essere fedele alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi] la persona incapace di soddisfare tale adempimento in ragione di grave e accertata condizione di disabilità»52. La stessa

censura potrebbe colpire l’art. 9.1, dal momento che sembra irragionevole non prevedere eccezioni in favore di coloro che, a causa di una grave e accertata condizione di disabilità, non siano in grado di acquisire le competenze linguistiche richieste o non siano in grado di dimostrarne il possesso.

Simili disposizioni sono piuttosto comuni nelle legislazioni in vigore nei Paesi europei. La legge tedesca, ad esempio, stabilisce all’art. 10 che non è richiesta la conoscenza della lingua per coloro che non possono soddisfare il requisito per motivi legati a patologie fisiche, psichiche o psicologiche oppure per coloro che hanno meno di 16 anni53. Il

Tribunale federale amministrativo tedesco ha peraltro stabilito che l’esenzione per motivi di salute deve basarsi sullo stato dell’individuo al momento della presentazione della domanda, non rilevando il fatto che, in passato, l’individuo abbia avuto l’opportunità di imparare la lingua54. Analogamente, la legge austriaca prevede, all’art. 10A, che siano esentati gli stranieri che non possono dimostrare la conoscenza della lingua a causa dell’età avanzata e del loro stato di salute55, mentre in Danimarca non devono provare la

conoscenza della lingua coloro che sono affetti da gravi problemi fisici e psichici56. Nel

Regno Unito, invece, l’autorità competente può decidere di esonerare il candidato dalla necessità di dimostrare il possesso dei requisiti di integrazione se considera che sia irragionevole per via dell’età o dello stato di salute del candidato57.

Un ulteriore aspetto meritevole di approfondimento è quello relativo alle modalità di prova della conoscenza della lingua. In base all’art. 9.1 della legge n. 91/1992, la conoscenza della lingua italiana può essere dimostrata mediante l’attestazione di un titolo

52. Si vedano S. Rossi, Incapacitazione e acquisto della cittadinanza. Nota a prima lettura a Corte cost. n.

258/2017, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2017; C. Domenicali, La “doppia inclusione” dello straniero disabile (a margine di Corte cost. n. 258 del 2017), in Forum di Quaderni Costituzionali, 2018; P. Addis, Disabilità e giuramento per l’acquisizione della cittadinanza (osservazioni a Corte cost., sent. 258/2017), in Consulta Online, 2018,

pp. 435-436.

53. Staatsangehörigkeitsgesetz (StAG) [legge sulla cittadinanza] (1913). 54. Vedi sentenza BWerwG, 10 C 2/14 del 5 giugno 2014.

55. Bundesgesetz über die österreichische Staatsbürgerschaft (Staatsbürgerschaftsgesetz) [Legge federale sulla cittadinanza austriaca (legge sulla cittadinanza)] (1985).

56. Lov om dansk indfødsret [legge sulla cittadinanza danese] (1950).

57. Esistono linee guida che prevedono l’esonero automatico per coloro che hanno più di 65 anni e stabiliscono gli indicatori per considerare lo stato di salute del candidato.

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di studio rilasciato da un istituto di istruzione pubblico o paritario riconosciuto dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca o dal Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, ovvero per mezzo di una certificazione rilasciata da un ente certificatore riconosciuto dagli stessi Ministeri58.

La norma potrebbe comportare la necessità di frequentare corsi di lingua italiana offerti dagli enti convenzionati e riconosciuti, spesso erogati a prezzi alti, comportando un ulteriore possibile ostacolo all’acquisto della cittadinanza. Sarebbe forse stato opportuno riprendere alcune precedenti proposte di legge che, con l’obiettivo di introdurre una verifica della conoscenza linguistica del candidato, prevedevano l’organizzazione di «un esame di conoscenza teorica e pratica della lingua italiana»59, ovvero l’organizzazione di «appositi test, le cui modalità di svolgimento sono definite con decreto del Ministero dell’interno»60; in questo modo, si sarebbe assicurata una ripartizione più equilibrata dell’onere economico legato all’accertamento del possesso delle competenze linguistiche dei candidati alla cittadinanza, permettendo, almeno ai meno abbienti, di dimostrare a costi più contenuti la conoscenza della lingua italiana.

A livello comparato, ciò che si osserva è una chiara tendenza verso la formalizzazione dei mezzi di verifica. Soltanto in pochi casi, infatti, il possesso del requisito linguistico viene provato mediante un’intervista informale61. Nella maggior parte dei casi è invece

richiesta la frequenza di cicli scolastici62, ovvero il possesso di un diploma di conoscenza

linguistica rilasciato da istituti scolastici o centri riconosciuti63. Anche l’organizzazione di

specifici esami di conoscenza della lingua per l’acquisto della cittadinanza è un fenomeno che sta conoscendo una importante espansione, spesso organizzati nell’ambito di più ampie verifiche dell’integrazione mediante test di cittadinanza64.

La formalizzazione delle modalità di prova di conoscenza della lingua è stata affiancata, dal legislatore italiano, alla specificazione del livello richiesto in base al Quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue. Come più volte ricordato, e fatto salvo quanto detto a proposito dei cittadini extra UE, il livello stabilito è B1. Tale

58. Si tratta, come specificato nella Circolare del Ministero dell’interno 25.1.2019, prot. 666, «dell’Università per stranieri di Perugia, dell’Università per stranieri di Siena, dell’Università di Roma Tre e della Società Dante Alighieri e della connessa rete nazionale e internazionale di istituzioni ed enti convenzionati, rintracciabili dalle informazioni pubblicate sui siti dei […] Dicasteri ed enti certificatori».

59. A.S. n. 2198, presentato al Senato il 14 gennaio 2016. 60. A.C. n. 1661, presentato alla Camera il 19 settembre 2006. 61. Così avviene in Grecia e Romania.

62. Possibilità prevista in Belgio, Bulgaria, Danimarca, Estonia, Lettonia e Lussemburgo.

63. È il caso di Austria, Belgio, Croazia, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Polonia, Portogallo, Spagna e Regno Unito.

64. Attualmente simili test sono organizzati in Estonia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria.

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grado di conoscenza della lingua, definito “intermedio di soglia”, è raggiunto da chi «è in grado di comprendere i punti essenziali di messaggi chiari in lingua standard su argomenti familiari che affronta normalmente al lavoro, a scuola, nel tempo libero ecc. Se la cava in molte situazioni che si possono presentare viaggiando in una regione dove si parla la lingua in questione. Sa produrre testi semplici e coerenti su argomenti che gli siano familiari o siano di suo interesse. È in grado di descrivere esperienze e avvenimenti, sogni, speranze, ambizioni, di esporre brevemente ragioni e dare spiegazioni su opinioni e progetti»65.

La scelta di formalizzare il livello di conoscenza richiesto e di agganciarlo al Quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue appare in linea con quanto stabilito nella maggioranza dei Paesi europei. La soglia più bassa ritenuta sufficiente si incontra nelle leggi in vigore in Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi, Spagna e Portogallo, dove si chiedono competenze linguistiche pari al livello A2; in Croazia, Estonia, Finlandia, Francia, Regno Unito e Repubblica Ceca il livello è B1, così come in Austria e Germania, dove però il possesso di certificato B2 può portare alla diminuzione degli altri requisiti richiesti dalla legge (in particolare, quello della residenza). Il livello più alto, B2, si registra in Danimarca.

Soltanto dove sussistono modalità informali di verifica della conoscenza della lingua e, più in generale, dell’integrazione dello straniero, anche il livello richiesto è definito in maniera generica come «adeguato allo svolgimento dei compiti propri dei cittadini» (Grecia)66 o «tale da permettere l’integrazione sociale dell’individuo» (Romania)67.

Un’ultima riflessione, collegata a quanto detto circa le modalità di prova di conoscenza della lingua, riguarda proprio l’onere economico della dimostrazione del possesso di siffatto requisito. Si è già detto, infatti, che l’esigenza di provare il possesso delle competenze linguistiche richieste potrebbe portare gli interessati a sostenere ingenti costi, soprattutto laddove si renda necessario iscriversi a corsi di lingua a pagamento. Occorre peraltro ricordare che il decreto-legge n. 113/2018 ha innalzato, da 200 a 250 euro, l’importo del contributo che il candidato deve versare ai fini della presentazione della domanda di cittadinanza, comportando quindi un ulteriore aumento dei costi da sostenere per ottenere lo status di cittadino italiano68.

65. www.coe.int/t/dg4/linguistic/Source/Framework_EN.pdf.

66. 3284/2004: Περί Κυρώσεως του Κώδικα της Ελληνικής Ιθαγένειας [codice della cittadinanza greca] (2004). 67. Actul nr. 21/1991: Legea cetățeniei române [legge sulla cittadinanza rumena] (1991).

68. Misura che per altro si applica retroattivamente, secondo quanto specificato nella Circolare del Ministero dell’interno 16.10.2018, prot. 7132: pertanto, nei casi di procedimenti ancora in corso sarà necessario integrare di 50 euro il contributo già versato.

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Volgendo ancora una volta lo sguardo al panorama comparato, si osserva la presenza, in un crescente numero di Paesi, di sostegni economici o materiali finalizzati all’acquisizione delle competenze linguistiche necessarie in base alle relative leggi in materia. In Estonia la legge sulla cittadinanza prevede che lo Stato garantisca dei fondi per la copertura dei costi di preparazione all’esame di lingua così come per la preparazione del test di cittadinanza; il candidato deve sostenere le spese, ma una volta superati i test può chiedere un rimborso, che può coprire fino al 100% delle spese sostenute69. Nel

Lussemburgo, lo Stato si fa carico sia dell’organizzazione dei corsi di educazione civica che della gestione delle prove di conoscenza della lingua; la legge dispone che i costi per l’organizzazione dei test e dei corsi siano a carico dello Stato70. Nel Regno Unito non è

previsto un sostegno economico diretto a favore dei candidati, ma, al fine di agevolare la preparazione degli esami di naturalizzazione, un programma di studio viene pubblicato e venduto a un costo di circa 13 sterline e su internet sono disponibili esempi di domande, nonché una guida pratica con informazioni per superare i test71.

Tale approccio sembra essere il frutto di una concezione dell’integrazione come un fine non soltanto per l’individuo interessato ad ottenere la cittadinanza, ma per la società nel suo complesso, ciò che determina la necessità di redistribuire i costi dell’integrazione tra il soggetto e lo Stato.

La domanda che ci possiamo porre, in conclusione, è se la tradizionale impostazione della normativa italiana in materia, in base alla quale la cittadinanza rappresenta un premio, concesso agli individui già perfettamente integrati, previa valutazione discrezionale operata dalla pubblica amministrazione, sia stata superata dalla novella introdotta alla fine del 2018; ovvero se, al contrario, il “decreto sicurezza” abbia ribadito e accentuato tale impostazione. L’impressione è che a prevalere sia proprio questa seconda ipotesi, ciò che sarebbe confermato anche da un più ampio esame delle nuove norme in materia di cittadinanza.

Quanto all’acquisto dello status di cittadino, oltre al già citato incremento dei costi per presentare le domande, il decreto-legge convertito ha allungato il termine di definizione dei procedimenti di acquisto della cittadinanza per matrimonio, da due a quattro anni, trasformandone peraltro la natura in ordinatoria; la stessa norma si applica anche alla procedura di naturalizzazione, sommando così questi anni al già lungo periodo di residenza

69. Kodakondsuse seadus [legge sulla cittadinanza] (1995). 70. Loi du 23 octobre 2008 sur la nationalité luxembourgeoise. 71. British Nationality Act (1981).

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previsto per poter richiedere la cittadinanza e allontanando di fatto la prospettiva, per gli immigrati di prima generazione, di entrare a far parte a pieno titolo della comunità nazionale72.

Ancora più preoccupanti sono gli sviluppi relativi alla revoca della cittadinanza, ora prevista all’art. 10-bis nella legge n. 91/1992, che dispone l’applicazione di tale misura da parte del Presidente della Repubblica su proposta del Ministro dell’interno entro tre anni dalla condanna definitiva per alcuni gravi reati e soltanto nei confronti di coloro che hanno acquistato la cittadinanza ex art. 4.2, 5 e 9 della legge. Tale norma potrebbe contrastare sia con l’art. 22 della Costituzione, che vieta la privazione della cittadinanza per motivi politici, sia con l’art. 3, in ragione del diverso trattamento riservato ad individui in possesso della cittadinanza italiana secondo criteri differenti73.

In quest’ottica, l’introduzione del requisito linguistico sembra rispondere alla volontà di prevedere un ulteriore ostacolo all’acquisto della cittadinanza e di concedere tale status soltanto agli individui già perfettamente integrati. L’introduzione di tale requisito comporta di fatto un onere aggiuntivo a carico del candidato, senza che ciò sia bilanciato da un alleggerimento delle altre condizioni richieste e dalla riduzione della discrezionalità della pubblica amministrazione; resta infatti in capo a quest’ultima la possibilità di valutare il livello di integrazione del richiedente e di rigettare la domanda nel caso in cui, in base agli elementi in suo possesso, dovesse ritenere l’individuo non idoneo a ricevere il riconoscimento dello status civitatis74.

L’esperienza comparata può mostrare come, al contrario, l’introduzione di requisiti linguistici per l’acquisto della cittadinanza sia spesso finalizzata a ridurre il margine di discrezionalità e garantire la cittadinanza agli individui che soddisfano determinate condizioni.

Il collegamento tra conoscenza della lingua e acquisto della cittadinanza rappresenterebbe in tal senso la concreta presa di coscienza della natura multiculturale della società contemporanea, permettendo altresì di esprimere quel carattere multidirezionale che caratterizza l’integrazione, che richiede ad un tempo la volontà dell’individuo, dello Stato-apparato, dello Stato-comunità.

72. Per un’analisi dei profili problematici relativi alle nuove norme sull’acquisto della cittadinanza si veda S. Curreri, Prime considerazioni sui profili d’incostituzionalità del decreto legge n. 113/2018 (c.d. “decreto sicurezza”), in

Federalismi, 2019, pp. 11-12.

73. Per un commento relativo all’istituto della revoca della cittadinanza si veda E. Cavasino, Ridisegnare il confine

fra “noi” e “loro”: interrogativi sulla revoca della cittadinanza, in questa Rivista, n. 1.2019.

74. Sulla natura discrezionale delle decisioni di concessione della cittadinanza si veda P. Lombardi, Giudice

amministrativo e cittadinanza, cit., p. 2 ss.; C. Pinelli, I “nuovi italiani” e lo spazio della politica costituzionale, in

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Nondimeno, la previsione di requisiti linguistici contribuirebbe a trasformare il diritto della cittadinanza in un diritto alla cittadinanza, con ciò intendendosi il diritto, per gli individui che rispettano i requisiti previsti dalla legge, di ottenere la cittadinanza e non soltanto la possibilità di richiederla.

La lingua, in questa prospettiva, è senz’altro in grado di giocare un ruolo di prim’ordine: essa può infatti fungere da anello di congiunzione tra le diverse esigenze delle società multiculturali. Da un lato, l’apprendimento della lingua da parte degli immigrati costituisce un mezzo imprescindibile per favorire la loro integrazione politica, economica e sociale; dall’altro lato, l’integrazione rappresenta evidentemente il mezzo più efficace per garantire la tenuta sociale delle comunità di accoglienza.

Con la recente modifica alla legge n. 91/1992, il legislatore italiano non sembra aver colto la potenzialità della lingua e della cittadinanza come mezzi per favorire l’integrazione, continuando a interpretare lo status civitatis come premio, invece che come strumento, e come fattore di esclusione, invece che come motore dell’inclusione.

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