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Gregory L. Reese – Ernestine L. Hawkins. Stop talking, start doing!: attracting people of color to the library profession

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Academic year: 2021

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sono stati indicizzati solo i nomi che figurano prima del titolo, come intestazione, esclu-dendo quindi i curatori, di cui non ci dovrebbe essere bisogno di ricordare l’importanza per le grandi opere bibliografiche, prevalentemente intestate al titolo. Anche da un punto di vista più strettamente redazionale, si trova che una delle classi principali è diventata Research in progess (sic), una sottoclasse (a p. 99-100 del vol. I/1) è ripetuta due volte tale e quale, entrambe con le sue brave schede, le schede 714 e 715 sono identiche proprio l’una sotto l’altra (e non è l’unico caso). Per le prime cento pagine del primo tomo può basta-re. Fra le bibliografie personali, la voce Leibniz compare due volte (p. 579 e 580), con le relative schede un po’ qui e un po’ lì, la Malclès per un errore ortografico è finita fuori posto (a p. 584), il noto bibliotecario americano Wilberforce Eames è ordinato per erro-re sotto il nome invece che sotto il cognome. Anche le norme sull’uso nazionale sono evi-dentemente trascurate (“Addario, Arnaldo d’”, “Revignas, Anna Saitta” ecc.). Insomma, senza entrare nel contenzioso fra biblioteche ed editori, bisogna pur dire che le prime (e i lettori) si aspettano che i secondi paghino dei redattori e dei correttori di bozze, con una professionalità adeguata, che leggano i testi prima che vengano stampati, in maniera meno cursoria di un recensore: sarebbe bastata una attenta lettura a eliminare centinaia di errori fastidiosi e abbastanza evidenti. Molto buone invece, secondo la tradizione del-l’editore, sono qualità e robustezza della carta, della stampa e della confezione.

Nonostante le deficienze notate, che richiedono a chi consulta l’opera di munirsi di pazienza e di utilizzare poi i dati con cautela, l’opera ha senza dubbio – per la copertura molto ampia e l’intelligente e funzionale organizzazione delle informazioni – una note-volissima utilità, senza alternative comparabili. C’è perciò da augurarsi che prosegua pre-sto con il decennio successivo, magari dopo una revisione più attenta.

Alberto Petrucciani, Università di Pisa

Gregory L. Reese – Ernestine L. Hawkins. Stop talking, start doing!: attracting people of color to the library profession. Chicago: American Library Association, 1999. 136 p. ISBN 0-8389-0762-8. $ 33.35.

L’esclamare del titolo, man mano che leggo il volumetto, quasi per un effetto di transfert mi appare sempre più come un monito per i nostri amministratori, i nostri dirigenti, ma in definitiva anche per noi bibliotecari italiani (100% bianchi), ancora solo sfiorati dalla consapevolezza dell’urgenza di una workforce etnicamente diversificata nelle nostre biblioteche, soprattutto in quelle pubbliche locali. La provocazione dei due autori, ovvia-mente, si rivolge in realtà al mondo bibliotecario statunitense, ai responsabili della sele-zione di personale, ai docenti e ai ricercatori dei corsi accademici nel campo della biblio-teconomia e della scienza dell’informazione. Il libro non si limita semplicemente a un invito a prendere in considerazione, nei criteri per il reclutamento, la ricchezza di risor-se umane che può derivare da una composizione multietnica del personale. Piuttosto pone come un imperativo emergente, se si vuole, sia a livello di biblioteche pubbliche che universitarie, dare davvero risposte adeguate ai bisogni di informazione delle nostre società multiculturali, il raggiungimento di una coerenza soddisfacente tra obiettivi pro-posti e strumenti impiegati. Dal confronto di pochi dati, semplici, facilmente leggibili (aumento esponenziale della percentuale di immigrati nei paesi economicamente flo-ridi; alta incidenza, perlomeno negli Stati Uniti, di fattori quali bassa scolarizzazione e precarietà economico-sociale nel determinare la frequenza d’uso dei servizi offerti dalle biblioteche aperte al pubblico; tendenziale crescita del peso sociale assunto da ciascu-na delle minoranze etniche presenti sul territorio, con conseguente accentuazione delle dinamiche di difesa, consapevolezza ed esternazione della propria identità culturale),

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Reese e Hawkins ricavano un quadro d’insieme piuttosto evidente a sostegno di una nuova e più coraggiosa metodologia di programmazione delle risorse umane in biblio-teca, in cui la presenza di professionisti provenienti da un background etnico minori-tario sia garantita in proporzione alla popolazione servita. Le cifre di partenza, citate nell’introduzione, parlano chiaro: le più grandi minoranze etniche degli Stati Uniti assommano a oltre un quarto della popolazione totale, tuttavia costituiscono appena il 10% dei laureati LIS. Non si tratta, evidentemente, del solo bisogno di una rappresen-tanza numerica nella professione. Le politiche di gestione del personale di provenien-za etnica diversa hanno il duplice scopo di rendere i servizi bibliotecari più efficaci e rispondenti ai bisogni locali, e nello stesso tempo promuoverli ulteriormente. Così facen-do possono attrarre alla biblioteca nuovi utenti, che incontrerebbero difficoltà molto maggiori a utilizzarla se non vi trovassero fin dal primo contatto un ambiente familia-re e rassicurante, e strumenti di orientamento e mediazione informativa adeguati, cioè anzitutto vicini al proprio retroterra etnico e linguistico.

Anche il Programma Biblioteche proclamato dal Dipartimento statunitense dell’i-struzione nel 1994, ampiamente richiamato dagli autori, enfatizza la necessaria contiguità tra i bisogni informativi specifici delle comunità locali e la biblioteca pubblica, a cui sono attribuite otto funzioni essenziali: 1) centro di sostegno all’istruzione per studenti di tutte le età; 2) centro di apprendimento in forma indipendente per discenti adulti; 3) centro di nuove esperienze e di apprendimento per bambini in età prescolare; 4) centro di ricerca per studiosi e ricercatori; 5) centro per l’informazione di comunità; 6) centro di informa-zione per le imprese locali; 7) ambiente accogliente e tranquillo per leggere e pensare; 8) centro di lettura, a scopo di svago, di materiali popolari. In tale contesto, l’analisi di comu-nità che di norma precede ogni attività di programmazione dei servizi e di costruzione delle raccolte potrà rivelare la configurazione etnico-demografica dell’area servita, non-ché l’entità e la diversità dei bisogni di informazione di ciascuna delle minoranze di uten-ti, suggerendo ai responsabili del servizio bibliotecario, tra le altre cose, la necessità di atti-vare politiche di reclutamento di personale appartenente ai diversi gruppi culturali della comunità, e di prevedere un riposizionamento della struttura organizzativa e gestionale del personale secondo una linea efficace e coerente alle scelte adottate.

Sebbene una tale necessità possa sembrare scontata, buona parte del libro è dedicata alla manifesta denuncia di una sensibilità culturale in larga parte ancora da costruire nel mondo professionale statunitense, che da poco tempo, e con fatica, sta aprendo le porte al contributo dei bibliotecari di provenienza africana, asiatica, latino-americana. Reese e Hawkins raccontano nei particolari gli episodi di frustrazione di eccellenti bibliotecari di colore scartati sistematicamente nei colloqui di selezione per le offerte di lavoro, i casi di bibliotecari culturalmente diversi scartati, senza plausibile motivo nonostante la docu-mentata esperienza professionale, dall’ammissione a scuole di specializzazione in disci-pline biblioteconomiche, e infine gli esempi di chi subisce, a causa della propria etnia, mobbing o marginalizzazione sul posto di lavoro. Qualcuno di loro finisce con amarezza per considerare la professione bibliotecaria «the whitest industry in America». A dimo-strazione di quanto cammino rimanga ancora da percorrere, in appendice all’opera alcu-ne tabelle illustrano la quantità di studenti iscritti ai diversi livelli di corsi accademici LIS, suddivisi per etnia e per Stato in cui studiano, e forniscono analoghi dati riassuntivi sulla composizione etnica delle varie fasce di docenti.

L’American Library Association, tuttavia, è oggi molto meglio attrezzata che in pas-sato per affrontare tutte queste istanze. Nella sua struttura hanno un posto di rilievo i Caucases, organizzazioni di bibliotecari dedicate a sostenere la causa di ciascuna delle minoranze etniche, presenti in ogni Stato e sostenute, a livello centrale, dall’OLOS (Offi-ce for Literacy and Outreach Servi(Offi-ces), che ha il ruolo di promuovere l’equità di ac(Offi-cesso

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all’informazione, in particolare per i gruppi socialmente più svantaggiati. Qualche anno fa, inoltre, l’ALA con successo ha finanziato con un milione e mezzo di dollari un pro-gramma triennale denominato Spectrum, finalizzato proprio al reclutamento di biblio-tecari delle minoranze etniche, attraverso l’erogazione di contributi a una serie di scuo-le di biblioteconomia appositamente consorziate, che a loro volta hanno assegnato borse di studio per facilitare la frequenza dei Master a studenti di etnia non statunitense. E il titolo stesso del volume, Stop talking, start doing, allude al titolo di un workshop tenuto annualmente dal Chapter Relations Office dell’Associazione americana, a partire dal 1994, sui temi della diversità etnica del personale bibliotecario. Ripongo il volumetto preso di nuovo dal dubbio iniziale, chiedendomi cioè cosa si aspetta a porre seriamente la que-stione del reclutamento multiculturale anche nel nostro “bel” paese. A mia notizia, si contano sulle dita di una mano le biblioteche italiane che, prima che altri aprano la discus-sione, e a dispetto dell’infelice legislazione esistente, hanno iniziato a fare.

Domenico Ciccarello Biblioteca Fardelliana, Trapani

The virtual score: representation, retrieval, restoration, ed. by Walter B. Hewlett and Elea-nor Selfridge-Field. Cambridge: The MIT Press; Stanford (CA): CCARH, 2001. (Computing in musicology, 12). ISBN 0-262-8209-0. € 29,95.

The virtual score è l’ultima di una serie di monografie dedicate ai problemi dell’applica-zione dell’informatica alla ricerca e alla documentadell’applica-zione musicale. La collana a cui appar-tiene, denominata «Computing in musicology» e pubblicata dal Center for computer assisted research in the humanities della Stanford University, offre annualmente agli stu-diosi oltre al resoconto delle ricerche e dei progetti più avanzati, anche una continua riflessione sui principali problemi teorici e applicativi implicati nell’uso delle nuove tec-nologie in campo musicale.

Nelle sue varie manifestazioni, il mondo musicale è stato da sempre vicino, se non stret-tamente connesso a quello della tecnica. Per questo, come concezione primaria, la serie «Computing in musicology» copre un ambito di interesse musicale molto ampio, in cui si passa agevolmente dalla documentazione all’analisi, dagli studi prettamente storici e filo-logici ai contributi riguardanti la prassi esecutiva o la musica popolare. Tutti questi argo-menti vengono accomunati dalla considerazione del valore preponderante che progres-sivamente l’informatica sta acquistando anche in questo campo e dalla riflessione sulle conseguenze che questi cambiamenti comportano nella musica e nella musicologia.

Dopo alcuni anni di analisi e discussioni teoriche riguardanti i problemi di rappre-sentazione digitale della musica, i cui esiti hanno preso forma nel volume fondamenta-le dal titolo Beyond MIDI: the handbook of musical codes (The MIT Press; CCARH, 1999), nato nell’ambito dello stesso CCARH, si giunge con questa recente pubblicazione a com-mentare le prime realizzazioni, lasciando intravedere sviluppi particolarmente interes-santi e di sicuro incremento nel prossimo futuro.

Infatti The virtual score prefigura, come già si evince dal titolo, la crescente rilevanza dei documenti musicali virtuali rispetto a quelli tangibili, l’imminente egemonia del software rispetto all’hardware. Da questo punto di vista, oggi risulta quanto mai neces-sario monitorare le iniziative più promettenti, soprattutto perché la tendenza in atto vede la convergenza verso metodi di rappresentazione massimamente comprensivi, ma allo stesso tempo estremamente flessibili, come per esempio XML. L’adattamento di questi strumenti generici di formalizzazione digitale allo specifico oggetto musicale comporta analisi, confronti e collaudi.

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