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Le "rime petrose" fra sperimentalismo linguistico e tema biblico-classico della pietrificazione

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I

NDICE

I–IL PERCORSO DELLE“PETROSE” ... 2

Le “rime petrose”: la fine e l’inizio di un percorso ... 2

Dante, Arnaut e la lirica provenzale ... 6

Dante e Guittone d’Arezzo ... 13

Cavalcanti e la sua poetica... 22

La concezione di Amore nel medioevo e Donna me prega ... 33

Cavalcanti in Dante. L’amicizia letteraria ... 37

II–ALL’INTERNO DELLE “PETROSE” ... 44

Un’introduzione filologica. Breve storia della tradizione del testo ... 44

Le “petrose” e le ipotesi di datazione ... 49

Io son venuto al punto della rota ... 54

Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra ... 68

Amor, tu vedi ben che questa donna ... 80

Così nel mio parlar vogl’esser aspro ... 91

III–LE “PETROSE” E LA COMMEDIA ... 105

Macrocosmo e microcosmo. I riferimenti astronomici nella Commedia e le “petrose”... 107

Il linguaggio delle “petrose” nella Commedia: Malebolge e Cocito ... 113

Il “peccato” di Dante (Pur. XXXI) ... 125

Il processo di pietrificazione e l’episodio di Inf. IX ... 135

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2

I

I

L PERCORSO DELLE

PETROSE

Le “rime petrose”: la fine e l’inizio di un percorso

L’insieme delle “rime petrose”, costituito dalle Rime 43-46 dell’edizione Contini1, ha

da sempre rappresentato un enigma interpretativo di non facile soluzione. I quattro componimenti, costituiti da due canzoni, una sestina e una sestina doppia, si presentano come straordinariamente coesi, costituiti da un nucleo tematico e lessicale comune, tanto da far difficilmente pensare che siano state composte in occasioni diverse e in un arco temporale particolarmente ampio2.

Le “petrose” narrano la storia di un’esperienza amorosa e lirica così estranea alla precedente fase stilnovistica di Dante e tanto lontana dall’ambiente letterario dal quale proveniva, da essere considerata come un unicum assoluto nell’intera opera del poeta. L’amore verso donna-Petra, con la sua assoluta immanenza, così legato a quell’universo arido e disarmonico nel quale queste rime sono rappresentate («Versan le vene le fumifere acque /

per li vapor’ che la terra ha nel ventre, / che d’abisso li tira suso in alto»), è sempre stato

visto come un allontanamento, da parte di Dante, da Beatrice. Prima di tutto, però, esse rappresentano un cambiamento stilistico profondo rispetto allo “stile della loda” che trova spazio nella seconda parte della Vita Nova, con un trobar clus tipico della poetica provenzale

1 Corrispondenti alle Rime 40-43 dell’edizione Giunta. Cfr. Dante Alighieri, Rime, a c. di Claudio Giunta,

Mondadori, Milano, 2018.

2 Claudio Giunta, nella sua edizione, per quanto conceda spazio al dubbio che «potrebbero essere testi nati in

occasioni diverse, e in diversi momenti della vita del poeta» ed evidenziando il fatto che Dante non si è mai riferito alle petrose come a un insieme unitario, sottolinea anche «l’aria di famiglia» che intercorre fra le stesse e parla di «indubbie somiglianze di stile e contenuto». Ivi, p. 387.

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3 di Arnaut Daniel, che si concretizza in una serie di scelte lessicali, ritmiche e sintattiche, la cui importanza tecnica è stata spesso considerata maggiore rispetto alle tematiche3.

L’amore per Petra è un’esperienza vissuta a livelli estremi di fisicità4, con un

coinvolgimento tale da determinare una sorta di «stato di impetramento», uno status emotivo di deficit conoscitivo, di «fissità psicologica»5, che non può a mio avviso essere ridotto a puro esercizio stilistico ma, anzi, deve trovare una giusta collocazione nel percorso poetico dantesco. Se prendiamo per buona l’ipotesi di datazione più accreditata, quella che interpretando il v. 7 di Io son venuto identifica Saturno (e non la Luna) nel pianeto che

conforta il gelo, sappiamo che perlomeno la prima delle “petrose” è stata scritta attorno al

natale del 1296, esattamente nel periodo che intercorre tra la fine della composizione della

Vita Nova e l’esperienza del Dante più maturo, con il Convivio, il De Vulgari Eloquentia e la Commedia6.

Preso atto di questo, c’è stata un’intera generazione di critici che ha cercato di inserire l’esperienza petrosa in maniera organica nel percorso poetico di Dante e, ancora di più, di leggerla in un’ottica di necessità riguardo alla composizione della Commedia: è ciò che fa, ad esempio, Bruce Comens, che legge l’intera serie delle petrose parallelamente al trattato di Riccardo di San Vittore De quatuor gradibus violentae caritatis7, oppure Sara Sturm-Maddox, che identifica l’essenza di donna-Petra come un’anti-Beatrice, la domina di un

3 Gianfranco Contini, nel commento all’edizione del 1946, interpreta la serie delle petrose come un puro

esperimento stilistico, con una ripresa da parte di Dante di un provenzalismo puro, non riciclato dai guittoniani. Cfr. Dante Alighieri, Rime, a c. di Gianfranco Contini, Einaudi, Torino, 1946, pp. 149-150.

4 «The poems document a physiospiritual malfunction and relate a particular kind of poetry to that malfunction,

thus fore-grounding the intricate and delicate relationships between inspiration and salvation, poetic form and physical health». Heather Webb, Dante’s Stone Cold Rhymes, in «Dante Studies», 121, 2003, p. 150.

5 Marcello Ciccuto, Uno sguardo critico alla lirica delle origini: l’esperienza delle rime “petrose”, in Da Guido

Guinizzelli a Dante. Nuove prospettive sulla lirica del Duecento, a c. di F. Brugnolo e G. Peron, Il Poligrafo, Padova, p. 333.

6 Anche se critici come Irene Maffia Scariati e Luciano Rossi preferiscono la datazione più tarda del 1304. Cfr.

Irene Maffia Scariati, Dante al «punto della rota» e la stagione delle petrose («Rime» [C] 5-7, 53-58), in «Studi danteschi», 70, 2005, pp. 5-61; Luciano Rossi, «Così nel mio parlar voglio esser aspro» (CIII), in «Letture classensi», 24, 1995, pp. 69-89.

7 Cfr. Bruce Comens, Stage of love, Steps to Hell: Dante’s “Rime petrose”, in «Modern Language Notes», CI 1,

1986, pp. 157-88. Anche se, riguardo alle sue conclusioni, condivido la cautela di Durling e Martinez. Cfr. Robert Durling - Roland Martinez, Time and the Crystal. Studies in Dante’s «Rime petrose», University of California Press, Berkley, 1990, p. 2.

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4 universo di degradazione morale e conoscitiva che verrà “sconfitta” unicamente durante il percorso morale del Dante della Commedia8.

Per comprendere appieno quest’esperienza è necessario tracciare un percorso lirico e tematico inevitabilmente complesso e articolato, che tenga conto delle diverse direttrici che hanno portato alla composizione delle “petrose”. Tali linee tematiche si svolgono in un tracciato perfettamente coerente e che solo apparentemente può sembrare in contraddizione: questa presunta discordanza si racchiude nell’idea che una fase di ritorno al «cavalcantismo più radicale» non possa essere stilisticamente parallela a un provenzalismo così netto e puro.9

Ciò che le “petrose” hanno rappresentato è, al contrario, un’unione perfetta di queste componenti ed è in questo senso che intendo analizzare le varie direttrici che hanno portato alla loro composizione: si tratta di una serie diversificata di tematiche e stili, dal rapporto fra Dante e la lirica provenzale fino ad arrivare alla fase di cavalcantismo della Vita Nova, che alla fine convergeranno nel momento della scrittura dei quattro componimenti.

Le “petrose” potrebbero essere definite, quindi, come un punto di fine e di inizio di uno stesso percorso, una tappa intermedia, ma fondamentale, che coinvolge ogni aspetto della poetica di Dante e della sua riflessione stilistica. Se nella prima parte di questo elaborato ci concentreremo nell’esaminare le parti costitutive di un discorso che inizia da lontano, fin dall’infanzia letteraria di un Dante ancora preso dai suoi primi scambi poetici con Dante da Maiano, sarà nella parte centrale che ci concentreremo sull’analisi delle “petrose” stesse, dal punto di vista linguistico e tematico, come un punto fermo; sarà solo nell’ultima che ci soffermeremo sulle domande che le “petrose” stesse lasciano incompiute, sull’essenza di quegli stessi enigmi che contribuiscono a creare un nuovo percorso: una strada che, questa volta, parte da Così nel mio parlar e porta direttamente alla Commedia e va a toccare le corde più intime e costitutive del divino poema.

8 Cfr. Sara Sturm-Maddox, The “rime petrose” and the Purgatorial Palinode, in «Studies in Philology»,

LXXXIV 2, 1987, pp. 119-133.

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5 Parlare dell’inizio di questo cammino, significa analizzare anche il panorama letterario che circondava Dante e le influenze che queste personalità hanno esercitato sul giovane poeta. Da un punto di vista soprattutto linguistico, analizzeremo quindi l’immersione della poesia giovanile dantesca in un tessuto eminentemente provenzale, tramite il rapporto, più o meno diretto, con il poeta più influente della scena trobadorica: Arnaut Daniel; sarà anche importante soffermarsi su colui che maggiormente aveva importato tali innovazioni provenienti dalla Francia, e che sarà sempre considerato da Dante e i suoi contemporanei un’ingombrante personalità letteraria con la quale fare i conti: Guittone d’Arezzo. Le “petrose”, però, significano anche altro: non sono solo sperimentazione linguistica. Rappresentano una vera e propria rielaborazione, da parte di Dante, della propria personale poetica, un ripensamento delle più importanti tematiche, come quella del sentimento amoroso, che aveva portato avanti nella Vita Nova: per questo è fondamentale un’osservazione sia dell’evoluzione della poetica dantesca, sia del rapporto con Cavalcanti, il cui pensiero e la cui riflessione filosofica tanto saranno importanti sia nel Dante della VN che in quello delle “petrose”. Sarà fondamentale, infine, designare un percorso del fittissimo e ampio tessuto di citazioni dalla poesia classica latina, che vanno da Virgilio a Seneca, da Lucano a Ovidio10, che, lungi dall’essere un vuoto involucro di dotti rimandi intertestuali, va a toccare le corde del significato più intimo dei componimenti poetici.

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Dante, Arnaut e la lirica provenzale

«Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;

consiros vei la passada folor, e vei jausen lo joi qu’esper, denan. Ara vos prec, per aquella valor que vos guida al som de l’escalina, sovenha vos a temps de ma dolor!»11

Come analizzeremo successivamente nel secondo capitolo, uno dei debiti più importanti riguardo la composizione di Al poco giorno è la sestina di Arnaut Daniel, Lo ferm voler. Mi sembra quindi doveroso iniziare la trattazione analizzando brevemente la figura del trovatore, sia nel suo valore assoluto che nel rapporto che intercorre fra la sua poetica e l’opera dantesca: legame che, come anticipiamo, troverà il punto di maggiore vicinanza proprio nella composizione delle quattro “rime petrose”.

Non siamo in possesso di molti dati biografici che lo riguardano e dalle poche informazioni derivanti dalle vidas sembra che fosse natio del paese di Ribérac, nel vescovado di Périguex12 e che fosse attivo nel periodo fra il 1180 e il 1210. Arnaut Daniel è autore di diciotto componimenti in forma di canzone tramandatici dalla tradizione manoscritta13, i quali

11 «Io sono Arnaldo, che piango e vo cantando; guardo pensoso la passata follia, e guardo con gioia, davanti a

me, la felicità celeste che spero. Ora vi prego, in nome di quella virtù, o grazia divina, che vi guida al sommo della scala, vi sovvenga, a tempo debito del mio dolore.» Dante Alighieri, La Divina Commedia, a c. di A. M. Chiavacci Leonardi, vol. II, Mondadori, Milano, 2016, p. 787.

12 Cfr. Arnaut Daniel, Canzoni, a c. di Gianluigi Toja, Sansoni, Firenze, 1960, p. 8.

13 Cfr. Ivi, p. 21. Non mi sembra qui il caso di ripercorrere la storia della possibile attribuzione ad Arnaut di vari

romanzi in prosa, suggerita principalmente da quel «prose di romanzi» di Pur. XXVI, 118. Basti dire che l’attribuzione, della quale per primo il Tasso nei Discorsi sul poema eroico si fece sostenitore, suscitò forti dubbi nella critica ottocentesca e, ad oggi, non abbiamo nessuna prova certa della paternità arnaldina del Lancelot o del Rinaldo. Cfr. Ivi, pp. 25 e segg.

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7 hanno assunto una tale importanza nella produzione dantesca che il poeta fiorentino gli dedicò omaggi e riflessioni, sia nella Divina Commedia che nel De Vulgari Eloquentia.

La rilevanza che l’opera di Arnaut assumerà nel panorama letterario europeo è indissolubilmente legata, forse ancor più che ai vari generi trattati, al suo modo di poetare, secondo quella tendenza che è passata alla storia con il termine di trobar clus. Il contesto poetico nel sud della Francia della seconda metà del dodicesimo secolo, vede svilupparsi due principali linee stilistiche: il trobar leu o plan, seguendo il quale i trovatori si esprimono in una forma più semplice e immediata, senza eccessive complicazioni formali, e il trobar clus, un modo di poetare decisamente più aristocratico, tendente all’oscurità e all’artificio retorico. La cesura fra queste due tendenze è piuttosto netta, anche grazie alla relativa standardizzazione dei generi letterari nel panorama trobadorico14, e la scelta di comporre

seguendo una delle due correnti assumeva il carattere di una dichiarazione di poetica, di una volontà di seguire non solo precise tecniche ma anche di scegliere particolari tematiche. Le categorie del trobar non sono infatti state plasmate successivamente dalla critica, ma gli stessi trovatori ne erano assolutamente consapevoli: celeberrimo è infatti l’incontro, avvenuto nel 1170, fra Giraut de Bornelh e Raimbaut d’Aurenga, che aveva come tema principale proprio il

trobar clus. La tenso si apre proprio su questo tema:

Ara·m platz, Giraut de Borneill, que sapcha per c’anatz blasman trobar clus, ni per cal semblan. Aiso·m digatz,

si tan prezatz

so que es a toz comunal,

14 Come fa notare Di Girolamo nel suo fondamentale saggio I trovatori, era possibile una scelta molto ristretta

del genere poetico ed erano presenti solo poche forme metriche istituzionali. Cfr. Costanzo Di Girolamo, I trovatori, Bollati Boringhieri, Torino, 1989, p. 28.

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car adonc tut seran egual.15

Come si può notare dall’utilizzo di comunal ed egual, Raimbaut sembra porsi in difesa di un sapere aristocratico, non accessibile alle masse, diametralmente opposto invece a quel trobar

leu, che vedrebbe in Giraut il suo sostenitore, più attento ai gusti del pubblico e che quindi

debba doverosamente essere più chiaro e comprensibile.16

Considerato questo, possiamo facilmente intuire come Arnaut fosse sicuramente consapevole della propria originalità e del profondo sperimentalismo portato avanti dalla sua poesia, in un modo che ci risulta chiaro dai primi versi di En cest sonet coind’e leri:

En cest sonet coind’e leri fauc motz e capuig e doli, e serant verai e cert,

quan n’aurai passat la lima.17

In questa canzone, che tanto avrà importanza in ottica petrarchesca18, il poeta si presenta

come un artigiano, un fabbro della parola, che compone versi19 e li leviga, li lavora; al di là dell’immagine forse un po’ di maniera, è un Arnaut quindi pienamente consapevole dell’innovazione tecnica portata avanti dalla propria poesia. La rivoluzione tecnica forse più

15 «Ora mi piacerebbe sapere, Giraut de Bornelh, perché andate parlando male del poetare chiuso, e con quali

argomenti. Ditemi: se apprezzate tanto ciò che è accessibile a tutti, allora dunque tutti saranno uguali». Ivi, p. 100.

16 Cfr. Ivi, p. 103. Di Girolamo fa notare come la questione sia tutt’altro che risolta e come le cose siano

necessariamente più complicate di come possa sembrare in apparenza. Infatti, sia Giraut che Raimbaut hanno praticato entrambi i tipi di poesia, cosa che fa intuire come in realtà le due posizioni possano non essere così nette. Lo studioso del primo Novecento Salverda De Grave, in Observation sur l’art lyrique de Giraut de Borneil, conclude infatti che «tra poesia oscura e quella chiara non c’è che una differenza di gradi, non una polarizzazione netta, e che per noi è impossibile tracciare il limite al di là del quale un pubblico di intenditori di madrelingua d’oc nella seconda metà del XII secolo si sarebbe sentito in una poesia composta in stile clus. E quanto alle improvvise conversioni o riconversioni di stile, esse sarebbero del tutto prive di fondamento, in quanto Giraut de Bornelh coltiverebbe simultaneamente il trobar leu e il trobar clus». Ivi, p. 104.

17 «Sopra un’aria gaia e leggera / faccio parole, le sgrosso e le piallo, / e avranno forma definitiva e vera / quando

le avrò lisciate con la lima». Arnaut Daniel, Sirventese e Canzoni, a c. di Giosuè Lachin, Einaudi, Torino, 2000, p. 46.

18 Evidentemente anche per la serie di rime in -aura, con la coppia equivoca laura : l’aura e la terna di rime

ricche cri saura : s’eaura : ferig’aura.

19 Mots significa propriamente “parole”, ma anche “strofe” o “componimenti”. Cfr. Arnaut Daniel, Canzoni, a c.

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9 importante del trovatore fu l’invenzione della sestina, propriamente definita come

canzone-sestina. Si tratta di un particolare tipo di composizione lirica che deve attenersi a queste

regole: essere formata da sei stanze di sei versi composte esclusivamente di endecasillabi, privi di rimanti interni alle singole stanze, e ciascun verso deve terminare con una singola parola-rima; particolare è inoltre lo schema rimico, che segue il metodo della retrogradatio

cruciata, in cui il primo verso della stanza fa rima con l’ultimo di quella precedente, il

secondo con il primo, e così via secondo l’ordine ABCDEF, FAEBDC e così a seguire. Nel congedo, infine, devono comparire tutte e sei le parole rima, due per ogni verso, una a metà e l’altra alla fine del verso stesso.

Pur essendo un’invenzione arnaldina nella sua interezza, si tratta a ben vedere di una serie di innovazioni di altri poeti trobadorici, riprese e messe insieme da Arnaut. L’invenzione di una stanza nella quale non ci fosse nessun tipo di richiamo rimico al suo interno era già stata portata avanti da Marcabru, in Contra l’ivern que s’enansa e poi da Peire Vidal. L’utilizzo della parola-rime invece era già stato sperimentato da Raimbaut d’Aurenga in Ar

resplan la flors enversa20. Arnaut, quindi, rielabora e unisce tali soluzioni fino a creare

qualcosa di nuovo e personale: tutto questo è chiaro in quello che, come anticipavamo, sarà la fonte più diretta e più vicina della sestina di Dante Al poco giorno, ossia Lo ferm voler:

Lo ferm voler qu’el cor m’intra

no·m pot jes becs escoissendre ni ongla de lausengier qui pert per mal dir s’arma; e car non l’aus batr’ab ram ni ab verga sivals a frau lai on non aurai oncle jauzirai joi en vergier o dinz cambra.

Quan mi soven de la cambra

20 Cfr. Maria Picchio Simonelli, La sestina dantesca fra Arnaut Daniel e il Petrarca, in «Dante Studies», 91,

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on a mon dan sai que nuills hom non intra, anz me son tuich plus que fraire ni oncle, non ai membre no·m fremisca mi ongla, aissi cum fai l’enfas denant la verga: tal paor ai no·l sia prop de l’arma.21

Come possiamo notare, sono presenti chiaramente tutte le soluzioni tecniche sopra citate, dall’utilizzo delle parole-rima alla tecnica della retrogradatio cruciata. La situazione iniziale della prima stanza riprende una serie di stilemi piuttosto tipici della poesia provenzale, dall’amore che entra nel cuore dell’amante ai losangiers, i maldicenti che tramano per il fallimento della storia d’amore; notevole è il particolare utilizzo, in questo caso, delle parole-rima: ognuna si rifà a un preciso luogo comune relativo alla tradizione poetica provenzale e si carica quindi enormemente di significato.22

Nonostante la chiarezza del rapporto fra il componimento dantesco e quello arnaldino, Dante non cita direttamente Lo ferm voler, nel punto del De Vulgari in cui tratta della sestina, quasi a voler nasconderne il diretto e macroscopico ascendente. Infatti Dante nel trattato sostiene che «[…] Et huiusmodi stantia usus est fere in omnibus cantionibus suis Arnaldus Danielis, et nos eum secuti sumus cum diximus: “Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra”»23. Pochi capitoli più avanti, viene citato nuovamente Arnaut, anche stavolta

evitando di nominare la sestina:

21 «Questo fermo volere che nel cuore mi penetra, / strapparmelo non può becco né unghia / di chi per la maligna

sua lingua perde l’anima; / io non oso picchiarlo con un ramo o una verga, / ma tuttavia di frodo là dove non c’è zio /godrò gioia in giardino o dentro camera. / Quando penso alla camera /dove a mio scorno so che nessuno mai penetra / perché tutti le fanno da fratello e da zio, / in ogni membro tremo, anche nell’unghia, / più di un bambino davanti alla verga: / mi angoscia non esserle vicino con quest’anima.»

22 Lo fa notare Perugi, che afferma: «Ciascuna delle parole-rime è in principio legata a un luogo comune: il

maldicente che si danna l’anima, l’amore che entra nel cuore, l’immagine del battere o del battersi con la verga, l’amare di nascosto in giardino o in camera». Maurizio Perugi, Per una nuova edizione critica della sestina di Arnaut Daniel, in «Antico Moderno», II, 1996, pp. 21-36.

23 «E una stanza di questo tipo ha usato in quasi tutte le sue canzoni Arnaut Daniel, e noi lo abbiamo seguito

quando abbiamo cantato: “Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra”». Dante Alighieri, De Vulgari Eloquentia, a c. di Mirko Tavoni, Mondadori, Milano, 2017, pp. 370-371.

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Unum est stantia sine rithimo, in qua nulla rithimorum habitudo actenditur: et huiusmodi stantiis usus est Arnaldus Danielis frequentissime, velut ibi: “Se·m fos Amor de ioi donar”; et nos dicimus: “Al poco giorno”.24

Nella Commedia Dante e Virgilio incontrano Arnaut nel XXVI canto del Purgatorio. Egli è infatti l’ultimo trovatore a incontrare Dante in Purgatorio, dopo Bertrand De Born in

Inf. XXVII e Sordello da Goito in Pur. VI; solo successivamente, in Par. IX incontrerà

Folchetto da Marsiglia25. Dopo il dialogo con Guido Guinizzelli, che presenta il poeta francese come Il miglior fabbro del parlar materno e che fa notare che «Versi d’amore e prose di romanzi / soverchiò tutti; e lascia dir li stolti / che quel di Lemosì credon ch’avanzi.»26, Dante mette in scena, per bocca dello stesso Arnaut, uno sfoggio di bravura

tecnica e conoscenza del provenzale che rappresenta l’unico brano in lingua straniera dell’intero poema27. Basterebbe questo passo, composto effettivamente tardi rispetto all’intero

arco temporale della produzione dantesca, a dimostrare la profonda connessione, l’intimo rapporto intessuto fra il poeta e la lingua e cultura provenzale28. Una relazione la cui

importanza è sempre stata chiara nella storia della critica dantesca e come nota con una metafora Paolo Gresti, il rapporto fra Dante e i trovatori è «un campo profondamente arato e concimato»29.

Il rapporto fra Dante e Arnaut, oltre che concretizzarsi nell’utilizzo di un serbatoio lessicale e linguistico in provenzale, legato a esigenze di composizione, rappresenta la storia di un giudizio, di una valutazione che cambia nel corso degli anni. Nel De Vulgari

24 DVE II-XIII-2.

25 Anche se, come fa notare Pietro Beltrami, sarà Arnaut l’ultimo con il quale parlerà di poesia. Cfr. Pietro

Beltrami, Arnaut Daniel e la “bella scola” dei trovatori di Dante, in Le culture di Dante. Studi in onore di Robert Hollander, Franco Cesati Editore, Firenze, 2003, pp. 29-54.

26 Pur. XXVI, 118-120.

27 Cfr. Dante Alighieri, La Divina Commedia, a c. di A. M. Chiavacci Leonardi, vol. II, Mondadori, Milano,

2016, p. 787.

28 Esso è così aderente alla produzione del rimatore francese da ricalcare fedelmente nel congedo del già citato

En cest sonet coind’e leri: «Ieu sui Arnautz, qu’amas l’aura / e chatz la lebre ab lo bou / e nadi contra suberna». Cfr. Arnaut Daniel, Sirventese e Canzoni, a c. di Giosuè Lachin, Einaudi, Torino, 2000, p. 46.

29 Paolo Gresti, Dante e i trovatori: qualche riflessione in «Testo: Studi di teoria e storia della letteratura e della

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Eloquentia, infatti, Dante aveva elargito il posto di maggior poeta provenzale a Giraut de

Bornelh, attribuendo ad Arnaut una minore importanza:

[…] Sed disserendum est que maxima sint. Et primo in eo quod est utile: in quo, si callide consideremus intentum omnium querentium utilitatem, nil aliud quam salutem inveniemus. Secundo in eo quod est delectabile […]: hoc autem venus est. Tertio in eo quod est honestum: in quo nemo dubitat esse virtutem. […] Circa que sola, si bene recolimus, illustres viros invenimus vulgariter poetasse, scilicet Bertramum de Bornio arma, Arnaldum Danielem amorem, Gerardum de Bornello rectitudinem.30

Questo giudizio, che Dante desume dalla lettura delle Razos di Raimon Vidal31, è però

relativo unicamente all’oggetto del tema trattato e non già dello stile o della lingua, che sembrano aver influenzato enormemente il giovane poeta fiorentino.

È evidente che la lingua di un Dante alle prese con le sue prime prove poetiche fosse interamente immersa in un substrato provenzale. Inseriti lessicalmente in tale tessuto sono, ad esempio, già i primi scambi poetici relativi alla tenzone con Dante da Maiano, che apre la raccolta di Rime, ed è composta da nove sonetti, di cui quattro danteschi32. Già Contini aveva espresso il suo giudizio non proprio lusinghiero su questo scambio, insistendo sul suo gusto arcaicizzante, sull’inutilità di certi artifici retorici e sulla banalità33 della domanda posta dal

Maiano, in Rime 2a, su quale fosse il maggior dolore riguardo l’amore34. Ciò che ci interessa

30 «Ma occorre distinguere quali siano queste cose massime. E anzitutto nell’ambito dell’utile: e qui, se

consideriamo attentamente l’intenzione di tutti coloro che perseguono l’utilità, troveremo che non è altro che la salvezza. In secondo luogo nell’ambito del piacere […]: e questo è l’amore. In terzo luogo nell’ambito dell’onesto: e qui nessuno dubita che si tratti della virtù. […] E, se guardiamo bene, troviamo che solo intorno a questi argomenti hanno poetato in volgare uomini illustri, cioè Bertrand de Born delle armi, Arnaut Daniel dell’amore, Giraut de Bornelh della rettitudine». Dante Alighieri, De Vulgari Eloquentia, a c. di Mirko Tavoni, Mondadori, Milano, 2017, p. 262-266.

31 Cfr. Salvatore Santangelo, Dante e i trovatori provenzali, Università di Catania, Catania, 1959, p. 74. 32 Si tratta di tre serie di scambi di sonetti, tutte iniziate da Dante da Maiano.

33 Ma se la proposta del Maiano è «limpidissima, anzi vuota di senso», è di maniera anche la risposta di Dante,

come fa notare Giunta nel commento. Cfr. Dante Alighieri, Rime, a c. di Claudio Giunta, Mondadori, Milano, 2018, p. 19.

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13 qui, al di là del giudizio su di una prova ancora legata alla tradizione cortese e siciliana, è l’analisi di un tessuto lessicale completamente immerso nel provenzale. Solamente riguardo ai sonetti di Dante, in Rime 1b troviamo infatti savete, in luogo di sapete, a causa di influsso galloromanzo, la forma apocopata com che è coincidente con un provenzalismo, emagina, che ricorre talvolta nei poeti del Duecento sotto l’influsso del provenzale esamginar35; in Rime 2b troviamo poi con il valore di congiunzione, calco sintattico dal provenzale pos, e i francesismi

certanamente e paraggio che rappresentano, come fa notare Giunta, un hapax nelle opere di

Dante; in Rime 2d i vv. 12-13 (ché tal dolor ten sotto suo camato / tutti altri, e capo di

ciascun si chiama) richiama un concetto di Guilhem Gasmar36; in Rime 3b il topos dell’amore che non può essere contrastato, molto diffuso in tutta la letteratura provenzale e italiana del periodo, è particolarmente ricorrente in Raimon de Miraval e Bernart de Ventadorn.37

Come abbiamo avuto modo di vedere da questa breve analisi, quindi, il rapporto fra la lingua del giovane poeta e la cultura provenzale è da considerarsi particolarmente stretto.

Dante e Guittone d’Arezzo

L’intera produzione giovanile di Dante, come abbiamo già intuito nella breve analisi linguistica precedente, è in larga parte riconducibile all’universo letterario francese, ma è presente anche un’altra importante direttrice: quella assimilabile alla particolarissima esperienza poetica che fu di Guittone D’Arezzo.

Il frate gaudente, di una generazione precedente a quella di Dante, nacque fra il 1230 e 1240 in un villaggio alle pendici del monte Lignano, vicino ad Arezzo, dove nei tardi anni ’50 del tredicesimo secolo poté, non è chiaro se da autodidatta o seguendo i corsi di retorica del

35 Cfr. Ivi, p. 16. 36 Cfr. Ivi, p. 36. 37 Cfr. Ivi, p. 47.

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14 maestro Bonfiglio38, non solo accostarsi alle lettere e agli studi classici, ma sviluppare quelle

capacità di perfezionamento stilistico e quel gusto per l’artificio che sarebbero stati tipici della sua poesia.

Fino alla prima metà degli anni ’60 si dedicò alla composizione di sonetti d’amore, concentrandosi su tematiche tipiche della ricerca poetica trobadorica, tanto che una delle dirette conseguenze del suo magistero poetico fu quella di diffondere le idee e le innovazioni francesi in Toscana. Egli elaborò, tramite la conoscenza e lo studio delle esperienze letterarie della corte siciliana di Federico II, concetti tipici dell’amor cortese, come l’assolutezza di Amore, la devozione incondizionata alla donna, la fedeltà al sentimento.

Amor m’ha priso ed incarnato tutto ed a lo core di sé fa posanza, e di ciascun membro tragge frutto, da poi che priso ha tanto di possanza. Doglia onta e danno hame condutto, e del mal meo mi fa aver disianza, e del ben di lei spietat’ème ‘n tutto,

sì meve e ciascun ch’ama ha ‘n disdegnanza. Spessamente lo chiamo e dico: Amore, chi t’ha dato di me tal segnoraggio, c’hai conquiso meo senno e meo valore? Eo prego che ti facie meo messaggio e che vade davante al tuo segnore E d’esto convenente il facie saggio.39

38 Ma l’assenza di documenti certi mi porta a privilegiare la prima ipotesi.

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15 Già in questo sonetto, da me riportato per intero, il primo della sezione “Sonetti d’amore” dell’edizone Egidi delle Rime di Guittone, possiamo notare alcuni degli stilemi tipici della poesia guittoniana, che saranno fatti propri, in seguito, dalla poetica stilnovista. Amore, nella situazione descrittiva che apre il sonetto, ha priso (un evidente sicilianismo, che denota l’importanza delle ascendenze della scuola che affermavamo poc’anzi), ossia “catturato” il poeta40, e lo ha incarnato, ossia “compenetrato” ma anche “reso persona”, fatto veramente

uomo41. Già da un’analisi del primo verso, in particolare riguardo all’idea dell’amore che “prende” il poeta, possiamo notare come questo sonetto da una parte si inserisca in una precisa tradizione siciliana di liriche d’amore, risalenti al Notaro («Madonna, dir vo voglio /

come l’amor m’ha priso») e a Federico II («lo vostro bello viso / che m’à d’amore priso»), e

dall’altra si ponga come modello di un insieme di poeti che passerà alla storia sotto il nome di scuola stilnovista42: questo concetto verrà ripreso infatti da Cavalcanti («Dì al servente che la

donna è prisa»), Guinizzelli («Omo ch’è priso non è ‘n sua balia»), Cino («Così m’à preso la beltate vostra») e ovviamente Dante, che riprende in maniera diretta questo concetto

nell’incipit di A ciascun alma presa e gentil core, ma lo ripropone del resto anche in altri componimenti43.

Proseguendo con l’analisi, possiamo trovare altri importanti elementi che sottolineano la vicinanza dell’intera esperienza stilnovista con questo sonetto: oltre al già ricordato Cino,

possanza del v. 4 ricorre in Cavalcanti XI, Poi che di doglia conven ch’i’ porti («ché dentro lo cor mi pass’Amanza, / che se ne porta tutta mia possanza») e disdegnanza, sebbene non

40 Cfr. Salvatore Battaglia, GDLI, UTET, Torino, vol. XIV, pp. 247-248.

41 Non mi sembra che, in questo senso, l’aggettivo incarnato possa essere con facilità reso con “compenetrato”,

“calato nella carne”, come invece fa Leonardi. Il fatto che Amore al v. 2 faccia posanza del cuore del poeta, suggerirebbe una sfumatura più fisica del verbo “incarnare”, lontana da quella usata da Sacchetti («Quando il crocifisso incarnato lo sente ivi / pensi ciascuno come gli parea stare») dove il verbo indica sì la compenetrazione, ma nel senso religioso di penetrazione spirituale. Mi sembra più corretto, esclusa l’accezione totalmente fisica di “penetrazione della carne”, che non è attestata, rendere l’aggettivo con “fatto persona”, come in Cino («S’è ‘ncarnato Amor del suo piacere, / m’ha preso in ciascun membro for misura, / che tutto è convertito già in natura / sì che di contrastar non ho potere»). Cfr. Guittone d’Arezzo, Canzoniere. I sonetti d’amore del codice laurenziano, a c. di Lino Leonardi, Einaudi, Torino, 1994, p.3; Salvatore Battaglia, GDLI, UTET, Torino, vol. VII, p. 626.

42 Anche se la definizione di “scuola” in riferimento all’esperienza stilnovista è controversa.

43 Cfr. Rime 6, La dispietata mente, v. 58 («ch’Amor lanciò lo giorno ch’io fui preso»); Rime 34, Amor che movi

tua vertù dal cielo, v. 25 («una giovane entrata, che m’ha preso»); Rime 32, Perché ti vedi giovinetta e bella, v. 8 («Ma perché preso più ch’altro mi trove»).

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16 ricorra direttamente, porta in sé l’intero topos della “donna disdegnosa”, che troverà poi la sua compiutezza con Dante in Voi che savete ragionar d’amore:

Voi che savete ragionar d’amore Udite la ballata mia pietosa, che parla d’una donna disdegnosa la qual m’ha tolto il cor per suo valore.44

Si fa risalire alla morte del padre nel 1265 la “conversione” di Guittone, che lo porterà a cambiare radicalmente la sua poetica da una materia amorosa a una morale. Per quanto i critici nel tempo abbiano cercato di rendere più sfumata questa divisione, sostenendo che il cambiamento avvenuto dovesse attestarsi in un universo puramente letterario, senza dover cercare dei corrispettivi specifici nella vicenda biografica di Guittone,45 la frattura fra le due parti del canzoniere risulta piuttosto netta e di capitale importanza dal punto di vista poetico e letterario.

Affermare, come fa Tartaro, la pura letterarietà di questa scelta, implica l’impoverimento del canzoniere guittoniano di una delle novità più importanti, anticipatrice sia della Vita Nova che dei Rerum Vulgarium Fragmenta: la precisa connessione fra poesia e biografia, la «volontà di legare le ragioni dell’autobiografia spirituale alle ragioni della tipologia letteraria»46. Guittone, infatti, sceglie consapevolmente di rimarcare l’inconciliabilità fra eros e caritas, i due tipi di amore rispettivamente protagonisti della prima

44 Rime 26, 1-4.

45 È questa l’opinione portata avanti da Achille Tartaro. Egli sostiene che «non abbiamo traccia nell’opera

letteraria di Guittone dell’esistenza di una crisi spirituale in senso stretto. La condanna della propria vita passata, di là dal fervore con cui è pronunciata, ha tutta l’aria di un atteggiamento letterario, facilmente riconducibile com’è ad una consuetudine largamente diffusa nel Medioevo […]. Invero le ragioni della conversione guittoniana – di là dalle sue motivazioni biografiche e sentimentali, a noi del resto quasi inafferrabili – vanno ricercate non tanto in un’improvvisa scoperta del divino, quanto nel maturarsi di un’idealità civile e politica protesa alla conquista di valori eterni, capaci di assicurare l’ordine al quale l’aretino aspira tenacemente». Achille Tartaro, Il manifesto di Guittone, Roma, Bulzoni, 1974, pp. 15-16.

46 Michelangelo Picone, Guittone e i due tempi del canzoniere, in Guittone D’Arezzo nel settimo centenario della

morte. (Atti del convegno internazionale d’Arezzo 22-24 aprile 1994), Franco Cesati Editore, Firenze, 1994, p. 75.

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17 e della seconda parte del canzoniere: questa opposizione si rivela però soprattutto un’evoluzione dell’io lirico, che da agens nella prima parte diviene auctor nella seconda, e che quindi può essere sciolta solo tramite la conversio47.

Lo spartiacque fondamentale che separa queste due fasi è la canzone Ora parrà s’eo

saverò cantare, che apre la sezione delle “canzoni ascetiche e morali” dell’edizione Egidi.

Ora parrà s’eo saverò cantare e s’eo varrò quanto valer già soglio, poiché del tutto Amor fuggo e disvoglio, e più che cosa mai forte mi spare! Ch’ad om tenuto saggio odo contare che trovare – non sa, né voler punto, omo d’amor non punto;

ma ch’è disgiunto – da verità mi pare, se lo pensare – a lo parlare – assembra; ché ‘n tutte le parti, ove distringe Amore, regge follore – in loco di savere.

Donqua como valere

po, né piacere – di guisa alcuna fiore, poi dal fattore – d’ogne valore – dissembra, ed al contraro d’ogne manera sembra? Ma chi cantare vole e valer bene, in suo legno nochier diritto pone, ed orrato saver mette al timone,

Dio fa sua stella e ver lausor sua spene.48

47 Ibidem.

48 Per chiarezza di tematiche e contenuti inserisco una parafrasi: “Ora si vedrà se saprà comporre / e se varrò

quanto prima solevo valere, / poiché adesso io fuggo del tutto Amore e lo ripudio, / e più di ogni altra cosa lo aborro! / Infatti sento dire ad un uomo reputato saggio / che non sa comporre canzoni e non vale nulla / colui che non è stato colpito da Amore; / però costui mi sembra lontano dalla verità / se i suoi pensieri sono coerenti a ciò

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18 La struttura metrica si presenta particolarmente complessa: per quanto composta esclusivamente di endecasillabi e settenari, la canzone presenta molteplici rime interne, che causano varie spezzature nei versi lunghi, e porta conseguentemente a un ritmo piuttosto concitato49. Quell’ora posto in posizione evidentissima a inizio del primo verso, non può che confermare l’idea di un momento temporale preciso e univoco, che dia inizio a una nuova fase di produzione poetica in un modalità che si tramuta inevitabilmente anche in sfida e confronto con se stesso, come notiamo dal v. 2, (e s’eo varrò quanto valer già soglio). Nel presentarci la sua nuova materia poetica, Guittone parte dal personale assunto di aver completamente abbandonato Amore, asserzione sottolineata dalla particolare dittologia sinonimica in clausola

fuggo e disvoglio. Nell’aborrire eros, il poeta rimarca la distanza da Bernart De Ventadorn,

l’om tenuto saggio del v. 550, che in Chantar no pot gaire valer aveva affermato che il valore

del comporre poesia dipenda unicamente e univocamente dal sentimento amoroso: Guittone asserisce, invece, che la presenza di Amore implichi direttamente il follore, ossia la “pazzia” e non certo il savere, concetto rimarcato dalla presenza di distringe, che rende bene l’idea della costrizione forzata del sentimento verso l’amante. Il nuovo materiale poetico51 che affronterà

Guittone non sarà, quindi, governato da Amore, sentimento che diverge radicalmente dalla volontà del creatore, ma da Dio, dalla “onorata saggezza” e dalla “rettitudine”.

Come già si evince da questa breve analisi, il poeta si pone in maniera sostanzialmente opposta alle principali tematiche che, pochi anni dopo, saranno proprie dello stilnovismo, con che dice / perché in ogni parte dove regna Amore stringe a sé / regna la follia al posto della saggezza. / Dunque come può valere / o piacere in qualche modo / ciò che diverge così radicalmente dal Creatore / e invece somiglia in tutto e per tutto al suo contrario? / Ma chi vuole fare poesia e valere / porrà come nocchiero della propria nave la rettitudine / e metterà al timone l’onorata saggezza / la sua stella polare sarà Dio e la lode veritiera la sua speranza».

49 Cfr. Antonello Borra, Guittone d’Arezzo e le maschere del poeta: la lirica cortese fra ironia e palinodia,

Longo, Ravenna, 2000, p. 28.

50 L’identificazione con Bernart fu proposta Achille Tartaro in La conversione letteraria di Guittone (1965), ora

in Achille Tartaro, Il manifesto di Guittone e altri studi fra Due e Quattrocento, Roma, Bulzoni, 1974, pp. 50-62, soppiantando la tradizione critica precedente che propendeva nell’identificazione con Andrea Cappellano.

51 Le ricerche di Margueron confermano la datazione del componimento attorno al 1265, l’anno appunto della

sua conversione, con l’affiliazione all’ordine dei Milites Beatae Virginis Mariae. Cfr. C. Margueron, Recherces sur Guittone d’Arezzo, Presses Universitaries de France, Paris, 1966, pp. 83-113.

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19 un atteggiamento che non poteva non influenzare il particolare rapporto che Dante avrà nei suoi confronti. Sono infatti numerosi i punti dell’opera dantesca nei quali emerge il giudizio su Guittone; una sferzante valutazione linguistica deriva da un brano del De Vulgari

Eloquentia in cui Dante prende in rassegna vari esponenti della poesia toscana:

Post hec veniamus ad Tuscos, qui propter amentiam suam infroniti titulum sibi vulgaris illustris arrogare videntur. Et in hoc non solum plebeia dementat intentio, sed famosos quamplures viros hoc tenuisse comperimus: puta Guittonem Aretinum, qui nunquam se ad curiale vulgare direxit, Bonagiuntam Lucensem, Gallum Pisanum, Minum Mocatum Senensem, Brunectum Florentinum, quorum dicta, si rimari vacaverit, non curialia sed municipalia tantum invenientur.52

Come si nota da questo brano, Dante taccia di municipalismo i vari esponenti della scuola guittoniana, rei di essere rimasti ancorati a una dimensione cittadina della poesia, con la conseguenza di rimanere esclusi dalle nove rime alle quali Dante stava cercando di dare sistemazione negli anni della composizione del trattato. In questa affermazione, c’è sicuramente una presa di distanza dal punto di vista linguistico dalla vecchia poesia di Guittone e dei suoi seguaci, ma è presente soprattutto la volontà di chiarire che saranno Dante e i suoi sostenitori i veri nuovi poeti, i continuatori di quel nucleo di tematiche e contenuti che, a ben vedere, era stato Guittone stesso a cominciare.

L’allontanamento dalla poetica guittoniana, quindi, se da una parte è chiaro e consapevole, dall’altra non può prescindere dal riconoscimento di grandezza e importanza nei

52 «Dopo di che veniamo ai toscani, i quali, ingordi nella loro dissennatezza, pretendono di arrogarsi il titolo del

volgare illustre. E in ciò non vaneggia solo il sentire del popolino, ma sappiamo che hanno questa convinzione anche tanti uomini famosi: per esempio Guittone Aretino, che mai si indirizzò al volgare curiale, Bonagiunta Lucchese, Gallo Pisano, Mino Mocato Senese, Brunetto Fiorentino, i versi dei quali, se ci sarà spazio per frugarci dentro, si riveleranno non curiali ma solo municipali». Dante Alighieri, De Vulgari Eloquentia, a c. di Mirko Tavoni, Mondadori, Milano, 2017, pp. 154-158.

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20 confronti dell’aretino: un fardello con il quale ogni stilnovista ha dovuto fare i conti53, che è

prima di tutto linguistico e stilistico, come abbiamo già avuto modo di vedere nel caso del provenzalismo della tenzone con Dante da Maiano54.

Se nel trattato il giudizio su Guittone era, almeno ad un livello più superficiale, puramente linguistico, nella Commedia Dante va oltre e critica direttamente il suo ruolo all’interno del panorama letterario. Sono almeno due i punti in cui Guittone viene citato nella

Commedia: il primo è in Pur. XXIV, canto nel quale Bonagiunta Orbicciani da Lucca,

riconoscendo colui che trasse le nove rime, afferma:

«O frate, issa vegg’io», diss’elli, «il nodo che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!55

Al di là della capitale importanza e della fortuna che avrà l’espressione dolce stil novo, mi sembra importante rimarcare il punto sull’opinione espressa da Bonagiunta: si tratta dell’esclusione totale e perpetua della vecchia poesia da ogni possibile novità e non si tratta più di una motivazione linguistica, come era stato nel De Vulgari, ma di una ragione prettamente tematica, poeticamente fondamentale. Dante, infatti, pochi versi prima aveva spiegato l’essenza della sua poesia in una breve frase: «I’ mi son un che, quando / Amor mi

spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando»; descrivendo se stesso con

l’immagine di uno “scriba” che segue unicamente il dettato di Amore (e, soprattutto, nel modo in cui Amore lo detta), Dante esclude chiunque non segua i precetti di questo sentimento, esattamente come espresso in Vita Nova XVIII56, e il processo poetico non deriva

53 Si veda, ad exemplum, il sonetto di Cavalcanti Da più a uno face un sillogismo, dove Guittone viene accusato

di una vera e propria incapacità stilistica di composizione.

54 Cfr. Mario Marti, Guittone e i guittoniani in Enciclopedia Dantesca. 55 Pur. XXIV, 55-57.

56 È il capitolo della VN nel quale Dante, rispondendo alla domanda di una donna gentile, esprime poeticamente

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21 più dall’occasione esterna, ma da un moto dell’animo57. Quell’issa espresso da Bonagiunta,

quindi, si riferisce direttamente alla spiegazione precedente di Dante e indica la presa di coscienza della marginalità della vecchia poesia rispetto alla nuova.

In un altro fondamentale passo della Commedia, è per bocca di Guido Guinizzelli che Dante colpisce Guittone con un'altra sferzata. Siamo nel ventiseiesimo canto del Purgatorio e Guinizzelli si è appena presentato a Dante, che lo riconosce come il padre mio e degli altri

miei miglior, ossia della nuova poesia della quale sia Dante che Guido sono protagonisti.

Guido indica poi Arnaut Daniel e lo definisce migliore di quel di Lemosì, ossia di Giraut de Borneill, anticipando però subito un parallelismo relativo alla situazione poetica italiana, che vede Giraut paragonato a Guittone:

A voce più che al ver drizzan li volti, e così ferman sua oppinïone

prima ch’arte o ragion per lor s’ascolti. Così fer molti antichi di Guittone, di grido in grido pur lui dando pregio, fin che l’ha vinto il ver con più persone.58

Il ver al quale Guinizzelli fa riferimento è un rimando a un preciso scambio avuto da Guido con uno dei più importanti esponenti della scuola guittoniana, Bonagiunta Orbicciani da Lucca. Nel sonetto Voi, ch’avete mutata la mainera il poeta lucchese aveva accusato Guinizzelli, e indirettamente anche gli altri stilnovisti, di aver cambiato il modo in cui poetare d’Amore non per ragioni strettamente artistiche, ma per motivazioni di gloria letteraria, per

57 La Chiavacci Leonardi, nel suo commento, spiega come l’immagine dello “scriba” sia probabilmente stata

presa da Dante da un testo attribuito a Riccardo di San Vittore, Epistula ad Severinum de charitate, e chiarisce che «scrivere sotto dettatura non significa l’immediato effondersi del sentimento personale, alla maniera romantica, ma esprime un’idea in qualche modo opposta; l’amore di cui qui si parla è infatti una realtà oggettiva, che trascende l’uomo (come il Dio dettatore della Scrittura), e l’umile scrivano, proprio in quanto si fa fedele trascrittore, mette da parte la propria individualità, per riflettere quella verità superiore». Dante Alighieri, La Divina Commedia, a c. di A. M. Chiavacci Leonardi, vol. II, Mondadori, Milano, 2016, pp. 725-726.

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avansare ogn’altro trovatore e nel farlo aveva esplicitamente anticipato la sconfitta della

nuova scuola poetica, metaforicamente destinata a brillare solo là dove c’è oscurità, e non già dove luce l’alta spera, ossia il magistero poetico di Guittone59. Nel sonetto di risposta, Omo

ch’è saggio non corre leggero, Guinizzelli dichiara che il ver dev’essere espresso dal poeta

solamente dopo un’attenta dimostrazione della veridicità del suo giudizio e non certo precipitosamente, senza riflettere60. Una citazione così diretta del lemma ver, in posizione di

soggetto nel passo della Commedia, oltretutto inserita in un più ampio tessuto di riferimenti che riguarda altri sonetti di Guinizzelli61, non può che significare che Guittone e Giraut hanno fallito la prova della verità, che ver li ha vinti, smentendo la voce popolare che considerava loro i migliori e rendendo, infine, chiaro ai più il fatto che non fossero altro che poeti alla moda.

Cavalcanti e la sua poetica

«A questo sonetto fu

risposto da molti, e di diverse sententie: tra li quali fu risponditore quelli cui io chiamo primo delli miei amici […]. E questo fu

59 «Avete fatto como la lumera, / ch’a le scure partite dà sprendore, / ma non quine ove luce l’alta spera, / la

quale avansa e passa di chiarore.» Marco Berisso, Poesie dello stilnovo, BUR, Milano, 2015, p.85.

60 «Omo ch’è saggio non corre leggero / ma a passo grada sì com’ vol misura; / quand’ha pensato riten su’

pensero / infin a tanto che ‘l ver l’asigura». Ivi, p. 86.

61 Si confronti ardo del v. 18 con «ché ‘n pene io ardo» di Rime, IV, 7; imbarche di v. 75 e padre mio di v. 97

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quasi lo principio

dell’amistà tra lui e me.»62

Una volta analizzate le principali ascendenze linguistiche dell’universo delle “petrose”, dobbiamo addentrarci più a fondo nell’indagare la particolare concezione di Amore e della donna che esse portano avanti. Se, infatti, come abbiamo già fatto notare, le “petrose” rappresentano la fondamentale tappa di un percorso, l’idea del rapporto fra l’io lirico e l’oggetto dell’amore può essere considerato anch’esso come un percorso nel percorso, un itinerario che Dante affronta, cambiando più volte strada e che giungerà a quella particolare idea di Amore immanente e terreno presente nelle “petrose”. Per seguire questo cammino, due sono i punti principali sui quali dobbiamo soffermarci: la figura di Guido Cavalcanti, che con la sua opera ha influenzato enormemente la letteratura del suo periodo, e l’esperienza poetica della Vita Nova, e più in particolare nei punti in cui il rapporto con Guido e la sua concezione dell’amore si fa più stretto.

Guido Cavalcanti è stato uno dei poeti più importanti del Duecento. Nato a Firenze attorno al 1250, con il corpus che ci viene tramandato di 36 sonetti, 11 ballate, 3 canzoni, una stanza isolata di canzone e un mottetto, ha enormemente influito sulla cultura letteraria del suo periodo. La vita di Guido, però, non si esaurisce solo nella dedizione alle lettere e nella scrittura artistica, ma racconta anche di un fervente impegno politico che ha condizionato fortemente la sua vicenda biografica63. Era figlio di Cavalcante e faceva parte di una delle più

62 VN III, 14.

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24 importanti famiglie fiorentine di parte guelfa64: fin da giovane fu protagonista di primo piano

della politica cittadina e nel 1284 diviene membro del Consiglio Generale del Comune65. Nell’ultimo decennio del tredicesimo secolo, proprio negli anni in cui lo Stilnovo stava vivendo il periodo di maggior fioritura, l’attivismo politico di Guido si fece più intenso e si rilevano molti episodi di scontri e violenze con gli avversari: in seguito a uno di questi, avvenuto il 23 giugno 1300, i membri del Priorato delle Arti, di cui faceva parte anche Dante, esiliarono Cavalcanti insieme ad altri capi politici delle due fazioni e Guido fu mandato in esilio a Sarzana. Nella città ligure si ammalò di febbre malarica e dopo pochi mesi gli fu concesso di tornare a Firenze, dove morì nell’agosto del 130066.

Nella sua edizione critica del 1957, Guido Favati ha disposto le Rime di Cavalcanti seguendo un criterio nuovo rispetto ai suoi predecessori: mentre essi avevano preferito organizzare le rime secondo criteri metrici e ritmici, Favati sceglie di distribuirle creando un percorso tematico e concettuale delle varie fasi della poetica dell’artista nella prima sezione, collocando invece le rime di corrispondenza, sicuramente di carattere più vario e di tono talvolta più scherzoso, nella seconda. È seguendo questo criterio che intendo dare una rapida lettura, con relativa analisi, delle varie fasi, delle diverse tematiche e delle principali dramatis

personae cavalcantiane.

La prima sezione comprende le rime che vanno dalla I alla III e si tratta di quella più aderente alla tradizione poetica. Possiamo infatti notare dei motivi che ricorrono spesso negli esponenti della Scuola Siciliana e in Guinizzelli. Si veda, ad exemplum, la fronte del III componimento:

Biltà di donna e di saccente core

64 La battaglia di Montaperti fu una battaglia che nel 1260 vide contrapporsi la Repubblica Fiorentina insieme

alla Lega Lombarda per la parte guelfa e le città di Siena e Pisa per la parte ghibellina. In seguito alla sconfitta di Firenze, la fazione ghibellina prese il sopravvento anche all’interno della città. Cfr. Antonio Panella, Storia di Firenze, Le Lettere, Firenze, 1984, p. 45.

65 Cfr. Ivi, p. 57-59.

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e cavalieri armati che sien genti; cantar d’augelli e ragionar d’amore adorni legni ‘n mar forte correnti; aria serena quand’apar l’albore e bianca neve scender senza venti riviera d’acqua e prato d’ogni fiore; oro, argento, azzurro ‘n ornamenti67

Il sonetto, che verrà ripreso da Dante in Sonar brachetti e cacciatori aizzare anche nella successione rimica, vede contrapporsi un insieme di cose gradevoli e seducenti all’oggetto dell’amore. Le quartine occupano interamente il primo termine interno di paragone, che è ricalcato sul genere del plazer provenzale68. Il plazer era un componimento tipico del sud

della Francia, composto da un elenco di cose piacevoli e belle a vedersi, all’interno di un ambiente elegante e mondano strettamente connesso con l’ideale estetico cortese; Cavalcanti, in questo caso, costruisce un sonetto in cui i versi delle quartine sono interamente occupati dall’elenco delle cose che non possono competere con la beltate e la valenza della sua donna. Infatti, nei primi otto versi, vengono condensate diverse immagini idilliache di bellezza, serenità e cortesia, con riprese dirette soprattutto di Iacopo da Lentini («Diamante né smiraldo

né zaffiro») e Guinizzelli («Io voglio del ver la mia donna laudare») per il v. 8. Il v. 6, che

verrà ripreso da Dante in Inf. XIV, 30 («come di neve in alpe senza vento»), sarà preso da spunto per la riflessione sulla presunta “leggerezza” di Cavalcanti da Italo Calvino e, in risposta, Emilio Pasquini69. Nelle terzine si passa al secondo termine di paragone: la beltate,

67 Cavalcanti III, 1-8.

68 Cfr. Guido Cavalcanti, Rime a c. di Domenico De Robertis, Giulio Einaudi, Torino, 1986, p. 12.

69 Mi limito qua solamente ad accennare le linee generali di questa diatriba, piuttosto lunga e complessa, che

meriterebbe senz’altro una trattazione di ben più alto tenore. Italo Calvino, nel primo articolo delle sue Lezioni Americane, legge l’intera esperienza poetica di Cavalcanti tramite il tema della “leggerezza”. Egli, recuperando anche una descrizione di un episodio della vita del poeta dalla nona novella della sesta giornata del Decameron, afferma che «nelle sue poesie le dramatis personae più che personaggi umani sono sospiri, raggi luminosi, immagini ottiche, e soprattutto quegli impulsi o messaggi immateriali che egli chiama spiriti. Un tema niente affatto leggero come la sofferenza d’amore, viene dissolto da Cavalcanti in entità impalpabili […]». Riguardo alla poesia che stiamo analizzando, inoltre, contrappone la leggerezza della neve che cade senza venti alla

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26 la valenza e il gentil coraggio della donna amata superano la moltitudine di immagini cortesi, rendendole addirittura sgradevoli («sì che resembra vile a chi ciò sguarda»). Come si può notare questa primissima fase cavalcantiana è ancora priva di quella tensione drammatica che caratterizzerà le fasi successive della poetica di Guido.

Il IV componimento, Chi è questa che vèn, potrebbe essere considerato un punto di passaggio fra una prima fase più tradizionale e una seconda più profonda e originale, dove l’esperienza conoscitiva della donna assume caratteristiche nuove e toni liricamente tragici, pur conservando un ipotesto tradizionale. Il sonetto tratta la tematica di lode alla donna della guinizzelliana Io voglio del ver la mia donna laudare, riprendendone anche diverse parole rima70 e riferendosi al Cantico dei Cantici nel verso iniziale71. Tuttavia, è proprio l’allusione al testo biblico a collocare l’incontro con l’oggetto femminile in una dimensione che supera profondamente quella cortese dei primi tre componimenti di Cavalcanti: si abbandona il mondo della cortesia cavalleresca per un universo propriamente metafisico, con regole ferree che diverranno sempre più chiare e rigide nei sonetti successivi.

La donna entra nella scena, nel raggio visivo del poeta, come un’apparizione, improvvisamente, suscitando diverse reazioni sia interne all’innamorato che appartenenti al mondo fisico. Con l’arrivo di lei, infatti, l’aria inizia a tremare72 (che fa tremar di chiaritate

l’are), indicando il preciso fenomeno scientifico della scintillazione, per il quale l’aria assume

l’effetto di un tremolio a causa della luce che la colpisce73. L’essere umano, inteso nella sua

pesantezza del verso dantesco di Inf. XIV, 30 (come di neve in alpe sanza vento), asserendo che si tratti di una diversa e opposta concezione di poesia.

Pasquini, anni dopo, attacca questa interpretazione affermando che «l’estrosa proposta di Calvino non ha un minimo fondamento né storico né testuale» e smonta l’ipotesi calviniana, ripercorrendo la poetica di Dante e Cavalcanti. Cfr. Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, Milano, 1993, pp. 7-35; Emilio Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, Mondadori, Milano, 2001, pp. 48-71.

70 Si tratta di are : pare e vertute : salute. Cfr. Donato Pirovano, Il dolce stil novo, Salerno Editrice, Roma, 2014,

p. 289.

71 Cfr. Cantico dei Cantici, 6,9: «Quae est ista quae progreditur?».

72 Da notare che Dante riutilizzerà la stessa immagine per descrivere sbigottimento del poeta di fronte alla vista

del leone, nel primo canto dell’Inferno. («Questi parea che contra me venisse / con la test’alta e con rabbiosa fame, / sì che parea che l’aere ne tremesse»). Cfr. Dante Alighieri, La Divina Commedia, a c. di A. M. Chiavacci Leonardi, Vol. I, Mondadori, Milano, 2016, p. 19.

73 «Auris non audit nisi quae communicant cum aere tremente». Alberto Magno, Metaphysica, a c. di Bernhard

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27 accezione più generica e universale, come qualsiasi uomo che incontri questa donna, è investito da una tale potenza di sensazioni da assumere un atteggiamento totalmente passivo e non reagisce in altro modo se non sospirando (sì che parlare / null’omo pote, ma ciascun

sospira?); saranno proprio i “sospiri” una parola chiave del lessico cavalcantiano, che

ricorrerà, nelle sue varie forme, ben venti volte nell’intero corpus.74 Nelle terzine entra in

scena un altro principale topos cavalcantiano: l’inconoscibilità non sono della donna in sé, ma anche dell’esperienza dello sbigottimento, derivata dall’incontro con l’oggetto dell’amore descritto nelle quartine; l’intelletto umano è limitato, non può arrivare a comprendere pienamente l’esperienza di Amore che resterà, al di là di ogni possibile ragionamento, un mistero.

Sarà proprio l’esperienza dello sbigottimento, come anticipavamo, a gettare le basi per la creazione di un vero e proprio universo cavalcantiano, con delle proprietà e innovazioni eccezionalmente nuove nella lirica del periodo. La vista dell’oggetto d’amore da parte dell’innamorato, lo atterrisce a tal punto da creare un mondo-altro totalmente disanimato: in questo universo la donna trova ben poco spazio, svilita ormai a pura causa meccanicistica del dolore.

Tu m’hai sì piena di dolor la mente che l’anima si briga di partire, e li sospir che manda il cuore dolente mostrano agli occhi che non può soffrire. Amor, che lo tuo grande valor sente, dice «E’ mi duol che ti convien morire per questa fiera donna, che nïente par che piatate di te voglia udire». I’vo come colui ch’è fuor di vita,

74 Cfr. Cavalcanti IV, 6; V, 7; VIII, 3; IX, 2; X, 4; XIV, 10; XV, 5; XVII, 10; XVIII, 11; XIX, 14; XXI, 9;

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che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia fatto di rame o di pietra o di legno, che si conduca sol per maestria e porti ne lo core una ferita

che sia, com’egli è morto, aperto segno.75

La donna, in questo sonetto, ha colmato di dolore oltre misura la mente del poeta, tanto che l’unica conseguenza certa e sicura è la morte, cosa che è rivelata anche da Amore ai vv. 5-6 (Amor, che lo tuo grande valor sente / dice: «E’ mi duol che ti convien morire»). La donna, come anticipavamo, non è presente concretamente nella realtà descritta da Cavalcanti: a permanere è soltanto il suo ricordo e l’effetto che causa al poeta, tramandato da quel tu del primo verso, lontano dallo spazio e dal tempo descritto dalla scena. L’intera realtà è dominata dall’io lirico, descritto, riprendendo la celebre immagine di Guido Guinizzelli76, come un

automa, che cammina solo per forza d’inerzia («che si conduca sol per maestria»), ormai privato delle sue più fondamentali funzioni vitali ed emotive.

Accade spesso, nella realtà cavalcantiana, che il dolore sia così forte che porti a una vera e propria scissione dell’io lirico, che si frammenta in unità fondamentali, più piccole, che si muovono sulla scena sostituendo di fatto il personaggio: sono gli spiriti, delle micro-entità, completamente antropomorfizzate, che percepiscono il mondo che sta loro attorno attraverso un insieme macroscopico di capacità sensoriali, rese poeticamente con un ampio uso di verba

sentiendi, come vedere e sentire.77 Il sonetto Per gli occhi fere uno spirito sottile, nonostante l’evidente intento autoparodico, è emblematico riguardo al funzionamento del meccanismo degli spiriti: in questo componimento, ogni spirito crea il suo successivo tramite una sorta di

75 Cavalcanti VIII.

76 Mi riferisco a Lo vostro bel saluto e ‘l gentil sguardo, vv. 12-14. («remagno como statüa d’ottono, / ove vita

né spirto non ricorre, se non che la figura d’omo rende»). Marco Berisso, Poesie dello Stilnovo, Bur, Milano, 2006, p. 81.

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29 automatismo meccanicistico e come risultato abbiamo la ripetizione della parola spirito o di un suo diminutivo per ben 15 volte in 14 versi78.

Per gli occhi fere uno spirito sottile, che fa ‘n la mente spirito destare, dal qual si move spirito d’amare ch’ogni’altro spiritel fa[ce] gentile. Sentir non po' di lu’ spirito vile, di cotanta vertù spirito appare: quest’è lo spiritel che fa tremare, lo spiritel che fa la donna umìle. E poi da questo spirito si move un altro dolce spirito soave,

che siegue un spiritello di mercede: lo qual spiritel spiriti piove,

ché di ciascun spirit’ha la chiave, per forza d’uno spirito che ‘l vede.79

La concezione di spirito, propriamente dedotta da Avicenna80, indica appunto la

manifestazione dei processi vitali che superano l’unità dell’essere umano e che divengono personaggi senzienti della scena. L’ironia sicuramente presente nel componimento, infatti, maschera un intento filosofico ben più elevato: si rappresenta lo scontro fra due concezioni dell’anima, fra due sistemi dottrinali: quello neoplatonico-avicenniano e quello aristotelico-averroista81. In questo ossessivo e ripetitivo gioco di movimenti, ciò che è maggiormente

78 Cfr. Guido Cavalcanti, Rime, a c. di Domenico De Robertis, Giulio Einaudi, Torino, 1986, p. 108. 79 Cavalcanti, XXVIII.

80 «Primo igitur dicemus quod virtutum animalium corporalium vahiculum est corpus subtile, spirituale,

diffusum in concavitatibus, quod est spiritus». Avicenna Latinus, Liber de Anima, seu Sextus de naturalibus, voll. IV-V, edition critique par S. Van Riet, Louvain, 1965, p. 175.

81 «L’anima avicenniana è una e divisa per facoltà al contrario di quell’aristotelico-averroista nella quale

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