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"Ecclesia et monasterio beati Sancti Iusti et Sancti Clementis sito loco prope mura de civitate Voloterrense": il monastero e le pergamene del fondo Badia dell'Archivio Storico Comunale di Volterra dal 1030 al 1250.

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN STORIA E CIVILTÀ Curriculum medievale

TESI DI LAUREA

ANNO ACCADEMICO 2017-2018

“Ecclesia et monasterio beati Sancti Iusti et Sancti Clementis sito loco prope

mura de civitate Voloterrense”: il monastero e le pergamene del fondo Badia

dell’Archivio Storico Comunale di Volterra dal 1030 al 1250

Candidato: Relatore:

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Indice Generale:

Capitolo 1

1. Cenni introduttivi………. p. 5 1.1. I SS. Giusto e Clemente……….. p. 10 1.2. La situazione volterrana dall’epoca carolingia alla fondazione del monastero dei SS.

Giusto e Clemente………...…..……... p. 17 1.2.1. L’età carolingia……….. p. 18 1.2.2. L’eta ottoniana………..…. p. 28 1.3. Il vescovo Gunfredo……….….. p. 33 1.4. La fondazione del monastero dei SS. Giusto e Clemente………... p. 45

Capitolo 2

2. La figura del vescovo……….… p. 54 2.1. Le donazioni dei successori di Gunfredo al monastero dei SS. Giusto e Clemente

……… p. 61 2.2. Donazioni e acquisizioni non vescovili del monastero dei SS. Giusto e Clemente

nel periodo compreso tra 1034 e 1113……...……… p. 71 2.3. L’ordine camaldolese……….... p. 79 2.4. Il passaggio di S. Giusto ai Camaldolesi………... p. 83

Capitolo 3

3. Esempi di ascesa sociale: i discendenti di Uberto visdomino……….. p. 95 3.1. Altri esempi di ascesa sociale……….……. p. 119 3.2. Il monastero di S. Giusto nello scontro tra vescovo e Comune……….….. p. 135 3.3. Possessi del monastero……….……….... p. 146

Conclusioni

………... p. 173

Bibliografia……….. p. 176

Appendice

1. Le pergamene del fondo Badia dell’Archivio Storico Comunale di Volterra dal 1030 al 1250………. p. 199 2. Edizione dei documenti……… p. 342

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5 1. Cenni introduttivi.

«Tra le molte abbazie della Toscana occupava un posto assai decoroso e ragguardevole la Badia dei SS. Giusto e Clemente presso le antichissime mura di Volterra […] antico e illustre cenobio, fino ad ora troppo trascurato dai non pochi scrittori di storie volterrane»: così scriveva nel 1915 Luigi Consortini, chierico della Congregazione della Madre di Dio, nella prefazione che apriva il suo studio «La Badia dei SS. Giusto e Clemente presso Volterra, notizie storiche e guida del Tempio e del Cenobio», che per lungo tempo ha costituito l’unica opera a carattere monografico sul monastero che sarà oggetto di questo studio. Oggi, a distanza di più di un secolo da quella pubblicazione, la situazione non è molto cambiata e le parole del Consortini riguardo alla mancanza di attenzione da parte della storiografia che si occupa di Volterra per il cenobio dei SS. Giusto e Clemente risultano più che mai attuali. Scorrendo rapidamente la bibliografia dal 1915 ai giorni nostri ci si imbatte in un solo scritto che si occupi della badia volterrana in maniera esaustiva, ponendola al centro di una ricerca completa e approfondita: mi riferisco alla tesi di laurea di Margherita Ducci discussa presso l’Università di Pisa nell’ a. a. 1992-1993 (relatore Gabriella Rossetti) dal titolo «La badia dei Santi Giusto e Clemente a Volterra dalla fondazione agli inizi del XIII». La tesi della Ducci è anche il contributo temporalmente più vicino ai giorni nostri tra quelli che trattano della badia camaldolese, sebbene sia ormai piuttosto datato, ragion per cui è stato il punto di partenza da cui hanno preso spunto alcune delle riflessioni contenute all’interno di questo lavoro. Lo scopo di questa ricerca è mettere in relazione il nucleo di conoscenze ad oggi acquisite sulla badia dei SS. Giusto e Clemente con la sempre più ricca congerie di studi a carattere politico, sociale ed economico sulla realtà volterrana medievale nel suo complesso, che negli ultimissimi anni sono stati decisamente numerosi e floridi, dando vita a nuovi e interessanti spunti di riflessione e aprendo spiragli che solo fino a qualche decennio addietro parevano impraticabili o addirittura impensabili. Questi lavori recenti costituiscono un fertile humus per chi si accinge a trattare delle vicende volterrane, in quanto propongono problemi nuovi e interpretazioni innovative su problematiche storiche che in passato si credevano esaurite; certamente richiederanno tempo per essere adeguatamente metabolizzati e, nel frattempo, forniranno a chi si approccia a queste vicende punti di vista diversi da quelli tradizionali e indubbiamente stimolanti, di cui non hanno

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6 potuto disporre i numerosi e validi studiosi che delle stesse tematiche si sono occupati in precedenza1.

Il monastero dei SS. Giusto e Clemente di Volterra sorge su un colle che in passato era chiamato Monte Nibbio, un’altura disseminata di arbusti sparsi in maniera disomogenea e caratterizzata da singolari voragini (le cosiddette balze) con pareti verticali a strapiombo del tutto peculiari della zona, originatesi nel corso dei secoli in seguito all’operare inesorabile dei meccanismi di erosione su un terreno dalla composizione morfologica alquanto inusuale2.

La sua posizione, arroccato su una balza poco al di fuori delle mura di Volterra, ha fatto sì che la sua storia fosse strettamente legata agli eventi che dalla sua fondazione in poi hanno caratterizzato la storia della città, condizione che lo rende indubbiamente un punto di osservazione privilegiato da cui guardare agli avvenimenti che hanno influenzato la storia cittadina in primis e in generale quella della regione posta sotto il controllo diretto del centro cittadino ai tempi del principato vescovile, circostanza che ha condizionato attivamente i primissimi decenni di storia del cenobio di cui ci occuperemo. Non poteva essere altrimenti, dato che si tratta di un monastero di fondazione vescovile e in quanto tale per un lasso considerevole di tempo fu sottoposto all’influenza del presule volterrano che ne indirizzò le

1 I due lavori a cui si è fatto riferimento sono P. Luigi Consortini, La Badia dei SS. Giusto e Clemente presso Volterra. Notizie storiche e guida del Tempio e del Cenobio, Lucca, 1915 e Margherita Ducci, La badia dei Santi Giusto e Clemente a Volterra dalla fondazione agli inizi del XIII, Università di Pisa, a. a. 1992-1993 (rel. G. Rossetti), ricavato dalla sua tesi di laurea è l’articolo della medesima Ducci, «La giurisdizione spirituale della Badia dei SS. Giusto e Clemente a Volterra dalla fondazione al XIII secolo», in Rassegna Volterrana, LXXV (1998), pp. 145-158.

2 Una delle primissime attestazioni del toponimo «Monte Nibbio» è in Fedor Schneider, Regestum Volaterranum. Regesten der Urkunden von Volterra (778 - 1303), vol. I, Loescher, Roma, 1907, “Regesta Chartarum Italiae”, (d’ora in poi: RV) n. 127, p. 46; alle balze lo storico locale ottocentesco Annibale Cinci ha dedicato un intero capitolo della sua Storia di Volterra in A. Cinci, Storia di Volterra, memorie e documenti, Arnaldo Forni Editore, Volterra, 1885, cap. 4, pp. 1-32, intitolato appunto «Le balze»; descrivendole come delle voragini in continua espansione a causa della peculiare composizione del sottosuolo; egli sofferma poi l’attenzione in modo particolare sull’aspetto “distruttivo” che queste hanno esercitato nel corso dei secoli inghiottendo al loro interno con continue frane e smottamenti importanti monumenti e vestigia del passato tra cui la chiesa di S. Giusto direttamente annessa al monastero omonimo e risalente al VII secolo, di cui viene ricordato come «nel 12 settembre 1614 ruinasse la facciate di quel magnifico tempio, e come nel sabato 26 settembre 1627 ne seguisse altra più formidabile rovina rimanendovi soltanto la parte del maggiore altare colle laterali cappelle. Questa poi finì di precipitare nel 24 marzo 1648 alle ore 22 ½, seco traendo la sacrestia ed il campanile. Si poteron trarre dalle macerie le campane intere e salde, che per decreto del pubblico vennero trasferite alla nuova chiesa di S. Giusto ne’ borghi», (la cit. è a p. 17); l’autore dimostra infine un certo interesse per aspetti piuttosto macabri, come testimonia l’ultima parte del suo scritto interamente dedicata alla rapida rassegna dei più celebri tentativi di suicidio, sia riusciti che falliti, effettuati nel corso dei secoli dall’alto delle pareti scoscese che si affacciano direttamente sulle balze.

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7 scelte in ogni ambito, compreso quello politico ed economico. I vescovi di Volterra, infatti, esercitarono a lungo sul monastero il patronato diretto, vale a dire che essi vantavano sull’abbazia una serie di diritti come quello della scelta e successiva consacrazione degli abati, ma anche doveri come quello della protezione.

Partendo da questi presupposti, non meraviglia che all’epoca delle violente turbolenze fra vescovo e Comune manifestatesi tra la fine del XII e i primi decenni del XIII secolo (a cui in un secondo momento si aggiungerà anche il Capitolo della cattedrale) questi ultimi individuassero proprio nel nostro monastero uno dei primi elementi da sottrarre alla gravitazione attorno all’orbita vescovile. Questo a causa del grande valore simbolico che esso aveva agli occhi della popolazione, che sin dalla sua fondazione lo aveva sempre visto e vissuto come diretta emanazione, quasi un arto in più, della figura vescovile e conseguentemente uno dei primi e principali compartecipi delle scelte e delle politiche episcopali. Proprio il suo persistente gravitare al confine tra la sfera del controllo diretto episcopale e quella delle nascenti istituzioni comunali ne decretò a lungo le fortune, in quanto ognuno dei contendenti ricorse puntualmente a politiche fatte di laute donazioni all’ente monastico per garantirsene la fedeltà di fronte ai tentativi della parte avversa di riportare il monastero nella propria sfera di controllo3.

Per converso, lo stesso monastero dei SS. Giusto e Clemente, nei limiti del possibile, cercò di sfruttare questa sua posizione di oggetto ambìto da due agguerriti contendenti, cambiando schieramento in maniera talora repentina di fronte al delinearsi di prospettive particolarmente vantaggiose. Si tratta tuttavia di manovre spesso troppo ardite e dalle conseguenze talvolta assai gravose, prontamente seguite da punizioni esemplari inflitte da chi di volta in volta aveva il compito di ristabilire l’ordine (nella maggior parte dei casi il

3 Significativo, al riguardo, è il fatto che nel corso del conflitto aperto tra vescovo e Comune, quest’ultimo aspettasse con impazienza i momenti in cui il presule era costretto ad allontanarsi dalla città e a lasciare vacante la sua sede per impegni sia politici che pastorali per lanciare le offensive volte a capovolgere gli equilibri in campo in ambito cittadino e portare nella propria sfera di influenza quegli enti ecclesiastici dal valore fortemente simbolico come la Canonica e il monastero di S. Giusto; mi sembra emblematico, a tal proposito, l’episodio segnalato in Jacopo Paganelli, “Episcopus vulterranus est dominus”. Il principato dei vescovi di Volterra fino a Federico II, Università di Pisa, a. a. 2014-2015, (rel. S. M. Collavini), p. 189, riguardante quello che può essere indicato come un affronto o, se vogliamo, un aperto tentativo di sfida nei confronti del potere episcopale messo in atto in uno dei numerosi momenti di vacanza della sede vescovile, quando Bonincontro giudice e assessore del Comune di Volterra, nell’emettere una sentenza a tutela di alcuni beni appartenenti alla Badia di S. Giusto, come inequivocabile gesto di provocazione nei confronti dell’autorità episcopale la fa vergare all’interno dell’Episcopio in quel momento vacante e “indifeso”.

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8 presule volterrano), come ad esempio la scomunica inflitta nel 1211 dal vescovo Ildebrando Pannocchieschi al monastero di S. Giusto e al suo abate Tommaso poiché questi non aveva rispettato alcune direttive vescovili e, agendo in disaccordo con le imposizioni episcopali su questioni cruciali come quelle sulle sepolture, aveva suscitato le ire dei piani alti dell’amministrazione vescovile4.

Oltre alle vicende prettamente politiche, il monastero offre una visione privilegiata anche sull’evolversi delle dinamiche economiche del territorio in cui era inserito e si trovava a operare nell’arco cronologico considerato, in virtù del fatto che esso, in qualità di ente religioso e pio, attirava a sé numerose e assidue donazioni di vari tipi (dalle più frequenti

cartule pro remedio anime alle varie cartule donationis e cartule permutationis) provenienti

da gruppi eterogenei di individui che facevano capo a famiglie che nel cenobio individuavano un canale alternativo di ascesa sociale rispetto a quello episcopale. Essi intendevano usare il monastero per entrare a far parte di quella élite urbana che comprendeva tutte le famiglie di maggior rilievo presenti nel territorio diocesano e che avevano operato la loro scalata sociale attraverso il diretto coinvolgimento e la collaborazione politica ed economica con la figura del presule, vero faro della realtà cittadina e, da un certo momento in poi, anche extraurbana. La presenza del monastero di S. Giusto, dalla sua fondazione in poi, aprì nuovi spiragli e ampliò il numero di possibilità di manovra per questi individui che aspiravano ai piani alti della società: tali operazioni erano praticabili per entrambe le parti coinvolte poiché i benefici erano sempre reciproci, dato che il monastero così facendo allargava sempre più il suo patrimonio grazie alle donazioni pie che riusciva a intercettare,

4 Per la scomunica inflitta nel 1211 dal vescovo Ildebrando all’abbazia di S. Giusto e al suo abate Tommaso cfr. Schneider, R.V., n. 295, p. 103, anche se incompleto; le disposizioni vescovili disattese riguardavano alcune direttive imposte all’abbazia circa le sepolture e a esse bisogna aggiungere alcune iniziative poco limpide azzardate dall’abate Tommaso senza il previo consenso episcopale, come quella di far arbitrariamente detenere un monaco direttamente dai poteri secolari. In seguito, l’abate fu perdonato dal vescovo: il documento contenente il perdono episcopale è edito in Antonio Giachi, Saggio di ricerche sopra lo stato antico e moderno di Volterra dalla sua prima origine fino ai nostri tempi per facilitare ai giovani lo studio della storia patria, Luigi e Benedetto Bindi, Siena, 1798, Appendice, XXXI, pp. 465-466. Per la figura di Ildebrando Pannocchieschi cfr. la voce “Pannocchieschi, Ildebrando” del Dizionario Biografico degli Italiani, LXXX (2014) a c. di Maria Luisa Ceccarelli Lemut, disponibile anche sul portale web www.treccani.it; il saggio di mons. Cavallini, «Il vescovo Ildebrando», in Rassegna Volterrana, XVIII (1947), pp. 1-24 e il sempre utilissimo studio di Maria Luisa Ceccarelli Lemut, «Cronotassi dei vescovi di Volterra dalle origini all’inizio del XIII secolo», in Pisa e la Toscana occidentale nel Medioevo. A Cinzio Violante nei suoi 70 anni, a c. di Gabriella Garzella, GISEM, Pisa, 1991, pp. 51-54.

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9 mentre i donatori e le loro famiglie ne guadagnavano in prestigio sociale, oltre a porre le basi di vantaggiose alleanze politiche5.

Ricche di informazioni sui meccanismi che animavano la società del tempo sono anche le numerose contese che ciclicamente videro scontrarsi il monastero di S. Giusto e singoli esponenti di alcune famiglie in vista o, non meno frequentemente, lo stesso cenobio e altri enti ecclesiastici presenti nei territori finitimi alla Badia6. Si tratta di dispute che il più delle volte riguardano singoli terreni contesi fra le parti che, non riuscendo a raggiungere soluzioni pacifiche o diplomatiche della controversia, sono costrette a ricorrere all’intervento di terze parti come mediatori o risolutori, il più delle volte giudici del Comune. Bisogna comunque tenere in considerazione il fatto che queste testimonianze ci offrono una visione fortemente condizionata della realtà, dato che la maggior parte di questi documenti è costituita dal materiale archivistico accumulato e custodito nel corso dei secoli dal monastero di S. Giusto che, per forza di cose, ci fornisce un quadro parziale della situazione, in quanto una parte considerevole (se non quasi la gran parte) delle pergamene giunte fino ai giorni nostri ci parla di cause e dibattimenti processuali dai quali il cenobio benedettino prima e

5 Naturalmente, il monastero dei SS. Giusto e Clemente non era l’unico canale alternativo al presule; esistevano numerose altre vie percorribili e altrettanto efficaci per ottenere il medesimo risultato finale, in primis quella della Canonica, da sempre importante punto di riferimento per ecclesiastici e non, e a seguire quella delle altre chiese cittadine, anch’esse in un modo o nell’altro direttamente collegate al presule e quindi con tutti i requisiti per fungere da canali alternativi di ascesa sociale. Uno degli esempi più evidenti, a mio avviso, di questo processo di ascesa sociale è quello rappresentato dalla figura di Dirindone del fu Pagano il quale, insieme al fratello Velluto, il 22 novembre 1192 donò pro remedio anime a Giovanni abate del monastero di S. Giusto tutto ciò che essi possedevano in luogo detto Campo ai Lecci, atto a cui presenziò in qualità di testimone anche il figlio di Dirindone, Ranieri, e che evidentemente ebbe delle conseguenze concrete se in seguito il figlio Ranieri fu una figura di primo piano delle vicende cittadine, arrivando a ricoprire la carica di console del Comune: per la donazione pro remedio anime di Dirindone si veda nell’Index membranarum archivii abbatiae SS. Iusti et Clementis realizzato da don Gherardini nel Settecento e attualmente conservato presso la Biblioteca Comunale Guarnacci di Volterra (ms. 9335), al n. 137; per l’attestazione del figlio di Dirindone Ranieri come console del Comune si veda invece Schneider, R.V., n. 236.

6 Uno degli esempi più interessanti in cui è possibile imbattersi visionando le pergamene del Diplomatico, Fondo Badia dell’Archivio Storico Comunale di Volterra (d’ora in poi: ASCV) presso la Biblioteca Guarnacci è costituito dalle due sentenze emesse a distanza di pochi mesi l’una dall’altra (tra l’aprile e il novembre 1206) per risolvere la contesa sorta tra il presbitero Forte sindaco dell’abbazia di S. Giusto e il presbitero Giovanni cappellano delle chiese di Riparbella e di Certalla in merito alle sepolture: una prima sentenza emessa da Pagano arcidiacono volterrano, giudice e cappellano «domni pape» e sfavorevole a S. Giusto venne rifiutata, rendendo necessario un secondo intervento, quello del novembre 1206, in cui l’abate di S. Ponziano Lanfranco viene scelto direttamente da papa Innocenzo III per risolvere la contesa pendente; Lanfranco capovolse in parte la sentenza, pronunciandosi in favore di S. Giusto su alcuni punti; entrambe le sentenze sono conservate presso l’ASCV di Volterra, Diplomatico, Fondo Badia, nn.171 e 174, e sono regestate in Gherardini, Index membranarum, op. cit., ai nn. 171 e 174.

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10 cistercense poi emerge come parte vincitrice; corriamo dunque il rischio di costruirci un’immagine deformata di quale fosse la realtà effettiva e bisogna pertanto restare sempre vigli di fronte a documenti di tal fatta. L’analisi delle vicende principali e dell’inserimento del monastero nelle dinamiche politiche generali del contesto volterrano tra i secoli XII e XIII, volti a definire, seppur in maniera sommaria, l’impatto della gestione patrimoniale e delle scelte politiche attuate dal (o imposte al) monastero sulle vicende che caratterizzarono quei periodi turbolenti, saranno oggetto di approfondimento dei capitoli successivi.

Prima di procedere è infatti necessario fare chiarezza sugli eventi che precedettero o prepararono le basi per la futura fondazione del monastero che qui tentiamo di studiare e sulle motivazioni che portarono a essa. Il preciso momento della nascita dell’abbazia è sicuramente il punto focale e d’arrivo al quale ci traghetteranno gli argomenti preparatori affrontati nelle prossime pagine: ampio spazio sarà riservato alla situazione volterrana nei secoli che precedono immediatamente l’Anno Mille, considerando che la prima pietra di quello che sarà il futuro cenobio di S. Giusto e Clemente di Volterra fu posta all’alba del quarto decennio del XI secolo e, ancora prima, alle figure dei due santi dedicatari del monastero.

1.1. I SS. Giusto e Clemente.

Non sono numerose le informazioni di cui siamo in possesso per ricostruire le vicende biografiche dei due santi dedicatari del monastero oggetto di questo studio. Nella maggior parte dei casi ci vengono da fonti a carattere agiografico e quindi di dubbia validità dal punto di vista storico. Il punto di partenza va sicuramente individuato in due opere risalenti grossomodo ai primi due secoli successivi al Mille. I due documenti più rilevanti sono la Vita scritta dal monaco Blinderanno (citato anche nella versione “Blanderanno”)7 datata, seppur con molte riserve, al sec. XI e i cosiddetti Miracula, successivi di almeno un secolo. Queste opere sono spesso in contraddizione tra loro e, prevedibilmente, discordano non di rado con gli esigui riferimenti storici in nostro possesso. Tra le due opere, a creare i maggiori grattacapi è sicuramente la Vita, di cui, come s’è visto, ignoriamo persino il vero nome dell’autore. L’attuale datazione al sec. XI è quella attribuita allo scritto dai padri Bollandisti, ma nel corso del secolo scorso è stata a più riprese messa in discussione. L’episodio maggiormente celebre è senz’altro costituito dalla polemica a distanza tra il già

7 Così nel ms. n. 6775 della Biblioteca Guarnacci di Volterra, Passionale Sanctorum, sec. XII, p. 232.

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11 citato Consortini, storico ed erudito volterrano la cui opera si colloca nel primo quarto del Novecento, e il Lanzoni, che opera nello stesso torno di anni; il primo «evidentemente per accrescerne l’autorità come fonte per la storia locale»8 anticipò la datazione dei padri belgi

dapprima al X secolo e poi inverosimilmente agli anni a cavallo tra VIII e IX secolo, assunto evidentemente non condiviso dal secondo che accettò invece la datazione dei Bollandisti che è tutt’oggi universalmente condivisa.

Non sono comunque queste le uniche fonti a cui possiamo attingere nella ricostruzione delle vicende dei due santi volterrani. Siamo infatti a conoscenza in tutto di 4 manoscritti recanti il racconto agiografico della vita dei sue santi, ma quelli già menzionati offrono gli spunti più interessanti e perciò hanno monopolizzato l’attenzione degli studiosi che si occupano da vicino di queste tematiche, relegando in secondo piano le altre due versioni, ritenute di secondaria importanza, nonostante che i 4 testi siano molto vicini tra loro e ricchi di riferimenti e rimandi reciproci (con le versioni più recenti che presentano interpolazioni di interi passi da quelle più antiche)9.

La tradizione vuole che i due santi fossero fratelli di sangue giunti sulle sponde della Toscana direttamente dall’Africa, da cui fuggivano per l’ostilità nei confronti del cattolicesimo da parte dei Vandali. Sbarcati nei pressi di Populonia assieme ad altri personaggi, in seguito diventati figure di spicco dal punto di vista religioso e cultuale all’interno delle variegate realtà toscane, a un certo punto si divisero dai compagni di viaggio

8 Sono queste le parole che Pierluigi Licciardello, trattando della stessa vicenda, utilizza nella sua introduzione all’edizione del cosiddetto Vita et Sermo, contenuto nel ms. laurenziano Amiatino 2 (BHL 4609-4610, 164v-165v (Vita) e 165v e 166v (Sermo)) che narra anch’esso le vicende bio e agiografiche dei SS. Giusto e Clemente e che lo studioso considera come la più antica “Vita” dei santi in questione: è a tal proposito che si richiama alla diatriba tra il Consortini e il Lanzoni sulla corretta datazione della Vita di Blinderanno, smascherando l’infondatezza delle conclusioni del primo che arrivava ad anticipare l’opera di Blinderanno alla fine del sec. VIII o all’inizio del IX, in quanto l’analisi e il confronto diretto dei testi ha messo in evidenza una stretta dipendenza del testo di Blinderanno da quello studiato qui dal Licciardello, e non viceversa come si era in precedenza creduto. Vd. P. Licciardello, «La più antica Vita dei santi Giusto e Clemente di Volterra (BHL 4609– 4610)», in Hagiographica, XV (2008), pp. 1–29.

9 Le diverse versioni sono segnalate in Ducci, La Badia dei Santi Giusto e Clemente, op. cit. pp. 4-5; nello specifico si tratta dei B. H. L., I, p. 683, nn. 4606-10; nella nota 8 di p. 4 viene anche specificato che «Le tre versioni della vita dei due santi, diverse da quella di Blinderanno, sono presenti in codici della Laurenziana datati XI secolo. Una di queste versioni (B.H.L n. 4607) è quella riportata anche dagli AA. SS, Iunii, I, Venetiis 1761, pp. 437-451, ripresa da un codice della Biblioteca Vallicelliana di Roma, mentre la seconda (B.H.L. n. 4608) è presente anche in un codice prima appartenente alla Collegiata di San Gimignano, l’antica pieve, ora nella Biblioteca Comunale di S. Gimignano, ms. n.1, datato al XII secolo da E. B. Garrison, Studies in the history of medieval italian painting, vol. II, Firenze 1956, pp. 152-3».

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12 per addentrarsi nell’entroterra, scelta che li portò dopo diverse tribolazioni e in maniera del tutto fortuita a raggiungere Volterra10.

Già soltanto con queste prime e sommarie informazioni, ci sarebbe materiale a sufficienza per numerose riflessioni. Il primo punto da mettere in discussione è indubbiamente quello riguardante l’origine africana dei due santi; questa, tutt’al più, sembrerebbe una successiva distorsione del nucleo base delle diverse legendae attuata per conferire all’arrivo accidentale dei due fratelli a Volterra un tocco di provvidenzialità e ineluttabilità. Bisogna infatti aggiungere il dettaglio non casuale secondo cui, al momento del loro arrivo, la città di Volterra era assediata dagli stessi Vandali: è questo il fil rouge che tiene in piedi la narrazione e permette ai due protagonisti di accantonare il ruolo fino a quel momento passivo che ricoprivano all’interno della storia per trasformarsi nella parte attiva e centrale, si potrebbe dire il fulcro, degli eventi a venire. Giusto e Clemente riescono infatti a entrare nella città superando in maniera misteriosa (miracolosa, appunto) gli assembramenti di nemici che circondavano la cittadina all’esterno delle sue antiche mura e, una volta all’interno, portano gli ostinati assalitori a desistere dai loro intenti attuando quello che viene a tutti gli effetti considerato il loro primo miracolo11.

Proprio l’episodio del tentato assedio dei Vandali a Volterra, episodio discutibile già di per sé non avendo alcun riscontro storico, alimenta e conferma i precedenti dubbi sulla provenienza nordafricana dei due uomini della provvidenza; sappiamo infatti da Blinderanno che la fuga dall’Africa è da collocarsi al tempo dell’imperatore Costanzo, uno dei figli di Costantino il Grande, quindi grossomodo tra il 337 e il 361, anni del suo impero. Questo

10 Per gli episodi riguardanti i SS. Giusto e Clemente cfr. Bibliotheca Sanctorum, vol. VIII, Istituto Giovanni XXIII della Pontificia Università Lateranense, 1961, precisamente alla voce «Giusto e Clemente» curata da Sabatino Ferrali alle pp. 41-46, in cui viene puntualmente segnalato come i due santi volterrani secondo la leggenda avrebbero compiuto il loro viaggio dall’Africa assieme a Ottaviano (anch’esso annoverato tra i santi volterrani, che, al momento della sua fondazione, sarà il dedicatario della canonica della cattedrale) che con loro imboccò il cammino che li avrebbe portati a Volterra, e l’arcivescovo Regolo insieme a S. Cerbone che si diressero invece verso Populonia, dove il primo avrebbe subito il martirio ad opera di Totila, mentre il secondo sarebbe stato eletto vescovo della stessa città; tra gli individui appena menzionati manca S. Felice che viene invece considerato parte del gruppo di santi in fuga in Consortini, La Badia, op. cit. pp. 11-12.

11 Si tratta del cosiddetto “miracolo dei pani”, stando al quale i due santi, appena entrati in città, avrebbero cominciato a moltiplicare miracolosamente viveri e vettovaglie in quantità tale che essi rimanevano addirittura abbandonati in giro per la città; nel successivo tentativo di assedio gli assalitori, alla vista di cotanta abbondanza sarebbero rimasti fortemente impressionati, ma non ancora a tal punto da abbandonare i loro propositi. È a questo momento che l’intervento dei santi diventa risolutivo: essi decidono di lanciare dall’alto delle mura i viveri in eccesso alle milizie nemiche dilaniate dalla fame e dalla sete, convincendo così gli assalitori della capacità degli assaliti di difendersi a oltranza e dell’inutilità dei loro tentativi. Una descrizione sommaria del miracolo è fornita dal Consortini in La Badia, op. cit., il quale non parla comunque apertamente di “miracolo”, ma si limita a esporre con ordine gli avvenimenti in questione.

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13 stride fortemente con le prime attestazioni della presenza dei Vandali sul suolo italiano (il sacco di Roma è del 455), successive di almeno un secolo rispetto agli anni dell’impero di Costanzo.

Rileggendo gli avvenimenti alla luce di quanto appena detto, è evidente come l’attribuzione della provenienza africana ai due santi sia una costruzione effettuata in un secondo momento, strumentale a collegare le loro vicende biografiche a quelle della città di cui sarebbero diventati in seguito i protettori e con cui strinsero profondi legami quando ancora erano in vita. Potrebbe essere letto nella stessa chiave l’episodio dell’assedio di Volterra ad opera dei Vandali, vicenda di cui ad oggi non possediamo alcuna attestazione o notizia se non appunto nelle agiografie dei due santi.

Come riconoscimento per il contributo offerto alla città con la sua liberazione dai feroci oppressori, Giusto venne solennemente acclamato dalla popolazione e subito insignito della dignità episcopale, carica che in un primo momento sembrerebbe aver rifiutato ma che poi, in un secondo momento, avrebbe accettato ed esercitato in maniera esemplare fino alla morte. Clemente, com’è facilmente intuibile, sarebbe stato il suo più vicino consigliere, l’assistente fidato da consultare per ogni evenienza, ma poi avrebbe volontariamente deciso di allontanarsi dalle movimentate dinamiche cittadine per dedicarsi all’ascesi e alla contemplazione nelle zone circostanti alla città, evitate dalla popolazione in quanto infestate da belve feroci e pericolose12.

12 In realtà anche quella dell’elezione vescovile di S. Giusto sarebbe una costruzione successiva, come sembra confermare il fatto che nelle fonti, già di base poco numerose per quegli anni, non abbiamo alcun tipo di attestazione di ciò; il Consortini è stato uno dei pochi ad aver dato credito a questa notizia, secondo lui confermata da una lettera di papa Pelagio I datata 16 febbraio 556 indirizzata a diversi vescovi della Toscana, tra i quali è citato anche un tale vescovo Giusto, nel quale lo studioso volterrano ha individuato la conferma di quanto cercava, lettera della quale egli parla in Consortini, La Badia, op. cit. p. 14 nota 1. Quello del Consortini sembra essere il più classico degli abbagli in buona fede, in quanto, a ben vedere, non è possibile associare la figura di questo presunto vescovo Giusto alla città di Volterra, dal momento che all’interno della lettera papale non viene fatto alcun riferimento esplicito alla diocesi di competenza di ciascun vescovo nominato, ma essi sono per l’appunto soltanto elencati coi loro nomi («Dilectissimis fratribus Gaudentio, Gerontio, Iusto, Terentio, Vitali et Laurentio»). La conferma dell’inverosimiglianza della presenza a Volterra in quel torno di anni di un fantomatico vescovo Giusto viene dal saggio di M. L. Ceccarelli, Cronotassi op. cit. che mette in evidenza come «mancano poi notizie sui vescovi della Chiesa volterrana per più di mezzo secolo, fino al vescovo Gaudenzio» che sarebbe dunque da considerare il vescovo in carica nel momento in cui papa Pelagio avrebbe indirizzato la suddetta lettera ai vescovi della Toscana e che difatti coincide con uno dei nominativi presenti nella lista di vescovi contenuta all’interno della lettera. Per eliminare ogni dubbio residuo la Ceccarelli afferma anche che «è necessario espungere dalla lista dei vescovi volterrani S. Giusto, venerato già nel VII secolo, che tutta la tradizione più antica chiama semplicemente confessor: solo dal XIV secolo egli è rappresentato come vescovo», (le citt. sono rispettivamente a p. 25 e 24). La lettera di Pelagio I ai vescovi toscani è edita in Pelagii I epistolae quae supersunt, a c. di P. M. Gassò, Barcellona, 1956, n. 10, pp. 31-34; sulle diocesi a cui

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14 Al termine di vite all’insegna della somma rettitudine e già da vivi in odore di santità, i due fratelli avrebbero infine trovato la morte nello stesso giorno – il 5 giugno – data in cui tutt’oggi ne viene celebrata la festa. I volterrani non persero tempo e subito sul luogo in cui essi erano morti, che si trova al di fuori della cinta muraria urbana, edificarono degli altari commemorativi, che nel corso del tempo si sarebbero gradualmente trasformati in santuari sempre più sontuosi attorno ai quali sarebbero state costruite delle chiese vere e proprie, nei pressi delle quali in un secondo momento avrebbe visto la luce l’abbazia (prima benedettina, poi camaldolese) al centro del nostro studio13.

Queste, per sommi capi, le tappe principali della “leggenda” dei due santi tramessasi per via orale nel corso dei secoli. Diversi tra gli avvenimenti appena esposti sono contenuti nei sopracitati manoscritti che conservano la storia della vita dei due santi, in cui sono confluiti poiché dagli autori intercettati dalla tradizione orale e messi per iscritto, spesso con funzionali riadattamenti per inserirli nel contesto generale della narrazione. Tali storie appaiono dunque costituite come enormi calderoni al cui interno sono mescolati fatti che agli occhi di chi scriveva avevano rilevanza storica certificata uniti ad altri che possono essere considerati a tutti gli effetti la messa per iscritto di precedenti tradizioni non scritte accumulatesi e tramandatesi (nonché lentamente evolute) nel corso dei secoli: questo fenomeno di stratificazione e costante sviluppo nel tempo spiega come le fonti agiografiche di cui si è detto compaiano tutte non prima degli albori secolo XI, mentre non mancano le

associare i vescovi nominati nella lettera ha provato a fare chiarezza L. Duchesne nel suo studio Duchesne, «Les evêchés d’Italie et l’invasion lombarde», in Melanges d’archéologie et d’histoire, 1903, pp. 83-116. Il topos dei luoghi extraurbani infestati da belve selvatiche e feroci che li rendono impraticabili è tipico dei racconti a carattere agiografico e quello dei due santi volterrani non fa eccezione, in quanto con la loro permanenza nelle selve circostanti alla città di Volterra per qualche periodo essi mettono in fuga tutte le fiere (per lo più serpenti e animali velenosi, come vuole la tradizione) rendendo possibile per la popolazione il recupero di quelle zone abbandonate al loro destino da tempo immemore.

13 Non sembra essere casuale la sepoltura dei corpi dei due santi al di fuori delle mura cittadine; pare infatti che a quell’altezza cronologica in diverse città, tra cui la stessa Volterra, per le sepolture fossero «utilizzate alcune zone esterne alle mura spesso fino al VI e a volte fino al VII secolo (Lucca, Firenze, Pisa, Volterra)», come ha messo bene in luce Federico Cantini in F. Cantini, «La Tuscia settentrionale tra IV e VII secolo: nuovi dati archeologici sulla transizione», in La trasformazione del mondo romano e le grandi migrazioni. Nuovi popoli dall’Europa settentrionale e centro-orientale alle coste del Mediterraneo, Atti del convegno internazionale di studi (Cimitile-Santa Maria Capua Vetere, 16-17 giugno 2011), a c. di C. Ebanista e M. Rotili, Tavolario edizioni, 2012, pp. 163-175, (la cit. è a p. 165).

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15 attestazioni del culto dei due santi già nel VII secolo14. È a questo periodo che viene fatta risalire la costruzione di due centri di culto (forse due oratori), tra i primi in assoluto, dedicati al culto pubblico dei due santi. Non abbiamo certezza alcuna su che tipo di costruzioni fossero (c’è chi ha sostenuto che si trattasse di oratori, chi ha parlato di semplici altari), ma le testimonianze archeologiche, documentarie e narrative non sono in grado di fare chiarezza in merito; l’unica certezza ormai assodata è il fatto che si trattasse di due edifici distinti, seppur strettamente contigui, edificati esattamente sul luogo in cui i due santi erano tumulati, o almeno in quello ritenuto tale dalla popolazione. Non siamo in grado di stabilire se si tratti a tutti gli effetti dei primi edifici costruiti su quei luoghi, dato che, seguendo la tradizione, dei santuari nella medesima posizione sarebbero già stati costruiti negli anni immediatamente successivi alla morte dei due patroni della città, quindi indicativamente nel terzo quarto del secolo VI. L’incertezza è ulteriormente alimentata dal fatto che, nell’iscrizione accompagnata ai due luoghi di culto elevati nel VII secolo dal gastaldo Alchis, non compare alcun riferimento a edifici preesistenti, come generalmente è specificato in questi casi. Non è comunque un problema in grado di ostacolare il nostro discorso, poiché ciò che qui ci interessa maggiormente mettere in risalto è il precoce riscontro, VI o VII secolo che fosse non cambia la sostanza, di un culto dei due santi già ben radicato e affermato nel territorio diocesano15.

14 L’esempio certamente più rilevante al riguardo è costituito da un’iscrizione risalente agli ultimi anni del VII secolo, in cui viene indicato un longobardo di nome Alchis (o Alachis) come fondatore della prima chiesa dedicata a S. Giusto nella città di Volterra. Si tratta di un’epigrafe scolpita su una lastra di marmo in precedenza collocata presso l’antica chiesa di S. Giusto, fino al suo crollo dovuto all’avanzamento dell’azione erosiva delle Balze nella prima metà del Seicento. Attualmente si trova presso la chiesa di S. Giusto Nuovo, seppur mutila, e grazie alla trascrizione in A. Augenti, «L’iscrizione di Alchis a Volterra» in Archeologia Medievale, XIX, 1992, pp. 739-747, possiamo leggerla come segue: [--- In honore S(an)c(t)i Iusti Alchis ill(ustris) Gastaldi|us fieri iusset tempore|dom(i)n(i) Cunincpert regi et Gaudentiano episcopo a[nno---]. Prima ancora che da Augenti, l’iscrizione era già stata pubblicata da numerosi altri autori (non mancano naturalmente anche trascrizioni successive e più vicine ai giorni nostri), tutte segnalate da Augenti a p. 739, nota 1. Del gastaldo Alchis, presunto fondatore della chiesa a cui originariamente era destinata questa iscrizione che lo commemora, non abbiamo altre informazioni, se si escludono quelle appunto contenute all’interno dell’iscrizione, analizzando la quale veniamo a conoscenza del fatto che egli visse e operò sotto il regno del re longobardo Cuniperto (688-700) e del vescovo Gaudenziano. Nel corso dei decenni sono state fatte numerose ipotesi sull’identità di questo personaggio, provando a identificarlo con individui dal nome simile citati all’interno di documenti risalenti al periodo in cui si collocano i suoi estremi cronologici; da simili tentativi è venuto fuori che si potrebbe trattare dell’individuo omonimo che tenne un placito a Lucca nel 716 assieme al duca Vualperto (Codice Diplomatico Longobardo I, pp. 85-87), o anche del vir magnificus (titolo non di rado associato ai gastaldi nei documenti) citato come testimone in un documento lucchese del 722 (Codice Diplomatico Longobardo I, p. 111); per la figura del vescovo Gaudenziano vedi Ceccarelli, Cronotassi op. cit. p. 26.

15 La presenza di un individuo di origine longobarda come committente o esecutore materiale dell’opera, il gastaldo Alchis, è illuminante sul cambiamento di approccio nei confronti dei territori

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Alla lenta e incessante rielaborazione delle tradizioni orali, confluite poi nelle Vite dei due santi pervenute fino ai giorni nostri, si collegano fenomeni come quello già visto in precedenza, ovvero la manipolazione e strumentalizzazione (in diversi casi la creazione ex

nihilo) di avvenimenti con particolare valenza simbolica o la creazione di legami e

connessioni tra eventi o fatti storici distanti tra loro e conseguentemente privi di collegamenti senza forzature come appunto quelle operate dagli autori che scrivono le opere in questione.

Bisogna dunque maneggiare con molta attenzione queste fonti, restando sempre vigili e provvedendo a discernere con cautela le varie componenti appena messe in evidenza. A conferma di ciò, è necessario ricordare che spesso nella stesura di opere agiografiche chi scriveva si ispirava ad autori precedenti (talvolta di parecchi secoli), attingendo così a quelli che possono quasi essere considerati come dei modelli standard che si perpetuano in alcuni casi fino all’età moderna e a cui nel susseguirsi delle epoche si richiamano intellettuali e scriventi da ogni parte d’Europa. Le vite dei nostri due santi non sfuggono a questa regola, come è stato rilevato dagli studi degli ultimi decenni16.

Gli studiosi del passato hanno speso parte delle loro energie nel tentativo di distinguere nelle varie narrazioni gli elementi fantasiosi e leggendari da quelli che avevano qualche fondamento storico, seppur rielaborato. Nel far ciò, essi non erano certo aiutati dallo stato di avanzamento degli studi nel momento in cui si occupavano dell’argomento, che oggi potremmo senza esitazione definire pionieristico, e dalla mancanza di importanti contributi (comunque non troppo numerosi) che hanno fatto aiutato a fare maggiore chiarezza su

a loro sottomessi da parte dei Longobardi ormai da tempo convertiti al cattolicesimo, gli sforzi delle cui figure più eminenti, come sottolineato da A. Augenti e M. Munzi in Scrivere la città. Le epigrafi tardoantiche e medievali di Volterra (secoli IV-XIV), a.c. di A. Augenti e M. Munzi, All’insegna del Giglio, Firenze, 1997, «si dirigono ora verso la realizzazione di opere che assicurino la salvezza spirituale, da un lato, e dall’altro una serie di vantaggi economici non indifferenti causati dalla nuova possibilità di interazione con i quadri ecclesiastici», (la cit. è a p. 27).

16 La principale fonte d’ispirazione letteraria delle Vite è costituita dalla Vita Sancti Hilari (BHL 3885 – 3886) dedicata alla biografia di Ilario di Poitiers (santo e vescovo vissuto tra 310ca. e 367) e scritta da Venanzio Fortunato. Da un rapido confronto tra le due opere si riescono a trarre con una certa facilità numerosi richiami alla Vita del vescovo di Poitiers, tanto che alcuni passaggi risultano perfettamente sovrapponibili. L’interpretazione più immediata porta a concludere che le Vite dei santi volterrani siano frutto dell’abile intreccio tra la Vita di Ilario di Poitiers, di cui riprendevano fedelmente lo schema narrativo sul quale innestare i passaggi riguardanti esclusivamente Giusto e Clemente, e una tradizione orale autoctona stratificatasi nel corso dei secoli, fino al momento in cui è poi stata convogliata all’interno delle opere sopracitate. Questa è anche l’interpretazione di P. Licciardello in Vita dei santi, op. cit. pp. 5-17.

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17 questioni fino ad allora irrisolvibili. Alla luce di questi studi, oggi non facciamo troppa fatica ad affermare che all’interno delle storie che raccontano la vita dei santi Giusto e Clemente la componente leggendaria è nettamente preponderante; pertanto i riferimenti storici attendibili sono minimi e non particolarmente interessanti o decisivi ai fini dello svolgimento generale della trama: gli eventi catalizzatori sono quasi esclusivamente “artificiali”, elaborati appositamente per fungere da collante, con lo scopo di tenere unite le varie componenti estrapolate dalla tradizione orale.

L’attenzione, più che sui contenuti, va a mio parere posta su un dettaglio già segnalato e che è la spia di un cambiamento decisivo in atto nella realtà volterrana. Non ritengo infatti casuale la circostanza che le Vite dei santi volterrani comincino a essere messe diligentemente per iscritto a partire dal secolo XI in poi. Si tratta infatti di un momento storico chiave per l’evoluzione politica volterrana, che coincide perfettamente col lasso di tempo in cui i presuli cittadini si avviano con decisione sulla strada che nel giro di poco più di un secolo li portò vicini ai fasti più alti di quello che è stato definito “il principato dei vescovi di Volterra”17. Non è un caso che nella prima metà del secolo in questione veda la

luce il monastero extraurbano dei SS. Giusto e Clemente come diretta emanazione (e sotto stretto controllo) episcopale, il quale, per la sua stessa posizione a ridosso delle antiche mura etrusche, sembra quasi fungere per i vescovi da ultimo avamposto, quasi da trampolino di lancio, da cui sferrare il colpo decisivo per la realizzazione delle proprie mire personali.

1.2. La situazione volterrana dall’epoca carolingia alla fondazione del monastero

dei SS. Giusto e Clemente (1030/1034).

L’abbazia dei SS. Giusto e Clemente, come già anticipato, è una diretta fondazione episcopale, per questo occorre osservare più da vicino l’evolversi della parabola vescovile nei due secoli che precedono la fondazione, così da fare chiarezza sulle motivazioni che portarono alla pianificazione e in seguito alla realizzazione di tale iniziativa.

17 Per le caratteristiche del «principato vescovile» di Volterra vd. S. M. Collavini, «Il principato vescovile di Volterra nel XII secolo (in base ad alcune deposizioni testimoniali dell’ottobre 1215)», in Studi di storia e archeologia in onore di Maria Luisa Ceccarelli Lemut, a c. di S. M. Collavini e M. Baldassarri, Pisa, Pacini, 2014 (“Percorsi”, 19), pp. 91 – 105, e J. Paganelli, “«Infra nostrum episcopatum e comitatum». Alcuni caratteri del principato vescovile di Volterra (IX-XIII sec.)” in Rassegna Volterrana, XCII, 2015, pp. 1-68, oltre a Paganelli, Episcopus vulterranus est dominus, op. cit.

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18 Si tratta di anni particolarmente intensi in cui, per citare Volpe, «la giurisdizione temporale del Vescovo nel comitato di Volterra mette lentamente le sue radici […] e trova riconoscimento e sanzione giuridica nei diplomi dei Re ed Imperatori franchi, italici, provenzali, tedeschi, da Ludovico di Francia ad Enrico II di Franconia»18. È proprio passando in rassegna queste concessioni regali e imperiali che possiamo renderci conto di come la parabola vescovile lentamente ma costantemente cominci a slanciarsi verso l’alto, preludio della brusca impennata che subirà nei secoli successivi.

1.2.1. L’età carolingia.

Il primo privilegio carolingio di cui si ha memoria concesso a un vescovo volterrano risale a Carlo Magno, ma lo conosciamo soltanto per via indiretta, dal momento che risulta purtroppo perduto. Ne abbiamo notizia grazie a quello con cui nell’821 Ludovico il Pio confermò la protezione imperiale sul vescovado già garantita dal padre e concesse inoltre l’immunità al vescovo Grippo («plenissima defensione et immunitatis tuitione»)19. Si tratta

di una prima acquisizione notevole, considerando che tramite questo provvedimento il vescovo non sarebbe più stato tenuto a rendere conto ai funzionari regi riguardo a numerosi ambiti, da quelli di natura fiscale a quelli giudiziari. Da questo momento, dunque, il vescovo è libero dalla invadente azione dei funzionari pubblici e, dettaglio fondamentale per gli sviluppi successivi, non si fermerà all’immunità ma col tempo tenderà a colmare il vuoto lasciato dai suddetti funzionari, provvedendo a concentrare nella propria persona tutte quelle funzioni che in precedenza spettavano agli ufficiali regi. «I presuli divennero in tal modo il vero fulcro e il punto di riferimento fondamentale di una località che, pur conservando il

18 G. Volpe, Volterra: storia di Vescovi signori, di istituti comunali, di rapporti tra Stato e Chiesa nelle città italiane nei secoli 11-15. Firenze, ed. La Voce, Firenze, 1923 e riedito in Toscana medioevale, Sansoni, Firenze, 1964, pp. 141-311, (la cit. è a p. 149).

19 Il diploma in questione fu emesso per la precisione il 27 ottobre 821 da Diedenhofen (località attualmente francese conosciuta anche come Thionville), dove l’imperatore presiedeva una dieta, e si trova attualmente conservato presso l’Archivio Vescovile di Volterra; risulta edito in Giachi, Appendice, XV, pp. 431-432; in A. Fanta, Unedirte Diplome II. Mit einem Excurs über die Urkunden Ludwigs II. für Montamiata, in “Mitteilungen des Instituts für Österreichische Geschichtsforschung”, V, 1884, pp. 378 – 415, n. 2, p. 381; e reg. in J. F. Böhmer, Regesta imperii, I: Die Regesten des Kaiserreiches unter den Karolingern, 751-918, a. c. di E. Mühlbacher, Innsbruck, 1908, n. 745, p. 298. Va sottolineato come in questo privilegio la chiesa cattedrale di Volterra risulti intitolata a S. Giusto oltre che a S. Maria, segno che il culto del santo si era considerevolmente accresciuto ed era ormai talmente radicato da permeare ogni aspetto della vita cittadina. Il privilegio vietava inoltre a tutti i funzionari pubblici l’ingresso all’interno delle chiese cittadine e di tutte le proprietà episcopali per esigere tributi o esercitare funzioni di giustizia. Sulla figura del vescovo Grippo vd. Ceccarelli, Cronotassi, op. cit. pp. 28-29.

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19 nome e le prerogative di città, manifestava tuttavia una profonda crisi che la rendeva incapace di rappresentare il centro motore della vita del territorio»20.

Provvedimento di una certa rilevanza è anche il diploma con cui Lotario, figlio di Ludovico il Pio, permise all’allora presule Pietro I di costituire due mercati nei luoghi di S. Silvestro e S. Ottaviano («in utilitatibus ipsius ecclesiae duo constituisse mercata […] in locis videlicet nuncupantibus sancti Silvestri et sancti Octaviani»); anche di questa concessione non possediamo testimonianza diretta, ma ne siamo a conoscenza grazie alla menzione in un documento successivo con cui furono ampliate le concessioni garantite dal diploma in questione21. Si tratta di un provvedimento destinato a considerevoli conseguenze e che pose la figura del vescovo al centro delle dinamiche economiche della città, sulle quali ottenne ulteriore controllo con gli interventi di pochi decenni successivi. Certamente non si trattò di una concessione unicamente dovuta alla benevolenza imperiale, in quanto abbiamo testimonianza dell’esistenza di contatti non sporadici tra Pietro e la ristretta cerchia imperiale, come dimostra la scelta di Pietro I direttamente effettuata da Lotario per presiedere un placito riguardante controversie tra altri enti religiosi della regione: il vescovo di Volterra sembrerebbe dunque essere un punto di rifermento su cui la parte imperiale faceva conto per mantenere l’ordine a livello locale e regionale22.

20 M. L. Ceccarelli Lemut, «I rapporti tra vescovo e città a Volterra fino alla metà dell'XI secolo», in Vescovo e città nell'alto medioevo: quadri generali e realtà toscane, Atti del Convegno Internazionale di studi (Pistoia, 16-17 maggio 1998), a c. di Giampaolo Francesconi, Società Pistoiese di Storia Patria, Pistoia, 2001, (Biblioteca Storica Pistoiese, VI) pp. 133 – 178, ora edito anche in Rassegna Volterrana, LXXXIII, 2006, pp. 45-91.

21 Monumenta Germaniae Historica (d’ora in poi: M. G. H.), Diplomata Karolinorum, III: Lotharii I et Lotharii II diplomata, a c. di Theodor Schieffer, n. 164, p. 339 (disponibili sul web su www.mgh.de/dmgh/); la concessione dei mercati era un tipo di intervento che andava totalmente a vantaggio del vescovo, che si garantiva così la riscossione degli ingenti proventi fiscali che da essi derivavano, anche in virtù del costante incremento demografico nel corso dei secoli e quindi del numero dei potenziali consumatori, ma sono indubbi i benefici anche per la cittadinanza che, in un’epoca in cui la base della produzione era quasi esclusivamente di carattere agricolo, necessitava di luoghi deputati alla commercializzazione dei prodotti agricoli frutto del proprio lavoro, per non parlare dell’impatto economico a livello globale, regionale e non, con la possibilità concreta di attirare mercanti provenienti dalle località finitime o mediamente distanti dal centro urbano. Per approfondimenti sulla figura di Lotario cfr. Mario Marrocchi, «Lotario I, imperatore, re d’Italia», voce del Dizionario Biografico degli Italiani, LXVI, 2006, disponibile sul portale web www.treccani.it.

22 Il placito si tenne a Siena nel novembre 833 e fu co-presieduto dal vescovo di Firenze Agiprando; oggetto della contesa era il possesso del monastero di S. Pietro ad Asso, reclamato sia dal vescovo di Arezzo che dall’abate del monastero di S. Antimo; è edito in C. Manaresi, I placiti del «Regnum Italiae», Roma, Istituto Storico italiano per il medio evo, 1955-1960 (Fonti per la Storia d’Italia, 92, 96, 97), I, n. 42, pp. 132-139 ed è citato in un diploma successivo di un mese al placito edito in M. G. H., Lotharii I et Lotharii II diplomata cit., n. 14, pp. 80-82.

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20 Segue il privilegio concesso il 30 dicembre 845 da Aquisgrana dallo stesso Lotario al vescovo Andrea, succeduto a Pietro I, tramite il quale fu aggiunto un altro tassello al puzzle dell’ascesa vescovile nel panorama diocesano: viene ora concesso ai presuli di eleggere dei propri avvocati (advocati), figure laiche che avrebbero dovuto occuparsi della gestione del patrimonio fondiario che proprio in quegli anni cominciava la sua crescita esponenziale. Nel documento viene specificato che gli avvocati non possono essere in numero maggiore di due (in futuro arriveranno fino a quattro), ma questo non sminuisce certo l’importanza di un simile provvedimento; questa concessione ci conferma il processo che sapevamo già essere in atto di paziente ascesa a carica di riferimento a livello locale sia come grande proprietario fondiario che (conseguentemente) per prestigio sociale, poiché il semplice fatto che i vescovi da questo momento in poi avessero bisogno dell’intervento e del supporto di nuove figure con marcate competenze di carattere giuridico e amministrativo a cui delegare di volta in volta mansioni diverse e talvolta anche delicate, come sono appunto quelle degli avvocati, testimonia l’esistenza di un patrimonio fondiario che evidentemente i presuli non riuscivano più a controllare facendo perno solo su se stessi come fino a quel momento era accaduto: avrebbero ora avuto bisogno dell’assistenza di “personale qualificato” per mantenere un livello di controllo in linea con le loro aspettative23.

Formalmente però per il momento, nonostante simili concessioni e limitatamente al contesto italiano, gli ecclesiastici sembrano ugualmente tenuti a fare riferimento e a ricorrere ai canali tradizionali per questioni come l’amministrazione della giustizia, come dimostrano

23 Il privilegio originale si trova presso l’Archivio Vescovile di Volterra e anche in questo caso è edito in Giachi, Appendice, XI, pp. 427-429, e in M. G. H., Lotharii I et Lotharii II diplomata cit., n. 93, pp. 228 – 229; in Fanta, “Unedirte Diplome”, cit., n. 3, pp. 382-383. Per la figura degli avvocati cfr. la voce “Advocati” del Fresne du Cange, Glossarium mediae et infimae latinitatis, Niort, L.Favre, 1883-1887, (disponibile anche sul web su www.ducange.enc.sorbonne.fr) che li definisce come «qui jura, bona, et facultates Ecclesiarum tuebantur»; degli avvocati si è occupato in maniera estesa anche J. Riedmann in «Vescovi e avvocati», in I poteri temporali dei vescovi in Italia e in Germania nel Medioevo, a c. di Carlo Guido Mor e Heinrich Schmidinger, Il Mulino, Bologna, 1979, Annali dell’istituto storico italo germanico, Quaderno 3, pp. 35 – 76, si tratta di individui che avevano il compito di rappresentare la chiesa sia all’interno di controversie a carattere patrimoniale sia di fronte al potere secolare, rigorosamente «legem scientes et iustitiam diligentes» e, talvolta, non dovevano rappresentare nessuno ma svolgere direttamente le funzioni del giudice. È un’istituzione che troviamo attestata già in epoca remota (V sec.) ma che si perfeziona e raggiunge la sua massima diffusione soltanto in età carolingia, quando in diversi casi diventerà addirittura una carica ereditaria. Anche nel documento in questione, inoltre, come nel precedente diploma di Ludovico il Pio compare la dedicazione della chiesa cattedrale a S. Giusto, elemento che non ci permette di sbilanciarci troppo poiché in documenti successivi compare nuovamente la sola dedicazione a S. Maria; sul vescovo Andrea cfr. Ceccarelli, Cronotassi, op. cit. pp. 30-31.

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21 altre disposizioni complementari come la Memoria di Corteolona emessa dallo stesso Lotario I nel 822-23, nella quale si specifica esplicitamente che «volumus ut episcopi abbates et abbatissae eorum advocatos habeant et pleniter iustitiam faciant», sottolineando nondimeno che tutto ciò debba comunque verificarsi «ante comitem suum»24. Col passare degli anni, in ogni caso, apparirà sempre più inconfutabilmente come nella pratica tali imposizioni fossero sempre più spesso disattese da coloro ai quali esse erano indirizzate, al punto che lentamente il ricorso ai tribunali presieduti dai comites divenne sempre più facoltativo, ovvero effettuato solo se esplicitamente richiesto da una delle due parti.

Tornando alle vicende volterrane, nel giugno 851 l’imperatore Ludovico II concesse al vescovo Andrea un nuovo diploma in cui confermava i due mercati già concessi al suo predecessore (S. Silvestro e S. Ottaviano), ai quali ne aggiungeva altri due, uno da tenersi a Volterra il 15 agosto («in eadem Vulterrense civitate in domo ad festivitatem beatae dei genitricis Mariae, ubi beatus Octavianus requiescit, quod evenit mediante augusto») e l’altro a Camporise presso la chiesa cattedrale dedicata a S. Pietro («in curte eiusdem sedis, quae dicitur Camporisae, ad basilicam, quae est constructa in honore beati Petri apostolorum principis»). Si tratta di un notevole passo in avanti e non per l’aggiunta dei due mercati in sé, quanto piuttosto per le condizioni fissate all’interno del documento, in cui si provvede puntigliosamente a specificare come tali luoghi di scambio debbano restare sotto diretto ed esclusivo controllo episcopale («Vulterrensis ecclesiae plenissime quieto ac perpetuali permaneant ordine») e non siano soggetti ad alcun tipo tassazione da parte di soggetti esterni, con riferimento agli ufficiali regi («et nullus comes nullaque iudiciaria potestas vel quilibet rei publicae administrator ullum teloneum exigere neque super his quicpiam potestatis accipere praesumat»); il dettaglio che maggiormente colpisce e che merita perciò qui maggior rilievo è la premura con cui si provvede a puntualizzare esplicitamente che tale concessione è stata effettuata affinché tali mercati «cuncto populo iuvamen adderet et ipsi ecclesiae in augmentis cresceret»25. Tutto ciò è perfettamente in linea col già sottolineato

24 Il testo della Memoria di Corteolona è in M.G.H., Capitularia Regum Francorum, I: Hlothari Capitularia Italica, a. c. di A. Boretius, I, Hannover, 1883, pp. 318-319; il testo della Memoria è stato pubblicato, accompagnato dalla traduzione, anche in I capitolari italici. Storia e diritto della dominazione carolingia in Italia, a. c. di C. Azzara e P. Moro, Viella, 1998, pp.114-117, nella cui introduzione, a proposito di quanto appena sostenuto, viene messo in evidenza che «è ben noto come sia assai difficile, più in generale, poter scindere in modo netto la sfera laica da quella ecclesiastica nelle istituzioni e nell’ideologia stessa dell’impero carolingio» (la cit. è a p. 33).

25 Il diploma fu emesso a Colonna tra il 22 e il 27 giugno 851 e risulta attualmente conservato presso l’Archivio Vescovile di Volterra (n.3); è edito in M. G. H., Ludovici II diplomata, a c. di Konrad Wanner, n. 2, pp. 69 – 71; esso è di grande interesse anche perché proprio tramite esso veniamo per

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22 percorso di crescita intrapreso dai presuli volterrani e, anzi, questa testimonianza mostra limpidamente come tale progetto sia in un certo senso accelerato, se non assecondato, dalla mancanza di ostilità dei vertici imperiali per questa prospettiva che in questo momento è comunque da considerarsi ad uno stato poco più che larvale. Sembra quasi che i Carolingi in Toscana nutrissero una sorta di predilezione per la sede volterrana (forse a causa della sua posizione geografica al centro della regione che avrebbe potuto fungere all’occorrenza da forza centripeta ed elemento coagulante delle varie forze dislocate su tutto il panorama della Toscana centrale), che risulta seconda solo ad Arezzo quanto a documenti imperiali ricevuti in quegli anni26. In un contesto come quello volterrano, in cui il vescovo era già a quest’altezza temporale una personalità di spicco quanto a possessi cittadini e rurali e quindi con un controllo capillare dei meccanismi produttivi locali, concedere al presule anche la prerogativa dello ius mercandi e conseguentemente il monopolio dei principali luoghi di scambio e commercio situati nel territorio cittadino e nelle zone limitrofe, significava sanzionare ufficialmente la sua ascesa a fulcro delle dinamiche economiche del territorio in cui esso si trovava correntemente ad operare.

la prima volta a conoscenza dell’avvenuta traslazione del corpo di S. Ottaviano dall’omonima chiesa sita in Collina alla chiesa vescovile di Volterra, avvenuta appunto sotto il vescovato di Andrea, come conferma il successivo Kalendarium Hugonis (ed. in M. Bocci, De Sancti Hugonis Actis liturgicis, Firenze,1984, p. 194) scritto da Ugo arciprete del capitolo di Volterra nel 1161, che però anticipa l’evento all’820, anno in cui era ancora in vita il vescovo Pietro I. La traslazione del corpo di S. Ottaviano è per di più strettamente connessa a un altro avvenimento di importanza capitale per la storia cittadina, la nascita del collegio canonicale che appunto a S. Ottaviano risulta intitolato: entra così in gioco un nuovo attore non trascurabile nello scenario cittadino, che prese parte attiva alle vicende che nei secoli successivi misero in crisi il principato dei vescovi di Volterra. Per la figura di Ludovico II cfr. la voce «Ludovico II, re d’Italia, imperatore» del Dizionario Biografico degli Italiani, LXVI, 2006 a c. di François Bougard disponibile sul portale web www.treccani.it; le località di S. Silvestro e S. Ottaviano risultano ormai non più individuabili, ma possiamo sicuramente presumere che si trovassero entrambe in ambito cittadino e quindi al centro delle dinamiche economiche della città. Diverso è il caso di Camporise, un toponimo che, come conferma la Ceccarelli «deriva da campora con il suffisso -ensis, e si presenta pertanto come un aggettivo indicante un rapporto di appartenenza […] non può dunque essere connesso con forme del tipo campo regis» in M. L. Ceccarelli Lemut, «Palazzo Comunale e città a Volterra nel medioevo», in Les palais dans la ville. Espaces urbains et lieux de la puissance publique dans la Méditerranée médiévale, textes réunis par Patrick Bourgeron et Jacques Chiffoleau, Presses Universitaires de Lyon, Lyon, 2004, pp. 123 – 137, ed è «localizzabile nell’area orientale della città, subito all’interno della Porta a Selci […]. Quella di Camporise sembra identificabile con la curtis regia longobarda, il centro amministrativo dei beni demaniali, passata in età carolingia in possesso dei vescovi, segno del nuovo ruolo di supplenza o di rappresentanza del potere pubblico che i sovrani carolingi attribuirono ai presuli volterrani», la cit. è in M. L. Ceccarelli Lemut, M. Pasquinucci, A. Furiesi, Breve storia di Volterra, Pacini, 2008, p.55.

26 Come riporta la Ceccarelli in I rapporti tra vescovo e città, op. cit., p. 51, sono in tutto 6 i privilegi dei Carolingi indirizzati direttamente ai vescovi volterrani, escludendo il falso di Carlo III; in Toscana solo il vescovo di Arezzo può vantare un numero superiore di privilegi carolingi (12), mentre tutte le altre realtà geografiche toscane contano numeri decisamente inferiori rispetto a Volterra e Arezzo e alcuni vescovi addirittura non ne ricevettero neanche uno (tra di esse la stessa Pisa).

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23 Per fare brevemente il punto della situazione, sono trascorsi solo pochi decenni dal primo diploma di Carlo Magno, ma fin qui il percorso di avanzamento sociale e finanziario dei vescovi volterrani appare netto e, soprattutto, fulmineo. Nel giro di appena un trentennio essi hanno ottenuto conferma della protezione imperiale e l’immunità, la concessione di due primi mercati, la possibilità di nominare propri avvocati e infine la conferma dei due mercati di cui già disponevano ai quali ne vengono aggiunti altrettanti. In questo breve arco temporale si sono succeduti alla guida spirituale della città di Volterra tre diversi vescovi: Grippo, Pietro e Andrea. Si tratta di personalità particolarmente attive e sempre più energiche nella loro azione, che ormai non si limita più soltanto entro i confini del territorio diocesano, e costituiscono, si passi la figura retorica, una sorta di climax ascendente di esempi di gestione e tenuta del potere episcopale, che con ognuno di questi tre personaggi aggiunge nuovi tasselli e pianta i semi di quel rigoglioso arbusto che necessiterà ancora di qualche secolo e di diversi assestamenti correttivi per crescere e raggiungere la sua massima rigogliosità. Conferma del prestigio e del rilievo già a questa altezza raggiunti dai presuli volterrani viene dalla constatazione che in diverse circostanze, sempre più frequenti col passare degli anni, li troviamo intervenire a eventi di un certo spessore, quali incoronazioni regie e imperiali, oppure a presiedere placiti su chiara direttiva imperiale. Così, se di Grippo non possediamo informazioni utili, il suo successore Pietro I è attestato il 15 novembre 826 alla sinodo tenuta da papa Eugenio II a Roma; nell’833 lo troviamo presiedere il già citato placito convocato per dirimere delle controversie nate tra diversi enti ecclesiastici della regione e, soprattutto, lo ritroviamo il 15 giugno 844 a Roma dove assistette all’incoronazione di Ludovico II a re d’Italia. Il suo successore Andrea fu presente alla sinodo tenuta nella primavera 850 a Roma da papa Leone IV e sempre nell’850 assistette all’incoronazione imperiale di Ludovico II27. I vescovi volterrani risultano dunque sempre

più coinvolti in prima persona negli avvenimenti più prestigiosi e questo non fa altro che accrescerne ulteriormente il prestigio. Tutto ciò è in sintonia con la linea di gestione adottata dai Carolingi in ambito italiano improntata sulla coincidenza tra circoscrizioni civili ed ecclesiastiche, con la gestione territoriale a livello locale che sarebbe dovuta essere nelle mani di figure vescovili forti e che agivano di comune accordo col potere carolingio come

27 La sinodo di papa Eugenio II è edita in M. G. H., Legum sectio III, Concilia, II: Concilia aevi Karolini, a c. di A. Werninghoff, Hannoverae et Lipsiae, 1908, p. 562-583; sulla presenza di Pietro I all’incoronazione a re d’Italia cfr. L. M. O. Duchesne, Le Liber Pontificalis, 1886-92, Bibliothèque des Ecoles Françaises d'Athènes et de Rome, II, p. 89; per la presenza di Andrea all’incoronazione imperiale di Ludovico II vedi il reg. in Böhmer, Die Regesten, op. cit. n. 1180, pp. 494-495.

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24 se fossero stati a tutti gli effetti dei supplenti del potere pubblico. I Carolingi erano lucidamente consapevoli che non sarebbero stati in grado di garantire un controllo diretto su tutti i territori dell’impero, ragion per cui si affidavano a figure vescovili di calibro medio-alto, come possiamo già considerare quelle dei presuli volterrani a questa altezza cronologica.

Il diploma successivo apre invece nuovi scenari, poiché sulla cattedra vescovile volterrana troviamo questa volta un personaggio proveniente direttamente dalla cerchia di corte, dunque un individuo che faceva parte dell’entourage imperiale. Si tratta di Gaugino, successore di Andrea, che non appena salito sulla cattedra volterrana mise sotto accusa l’operato del suo predecessore, accusandolo di aver effettuato alienazioni in modo scriteriato ed eccessivo, tanto da mettere in serio pericolo il patrimonio episcopale nella sua integrità28.

Nel lanciare simili invettive Gaugino concentra l’attenzione sul fatto che il vescovo Andrea fosse già vecchio e malato nel momento in cui compì quelle alienazioni («incommoditate sui corporis prepeditus»), quasi a voler rimarcare l’involontarietà delle cessioni di Andrea. Quelle del suo predecessore vengono in questo modo bollate pubblicamente come azioni compiute da un individuo che non aveva piena coscienza delle sue azioni, servendosi dell’astuto espediente dell’età avanzata e della malattia per dimostrare la mancanza di cognizione di causa di quelli che erano gli ultimi atti del vescovato e dell’esistenza di colui che aveva occupato prima di lui il seggio sul quale ora egli sedeva. Non stupisce, alla luce di ciò, che il privilegio ricevuto da Gaugino l’8 dicembre 874 riguardasse proprio l’annullamento di tutte quelle alienazioni effettuate da Andrea, dal sovrano concesso quasi senza batter ciglio.

Dal diploma sappiamo che Gaugino si recò a Coriano, la località in cui in quel momento si trovava l’imperatore («nostram suppliciter adiisse presentiam») ben munito di tutti i privilegi ricevuti dai suoi predecessori nei decenni precedenti («ferentem prae manibus augustalia divae memoriae proavi atque avi patrisque nostri precepta de integritate atque

28 Quello di Gaugino, ovvero di un individuo proveniente dagli ambienti di corte in cui era cresciuto e si era formato e poi catapultato in un contesto a lui estraneo (come quello toscano in questo caso) a rivestire la carica episcopale, non è assolutamente un caso isolato, poiché negli stessi anni troviamo personaggi non autoctoni e anch’essi selezionati tra i membri dalla corte imperiale alla testa di diverse diocesi toscane (Luni, Lucca, Pisa, Pistoia, Firenze), come segnalato dalla Ceccarelli in I rapporti tra vescovo e città, op. cit., p.55, tra cui i più celebri sono Platone vescovo di Pisa (come attestato in M. G. H., Ludovici II diplomata, cit. pp. 17-18) e Geremia vescovo di Lucca (come attestato in H. Schwartzmaier, Lucca und das Reich bis zum Ende des 11. Jahrunderts: studien zur Sozialstruktur einer Herzogstadt in der Toskana, Tübingen, 1972, pp. 97-100).

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