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Forme di equilibrio di aggregati gravitazionali: modelli numerici con applicazione agli asteroidi

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Academic year: 2021

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Indice

Introduzione 4

1 Gli Asteroidi nel Sistema Solare 6

1.1 Una scoperta non casuale . . . 6

1.2 Evoluzione del Sistema Solare . . . 7

1.2.1 nube protosolare . . . 7

1.2.2 modello iniziale di disco protoplanetario . . . 8

1.2.3 formazione dei corpi solidi . . . 10

1.2.4 la formazione dei pianeti terrestri . . . 12

1.2.5 la formazione dei giganti gassosi . . . 13

1.2.6 fase finale . . . 15

1.3 Il Sistema Solare attuale . . . 16

1.4 I corpi minori . . . 18

1.4.1 gli oggetti transnettuniani . . . 19

1.4.2 gli asteroidi . . . 20

1.5 Motivi per studiare gli asteroidi . . . 25

2 L’osservazione degli asteroidi 27 2.1 La determinazione delle orbite . . . 27

2.1.1 il problema dei due corpi . . . 28

2.1.2 l’analisi delle perturbazioni . . . 29

2.1.3 le risonanze . . . 30 2.2 I parametri fisici . . . 31 2.2.1 fotometria . . . 31 2.2.2 occultazioni . . . 35 2.2.3 immagini dirette . . . 35 2.2.4 polarimetria . . . 36 2.2.5 astronomia radar . . . 37 2.2.6 spettroscopia . . . 37

2.2.7 la determinazione della massa . . . 39

2.3 La questione dei cumuli di macerie . . . 40

3 Teoria delle forme di equilibrio 43 3.1 Equilibrio idrostatico dei fluidi . . . 43

3.1.1 l’equazione del viriale . . . 43

(2)

3.1.3 ellissoidi omogenei . . . 46

3.1.4 la sequenza di Maclaurin . . . 47

3.1.5 la sequenza di Jacobi . . . 49

3.1.6 altre sequenze a densit`a costante . . . 50

3.2 La distribuzione degli oggetti reali . . . 50

3.3 Materiale elasto-plastico . . . 53

3.3.1 la fascia di stabilit`a . . . 55

3.4 Il modello a rubble pile perfetto . . . 55

3.4.1 l’impacchettamento delle sfere . . . 57

3.4.2 l’impacchettamento massimo teorico: la “struttura cristallina” . . 57

3.4.3 l’impacchettamento “naturale”: la “struttura amorfa” . . . 58

3.4.4 alcuni studi sulla riaccumulazione . . . 59

4 Evoluzione verso le forme di equilibrio 61 4.1 Angoli di riposo: una formulazione alternativa . . . 61

4.2 Il gradiente come flusso evolutivo . . . 64

4.3 L’energia . . . 64

4.4 Alcune considerazioni sul modello . . . 66

5 pkdgrav 70 5.1 Le masse . . . 70

5.2 Il codice ad albero . . . 70

5.3 L’integrazione dell’equazione del moto . . . 73

5.4 La rilevazione delle collisioni . . . 73

5.5 La risoluzione delle collisioni . . . 74

5.6 rubble pile utilities . . . 75

5.6.1 rpa. . . 75

5.6.2 rpg. . . 77

5.6.3 rpx. . . 77

6 Le simulazioni: la creazione delle condizioni iniziali e l’analisi dei rubble pile 78 6.1 Le configurazioni iniziali . . . 78

6.1.1 creazione dei corpi con impacchettamento casuale . . . 79

6.2 La determinazione delle orientazioni assiali . . . 80

6.3 Il rilevamento degli aggregati . . . 81

6.4 La determinazione delle dimensioni . . . 83

6.4.1 l’incertezza sui rapporti assiali . . . 84

6.5 Il calcolo delle energie . . . 84

7 Le simulazioni: i risultati 85 7.1 Una stima a priori dell’angolo di riposo . . . 85

7.2 Il valore del passo di integrazione . . . 85

7.3 I corpi cristallini . . . 86

7.4 Il caso base . . . 89

7.4.1 momento angolare nullo e ruolo delle velocit`a iniziali . . . 91

(3)

7.4.3 momenti angolari 0,1-0,3 . . . 96

7.4.4 momento angolare 0,4 . . . 100

7.4.5 momenti angolari 0,5 e maggiori . . . 102

7.5 Alcune variazioni sul tema . . . 102

7.5.1 variazione di densit`a . . . 104

7.5.2 variazione di dimensioni . . . 105

7.5.3 variazione di N . . . 108

7.5.4 variazione dei coefficienti di restituzione elastica . . . 108

7.5.5 variazione di dCollapseLimit . . . 108

7.5.6 miscela di diverse dimensioni . . . 114

8 Conclusioni 117

(4)

Introduzione

Nel corso degli anni sono stati accumulati un certo numero di dati sugli asteroidi tali da poter sviluppare un modello complessivo sulla loro origine, evoluzione, composizione e interazione con gli altri oggetti del Sistema Solare. Gli asteroidi sembrerebbero essere i resti della fase di creazione del Sistema Solare, in cui il disco di gas e polveri che circondava il Sole appena formato andava ad accumularsi in corpi di dimensioni via via maggiori sino a formare in circa 100 milioni di anni i pianeti oggi noti. Nella zona tra le attuali orbite di Marte e Giove, a causa principalmente degli effetti disturbativi di quest’ultimo, il materiale originariamente presente non `e mai giunto a formare un corpo di dimensioni planetarie che potesse imporsi come oggetto unico accumulando a s´e tutto o quasi il materiale attorno alla propria orbita. Il risultato `e una fascia larga circa 1,5 UA popolata da oggetti rocciosi di varie dimensioni, da pochi corpi di qualche centinaio di chilometri di diametro ad un maggior numero di oggetti di dimensioni via via inferiori. Diversi indizi portano a pensare che i maggiori di essi non siano blocchi monolitici, ma “cumuli di macerie” formati da frammenti pi`u piccoli tenuti assieme dalle forze di gravit`a e con una macroporosit`a dell’ordine del 30%.

Dall’analisi dei dati di forme e velocit`a di rotazione di questi asteroidi, appare come essi si discostino sensibilmente dalle forme classiche di equilibrio idrostatico che ci si dovrebbe aspettare per corpi che si suppone essere privi di una forza di coesione interna a larga scala.

Vari modelli sono stati sviluppati per lo studio delle forme degli asteroidi e per comprendere i processi che li portano ad assumere le forme attuali. Nel lavoro di tesi ci si propone di studiare le forme di equilibrio dei rubble piles e di fornire una possibile chiave di interpretazione circa la tendenza ad assumere una determinata forma.

Come prima cosa si `e cercato avere una maniera di quantificare la distanza di un corpo dall’equilibrio idrostatico classico e di comprendere quali siano le tendenze generali di evoluzione di un corpo in rotazione verso una forma di equilibrio. A questo scopo si sono esaminate due quantit`a legate alla forma di un corpo: l’energia meccanica e l’angolo che la forza (gravitazionale e centrifuga) agente sulla superficie di un corpo forma rispetto alla superficie stessa.

Al variare della forma e per un valore dato del momento angolare queste quantit`a possiedono un minimo in corrispondenza delle forme classiche di equilibrio idrostatico; si `e dunque assunto che i gradienti di queste si adattino bene a descrivere il cammino di un corpo verso l’equilibrio.

Per testare questi indicatori nell’ambito dei rubble piles `e stato utilizzato pkdgrav, un simulatore gravitazionale utilizzato negli ultimi anni per descrivere vari tipi di dina-miche all’interno del Sistema Solare che si basa su una integrazione diretta delle forze

(5)

gravitazionali in un sistema a N corpi. Sono state effettuate, al variare di alcune quan-tit`a come la densit`a e le dimensioni delle componenti di un aggregato gravitazionale, delle serie di simulazioni che, per fissati valori del momento angolare, lasciano evolvere il corpo a partire da una certa variet`a di forme iniziali.

Le simulazioni mostrano che l’evoluzione segue in maniera soddisfacente l’andamento dei gradienti, i quali posso essere utilizzati per spiegare una connessione tra forma iniziale e finale.

I risultati ottenuti sono stati confrontati con gli studi sugli aggregati gravitazionali presenti in letteratura, sia nell’ambito di simulazioni a N corpi, sia nell’ambito di modelli analitici.

La Tesi `e strutturata come segue:

Nel Capitolo 1 viene presentato il Sistema Solare e la sua origine, che `e lo scenario nel quale si svolge la fisica degli asteroidi.

Nel Capitolo 2 vengono analizzate le principali tecniche osservative per lo studio e la misura delle caratteristiche degli asteroidi, ed un breve riassunto delle ragioni che portano ad un modello a cumulo di macerie.

Nel Capitolo 3 viene presentata la teoria delle forme di equilibrio, e i limiti di come questa riesca a dare conto delle forme realmente osservate.

Nel Capitolo 4 si propone un metodo di predizione delle evoluzioni di un cumulo di macerie verso l’equilibrio, che possa dare conto del perch´e gli asteroidi presentino una ampia dispersione di forme anche lontane da quelle di equilibrio idrostatico a densit`a costante.

Nel Capitolo 5 si descrive il programma di simulazione usato nel lavoro di Tesi e in letteratura per lo studio di sistemi a N corpi, qui applicato nel caso dei cumuli di macerie.

Nel Capitolo 6 vengono presentate le metodologie seguite per la predisposizione degli esperimenti e per la raccolta e l’analisi dei dati.

Nel Capitolo 7 vengono presentati e discussi i risultati delle simulazioni effettuate, confrontandoli con la letteratura sull’argomento.

(6)

Capitolo 1

Gli Asteroidi nel Sistema Solare

1.1

Una scoperta non casuale

Lo studio degli asteroidi ha avuto inizio l’1 gennaio 1801, allorch´e nella prima notte del nuovo secolo Giuseppe Piazzi scoperse il primo asteroide, oggi noto come Cerere, in corrispondenza di una apparente “lacuna” nel Sistema Solare che gli astronomi del tempo ritenevano dovesse necessariamente contenere un corpo celeste.

Se si osserva (fig. 1.1) una mappa del Sistema Solare in cui sono disegnate in scala le orbite dei pianeti maggiori scoperti in epoca pre-storica (da Mercurio a Saturno), si nota immediatamente un vuoto tra l’orbita di Marte e quella di Giove. Dopo che nel XVII secolo la teoria eliocentrica aveva definitivamente preso piede, restava da capire se questa lacuna fosse casuale. Nel 1702 [D. Gregory, 1702] iniziava a farsi strada quella che sarebbe divenuta nota come la Legge di Titius-Bode, secondo cui le distanze dei pianeti dal Sole fossero tra loro in proporzione come i numeri della successione

a0 4 an4 32 n1

.

Ancorch´e originariamente si trattasse di una legge dettata da motivi puramente estetici, essa si adatta molto bene a descrivere le distanze dei sei pianeti allora noti da Mercurio (a0) a Saturno (a6), con un’importante eccezione: nessun pianeta era conosciuto per il

valore a4, che corrisponde ad una distanza dal Sole di 2,8 UA.

Nel 1781, la legge di Titius-Bode ebbe una pubblicit`a notevole quando un nuovo pianeta (Urano) fu scoperto ad una distanza dal Sole di 19,2 UA, prossima al valore a7,

che corrisponde a 19,6 UA. Si fece allora sempre pi`u spazio la curiosit`a di sapere quale pianeta fosse contenuto nella zona ancora vuota tra Marte e Giove, e si intraprese una scansione sistematica del cielo alla ricerca del pianeta “mancante”. Il lavoro diede i suoi frutti a soli 20 anni di distanza dalla scoperta di Urano: il semiasse maggiore dell’orbita di Cerere ha un errore di solo l’1,75% rispetto al valore previsto dalla legge di T-B.

Notevole `e il fatto che per la seconda volta in soli 20 anni, la legge di Titius-Bode aveva predetto la posizione di un pianeta molto prima della effettiva scoperta.

Sebbene oggi la legge di Titius-Bode nella sua formulazione originaria rivesta un’impor-tanza precipuamente storica, nel tempo `e stata variamente reinterpretata alla luce dei moderni modelli astrofisici. Una possibile giustificazione che tiene conto dei modelli di formazione dei sistemi planetari `e data nel paragrafo seguente.

(7)

10 8 6 4 2 0 2 4 6 8 10 10 8 6 4 2 0 2 4 6 8 10 UA UA Mercurio Venere Terra Marte Giove Saturno

Figura 1.1: Orbite dei pianeti conosciuti al XVIII secolo, in scala e supposte circolari: tra Marte e Giove si credeva dovesse necessariamente essere presente un pianeta

Ci volle tuttavia qualche tempo per comprendere esattamente cosa si fosse scoperto, e per inquadrare questo nuovo oggetto all’interno di una nuova branca dell’astronomia dedita allo studio dei corpi minori.

1.2

Evoluzione del Sistema Solare

Quello che nel tempo si `e affermato come modello standard per la formazione dei sistemi planetari sta venedo negli ultimi anni rivisto alla luce della scoperta dei sistemi planetari extrasolari, che sembrano mostrare a prima vista come il Sistema Solare possa non essere un sistema planetario tipico. Questo getta una luce nuova sui processi che possono portare alla genesi dei pianeti, in particolare per quanto riguarda la formazione dei pianeti gassosi, trovati con frequenza molto pi`u in prossimit`a delle loro stelle rispetto a quelli del Sistema Solare, e per spiegare la particolarit`a di quest’ultimo.

A questo riguardo, quello che segue `e da intendersi come un modello di massima.

1.2.1 nube protosolare

Il Sistema Solare ha un’et`a di circa 4,5 miliardi di anni, circa la met`a della durata della vita media di una stella del tipo del Sole.

Il modello standard per la formazione del Sistema Solare prevede [V.S. Safronov, 1969] una nube iniziale composta principalmente di elementi leggeri (idrogeno ed elio in pro-porzione 75% - 25% circa) nella quale una parte, soggetta ad instabilit`a gravitazionale a causa di una sorgente esterna, inizia a collassare. Mentre la zona centrale si concentra a formare un corpo sempre pi`u compatto (la protostella), attorno a questo la nube in collasso, costretta a mantenere il suo momento angolare, ruota sempre pi`u velocemente, fino a formare un disco di accrescimento attorno all’astro nascente, rifornendolo di ma-teria e al contempo accumulandone dalle zone esterne. In relativamente breve tempo la

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maggior parte della massa del disco finisce per raccogliersi nel corpo centrale il quale, raggiunta in10

5 anni ([V. Castellani, 1985]) una densit`a ed una temperatura critiche

capaci di sostenere la fusione dell’idrogeno, diviene una stella; con l’accensione delle reazioni nucleari, la massa degli strati esterni viene sostenuta dalla pressione delle zone interne sottoposte ad un gradiente notevole di temperatura e densit`a, e il collasso si arresta.

A questo punto, l’interazione del disco con il mezzo interstellare `e cessata, e la strut-tura, raffreddandosi, incomincia a prendere le sembianze di un disco protoplanetario, l’embrione di ci`o che diventeranno i pianeti e gli altri corpi minori del sistema solare, come i satelliti e gli asteroidi.

1.2.2 modello iniziale di disco protoplanetario

Varie strutture a disco sono state osservate attorno ad un certo numero di stelle, con masse comprese tra qualche millesimo della relativa stella sino a masse comparabili con la stella stessa.

Per stimare la massa iniziale del disco nel caso del Sistema Solare nel momento in cui il Sole si `e formato si pu`o pensare in prima approssimazione (ipotesi di disco leggero) di integrare la materia pesante accumulata nei pianeti con una quantit`a di elementi leggeri (H ed He) sufficienti a ricostituire la composizione attuale della fotosfera solare (73% H, 25% He, 2% elementi pesanti): questo ([B. Bertotti e al., 2003]) significa aumentare la massa attuale dei pianeti di circa 300 volte nella zona interna (dominata dai pianeti terrestri, vd. § 1.3) e da 10 a 50 volte la zona dei pianeti giganti. Il risultato `e un disco con una massa di qualche centesimo di quella solare.

Distribuendo con continuit`a questa massa in una struttura discoidale a simmetria radiale in modo che la massa “ricostruita” di ciascun pianeta sia diffusa in una zona attorno la sua attuale posizione, si ottiene una densit`a superficiale ben riprodotta da una legge del tipo σprq3, 710 4  r 1U A 3{2 kg{m 2 (1.1)

(v. fig. 1.2) che, integrata fino al limite di 50 UA, d`a una massa di410 2

M.

Per stimare lo spessore del disco di gas, si pu`o imporre l’equilibrio tra la pressione del gas stesso e la componente della gravit`a parallela all’asse di rotazione gz; da esso:

dP dz ρpzqgz ρ GM r2 z rp1 δqρn 2z (1.2)

dove δ `e il rapporto tra autogravit`a del disco e gravit`a solare, supposto trascurabile, e nprq`e la velocit`a angolare Kepleriana a distanza r dal Sole. Se si suppone per semplicit`a

un gas perfetto con velocit`a termica vT  a

3P{ρindipendente da z, si ottiene un profilo

del tipo ρpr, zqρ0prqe 3n 2 z2 {p2vT 2 q . (1.3)

Lo spessore del disco pu`o essere stimato con Hprq σ ρ0  1 ρ0 » 8 8 ρpzqdz 2π 3 vT n , (1.4)

(9)

Figura 1.2: Densit`a superficiale σ (g/cm2) attuale (linea tratteggiata) ed originaria (linea solida) del disco protoplanetario in funzione della distanza dal sole r, la seconda ottenuta integrando la massa presente nei pianeti attuali con una quantit`a di elementi leggeri fino a ricostruire le abbondanze relative del Sole. Le barre orizzontali mostrano la zona dominata da ciascun pianeta, in cui la massa ricostituita viene distribuita, le barre verticali rappresentano le incertezze sulla massa dovute all’incertezza sulla conoscenza delle composizioni planetarie. La linea a tratti e punti rappresenta un’opportuna distribuzione regolare che si adatta ai dati. tratto da [B. Bertotti e al., 2003, p. 513]; dati parzialmente da S.J. Weidenschilling, Astrophys. Sp. Sci. 51 (1977), 153.

(10)

e il profilo dipende infine dall’andamento di vTprq.

Il modello pi`u semplice di equilibrio radiativo prevede Tprq9r 1{2

(vT 9r 1{4

)1

, con la conseguenza che Hprq cresce lentamente con la distanza, con una legge del tipo

H r 9r

1{4

. (1.5)

Con valori che appaiono ragionevoli, per r a E ( 5 UA) imponendo T 100K si ha ρ10 7 kg{m 3 e H {r10 1 .2

1.2.3 formazione dei corpi solidi

Un disco di massa pari a qualche centesimo della massa solare non possiede una densit`a sufficiente affinch´e il materiale complessivo possa portare a contrazioni localizzate e alla formazione di corpi densi: il criterio di Roche per la stabilit`a di un corpo in orbita attorno ad una massa centrale prevede una dentit`a critica minima

ρcr. 

M

r3 

4ρ0

δ (1.6)

che `e sensibilmente superiore a quella disponibile in un modello a disco leggero3

. `

E dunque necessario fare affidamento sulle componenti pi`u pesanti che, dopo un iniziale raffreddamento del disco in un tempo stimato attorno al milione di anni, incominciano a condensare e a depositarsi sul piano centrale del disco. Il profilo di temperatura del disco, pi`u caldo nelle zone interne e via via pi`u freddo verso l’esterno, fa s`ı che la con-densazione sia possibile e/o efficiente in tempi brevi di materiali diversi a seconda della zona considerata: man mano che ci si sposta verso l’esterno, i materiali che possono condensare sono metalli, ossidi di alluminio e calcio, silicati, carbonati, acqua, ammo-niaca, metano, e anche azoto e ossidi di carbonio nelle regioni pi`u periferiche. Questo gradiente di composizioni `e evidente nel Sistema Solare attuale, dove corpi via via meno densi sono presenti nelle zone sempre pi`u esterne.

Non tutta la massa del disco porter`a alla formazione di pianeti: la gran parte di questa tender`a a cadere verso il centro o a venire espulsa dal sistema ad opera del vento solare.

1

questo segue dalla considerazione che la temperatura di equilibrio di un corpo a distanza r deve essere tale che la dispersione superficiale sia pari al flusso termico solare, da cui

T49F 9r 2

2

questi valori pongono l’andamento dell’autogravitazione del disco, dell’ordine di 2πGσ, a confronto con la componente assiale della gravit`a solare

δ 2πσr3 MH 9r 1{4 , con valori per ra

E di

0, 1, giustificando una sua esclusione a priori 3

un disco pi`u massiccio, di massa pari o addirittura superiore a quella solare, potrebbe aiutare ad innescare il fenomeno di condensazione, ma possiede d’altra parte numerose altre difficolt`a, come la necessit`a di disperdere una notevole frazione della massa accumulantesi in pianeti, e l’incapacit`a di spiegare le differenze in composizione tra i pianeti e tra i pianeti giganti ed il Sole; modelli a disco massiccio potrebbero comunque rimanere validi per altri sistemi planetari, in particolare per buona parte di quelli oggi conosciuti

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Nel primo periodo di fusione nucleare, le stelle del tipo del Sole attraversano una vase particolarmente attiva (fase T-Tauri ), durante la quale il notevole vento solare tende a disperdere la gran parte del gas, evento che si stima possa avere termine in circa 107anni;

sebbene l’efficienza di questo processo sia minore nella zona del sistema occupata oggi dai pianeti gassosi rispetto alle zone pi`u interne, questo pone dei limiti abbastanza stringenti allo sviluppo dei pianeti giganti, i quali devono riuscire in un tempo sufficientemente rapido a sviluppare un nucleo roccioso capace di trattenere gravitazionalmente attorno a s´e una parte del gas.

Per quanto riguarda la componente solida che via via si forma e inizia a raccogliersi nei primi corpi di modeste dimensioni (qualche km), i planetesimi, due sono i fattori principali che governano l’evoluzione: gli incontri ravvicinati e l’attrito col gas.

Questi corpi, distribuiti su orbite di varia grandezza e inclinazione, si troveranno pian piano a spazzare il disco raccogliendo le polveri e i frammenti pi`u piccoli. Questa fase `e caratterizzata da un gran numero di collisioni tra i corpi, le quali hanno generalmente due ordini di possibili risultati:

• se la velocit`a relativa di collisione `e bassa, i due oggetti tendono ad aggregarsi tra loro, e a riaccumulare su di s´e la maggior parte dei piccoli frammenti generati nell’urto

• se la velocit`a relativa di collisione `e alta, vengono prodotti un gran numero di frammenti ad alta dispersione di velocit`a, distruggendo il proiettile (convenzional-mente il corpo di massa minore) e una parte variabile del bersaglio in funzione della velocit`a e del rapporto tra le masse; una parte dei frammenti possono riag-gregarsi attorno al frammento maggiore e/o in uno o pi`u satelliti, mentre una parte tende a disperdersi.

Man mano che i planetesimi raccolgono nuovo materiale e/o si fondono tra loro, la loro massa aumenta, cosa che li rende degli attrattori sempre pi`u efficienti di materiali, e meno proni a urti catastrofici.

L’alto numero di incontri tra i planetesimi tende inoltre inevitabilmente a produrre in-croci ravvicinati nei quali le orbite possono subire brusche mutazioni, anche provocando l’espulsione di numerosi oggetti dal sistema.

L’altro fattore importante di cui tenere conto nell’evoluzione dei planetesimi `e il gas ancora presente nel disco che, al contrario della componente solida, non `e costretto ad orbitare stabilmente alla velocit`a angolare Kepleriana, ma pu`o sostenersi grazie alla propria agitazione termica: per esso vale

rng2 GM r2  1 ρ dP dr  vT2 3r (1.7)

dove ng`e la velocit`a angolare del gas; questo impone una deviazione dal moto Kepleriano

nng n  1 3  vT nr 2 9r 1{2 (1.8) che ad r  a

E vale circa il 10%. Questo attrito tende da una parte a regolarizzare le

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energie minori, ed eventualmente spiraleggiare verso il Sole. Le piccole particelle, il cui moto `e ben accoppiato al moto del gas, risentono relativamente poco di questo effetto, cos`ı come i corpi maggiori per i quali l’attrito `e trascurabile, mentre per i corpi delle dimensioni del metro questo effetto `e massimo, e potrebbe aver influenzato in maniera non ancora ben chiara l’evoluzione del Sistema Solare; sulla scala del milione di anni, l’effetto del gas `e comunque influente anche per corpi sensibilmente pi`u grandi.

1.2.4 la formazione dei pianeti terrestri

In poco tempo (qualche centinaia di migliaia di anni per la zona interna del Sistema Solare), dopo ripetute fusioni e accorpamenti, emergono da un disco in rapido svuo-tamento un certo numero di corpi maggiori, delle dimensioni attuali della Luna, pi`u o meno distanziati dinamicamente tra loro, sui quali inizia a concentrarsi una frazione rilevante del materiale rimasto in orbita attorno al Sole (v. fig. 1.3). In questa fase, ognuno di quesi protopianeti `e caratterizzato da una sua “zona di cattura”: una regione attorno alla sua orbita dove i planetesimi e le polveri rimaste tendono a ricadere su di esso grazie alla sua crescente attrazione gravitazionale.

Per ottenere un semplice modello ([P. Paolicchi, disp.]) si pu`o ipotizzare che un protopianeta posto a distanza media a dal Sole, con eccentricit`a orbitale e e massa m tenda a dominare una zona di spazio delle dimensioni di ∆ape m

ξ qa.

4

Se si suppone che le zone di influenza dei vari protopianeti siano pi`u o meno contigue le une alle altre, si ha dunque per due protopianeti “vicini”

an 1 an

∆an

2

∆an 1

2

e supponendo inoltre che le eccentricit`a e le masse dei protopianeti siano non troppo varie, per cui ∆anca, con c costante risulta

an 1 an  1 c{2 1c{2 k kcost. ,

formula che pu`o parzialmente giustificare una spaziatura tra i pianeti che ricorda in parte quella della Legge di Titius-Bode.

Il processo di accrescimento non `e uniforme, ed `e influenzato da vari fattori. Il tasso di crescita di un planetesimo di massa M e raggio R pu`o essere descritto da una legge del tipo

dM dt ρvrelπR 2  1  vf vrel 2  (1.9) dove vf e vrel sono la velocit`a di fuga dal corpo 9R e la velocit`a relativa media tra i

planetesimi.

4

ξrisulta per esempio dal calcolo dell’estensione del lobo di Hill nel problema classico dei due corpi (l’altro essendo in questo caso il Sole), che `e la zona attorno a ciascuna componente in cui la gravit`a del corpo `e dominante rispetto a quella dell’altro; esso `e dato da

 m M 1 3 a .

(13)

Fintanto che i corpi rimangono di dimensioni modeste, la crescita `e dM{pM dtq91{R,

ed essa favorisce la crescita dei corpi minori, e il mantenimento di un ordine di grandezza omogeneo. Quando un corpo inizia a raggiungere valori della massa per i quali vf Ávrel,

la crescita avviene con una velocit`a dM{pM dtq 9R, favorendo sempre di pi`u un rapido

accrescimento dei corpi maggiori.

I vari effetti che modificano le orbite hanno qui un certo peso, e possono favorire o sfavorire l’emergere di corpi massicci, in particolare l’attrito con il gas, che tende a ridurre vrel e a favorire la crescita. Ove la velocit`a dei planetesimi sia tuttavia troppo

alta, vrel "vf, l’elevata energia cinetica in confronto con quella gravitazionale tende a

produrre un numero troppo elevato di urti catastrofici, impedendo una qualsiasi crescita sostanziale, condizione che potrebbe essere valsa nelle zone (la Fascia Principale e la Fascia di Kuiper) oggi occupate dai corpi minori (v. § 1.4).

Con l’aiuto di simulazioni numeriche, si `e potuto stimare che il periodo necessario per la formazione di protopianeti nella zona interna del sistema `e abbastanza breve, e in poche centinaia di migliaia di anni `e possibile arrivare ad una discreta popolazione di corpi di dimensioni lunari o maggiori, su orbite stabili su periodi del milione di anni. All’allontanarsi dal centro del Sistema Solare, i tempi di evoluzione salgono, sia a causa della ridotta densit`a, sia a causa della maggiore dispersione di velocit`a, sia a causa dei pi`u lunghi periodi di rivoluzione, che fanno s`ı che il tempo necessario per spazzare un’orbita sia proporzionalmente maggiore.

Questi protopianeti, col calore sviluppato dagli urti reciproci e dal decadimento dei primitivi nuclei radioattivi presenti nel disco (McSween e al. in [ASTEROIDS III]), iniziano a formare un mantello fuso, e a differenziarsi internamente.

I protopianeti tendono in questa fase a modificare fortemente le orbite reciproche e quel-le dei corpi minori; essi incominciano a raccogliere su di s´e un’atmosfera di materiaquel-le volatile, che possono trattenere grazie alla propria gravit`a, e a determinare da protago-nisti l’aspetto del Sistema Solare. Del materiale che non `e entrato a far parte di questi corpi maggiori, molto `e stato ormai espulso dal sistema a causa delle perturbazioni di questi ultimi. Un esempio di accrescimento di protopianeti per mezzo di modellizzazioni numeriche `e mostrato in fig. 1.3.

La zona che si trova tra le attuali orbite di Marte e Giove parrebbe essere stata particolarmente inadatta per la formazione di stabili corpi di dimensione comparabile con quella dei pianeti attuali: `e ormai opinione comune che l’azione di un Giove in rapida crescita abbia fortemente impedito che una quantit`a sufficiente di materiale riuscisse a rimanere in orbite stabili sufficientemente a lungo perch´e potesse aggregarsi a creare un pianeta, e che eventuali protopianeti formatisi durante questa fase siano stati in breve tempo sospinti dall’attrazione reciproca in zone dove l’azione di Giove li avrebbe poi espulti dal sistema (o sospinti verso l’interno, dove sarebbero stati “catturati” dai pianeti interni).

1.2.5 la formazione dei giganti gassosi

Come accennato in precedenza, l’esistenza dei pianeti gassosi impone dei limiti stringen-ti ai tempi ed alle efficienze di formazione di consistenstringen-ti corpi solidi, che devono essere capaci di raggiungere una massa di  1M

C o maggiore in un tempo sufficientemente

(14)

Figura 1.3: Simulazione numerica a N corpi di uno sciame di 3000 planetesimi di massa 1020kg che evolvono per interazione gravitazionale, collisioni e attrito del gas (densit`a 2106 kg/m3). In 2105 anni si forma un protopianeta di massa  5  103MC: la barra orizzontale mostra l’estenzione del lobo di Hill dell’oggetto risultante, in cui il singolo protopianeta si trova ad essere l’oggetto dominante. tratto da [B. Bertotti e al., 2003, p. 524]; dati da E. Kokubo

(15)

Figura 1.4: Accrescimento dei giganti gassosi Giove e Saturno: `e stimata una densit`a superficia-le iniziasuperficia-le del disco di 10 g/cm3e di 3 g/cm3rispettivamente. tratto da [B. Bertotti e al., 2003,

p. 529]; dati da O. Hubickyj

della densit`a iniziale della componente solida disponibile di un fattore 2 o 3 (non irrea-listico) a distanza aE dal Sole si pu`o ottenere (v. fig. 1.4) in un tempo inferiore a 106 anni un proto-Giove di massa 8MC, capace in un tempo inferiore a 10 milioni di anni di accumulare attorno a s´e un’atmosfera del tipo osservato oggi.

La formazione di Saturno potrebbe aver seguito un’evoluzione analoga, ma in una zona meno densa e con massa minore.

La formazione di Urano e Nettuno pone qualche problema maggiore, perch´e le zone che attualmente occupano non possedevano in prima approssimazione una densit`a suf-ficiente per la formazione in tempi rapidi di corpi in grado di trattenere la loro attuale atmosfera prima che i gas venissero espulsi dal vento solare. Varie ipotesi sono possibili, sia che le velocit`a relative possano essere state inferiori grazie all’azione del gas, sia che la densit`a di elementi pesanti fosse maggiore, sia che la formazione sia avvenuta in una zona sensibilmente pi`u interna del Sistema Solare, e che poi questi pianeti possano essere “migrati” verso le loro attuali posizioni per mezzo di complesse interazioni con i planetesimi e/o con Giove, il quale sarebbe invece migrato leggermente verso l’interno.

1.2.6 fase finale

Mentre gli ultimi protopianeti rimasti si fondono lentamente gli uni con gli altri, il processo di evoluzione del Sistema Solare rallenta. Si pu`o affermare che il periodo di formazione del Sistema Solare abbia avuto termine quando la sua struttura si stabilizza e rimane caratterizzata da un certo numero di corpi in orbite sostanzialmente stabili al di l`a di qualche milione o decina di milioni di anni; ci`o avviene quando quelli che sono divenuti i pianeti hanno raccolto su di s´e gran parte del materiale, e sostanzialmente ripulito le loro orbite. Si stima [G.W. Lugmair, A. Shukolyukov, 2001] grazie

(16)

principal-Figura 1.5: Simulazione numerica a N corpi di uno sciame di 154 protopianeti con due popo-lazioni di dimensioni differenti e masse comparabili con quelle attuali di Marte e della Luna che riproduce un possibile scenario di evoluzione nel Sistema Solare interno. Alla fine della simu-lazione, si sono formati 4 pianeti per dimensioni e parametri orbitali simili agli attuali pianeti terrestri. tratto da [B. Bertotti e al., 2003, p. 525]; dati da J.E. Chambers

mente alla datazione dei radionuclidi che questo periodo sia durato circa 10 milioni di anni5.

Per la completa formazione dei pianeti attuali, si stima un tempo necessario del-l’ordine di 108 anni, al termine del quale il Sistema Solare presenta sostanzialmente l’aspetto attuale.

A questo punto, solo una minima parte della massa del disco originario `e soprav-vissuta in orbita attorno al Sole: la maggior parte `e o ricaduta sulla stella, a causa di decadimenti orbitali dovuti agli attriti in un disco denso, o si `e dispersa nello spazio, ad opera del vento solare per le particelle pi`u piccole e per azione di mutua interazione gravitazionale per i corpi medi e grossi.

1.3

Il Sistema Solare attuale

Il Sistema solare `e composto da una certa variet`a di oggetti, di dimensioni, forme, composizioni chimiche e parametri orbitali differenti tra loro. La massa del Sistema Solare `e suddivisa in maniera non omogenea tra pochi corpi che ne raccolgono la maggior parte, e moltissimi piccoli che assommano ad una minima frazione del totale. La massa totale del sistema `e di circa 1, 99 1030 kg, o circa 330.000 MC, per la quasi totalit`a (circa il 99,87%) concentrata nel Sole.

5una datazione cos`ı precisa rispetto all’et`a complessiva del Sistema Solare, stimata in 4, 57109anni, `

(17)

Il Sole `e anche l’unico corpo nella zona interna del sistema la cui percentuale di elementi leggeri `e rilevante: la composizione `e per il 75% idrogeno, 23% elio, e tracce di elementi pi`u pesanti per il restante 2%, e come visto precedentemente `e una regola generale che pi`u un corpo si sia formato e si trovi ad orbitare in una zona pi`u vicina al Sole, pi`u sia ricco di elementi pesanti (rocce, metalli), e man mano che ci si allontana dal Sole, cresca la frazione di elementi leggeri e diminuisce la densit`a media.

Sino al 2006 gli astronomi riconoscevano in maniera ufficiosa nove pianeti in orbita intorno al Sole: i quattro interni rocciosi detti “terrestri” (Mercurio, Venere, Terra, Mar-te), i quattro “giganti gassosi” (Giove, Saturno, Urano, Nettuno), pi`u Plutone, piccolo, lontano e su un’orbita eccentrica.

La scoperta di un numero sempre maggiore di corpi oltre l’orbita di Nettuno, alcuni dei quali di dimensioni comparabili con Plutone e occupanti orbite simili, ha portato l’Unione Astronomica Internazionale6

a definire ufficialmente pianeta un corpo celeste che:

• ruoti attorno al Sole7

,

• possieda massa sufficiente tale che la propria autogravit`a gli permetta di vincere le forze di corpo rigido e gli faccia assumere una forma di equilibrio idrostatico, • abbia liberato i dintorni della propria orbita8

.

Questa definizione fissa a otto il numero dei pianeti ufficiali. Contemporaneamente viene definito lo status di pianeta nano come quello di un corpo che soddisfa solamente i primi due criteri per essere definito pianeta, ma che si trova a condividere la sua zona orbitale con un certo numero di corpi di dimensione anche paragonabile. Secondo questa definizione, quattro sono i pianeti nani ad oggi riconosciuti (Cerere, Plutone, Makemake ed Eris)9

.

Tolto il Sole, la gran parte (oltre il 99%) della massa restante `e concentrata nei quattro giganti gassosi, le cui orbite occupano la zona compresa tra le 5 e le 30 UA dal Sole. La loro massa varia tra le 320 MC di Giove e le 14,5 MC di Urano ripartita in

maniera diseguale tra [L.T. Elkins-Tanton, 2006]

un nucleo di rocce e metalli ad elevata pressione e densit`a, di massa poco superiore alla Terra per Urano e Nettuno e compreso tra le 12 e le 45 MC per Giove

un mantello sovrastante a base di idrogeno metallico con elevata presenza di elio un’atmosfera spessa ma relativamente poco densa, di composizione comparabile con

quella solare (la parte direttamente osservabile dall’esterno)

6

XXVI Assemblea Generale, Praga, 24 agosto 2006;

http://www.iau.org/static/resolutions/Resolution_GA26-5-6.pdf 7

`e da intendersi come invece che attorno ad un altro corpo 8

cio`e ha raccolto (quasi) tutte le polveri e tutti i corpi significativi che occupavano la zona della sua orbita, ad eccezione dei corpi che gli ruotano attorno

9`

E comunque una categoria destinata ad arricchirsi. Va notato che la distinzione tra pianeta “mag-giore” e nano non risiede strettamente parlando nella taglia o nella massa assolute, ma nel risiedere in una zona ripulita da corpi minori: sebbene il pi`u piccolo dei pianeti del Sistema Solare, Mercurio, abbia un diametro doppio ed una massa venti volte pi`u grande del maggiore dei pianeti nani, in altri sistemi planetari la distinzione tra le due classi potrebbe essere posta a taglie differenti, e potrebbero esistere pianeti nani pi`u grandi di alcuni pianeti “normali”.

(18)

Oltre al Sole, solo i quattro pianeti giganti raccolgono attorno a s´e un’atmosfera gas-sosa che ne costituisce la maggior parte del volume e della massa: tutti gli altri corpi presentano invece una superficie solida, solo in alcuni casi (la Terra, Venere o Titano) circondati da un’atmosfera, la quale ne rappresenta comunque solo una minima parte.

La zona interna del sistema solare `e dominata dai quattro “pianeti terrestri”, che raccolgono circa il 90% della massa ulteriore (circa 2 MC), con l’orbita lievemente

eccentrica di Marte che si estende all’afelio sino a 1,67 UA dal Sole. Si tratta di corpi abbastanza compatti formati da

un nucleo metallico ferroso

un mantello di roccia fusa composto principalmente da silicati una crosta di roccia solida di composizione analoga al mantello

Le densit`a medie sono le pi`u elevate tra gli oggetti del Sistema Solare, dovute alla combinazione di materiali pesanti e compressione gravitazionale: sono comprese tra i 5,2 e i 5,5 g/cm3 per i tre interni, e 3,9 g/cm3 per Marte.

Una buona frazione (oltre il 50%) della massa restante costituisce i satelliti planetari maggiori: si tratta di una ventina di corpi che soddisfano il secondo criterio per la definizione di pianeta, ma che si trovano a ruotare attorno ad un altro corpo. Oltre alla Luna, si tratta di satelliti di uno dei quattro pianeti giganti10

. La loro composizione varia a seconda della zona del Sistema Solare in cui risiedono: rocce a densit`a elevata per la Luna, e una frazione di elementi via via pi`u leggeri man mano che ci si allontana dal Sole.

La massa rimanente, infine, pari a circa 107

volte quella totale (101

MC) `e

con-centrata nelle popolazioni dei corpi minori, le quali ospitano al loro interno un certo numero di pianeti nani relativamente massicci e una quantit`a via via crescente di corpi man mano che le dimensioni scendono.

1.4

I corpi minori

La eterogenea popolazione di corpi minori, tradizionalmente chiamati asteroidi o comete, `e suddivisa in vari gruppi di parametri orbitali e composizione diversi tra loro, ma abbastanza omogenei all’interno di ciascun gruppo. La distinzione tra asteroide e cometa era originariamente basata sull’osservazione sulle seconde di una coda (una chioma), dovuta alla sublimazione del materiale superficiale durante il passaggio di questa nei pressi del Sole nel corso della sua orbita eccentrica; esse sono tipicamente composte di ghiaccio o altri materiali volatili e poco densi, e sono originarie della zona esterna del Sistema Solare. Gli asteroidi sono invece corpi prevalentemente rocciosi con rilevanti presenze metalliche, che si trovano nella zona interna del Sistema Solare. La distinzione classica pu`o tuttavia non essere chiara in presenza di corpi che erano originariamente comete e che oggi hanno perso del tutto il guscio esterno volatile, o in caso di corpi ghiacciati che orbitano stabilmente al di l`a di 2 UA dal Sole, e che non sono quindi

10

il maggiore, Ganimede, ha un raggio leggermente superiore a quello di Mercurio (2630 km contro 2440 km), ma una massa due volte e mezzo inferiore; il minore di questi, Mimas, ha una dimensione appena sufficiente per fargli assumere una forma di equilibrio idrostatico

(19)

esposti ad un calore sufficiente tale da creare una coda.

Nel testo, le espressioni asteroide e corpo minore sono spesso usate come sinonimi, comprendendo eventualmente qualche piccolo satellite planetario che per composizione o storia evolutiva si avvicina a questa categoria.

1.4.1 gli oggetti transnettuniani

La maggior parte dei piccoli corpi del sistema solare si trova in orbita oltre la zona dei pianeti giganti, dove una densit`a troppo bassa, una dispersione di velocit`a troppo elevata e/o una pesante influenza degli stessi pianeti ha impedito l’accumularsi di pianeti maggiori nel senso sopra definito.

La zona meglio conosciuta (che comprende quasi tutta la massa racchiusa in corpi minori qui stimata) `e quella della Fascia di Kuiper (o di Edgeworth-Kuiper): una cintura compresa tra l’orbita di Nettuno (30 UA dal Sole) fino ad un punto non ben identificato ma che pu`o essere fissato convenzionalmente alla distanza alla quale il pe-riodo orbitale `e doppio rispetto a quello di Nettuno (48 UA) o fino ad includere gli

oggetti legati da risonanza 2:5 (55 UA) o 1:3 (62 UA). Si tratta di una zona ancora

in esplorazione, con numerosi oggetti massicci (1000 km o pi`u) verosimilmente ancora da scoprire.

L’evoluzione di tale fascia non `e ancora sufficientemente chiara, ma l’influenza dei pianeti maggiori sembra essere stato il principale fattore da tenere in considerazione: ancora oggi, all’interno della fascia, sono evidenti alcuni raggruppamenti corrispondenti ad alcune risonanze del valore del periodo orbitale con quello di Nettuno, in particolare il gruppo in risonanza 2:3, di cui fa parte Plutone. `E stato dimostrato che orbite di questo tipo sono stabili sotto l’influenza di Nettuno, e formano una zona di stabilit`a in cui un corpo che vi si trovasse sarebbe al riparo da incontri ravvicinati col pianeta che ne provochino un’alterazione dell’orbita (per esempio, Plutone raggiunge il perielio della propria orbita nei momenti in cui Nettuno `e alternativamente in congiunzione o in opposizione, con effetti che tendono a compensarsi).

La composizione di questi oggetti `e principalmente data da idrocarburi o acqua allo stato solido, e a parte alcuni sporadici casi appaiono meno densi delle loro controparti nel sistema solare interno (gli asteroidi in senso classico), con una densit`a che non supererebbe i 2 g/cm3, ma anche pi`u bassa.

Molti degli oggetti originariamente nella zona della attuale Fascia di Kuiper sono stati dispersi dalle complesse interazioni con i pianeti giganti durante la fase di forma-zione planetaria, e una parte di questi si trova oggi in altre zone del Sistema Solare, sia comprese tra le orbite di Giove e Nettuno (i cosiddetti centauri), sia facente parte della regione del disco diffuso, una zona la che si interseca parzialmente con la Fascia di Kuiper ma che si estende a distanze molto maggiori, e che comprende corpi con una dispersione di inclinazioni molto elevata (la fonte principale delle comete a brevissimo periodo).

Infine `e da segnalare la zona della Nube di Oort, uno sciame pi`u o meno sferico di oggetti stimati dell’ordine di 1012 corpi delle dimensioni di 1 km o pi`u, dispersi

tra  2000 e 50000 UA dal Sole, fino alle zone dove la gravit`a solare `e predominante

(20)

dovrebbe essere la zona di origine delle comete a lungo periodo, con una massa stimata in [A. Morbidelli, 2008] 5M

C, molte volte maggiore della Fascia di Kuiper.

1.4.2 gli asteroidi

La regione con maggior concentrazione di asteroidi nella zona interna del Sistema Solare `e la Cintura o Fascia Principale: si tratta di oggetti con orbite comprese tra quelle di Marte e di Giove, principalmente tra 2,1 e 3,3 UA dal Sole. La massa totale dei corpi della fascia principale `e stimata in circa p3, 30, 3q10

21kg (5, 5M

Co 1, 6 10

9

volte la massa del Sistema Solare), poco meno di un terzo concentrata nel pi`u grosso, Cerere, un pianeta nano con un diametro di circa 950 km e una densit`a di 2, 1g/cm

3

, tipica per un corpo nella zona centrale della fascia.

In base alla loro composizione, come dedotta dagli studi spettroscopici, sono state proposte varie classificazioni degli asteroidi, basate in larga parte sulle precedenti clas-sificazioni delle rocce meteoritiche ritrovate sulla Terra e a cui hanno dato origine; quasi tutte riconoscono alcuni tipi principali (v. § 2.2.6).

Una delle principali forze agenti sulla struttura della cintura principale, la quale ne testimonia oggi in modo diretto l’importanza, `e quella della perturbazione gravitazionale di Giove. Osservando (fig. 1.6) la distribuzione dei semiassi maggiori delle orbite, si nota che in corrispondenza di alcuni valori la distribuzione `e sostanzialmente nulla, le cosiddette lacune di Kirkwood ; questi valori (i principali dei quali posti a circa 2,06; 2,5; 2,82; 2,92 e 3,27 UA dal Sole) corrispondono a periodi orbitali in rapporto semplice con quello di Giove (rispettivamente 4:1, 3:1, 5:2, 7:3, 2:1): un rapporto semplice porta infatti un corpo in una di queste zone, durante i periodici incontri ravvicinati col pianeta gigante, ad una ripetizione delle stesse configurazioni geometriche, di modo tale che le perturbazioni si sommano da un’orbita all’altra, e mutano rapidamente l’asse maggiore facendo uscire l’orbita dalla zona di risonanza e creando la lacuna.

Una cosa importante da notare `e la differenziazione in maniera fortemente radiale delle composizioni degli asteroidi della fascia in base alla distanza dal Sole: `e abitudine suddividere la fascia principale in tre zone maggiori a seconda del semiasse maggiore dell’orbita, separate tra loro dalle principali lacune di Kirkwood:

la fascia interna , tra 2,06 UA (risonanza 4:1) e 2,5 UA (3:1), con massiccia presenza di asteroidi di tipo S (silicacei)

la fascia centrale , tra 2,5 UA e 2,82 UA (risonanza 5:2), dominata da asteroidi di tipo C (carbonacei)

la fascia esterna , tra 2,82 sino a 3,28 UA (risonanza 2:1), con forte presenza di corpi di tipo D e P (di composizione incerta, ma verosimilmente composti complessi a base di silicio e/o carbonio, pi`u ghiaccio)

La distinzione di tipo non `e netta, ma comunque notevole, il che pone delle condizioni abbastanza forti sull’origine ed evoluzione della fascia.

Molteplici indizi portano a supporre una storia degli asteroidi di tipo fortemente collisionale. Il primo `e la distribuzione degli asteroidi in funzione delle dimensioni (o della massa): essa appare della forma

dnD

dD 9D

(21)

1 2 3 4 5 0 10 20 30 40 50 a !"#$% &' ()*+"$%,,% -.! ).,!%))! ,%""!+$! +$/!*%0! 1.$ 0% 1+1+0%2!+3. -! %)*.$+!-! 0%))!5 %*! 53+ % "!#"3+ 67789

Figura 1.6: Distribuzione degli asteroidi: si notano le lacune di Kirkwood in corrispondenza delle risonanze di moto medio con Giove, segnate in alto, che separano la Fascia Principale, tra 2,1 e 3,3 UA in tre zone. tratto da [A. Cellino, disp.]

(22)

X Farinella et al. (1992) (1) Farinella et al. (1992) (2) Farinella et al. (1992) (3) Farinella et al. (1992) (4) Galileo Team Davis et al. (1994) Durda et al. (1998) Model SAM99 Model SDSS (2001) X X X X X X X X X X X X X X X

X Large sizebump

Small size bump

D (km)

Cum

ulativ

e Number > D

1011 1012 1010 109 108 107 106 105 104 103 102 101 100 10–2 10–1 100 101 102 103

Figura 1.7: Distribuzione cumulativa degli asteroidi della Fascia Principale: alcune sti-me a confronto con i dati dello Sloan Digital Sky Survey. tratto da (D.R. Davis e al., in [ASTEROIDS III])

dove nD rappresenta il numero di oggetti di diametro ¡D, e ζ vale2, 5 per i corpi

pi`u piccoli (DÀ100 m) (R. Davis e al. in [ASTEROIDS III]).

Una tale distribuzione pu`o essere ottenuta in maniera semplice assumendo una sto-ria fortemente collisionale [J.W. Dohnanyi, 1969]: dopo la primissima fase iniziale del Sistema Solare, la zona della fascia principale si `e fortemente svuotata di oggetti, e quelli rimasti si trovano su orbite sufficientemente differenti affinch´e tutte le collisioni tra oggetti avvengano a velocit`a non trascurabili, e le collisioni catastrofiche (cio`e che frammentino il bersaglio) siano la norma, ove avvengano con un proiettile di massa sufficiente (1/10 del bersaglio).

Assumendo un tasso di collisioni proporzionali a nD˜D2 (sezione d’urto geometrica,

do-ve ˜D`e il diametro di un proiettile capace di distruggere un bersaglio di diametro D) e tarata opportunamente in base alla densit`a di materiale della zona, e supponendo una legge di frammentazione del tipo, come risulta da prove di laboratorio,

nm9m

ξ (1.11)

che riduce il bersaglio in un certo numero di corpi minori di masse m, si ottiene in un tempo di pochi milioni di anni una distribuzione simile a quella osservata oggi, qualsiasi sia la distribuzione iniziale fissata. La fisica di questi urti non `e ancora ben compresa, tuttavia, e si basa principalmente su studi di materiale sulla Terra, con bersagli di 1

cm sparati ad alta velocit`a (qualche km/s) contro un bersaglio.

(23)

vita media possa essere dell’ordine di grandezza dell’et`a del Sistema Solare, mentre per corpi via via pi`u piccoli sia minore.

Un secondo indizio proviene dal fatto che molte osservazioni suggeriscono che la mag-gior parte degli asteroidi magmag-giori non siano blocchi monolitici, ma piuttosto cumuli di macerie(in letteratura, rubble piles), formatisi a causa di urti di corpi originariamente singoli, e composti di pi`u parti trattenute assieme per autogravitazione11

.

Un primo dato proviene dall’osservazione delle superfici di alcuni degli oggetti maggiori: questi presentano numerosi crateri da impatto le cui notevoli dimensioni (in casi estre-mi, come (253) Matilde, dello stesso ordine di grandezza del corpo stesso) suggeriscono che il corpo abbia sostenuto durante la sua storia diversi urti sufficientemente energetici da provocarne la rottura, ove questo fosse stato composto da un unico blocco roccio-so. Se da una parte questo mostra come l’attivit`a collisionale sia stata intensa, d’altra parte suggerisce lo stesso modo per aggirare il problema: supporre cio`e che a causa dei numerosi urti questi corpi si presentassero al momento di tali collisioni catastrofiche gi`a come cumuli di macerie: in questo caso, infatti, la gran parte dell’energia sprigionata dall’urto rimane confinata in una piccola regione circostante la zona di impatto del pro-iettile, incapace di disperdersi a causa della debole elasticit`a dell’aggregato, impedendo che il corpo risenta in maniera significativa di forze capaci di distruggerlo. Un secondo indizio che supporta la tesi che la maggior parte degli asteroidi di dimensioni superiori a qualche centinaio di metri di diametro siano aggregati gravitazionali ci viene inoltre dallo studio dei periodi di rotazione ricavati dalle osservazioni delle curve di luce: la distribuzione dei periodi orbitali subisce un brusca discontinuit`a a T 2h(v. Cap. 2),

con quasi nessun corpo al di sotto di questa soglia; questa `e precisamente il valore di velocit`a oltre il quale un ammasso legato gravitazionalmente tende a disgregarsi a causa della sola forza centrifuga, il che supporta il dominio del modello a cumulo di macerie nella composizione di molti asteroidi.

Un altro indizio `e dato dalla misurazione della densit`a di alcuni asteroidi, che risulta sensibilmente inferiore rispetto a campioni di meteoriti di analoga composizione e pro-venienti dalla fascia principale, fatto spiegato mediante la presenza di numerosi “spazi vuoti” all’interno di tali corpi.

Un terzo indizio a favore di una storia fortemente collisionale proviene dall’osser-vazione di vari gruppi di asteroidi con caratteristiche orbitali (semiasse a, eccentricit`a e, inclinazione i) omogenee e di identica composizione: queste famiglie sarebbero il risultato della distruzione catastrofica di un corpo genitore in seguito ad un urto, con i frammenti generati nel processo che pur possedendo energia sufficiente a sfuggire ad una totale o parziale riaccumulazione, sono nondimeno rimasti su orbite simili, che tradiscono un’origine comune. Alcune simulazioni numeriche ([P. Michel e al., 2001]) mostrano come i frammenti generati in tali urti (delle dimensioni di 100 m) possano

successivamente ricomporsi a formare i membri maggiori delle famiglie.

Il numero di famiglie identificate varia a seconda dei metodi di conteggio e dei criteri pi`u o meno stretti dei vari modelli, con un ragionevole numero ad oggi riconosciuto di circa 2025 (Ph. Bendjoya, V. Zappal`a, in [ASTEROIDS III]).

Infine, Giove non `e l’unico responsabile delle influenze planetarie sulla Fascia

Prin-11

per evitare ambiguit`a tra geologi ed astrofisici `e stato suggerito di riferirsi ad essi come aggregati gravitazionaliinvece che come cumuli di macerie nel caso di corpi in cui l’autogravit`a giochi un ruolo importante nel mantenere compatto l’insieme, come `e il caso per gli asteroidi maggiori

(24)

Figura 1.8: l’asteroide 253 Matilde fotografato dalla sonda NEAR il 27 giugno 1997: il grosso cratere in primo piano sembra suggerire che per resistere all’urto che l’ha generato, l’asteroide debba consistere in pi`u frammenti tenuti assieme per gravit`a; foto NASA

cipale: l’influenza di Marte `e pure rilevante, e quelle risultanti dall’interazione tra le frequenze indotte da Marte, Giove e Saturno formano un ampio spettro di risonanze, che copre l’estensione della Fascia con risultati secondari ma complessi.

Negli ultimi anni si sono incominciati a scoprire un certo numero di asteroidi binari. Da un’analisi dei loro periodi di rotazione, si trova [P. Pravec, A.W. Harris, 2007] che molti di essi possiedono un momento angolare vicino alla soglia di disgragazione di un corpo singolo, suggerendo una loro origine per scissione da un corpo unico originario.

Oltre alla Fascia Principale, il gruppo pi`u numeroso `e quello dei Troiani: due nubi di corpi minori sulla stessa orbita di Giove, ma avanti e indietro di 60 rispetto al pia-neta. I baricentri della distribuzione si trovano infatti in corrispondenza dei due punti lagrangiani L4 e L5 del problema ristretto dei tre corpi: per ciascuno dei due gruppi, la terna Sole-Giove-Troiani si trova ai vertici di un triangolo equilatero, in una configura-zione sostanzialmente stabile; ciascun asteroide, nella sua orbita attorno al Sole, visto da Giove appare compiere un percorso attorno al rispettivo punto lagrangiano, senza mai allontanarsene troppo.

Questo gruppo appare costituito da corpi di composizione probabilmente di transizione tra quelli della fascia principale esterna e comete spente o dormienti tipici delle zone esterne del Sistema Solare12.

Un altro gruppo legato a Giove `e quello degli Hilda, caratterizzati da un periodo orbitale in rapporto 3:2 con Giove e moderata eccentricit`a, il cui afelio si situa ad ogni orbita o all’opposizione di Giove o in congiunzione con uno dei due punti lagrangiani L4 e L5, evitando incontri ravvicinati col pianeta gigante.

Un insieme meno numeroso ma di particolare interesse “strategico” `e quello degli oggetti prossimi alla Terra (NEO - Near Earth Objects, o NEA - NEAsteroids): si tratta di asteroidi o nuclei cometari spenti definiti come aventi distanze al perielio

12per esempio, l’asteroide (617) Patroclo, scoperto essere binario, mostra una densit`a leggermente inferiore a quella dell’acqua

(25)

q ¤1, 3 UA, e distanze all’afelio Q¥0, 983 UA, e che si trovano quindi a intersecare

l’orbita terrestre (gruppi Aten e Apollo), o ad esserle molto vicino (gruppo Amor ). La maggior parte di questi appare essere formata da frammenti di corpi provenienti da zone pi`u esterne, come la Fascia Principale, che in seguito al distacco a causa di un urto si sono poi ritrovati per influenze con altri corpi a essere spinti verso l’inerno del Sistema, e qui intrappolati in orbite pi`u o meno stabili.

L’interesse verso questi oggetti risiede principalmente in due ragioni correlate ma distinte: essi sono la fonte principale del materiale meteorico proveniente dalla fascia degli asteroidi che si trova a cascare sulla Terra, e per ora l’unica possibilit`a di studiare direttamente e toccare con mano il materiale di cui questi sono composti; d’altra parte, il loro studio ha recentemente interessato alcuni governi preoccupati per le conseguenze devastanti che la caduta di un asteroide di anche solo un centinaio di metri di diametro pu`o avere, finanziando progetti di ricerca sistematica e catalogazione delle orbite di tali oggetti. Un ulteriore indizio sul fatto che molti asteroidi medio-grandi siano cumuli di macerie viene anche dai NEO: grazie alla loro vicinanza, lo studio delle loro forme `e pi`u agevole rispetto agli oggetti della Fascia Principale, e ci`o ha permesso di scoprire forti deviazioni dalle forme idrostatiche di equilibrio (cfr. Cap. 2), risultando in numerosi casi molto pi`u allungate di quanto le forze mareali dei pianeti interni permetterebbero di avere per corpi di simili densit`a se non fosse per una debole forza di coesione interna, cosa ne favorirebbe la deformazione, e, in apparentemente molti pi`u casi che per corpi di altre popolazioni, addirittura una scissione in forme binarie.

1.5

Motivi per studiare gli asteroidi

Vari sono i motivi per cui lo studio degli asteroidi sia importante per il contributo che pu`o fornire ad altri campi della fisica; tra di essi:

• gli asteroidi sono ancora per la maggior parte oggetti primitivi, che non hanno subito grosse modifiche dal primo periodo di formazione planetaria, e sono dunque testimoni dello stato del materiale solido agli albori del Sistema Solare

• forniscono un vasto campionamento di corpi di varie dimensioni da quelli la cui forma `e essenzialmente dominata da forze di stato solido sino a quelli in cui l’au-togravit`a `e prevalente, cosa che permette l’osservazione di una ampia gamma di comportamenti della materia di cui sono composti

• lo studio delle loro orbite `e un banco di prova utilissimo in meccanica celeste, per la complessa rete di perturbazioni mutue e con i pianeti, e per lo studio delle teorie matematiche collegate (teoria del caos)

• lo studio della loro evoluzione fornisce numerose possibilit`a per testare i modelli di fisica delle collisioni su scale non possibili in situazioni controllate

• lo studio fotometrico e polarimetrico fornisce indicazioni sulle propriet`a di rifles-sione e diffurifles-sione dell’energia da parte delle superfici degli asteroidi

• la storia termica degli asteroidi, come testimoniata da alcuni processi di fusione e differenziazione su alcuni asteroidi maggiori e dal caso della crosta basaltica di

(26)

Vesta, sopravvissuta pressoch´e intatta alla fase di intenso bombardamento iniziale, pu`o servire da banco di prova per i modelli di riscaldamento da isotopi radioattivi e da collisione, o per quelli basati su fenomeni elettromagnetici legati alle fasi primitive dell’evoluzione stellare (stelle T-Tauri), con collegamenti con i relativi campi di studio

• lo studio dei NEO appare sempre pi`u importante, per le conseguenze che potrebbe avere un urto di uno di questi oggetti con la Terra

• data la scoperta su numerose meteoriti di composti organici complessi (amminoa-cidi), lo studio degli asteroidi potrebbe fornire indizi sulla possibilit`a di un apporto significativo di materiale extraterrestre per la nascita della vita sulla Terra, ed in generale sulle possibilit`a di sviluppo di forme di vita su altri corpi celesti

(27)

Capitolo 2

L’osservazione degli asteroidi

Lo studio dei modelli di asteroidi, come quello presentato nel lavoro di Tesi, `e fonda-mentale per comprendere la natura di un gruppo di oggetti dei quali, nonostante le molte tecniche teoricamente utilizzabili per osservarli, si sa ancora poco.

Principalmente a causa delle loro ridotte dimensioni, nella maggior parte dei casi solamente l’orbita `e un dato su cui si pu`o fare un certo affidamento; mentre per quanto riguarda la determinazione della forma, delle dimensioni e della composizione, `e ne-cessario integrare le tecniche osservative mediante un modello di riferimento che possa fornire i dati mancanti non direttamente osservabili.

In particolare per quanto riguarda le forme di equilibrio, il confronto tra i modelli e gli asteroidi reali ci fornisce indizi circa la loro storia evolutiva, ed indirettamente di quella del Sistema Solare, rispondendo a quesiti di interesse prettamente astrofisico sia di altre discipline.

In questo capitolo e nel successivo, i dati osservativi vengono confrontati con i modelli teorici, in particolare con il modello di cumulo di macerie perfetto il cui comportamento `e stato analizzato nella Tesi.

2.1

La determinazione delle orbite

Uno dei primi parametri che fu necessario determinare per questa nuova classe di oggetti che stavano cominciando ad essere scoperti nel XIX secolo fu la forma delle loro orbite, storicamente uno dei banchi di prova pi`u importanti per la nascita e lo sviluppo della moderna Meccanica Celeste.

La traiettoria degli asteroidi `e solo in prima approssimazione quella di un oggetto in orbita Kepleriana attorno al Sole, a causa della perturbazione causata dalla presenza dei pianeti maggiori; per gli oggetti della Fascia Principale, si tratta principalmente di Giove, e in misura minore Marte e Saturno.

L’usuale strada percorsa per il calcolo delle orbite `e appunto quella di calcolare la deviazione dal moto kepleriano semplice dovuta ai pianeti maggiori.

(28)

γ nodo ascendente

pericentro

I (inclinazione) (longitudine del nodo

ascendente)

(argomento del pericentro) F (Fuoco) ω Ω f P !"#$%&'() * + ! "

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*01

Figura 2.1: parametri usati per la descrizione di un’orbita kepleriana. tratto da [P. Paolicchi, disp.]

2.1.1 il problema dei due corpi

L’equazione che governa il moto di un corpo attorno ad un altro (problema classico dei due corpi) `e:

d2r dt2 

GM

r2 ˆr (2.1)

dove M M

 m`e la massa totale dei due corpi e r la loro distanza.

La traiettoria risultante `e una conica, la cui forma `e solitamente descritta da 2 parametri: semiasse maggiore a   GM 2E (2.2) eccentricit`a e  d 1 2Eh 2 pGMq 2 (2.3)

dove l’energia di interazione E e la densit`a di momento angolare h

E  |9r| 2 2  GM r (2.4) h  rr9 (2.5)

sono due integrali del moto. Nel caso E 0, l’orbita `e ellittica e dunque chiusa.

L’orientazione dell’orbita `e espressa da 3 ulteriori parametri, solitamente l’inclinazio-ne I rispetto ad un piano di riferimento (solitamente quello dell’eclittica), la longitudil’inclinazio-ne del nodo ascendente Ω, che `e l’angolo misurato sul piano di riferimento tra una dire-zione di riferimento e la retta di intersedire-zione con il piano dell’orbita (linea dei nodi ), e l’argomento del pericentro ω, che `e l’angolo misurato sul piano dell’orbita tra la linea dei nodi e l’asse maggiore dell’orbita (o linea degli absidi )(v. fig. 2.1).

Infine, un sesto parametro esprime la fase temporale, come per esempio il valore ad un certo istante t dell’anomalia vera f , cio`e l’angolo tra r e la linea degli absidi (v. fig. 2.2), o dell’anomalia media Mnptt0q (dove n 

a

GM{a 3

2π{T `e il moto

(29)

C F A S P f u !"#$%&'() * + * ! "#$ ! "#$,%& -./01234567., 893'( ,:;9<4,=>?5 $

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Figura 2.2: l’anomalia vera f e l’anomalia eccentrica u. tratto da [P. Paolicchi, disp.]

Per determinare l’orbita in via teorica sono sufficienti 3 osservazioni in momenti distinti (ogni osservazione, costituita dalla rilevazione di due angoli sulla sfera cele-ste, fornisce due vincoli), e con sole 2 oservazioni `e possibile determinare un’orbita approssimata che permette di ritrovare l’oggetto entro al pi`u pochi giorni.

2.1.2 l’analisi delle perturbazioni

Nel caso a molti corpi in cui uno di questi sia di massa molto superiore agli altri (come per il caso del Sistema Solare), si pu`o sperare di affrontare il problema mediante un calcolo delle perturbazioni all’orbita kepleriana che ognuno dei corpi minori possiede rispetto al corpo maggiore.

L’equazione (2.1) diviene allora d2r dt2 

GM

r2 ˆr F (2.6)

dove F  ∇R`e una perturbazione che nel caso in cui sia determinata da pi`u pianeti

perturbatori `e esprimibile attraverso un potenziale R della forma R n ¸ i1 Gmi  1 |rri|  rri ri3 (2.7) dove m1...mn sono le masse planetarie e r1...rn le loro posizioni.

La perturbazione ha come effetto quello di variare i parametri orbitali mediante una relazione del tipo

dpj

dt Ajkppq BR Bpk

(2.8) dove si `e chiamato ppa, e, I, Ω, ω, Mq il vettore dei parametri.

Se, come si `e supposto, m, mi !M

, la variazione dei parametri orbitali sar`a lenta

rispetto al tempo caratteristico dell’orbita stessa T . In particolare, ogni termine per-turbatore Ri sar`a caratterizzato da un ordine di grandezza µimi{M

Figura

Figura 2.4: curve di luce di due asteroidi dall’Asteroid Photometric Catalogue; a sinistra: 87 Silvia, osservato il 3 (cerchi neri) e il 6 (quadrati rossi) febbraio 1987, dati da Weidenshilling e al., 1990; a destra: 6 Ebe, osservato il 18 (quadrati rossi)
Figura 2.7: immagini radar dell’asteroide 4179 Toutatis ottenute l’8, 9, 10 e 13 dicembre 1992
Figura 2.10: grafico diametro-velocit` a angolare per un migliaio di asteroidi: ` e evidenzia- evidenzia-to il limite a T  2 ore per gli asteroidi con diametro superiore a 150 m
Figura 3.1: andamento di Ω 2 e L in funzione di e per gli sferoidi di Maclaurin. tratto da [S
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