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la realtà, il vedere che quanto è accaduto e accade tutti i giorni non è senza Dio, ma è in essenza l’opera di Dio stesso»

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Introduzione

Il punto di partenza della presente dissertazione è da cercarsi nella frase conclusiva delle Lezioni sulla filosofia della storia di Hegel il quale, dopo aver affermato che «dalla nausea per i moti delle passioni immediate nella realtà la filosofia si erge a considerare le cose» poiché

«il suo interesse è quello di conoscere l'evoluzione dell'idea che si realizza, invero dell'idea della libertà, la quale esiste soltanto come coscienza della libertà», riguardo alla teodicea aggiunge: «Che, in mezzo ai mutevoli spettacoli delle sue storie, la storia mondiale sia proprio codesta evoluzione e il divenire reale dello spirito, ebbene questa è la vera teodicea, la giustificazione di Dio nella storia. Soltanto questa cognizione può conciliare lo spirito con la storia mondiale e con

la realtà, il vedere che quanto è accaduto e accade tutti i giorni non è senza Dio, ma è in essenza l’opera di Dio stesso»

1

. Rispetto a questa posizione hegeliana sono state analizzate le posizioni di autori come Leibniz, Linné e Kant, i quali costituiscono il nucleo di questo lavoro.

Lo scritto intitolato Nemesis Divina riassume un tentativo di unione tra il pensiero scientifico, quello etico e quello religioso di Linné.

Purtroppo non è così facile conciliare questi tre aspetti, così distanti ed

1 G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, trad. it. a c. di G. Bonacina e L. Sichirollo, Roma- Bari, Laterza, 2008, p. 370.

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eterogenei tra di loro: come fare a collegare ciò che è mentale o artificiale con ciò che si dimostra naturale? Secondo quali principi possiamo catalogare l’uomo come superiore agli altri animali, in quanto si conosce come il fine della creazione? Per quale motivo Dio ha permesso l’esistenza del male al mondo? E come far coincidere l’assunto dell’uomo riguardo al mondo naturale in rapporto con la propria consapevolezza religiosa e morale?

Una delle prime distinzioni che il grande botanico riesce a compiere è quella tra fato e provvidenza: il primo può essere visto come un (fin troppo) evidente equilibrio suscettibile di essere cambiato da fortuna e sfortuna, il secondo come una luce accesa da un essere superiore sul mondo dalla coscienza e dalla fede.

Vi sono almeno due versioni del manoscritto: la più antica è

quella di Londra e Linné ci lavorò dal 1758 al 1765. Nel 1784 fu

acquistata, insieme ad altri scritti e testi di Linné, dal botanico Edward

Smith. Ciò attorno al quale ruota questa versione è anche il tema

centrale della Nemesis stessa, nonché il punto di partenza del

naturalista svedese: l’affermazione che l’uomo dovrebbe conoscere se

stesso. In questa parte i problemi teologici sono direttamente connessi

ai problemi etici, come ci fa capire meglio la stretta connessione tra i

comandamenti e le leggi, le passioni e vizi. Non a caso «Let man know

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thyself» è una delle frasi più ripetute in questa versione. La seconda versione, il manoscritto di Uppsala, al quale Linné lavorò a partire dal 1766 riprendendo le pagine londinesi, viene sviluppata in maniera opposta alla prima: si conclude con le implicazioni teologiche della conoscenza di sé stesso da parte dell’uomo, anziché iniziare proprio da quelle.

Per dare maggior risalto alle proprie teorie, Linné iniziò a studiare assiduamente la Bibbia per poterne citare le parti più utili ai suoi fini e cominciò a collezionare fatti realmente accaduti nei quali vedeva la presenza del fato o della provvidenza. Proprio grazie a tali fatti storici possiamo vedere il movimento del lavoro di Linné: questi accadimenti costituiscono il materiale empirico o, se si vuole, sperimentale dal quale sarà in grado di astrarre le categorie a lui utili.

Per quanto riguarda le possibili correlazioni con Leibniz, uno dei primi studiosi a sottolineare quest’aspetto fu Axel Christian Elis Malmeström: egli spostò l’attenzione sull’intera tradizione della Teodicea iniziata da Bayle e poi esposta da Leibniz e mostrò che il problema centrale, cioè quello di riconciliare il tentativo di postulare un Dio onnipotente e onnisciente con l’esistenza del male, era la prima ragione per la quale Linné aveva parlato di Nemesis e di taglione.

Secondo le fonti biografiche possedute sia da Malmeström che da

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Lepenies sembra che il pensiero della Nemesis Divina sia nato nella mente di Linné a partire da un suo periodo di depressione nel 1748.

Secondo Linné la posizione occupata dall’uomo è al principio della grande catena dei viventi, o se si preferisce, al centro. Ad ogni modo Linné vede sette aspetti principali nella comprensione umana, che si possono raggruppare sotto tre grandi livelli: prima di tutto deve essere compreso nei suoi aspetti biologici studiando le sue caratteristiche fisiologiche, i suoi bisogni alimentari e gli aspetti patologici della sua esistenza. Il secondo livello da investigare è quello che Linné chiama lo stato naturale, cioè la psicologia individuale e collettiva che sta alla base delle sue attività in gruppo. Il terzo costituisce l’ultimo punto focale sia del materiale all’interno della Nemesis, che del trattamento dell’uomo nel Sistema Naturale: qui il

tema centrale è il crescente grado di chiarezza nella distinzione tra ciò che appare inizialmente essere il fato e ciò che è visto come provvidenza. Per Linné, anche se nella natura è possibile vedere il marchio di Dio, la più immediata e chiara evidenza della Divinità sta nella consapevolezza individuale della Nemesis.

Ci sono numerosi spunti che possono collegare Leibniz a Linné:

innanzitutto entrambi vedono le scienze naturali non come nemiche,

bensì come alleate della religione e della morale; considerano la

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teologia tradizionale più da modernizzare piuttosto che da abolire;

pensano alla giustificazione di Dio come qualcosa di fattibile per un intelletto genuino, capace di mostrare ciò con i mezzi dell’evidenza e della ragione, e non semplicemente come qualcosa che cade nel regno della fede o, peggio, da ascrivere ai dogmi ecclesiastici.

Ciononostante, non abbiamo le prove per sostenere che Linné avesse una conoscenza diretta degli scritti di Leibniz.

Male metafisico, fisico e morale vengono analizzati da entrambi gli studiosi, con pareri discordanti. Linné ha visto abbastanza chiaramente che tutto era sostenuto dall’interno dall’inconoscibile primo motore, ma non ha mai pensato di associare questo punto di vista con la definizione leibniziana di male metafisico come «semplice imperfezione»

2

. Inoltre, Linné non dà un reale significato alla prova ontologica dell’esistenza di Dio, intendendola come un’asserzione negativa implicita per la quale «God is that than which nothing greater can be conceived»

3

.

Lo stesso aspetto si può vedere nel corrispondente concetto di male fisico: anche se ha sottolineato l’essenza di questo soffrire, era maggiormente interessato non tanto nell’esplorare le vie nelle quali questo male interessa i viventi, quanto nel tentativo di ricollegarlo alle

2 G.W. v. Leibniz, Saggi di Teodicea, trad. it. di M. Marilli, Milano, BUR, 2007, Parte prima, p. 171.

3

C. v. Linné, Nemesis Divina, introduzione e trad. it. di M.J. Petry, Dordrecht, Kluver Academic Publisher, 2001, p. 30.

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sue origini nel male metafisico. Per risolvere questo problema ha cercato il paragone con il modello delle scienze matematiche: come in matematica le irrazionalità apparenti riescono infine a risolvere se stesse, così nel mondo fisico le anomalie e le sofferenze sono da vedersi come una parte necessaria di un tutto razionale. Per questo Leibniz ammette che gli animali indubbiamente soffrono, seppure il loro dolore sia meno intenso rispetto a quello umano.

Ma è riguardo al male morale che le teodicee di Leibniz e Linné differiscono maggiormente, anche se condividono il terreno comune dei principi di base. Se Dio stesso non è da considerare direttamente responsabile per le aberrazioni morali individuali, qualche condizione dev’essere ascritta alla libertà del singolo. Leibniz affronta il problema riferendosi al concetto metafisico basilare della “semplice privazione”:

le azioni individuali, anche se adeguatamente determinate dal loro

contesto, che ci è dato da Dio, dovranno sempre implicare qualche

elemento di imperfezione dovuta agli orizzonti limitati e limitanti a cui

può accedere l’umanità. L’uomo pecca, nella creazione del male

morale esercita il libero arbitrio in accordo con la sua capacità di offrirsi

nella sua imperfezione, agendo in accordo con le sue stesse limitate

idee: «il libero arbitrio tende al bene, e, se incontra il male, è per

accidente, è perché il male è nascosto sotto il bene, e come

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mascherato»

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. Dio, grazie al suo sguardo onnisciente, saprebbe smascherare questo male, ma l’uomo, a causa della propria limitatezza, non ne è capace.

Per Linné invece la libertà dell’individuo è molto meno problematica: nessuno vorrebbe negare che la maniera in cui l’uomo agisce è determinata da un intera serie di fattori. Sembra importante far notare che questi fattori sono liberamente disponibili per l’analisi e l’individuo è capace di decidere da solo e liberamente, soprattutto in rispetto delle questioni morali e religiose. Per quanto riguarda il problema cruciale del fato invece, Leibniz è abbastanza equivoco. Egli apprezza l’universalità del concetto e l’importanza del suo tentativo nell’essere riconosciuto da Stoici, Musulmani e Cristiani: lo vede come fatto apposta per dimostrare come un certo abuso porti immediatamente alla sua stessa punizione; non a caso identifica il fato con il corso naturale delle cose. In questo piano i casi storici raccolti da Linné stabiliscono un punto di vista diametralmente opposto a quello di Leibniz: precisamente è la non naturalezza di ciò che accade a garantirci quell’importanza come evidenza.

Il miglior modo per comparare i due diversi tipi di teodicea è mettere a paragone le due concezioni di ciò che è da giustificare, le due visioni dell’Essere Divino: il punto centrale del lavoro di Leibniz

4 G.W. v. Leibniz, Saggi di Teodicea, cit., Parte seconda, p. 296.

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implica la possibilità di discorrere razionalmente sulla natura di Dio. A meno che non si trovino delle buone basi sulle quali iniziare a mettere in discussione la validità dell’argomento ontologico, ogni pensatore illuminato è obbligato a prendere in considerazione l’onnipresenza e l’onnipotenza, nonché la constatata armonia e l’ordine necessariamente portati dalla saggezza e dalla bontà alla mente.

Infatti, nonostante le preoccupazione di Leibniz con le astrazioni totali degli universali, è stato ciò che ha visto come creazione a determinare il suo concetto di divinità, non viceversa. Quindi ha propagato una sorta di naturalismo deistico, sostenendo che l’ordine sussistente è il migliore dei mondi possibili e che Dio è indubbiamente la vera ragione delle cose. Inoltre segue dalla necessità il permesso di Dio al male:

anche se Lui vuole ciò che è buono, è obbligato a concedere il male.

La concezione di base di Linné è differente, nonostante concordi

con Leibniz riguardo alla possibilità di un discorso razionale sulla

natura di Dio. Ciò sembra più evidente se guardiamo al linguaggio che

Linné impiega: Leibniz ha estratto la sua metafisica e la sua

concezione degli attributi di Dio dall’impressione di ciò che ha visto

della creazione, nel mondo della natura. Linné invece ha guardato la

questione dalla parte opposta: nella sua concezione, come in quella di

Newton, è Dio stesso ad avere una sovrana autorità su tutto il creato e

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le parole che Linné usa maggiormente per esprimere questo pensiero sono termini come Re, Regolatore, Mastro, Guida, Gestore. Dal momento che l’autorità implica il potere, il mondo naturale può avere il suo Creatore, Autore, Fondatore, Originatore. Il potere però implica saggezza, per questo l’ordine può essere dipinto come essere il lavoro di un Disegnatore, un Architetto, un Meccanico. Rispetto alle azioni umane, Linné parla dell’autorità esercitata dal Giudice, Magistrato, Arbitro, Custode: si può notare quindi un vocabolario basato sull’idea di un’entità distinta dalla natura, addirittura superiore ed essenzialmente remoto da ogni umana comprensione.

In Linné troviamo inoltre un Dio concepito come Numen: è con la Sua autorità, in accordo con la Sua sovrana volontà, che accadono tutti i fenomeni naturali. Egli è presente in ogni aspetto della nostra vita:

vede, sente e sa tutto, e i suoi giudizi, punizioni e ricompense, sono prese in luce di ciò. «Psalms 94: 9: He that planted the ear, shall he not hear? He that formed the eye, shall he not see?».

5

Tocca a Dio in questo senso integrare le ricompense e le punizioni imposte dall’autorità umana posta all’interno del sistema legale portando questi in accordo con i segreti del cuore e i consigli della coscienza. La frase

«Live irreproachably, God is near»

6

è di Ovidio: Innocue vivito, Numen

5

C. v. Linné, Nemesis Divina, cit., p. 218.

6 C. v. Linné, Nemesis Divina, cit., p. 83.

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adest. Il punto focale finale della teodicea di Linné rende evidente una

cosa: la consapevolezza immediata di Dio da parte dell’uomo deriva non dalla contemplazione della natura, ma dalle costanti domande che vengono fatte proprio riguardo a questa sacra consapevolezza della nemesi. La frase suona sia in senso di minaccia che di avvertimento:

l'uomo deve guardarsi bene dal peccare, soprattutto se lo fa sminuendo il lavoro dell'Onnipotente, poiché Dio è ovunque proprio per essere in grado di punire i malvagi premiare i buoni, anche per generazioni e generazioni se necessario.

Tra gli antichi appare importante l’influenza di Omero; da un lato per lui la nemesi designava lo sdegno e la vendetta degli dèi nei confronti della violazione dei limiti fissati nel rapporto divinità-uomo, quindi rappresentava una sorta di legislazione tra dèi e uomini.

Dall’altro lato riguardava l'indignazione dell’uomo e degli dèi nei

confronti delle offese alla morale aristocratica. Possiamo vedere il

tentativo di Linné di dare un orizzonte più definito al concetto di nemesi

come una risposta al periodo di confusione politica, data a partire da

un punto di vista morale più normativo che descrittivo: qui riappare per

l’ennesima volta la spinta equilibratrice e catalogatrice dello studioso

svedese poiché l’instabilità politica del “tempo di libertà” (1720-1772) in

Svezia ha sicuramente convinto Linné riguardo all’importanza di fede e

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di giustizia equilibratrice.

La Nemesis Divina dev’essere posta all’interno di una tradizione della teodicea e della fisico-teologia. Questa in particolare è una teoria dell’equilibrio nella quale il mondo è appunto mantenuto in proporzione e armonia dalla saggezza dell'Onnipotente. E proprio da questa definizione si può comprendere come l’obiettivo del lavoro di Linné fosse più una fisico-teologia che una teodicea, nonostante anche questa sia un atto alla ricerca di un determinato equilibrio. Ciò che ha fatto Linné è stato tentare di rappresentare la Nemesi nella lingua sia della fisico-teologia che in quella della teodicea. Ha visto l’elemento della vendetta in essa, ma ancor di più un simbolo dell’equilibrio e della giustizia distributiva. Quindi la Nemesis Divina non è solo una

“teodicea morale” (definzione di Malmeström), ma anche un’economia morale. Nonostante la distinzione di Loewenheim tra Oeconomia divina, publica e privata, Linné ritiene l’Oeconomia Naturale identica a

quella divina: in essa, nella finalità e nel beneficio scambievole e

reciproco degli enti naturali, si mostra la sapienza del Creatore. Dio ha

creato tutte le specie semplicemente perché la provvidenza non deve

solo conservare tutto il creato, ma anche mantenere la giusta

proporzione tra tutte le creature. Se una data specie raddoppiasse o

triplicasse la propria proporzione (come sta succedendo con l’uomo)

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ciò potrebbe portare a un collasso dell’equilibrio della creazione (è facile vedere qui un’anticipazione delle teorie di Malthus). Per questo nel progetto divino tutte le specie contribuiscono alla conservazione dell’equilibrio naturale. Nonostante questo, l’equilibrio del mondo è dinamico, viene continuamente mutato da trasgressioni ed eccessi. Per esempio quando una specie abbandona il suo luogo ecologico naturale per aggredirne un’altra, ciò porta confusione all’ordine delle cose. In questo equilibrio perfetto però spicca la diversità dell’uomo, considerato da Linné e, più in generale, da tutti gli studiosi del periodo settecentesco, il più alto ministro della natura. Ci sono infatti tre istanze che salvaguardano l’equilibrio della natura dalle trasgressioni: natura stessa, uomo, Dio.

La Teodicea, considerata l’opera maggiore di Leibniz, è stata

scritta in risposta alle teorie di Pierre Bayle, che sottolineavano come la

scienza e le filosofia moderne fossero riuscite a mettere in crisi tute le

convinzioni più salde sul piano della fede. Bayle esaltava i concetti

degli stoici e dei manichei, che andavano a sommarsi alla concezione

calvinista di un Dio non esente da colpe riguardo la creazione del

peccato. In seguito alle nuove teorie scientifiche, che avevano

contrapposto alla vecchia immagine di un universo finito la novità

dell’infinitezza del creato, si era creata una frattura tra l’uomo e la

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natura (a differenza di quanto sosterrà Linné): l’uomo è solo un mezzo che si iscrive all’interno del piano divino della creazione, ma questa può avere come fine solo Dio stesso. Questa frattura si conferma anche all’interno della natura umana, dividendo l’uomo in quanto corpo (quindi ordinando il tutto in base ad un principio meccanico che non può portare a criteri di utilità o a criteri morali) dall’uomo in quanto facente parte di una società civile (dove viene a crearsi la differenza tra buono e cattivo, giusto e ingiusto, ecc). Viene anche ripensato il rapporto tra l’uomo e gli altri animali: questi sono macchine, mentre l’uomo è una macchina più una mente. Infatti, come sostiene Bayle, l’uomo può soffrire perché può peccare e ogni sofferenza è la giusta punizione per il peccato. Se gli animali soffrissero questa sarebbe la prova di una palese ingiustizia da parte di Dio. Altrimenti dovrebbero anch'essi avere un'anima, proprio perché a soffrire non può essere il corpo, ma solo l'anima. Il corpo, essendo una macchina, ha soltanto funzioni motorie.

Riguardo alla creazione Leibniz afferma che ciò che è possibile è attuato dalla volontà di Dio in quanto è una partecipazione dell’essenza divina; le contingenze sono create da un libero decreto divino.

Riguardo alla presenza del male nel mondo Leibniz spiega

sostanzialmente che il male fa parte di questo universo, che è

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comunque il migliore dei mondi possibili. Per questo Dio l’ha creato.

Proseguendo dal concetto di ragion sufficiente ne viene che Dio deve avere una ragione per creare questo mondo piuttosto che un altro, e la ragione è appunto che il mondo attuale è il migliore di tutti quelli possibili. Ma se Dio deve creare il migliore dei mondi possibili, non è forse vero che egli non può creare diversamente da come crea, quindi che tutto è necessario? Leibniz a questo proposito distingue tra necessità metafisica e necessità morale e sostiene che la necessità che Dio crei il migliore dei mondi possibili è necessità morale, non metafisica

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.

Dio ha creato, ma non è assolutamente necessitato a creare; se così fosse tutti i possibili mondi si attuerebbero, e siccome tutti i possibili sono infiniti, tutto sarebbe Dio e l’essenza divina si dispiegherebbe necessariamente fuori da sé, come vuole la tesi panteistica. La vera ragione per la quale i possibili non si possono attuare tutti contemporaneamente è che non sono compossibili.

L’impossibilità che tutti i possibili si attuino non dipende dalla ragione

morale di Dio, ma dalla natura dei possibili: è quindi un’impossibilità

metafisica. E il motivo per il quale questi possibili si attuano è sempre

lo stesso: solo i possibili dotati della maggiore perfezione vanno a

costituire il mondo che noi conosciamo.

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Leibniz, a differenza di Linné, sfrutta il concetto di Dio anche nelle spiegazioni teoretiche semplicemente perché Egli costituisce il perno centrale attorno al quale ruota tutto il sistema leibniziano: in Dio sono presenti i principi della logica, le nozioni esatte di ogni sostanza, il fondamento delle realtà esistenti e l’ordine di queste realtà, nonché la giustificazione della validità obiettiva delle nostre conoscenze. Ma come abbiamo appena visto, Leibniz attribuisce a Dio, nell’atto della creazione, non solo un intento logico, ma anche e soprattutto un intento morale.

Per meglio comprendere le posizioni linneane e leibniziane sarà necessario confrontarle infine con alcune delle tesi di Kant presenti negli scritti di filosofia della storia, nei quali l'autore delle tre Critiche, da una parte, si pone in contrasto con le teorie che stanno alla base della Nemesis Divina e della Teodicea, ma, dall'altra, evidenzia l'importanza

di alcune posizioni, come la destinazione morale del genere umano.

Premesso ciò Kant ridimensionerà le pretese di giustificare razionalmente l'operato di Dio nel suo scritto Sul fallimento di tutti i tentativi filosofici in teodicea

8

.

8 I. Kant, Sul fallimento di tutti i tentativi filosofici in teodicea, in Scritti sul criticismo, tr. It. a c. di G. De Flaviis, Roma-Bari, Laterza, 1991.

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