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L’ A RCHEOLOGIA I NDUSTRIALE

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Academic year: 2021

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C APITOLO 1

L’ A RCHEOLOGIA I NDUSTRIALE

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1.1 I L P AESAGGIO I NDUSTRIALE

Alla base della Rivoluzione Industriale sta un mutamento del modo di produzione che ha condizionato in maniera radicale e irreversibile non solo i rapporti fra gli uomini, ma anche il territorio nelle sue caratteristiche fisiche: corsi d’acqua deviati o cancellati, montagne di detriti, disboscamenti per aprire vie di comunicazione.

Nella trama di queste modificazioni si sono inseriti nuovi manufatti: le fabbriche, e intorno a loro un complesso di strutture, quartieri e villaggi operai, stazioni ferroviarie, ponti, centrali per la produzione di energia, magazzini, ecc.

La forma assunta dal territorio a seguito di questo processo può essere definita nei termini di un paesaggio industriale, che oggi rappresenta il vero ed unico paesaggio naturale per le grandi masse inserite nella realtà del sistema industriale.

A differenza dei paesaggi di epoche precedenti che per periodi di tempo anche assai lunghi si sono conservati inalterati e che, in alcuni casi, sono percepibili ancora oggi nella loro condizione originaria, il paesaggio industriale è caratterizzato dalla rapidità con cui si susseguono i processi che lo investono e ne mutano incessantemente la fisionomia.

Una volta perduta la lentezza evolutiva che ne faceva uno scenario apparentemente passivo ed immobile di fronte alle azioni degli uomini, il paesaggio industriale diventa interlocutore diretto ed attivo, in un processo di produzione mai sperimentato prima in quel modi e in quella scala. Percorso incessantemente dal rinnovamento tecnologico, razionale e al tempo stesso determinato dalla dislocazione naturale e casuale delle materie prime, esso invecchia e rinasce continuamente sotto gli occhi di tutti. Essendo riscontro diretto e puntuale della storia dei processi produttivi e sociali, diventa, inoltre, manifesto tangibile di una contraddizione che non è solo tra tecnologia e natura ma vive nell’incontrollato sviluppo del sistema capitalistico.

Il paesaggio della rivoluzione industriale, infatti, ci offre continue dimostrazioni della sostanziale ingovernabilità delle forze produttive in gioco (l’esempio banale è dato dal degrado ambientale), i suoi elementi costituitivi, considerati uno per uno, sono il risultato di una razionalità comunque regolata dalle leggi del profitto.

La cospicua e multiforme presenza di segni della civiltà industriale produce, in alcuni casi, il sovvertimento globale delle caratteristiche originarie del territorio e

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la nascita di un paesaggio industriale totalmente artificiale.

Nelle città, luogo di continue ristrutturazioni, coesistono tracce di tutti i momenti successivi dello sviluppo industriale, innestati l’uno nell’altro, così che la percezione di ciascuno di essi risulta problematica. E’ nelle cinture industriali, in particolare, che tale realtà si presenta nel modo più evidente, dove monumenti di archeologia industriale si producono e si distruggono di continuo.

1.2 L’ A RCHEOLOGIA I NDUSTRIALE

L'archeologia industriale è quel ambito di studi e di ricerche che si interessa in primo luogo dei resti fisici del modo di produzione industriale.

Il suo campo d'azione è il paesaggio industriale.

Oggetto della sua ricerca, i “monumenti” industriali.

Per orientarsi correttamente in un “campo di azione” tanto vasto il primo punto di riferimento è offerto dal modo di produzione capitalistico con i suoi fattori costitutivi, il capitale e la forza lavoro. Così l'abitazione operaia (villaggio o quartiere urbano) costituisce lo spazio esistenziale della forza lavoro; le vie di comunicazione (ferrovie, canali, strade), oltre ad essere il prodotto di specifiche industrie, sono gli strumenti del processo di circolazione del capitale; le merci, che rappresentano il risultato ultimo di questo modo di produzione, sono al tempo stesso oggetti concreti e manifestazione di un'ideologia.

Il luogo per eccellenza dell'incontro tra capitale e lavoro è però la fabbrica, appositamente e unicamente inventata per la produzione, dove la presenza e l'azione di uomini e macchine determina ed è determinata dagli spazi del lavoro.

Affianco alla fabbrica si trovano una serie di servizi a lei direttamente collegati:

magazzini e depositi ma anche convitti operai, mercati coperti, macelli, gasometri e così via. Tutti questi oggetti sono i monumenti industriali che, conservandosi nel tempo, diventano, oltre che esemplari oggetti di studio, imprescindibili punti di riferimento per l'interpretazione di tutte quelle testimonianze del passato produttivo ridotte allo stato di rovina e profondamente alterate.

Quest'ultima è peraltro la condizione più comune dei monumenti industriali, determinata da ragioni e processi molto diversi: dal progressivo decadere di un polo industriale per motivi tecnologici, finanziari, politici, dal repentino tracollo

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provocato dal venir meno delle ragioni prime dell'insediamento, o ancora da fattori naturali o accidentali che hanno determinato l'improvvisa cessazione di una attività produttiva e il rapido decadimento degli edifici che la ospitavano.

Le modificazioni dei processi produttivi e delle tecnologie spesso hanno determinato nella fabbrica la sovrapposizione di diversi e nuovi elementi che ne hanno alterato sostanzialmente la fisionomia originaria e alla fine il monumento si presenta come una sorta di assemblaggio di parti diverse. Attorno alle strutture originarie - spesso semplici parallelepipedi in muratura - sono cresciuti nuovi capannoni, impianti per il movimento delle merci, derivazioni ferroviarie le cui forme, nel loro complesso intreccio, richiamano il contraddittorio sviluppo delle forze produttive.

Ad oggi è diventata comune l'utilizzazione dei grandi spazi flessibili del primo industrialesimo per fini affatto diversi dagli originari. Questi, non più funzionali dal punto di vista della produzione, sono destinati ad altri usi.

Una volta definiti a grandi linee gli oggetti dell'archeologia industriale si pone il problema dei limiti cronologici.

Se si stabilisce che l’archeologia è “industriale” in quanto si occupa dei resti della civiltà industriale, il punto di partenza sarà identificabile, sia pure nelle peculiarità dei diversi contesti nazionali, con quel fenomeno di sviluppo economico e sociale collocabile in Inghilterra nel corso del XVIII secolo e comunemente indicato con l'espressione “rivoluzione industriale”.

La precisazione può sembrare superflua, ma spesso la ricerca propone casi in cui sono presenti anticipazioni o sperimentazioni di sistemi produttivi che si sarebbero pienamente affermati solo con la rivoluzione industriale.

Esistono forme di organizzazione del lavoro massificate e complesse storicamente “precoci”, come nel caso dei seicenteschi mulini da seta “alla bolognese”, ma esse rappresentano solo linee di tendenza in un ambito complessivo ancora legato ad una economia agricola o della prima manifattura, mentre lo spartiacque va individuato nel momento in cui la produzione industriale diventa carattere dominante della vita sociale.

Tutto ciò viene a coincidere con il fondarsi del modo di produzione capitalistico, mentre risulta molto comune, soprattutto da parte di studiosi di scuola anglosassone, considerare oggetti di archeologia industriale tutte le testimonianze dell'attività produttiva umana indipendentemente dalla loro collocazione storica.

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Se il problema del punto di partenza può essere risolto, sia pure tra difficoltà e contraddizioni, facendo riferimento alla rivoluzione industriale, molto più indefiniti appaiono i limiti verso il presente.

Sembra ragionevole l'opinione secondo cui non esiste un punto di chiusura dell'archeologia industriale: lo sviluppo tecnologico, infatti, produce di continuo scorie che immediatamente diventano oggetti di interesse storico.

D'altra parte sono da considerarsi monumenti industriali anche taluni manufatti che svolgono ancora l'originaria funzione, produttiva o di servizio perché testimonianze di un'arte del costruire riferibile all'ambito storico che ci interessa e ormai non più praticata.

Poiché il termine “archeologia” si riferisce al contenitore, mentre il contenuto è un risultato delle più sofisticate tecnologie, la definizione di “archeologia industriale” appare dunque estremamente problematica e per certi aspetti non del tutto soddisfacente. Quello che più conta è però il fatto di portare in primo piano attraverso lo studio dei monumenti industriali la cultura dell’industrialesimo: cioè quel complesso di elementi, non solo oggetti, ma anche modi di essere e ideologie, che trasformando, rivoluzionando o integrando sistemi precedenti ha prodotto la civiltà industriale.

1.3 L A C ULTURA DELL 'I NDUSTRIALESIMO

Se la cultura dell’industrialesimo è forse l'oggetto dell'archeologia industriale, è anche vero che essa non ne costituisce l'unica chiave di lettura, se non ci si vuole limitare alla raccolta di una serie ampliabile all'infinito di dati e descrizioni.

Nel momento in cui la ricerca di archeologia industriale concentra la sua attenzione su fabbriche e manufatti, si trova anche a dover fare i conti con i comportamenti, i modi di essere, le idee che hanno prodotto e al contempo sono stati prodotti da quegli stessi oggetti.

Il complesso sviluppatesi attorno alla Filanda di Forno modificò radicalmente con la sua presenza i connotati del paese. Ancora oggi il convitto operaio per ospitare manodopera importata dalle zone limitrofe, il Palazzo Operaio e quello dei tecnici, e anche la “casa socialista”, rimangono a testimoniare visivamente le nuove forme di organizzazione sociale nate o cresciute con la fabbrica.

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La fabbrica appare come il luogo di produzione non solo di cose ma anche di idee: di un certo tipo di gerarchia, di disciplina, di fruizione del tempo, dello spazio e dei rapporti tra vita pubblica e privata, che troverà poi nei villaggi e nei quartieri operai la sua più compiuta realizzazione.

Dunque la fabbrica come punto focale di una ricerca va continuamente riferita sia a tutte le componenti interne -gli aspetti tecnologici, economici, architettonici- sia a quelle esterne, cioè alla rete di relazioni e di oggetti determinatasi intorno ad essa.

Le informazioni fornite dal Cotonificio di Forno fanno emergere poi altri aspetti della cultura dell'industrialesimo, grazie alla qualità architettonica che lo caratterizza.

Questo imponente stabilimento, costruito intorno al 1890, si presenta con tutti i requisiti di un'architettura industriale a quel tempo consolidata sia nell'Europa settentrionale che negli Stati Uniti.

Vi ritroviamo gli elementi del più classico paesaggio industriale: grandi volumi ispirati a criteri di pura funzionalità, il canale, la ferrovia. Le modalità di tale insediamento non hanno alcun rapporto con la tradizione locale sia in termini costruttivi che di processo produttivo: si tratta piuttosto del traumatico ricorso a un modello internazionale.

E’ importante sottolineare che quello dell'internazionalità è un altro dato da tenere presente quando si parla di cultura dell'industrialesimo. I reperti di archeologia industriale, infatti, possono presentare caratteri analoghi in contesti storico-geografici alquanto diversi.

Alle stesse necessità si è risposto con le stesse soluzioni.

A questa componente di tipo oggettivo si unisce una componente che si potrebbe definire soggettiva. L'effettiva supremazia - economica, politica, militare, tecnologica - di alcuni centri della rivoluzione industriale, l'Inghilterra in primo luogo, ha determinato l'omogenea diffusione di modelli tecnologici e formali a cui bene o male si è adattato il decollo industriale di tutti i paesi. Tale fenomeno si è realizzato non soltanto “naturalmente”, o per imitazione, ma attraverso l'opera di alcune figure di ingegneri, architetti e imprenditori che hanno concretamente esportato una precisa concezione dell'insediamento industriale e delle sue forme.

Un altro processo caratteristico della cultura dell'industrialesimo, oltre alla circolazione internazionale dei modelli, è la distruzione delle culture preesistenti e il loro adattamento secondo le nuove esigenze.

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Distruzione e recupero che si realizzarono secondo due indirizzi fondamentali.

Il primo va riferito alla cultura edilizia locale: esiste, in Italia, un'ampia fascia di edifici produttivi costruiti all'inizio del decollo industriale con caratteri architettonico-costruttivi estremamente incerti, dove i ricordi di abitudini edilizie del luogo si mescolano a soluzioni dettate da necessità funzionali.

Il secondo indirizzo porta invece a un diverso tipo di connubio, tra funzionalità e sovrappiù decorativo, attinto da periodi storici passati secondo quel gusto del revival tipico della cultura ottocentesca. Ecco allora facciate neoclassiche, guglie gotiche, merlature e torrioni medioevaleggianti a coprire strutture che apparivano lontane dal senso estetico comune dei contemporanei ed estranee a una sensibilità diffusa abituata a un'altra scala e ad altre forme.

L'intreccio di questi orientamenti chiarisce il rapporto della cultura del nascente industrialesimo con il passato.

Da un lato essa sembra porsi l'obbiettivo di trasferire nel sistema industriale tutte le qualità dei sistemi produttivi precedenti, con particolare attenzione per l'artigianato, ma in realtà opera soltanto un trasferimento di forme sia nelle costruzioni di fabbriche gotiche o romaniche, sia nella produzione industriale di oggetti d'uso in stile.

Dall'altro essa tende a ipotizzare e sperimentare una convivenza sociale improntata a modelli superati dalla storia, nuovamente proposti come soluzione ai problemi della società industriale: l'ispirazione di origine corporativo-medievale che anima tutti i villaggi operai fa leva sulla nostalgia di un mondo dai ruoli definiti e immobili per fondare la nuova storia in un'età senza storia.

Bisogna comunque precisare che, al di là del ricorso a questo o a quel passato, ciò che distingue la cultura dell'industrialesimo, indipendentemente dagli esiti legati alle culture nazionali e alle loro diverse vicende e suggestioni, è il principio di un certo utilizzo del passato per affrontare i problemi del presente: un utilizzo fondato sull'azzeramento delle differenze qualitative di oggetti e immagini storiche, che diventano tutti merci.

La novità non risiede nel rivolgersi al passato per legittimare un ordine presente, ma nella “filosofia” di questa operazione, alla base della quale sta ormai il fatto che immagini, idee e oggetti recuperati dal passato sono prodotti e consumati come ogni altra merce. Ed essendo questo l'unico criterio di scelta, tutti gli elementi diventano intercambiabili: l'uno vale l'altro.

L'identificazione, diventata molto comune, dell'epoca industriale con la civiltà

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delle macchine è certamente fondata, ma tra gli infiniti esiti di questa monopolizzante presenza in ogni aspetto del lavoro e della vita sociale, due risultano interessanti agli effetti dell'archeologia industriale e della cultura dell'industrialesimo: la produzione in serie e dell’ambigua percezione del reale.

Solo con la macchina, infatti, si può affermare la produzione in serie e di massa di merci: dall'oggetto di uso comune e privato all'edificio, e addirittura all'opera d'arte per definizione unica e irriproducibile.

In termini di cultura tutti gli elementi pongono la questione della diversa percezione del reale a cui costringe la società industriale attraverso le sue innovazioni tecniche applicate su scala di massa: il problema che l'archeologia industriale, attraverso i suoi oggetti, ci sottopone è proprio quello di saper distinguere tra ciò che un'epoca dice di sé - delle sue aspirazioni e di ciò che vuole apparire - e ciò che essa è.

1.4 D A A RCHEOLOGIA A P ATRIMONIO I NDUSTRIALE

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Archeologo e progettista si sono spesso incontrati nella storia dell'architettura.

Da una parte risulta evidente la comune ricerca del principio, dell'arché:

leggere insieme la forma e la stratigrafia dell'opera consumata dal tempo o degradata dall'uso e cogliere di questi resti, di queste strutture ormai inabitate, le possibili virtualità nascoste, le diverse e necessarie realtà future; al punto da interpretare la rovina come un cantiere, un edificio che decadendo rivela le proprie regole figurative e costruttive.

Dall'altra parte, la consapevolezza delle stratificazioni può produrre una sorta di cristallizzazione dei valori dell'opera: la ricerca e l'indagine si confrontano con le tracce, e devono diventare uno strumento per leggere i possibili modi di formazione e futura trasformazione dell'opera. Una "tradizione moderna", che ha saputo imparare dall'architettura industriale, ha via via lasciato il campo a un'articolazione delle conoscenze che spesso è apparsa come una frammentazione: la composizione e il restauro, la storia e il progetto, lo studio degli elementi costruttivi e la tecnologia.

1 Costruire in laterizio 105, maggio-giugno 2005

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“La congiunzione è diventata una distinzione”. Il filtro conoscitivo dell'archeologia, applicato al patrimonio industriale, rivela una sorta di archeologia dei saperi coinvolti nella riqualificazione degli edifici, permettendo di mettere alla prova le conoscenze consolidate all'interno delle singole discipline, definendone i limiti e tentando nuove relazioni cognitive tra le stesse.

L'architettura industriale assume infatti il ruolo di veicolo di altri significati nell'ambito delle ricerche compiute nell'Ottocento e Novecento da quei pionieri che inaugurano o caratterizzano il Movimento moderno.

La città come regno del lavoro, la fabbrica come tempio sociale, il mito della purezza geometrica degli edifici industriali sono solo alcuni esempi di questi fenomeni di mutazione del significato, che avvengono spesso associando al paesaggio industriale un carattere archeologico, legato a civiltà antiche, come è evidenziato negli appunti di viaggio di Schinkel in Gran Bretagna (1826).

La città come regno del lavoro è alla base della concezione fortemente unitaria che scaturisce da Une Cité industrielle, étude pour la construction des villes di Garnier (1901-1917). Gli altoforni, dietro ai quali si stagliano le montagne e le dighe di un territorio trasformato dalla mano dell'uomo, inseriscono nel paesaggio una nuova classicità dei luoghi del lavoro, dove anche gli elementi funzionali hanno una propria specifica dignità architettonica: la selva di ciminiere, trattate come semplificate colonne rastremate.

La fabbrica come tempio sociale è chiamata a riflettere, in quanto oggetto urbano, il proprio potenziale ordinatore sulla città. La AEG Turbinenfabrik, realizzata da Behrens a Berlino (1908-1909), esprime questa ricerca di un ordine nuovo, che si rivela nella forte denuncia degli elementi strutturali all'esterno dell'edificio, raggiungendo per la prima volta un effetto monumentale nella composizione di un edificio a scheletro.

Infine il mito della purezza geometrica delle costruzioni industriali è uno dei principi sui quali si basa la teoria architettonica di Le Corbusier, rilevabile in alcuni passaggi importanti di uno dei testi fondativi dell'architettura moderna, Vers une Architecture (1923). Aldo Rossi conferma questa capacità associativa veicolata dall'architettura industriale, questa volontà di forma che talora supera le necessità funzionali: "Penso al faro e ai grandi camini conici del castello di Sintra in Portogallo, ai silos e alle ciminiere. Queste ultime sono le architetture più belle del nostro tempo anche se non è vero che non ripetano modelli d'architettura;

questa è una sciocchezza della critica moderna e modernista. L’uomo ha sempre

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costruito con un'intenzione estetica; e le grandi fabbriche, i docks, i magazzini, le ciminiere del periodo industriale avevano per modello anche la peggiore architettura parigina del periodo Beaux-Arts"

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. L'architettura del Movimento moderno ha dunque cavalcato le innovazioni tecnologiche e morfologiche così dirompenti negli edifici industriali di quegli anni, trasformando le nuove fabbriche nel manifesto di un periodo nuovo.

Allo stesso mondo anche a scala insediativa, l’architettura industriale appare fondata su codici morfologici che a loro volta si riflettono in complessi architettonici.

La serialità interna nella disposizione degli elementi compositivi determina in gran parte le forme della fabbrica; serialità che discende in molti casi dal ciclo produttivo, dalla necessità di standardizzare le tecniche costruttive e i componenti utilizzati.

A questa marcata serialità interna della fabbrica si contrappone, spesso, una evidente varietà esterna nelle dimensioni degli edifici e dei manufatti che costituiscono parte integrante del complesso industriale: essi sono spesso formati da un articolato apparato di infrastrutture, di diversa natura e ruolo, che permettono di accedere alle aree e agli edifici, di trasportare e movimentare le materie prime, i prodotti finiti e i residui di lavorazione, di stoccare e immagazzinare, di selezionare e ordinare. Strade, ponti, pensiline, passerelle, carri-ponte, nastri trasportatori, gru, torri piezometriche e di raffreddamento, ciminiere, camini, silos, sono solo parte di un variegato panorama di manufatti che popola i recinti industriali, non di rado caratterizzati da una progressiva saturazione e occupazione degli spazi vuoti interni, dentro ai quali non è sempre possibile discernere, se non tramite un'attenta lettura stratigrafica, le fasi di trasformazione avvenute. Questi spazi attorno agli edifici industriali, che si presentano come frammenti residuali e interstiziali, mostrano sovente una vocazione a essere trattati come spazi pubblici, a formare un continuum materiale e percettivo tra interno ed esterno, utilizzando lo strumento fertile, nella tradizione del progetto urbano, dello spazio di relazione per ripensare i vuoti tra le fabbriche; cortili e strade interne possono diventare piazze e gallerie urbane.

Un ulteriore codice morfologico è dato dalla dimensione di alcuni complessi industriali e delle proprie aree di pertinenza nel territorio. L'eccezionalità di queste dimensioni si riflette nell'altrettanto determinante valore di posizione che

2 Autobiografia scientifica, Aldo Rossi, ed. Pratiche, Parma 1999

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questi complessi detengono nell'ambito delle aree urbane di riferimento.

Se poniamo l’attenzione sull’organizzazione interna dell’edificio su può notare che, l'architettura industriale è leggibile tramite la ricorrenza di alcune figure. La navata, ad esempio, che nella fabbrica determina spesso la serialità dell'impianto architettonico, tendendo a innescare meccanismi di iterazione e variazione dimensionale, assurge nei progetti di riqualificazione al ruolo di spazio dominante, attraversato dai flussi dei percorsi, abitato dalle funzioni più rappresentative. Un ulteriore esempio è rappresentato dalla sala ipostila, che a differenza della navata non è uno spazio orientato, ma sottende una pluralità di flussi, una maggiore flessibilità degli usi, generata dalla necessità di prevedere diverse linee di lavorazione nell'ambito di uno stesso ciclo produttivo: essa assume, nei progetti di riqualificazione, il ruolo di tessuto connettivo, punteggiato da episodi spaziali interni che ne misurano la dimensione complessiva in rapporto all'intero edificio.

Vi sono inoltre altre figure, legate al movimento e al trasporto, come la torre e il ponte. Così come le ciminiere sono tra le figure più importanti del paesaggio industriale, e di ciò che di questo oggi rimane, ugualmente i nastri trasportatori, le passerelle, i carri da ponte e le gru formano, con altre straordinarie macchine del movimento, un immaginario che popola le menti degli architetti dalle soglie del Movimento Moderno alla contemporaneità e che si possono ricondurre alla figura del ponte. Spesso di tali figure rimane ben poco in molti complessi industriali dismessi od oggetto di interventi di riqualificazione, e quel poco che resta è privo di qualsiasi capacità di comunicare le relazioni che intercorrevano tra il frammento rimasto e il complesso di edifici scomparsi. E’ spesso assente una necessaria sensibilità, derivante da una reale comprensione, del ruolo delle infrastrutture e delle macchine nell'ambito del ciclo produttivo, che potrebbe prevedere il mantenimento di alcune tracce più significative, pur nell'ambito di spazi che assumano un significato nuovo dato dai nuovi usi.

Addizione e sottrazione, ma anche erosione, densificazione, destrutturazione, sovrapposizione: sono queste solo alcune delle possibili tecniche compositive che i progetti di architettura contemporanea dedicati alla riqualificazione del patrimonio industriale rivelano, e che sono a loro volta generate dal ricorso a figure, tramite le quali è possibile leggere la corrispondenza tra storia dell'edificio e programma di trasformazione, tra forma e contenuto, tra rappresentazione e significato.

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