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Questo luogo comune è come una roccia instabile

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Academic year: 2021

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103 Capitolo Terzo

L’UOMO E LA MINORITÀ.

I LUOGHI COMUNI CELANO RELAZIONI DI POTERE

«Un buon film è meglio di un brutto lavoro teatrale. Questo luogo comune è come una roccia instabile; se la si alza rivela il marciume e i parassiti al di sotto. Si tratta di un Robinsonismo, ovvero di una deduzione che scaturisce da un’ipotesi di isolamento totale, applicata alla realtà in cui non vi è isolamento.

Allo stesso modo si dice: «meglio una donna brutta e ignobile piuttosto che la masturbazione» […] «meglio un’allucinazione allettante che una realtà orribile». La fallacia fondamentale di queste affermazioni consiste nel presupporre una coercizione alla scelta, che non esiste».

ELÉMIRE ZOLLA, Eclissi dell’intellettuale

«La vecchia città meccanica, congestionata, inquinata, interessa molti come esperienza psichedelica. Il rinnovamento urbano è una macroforma di chirurgia, resa possibile dall’anestesia degli urbanisti e dal bombardamento della pubblicità che intorpidisce ogni forma di coscienza. I clichè dell’anestesia pubblica preparano il paziente per l’intervento chirurgico dei demolitori e dei costruttori. I clichè dell’anestesia messi in risalto dai mass media permettono lo smantellamento, la rimozione e il trapianto della psiche e della popolazione nella nuova terra desolata o città».

MARSHALL MCLUHAN, Dal clichè all’archetipo, L’uomo tecnologico nel villaggio globale.

1. Come pensano i luoghi comuni: Mary Douglas e l’uomo sociale

Dopo quanto si è detto, a questo punto dovrebbe essere chiaro che i luoghi comuni, sia come mezzi sia come vesti, per un motivo o per l’altro, sono parte dell’essenza umana, coinvolgendo anche coloro che decisamente si ritengono immuni e senza risparmiare l’uomo che tenta di comprendere il mondo che lo circonda e si sforza di risolvere gli enigmi della sua nascita, di sé e dell’altro, del cielo sopra di lui, delle passioni e delle forze che lo

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dominano. C’è una questione preziosissima che ho lasciato in sospeso per tentare ora di completarne il ritratto: non più il come sia, ma il perché esiste il luogo comune e perchè è così forte da essersi imposto come ovvio e naturale, così energico da penetrare sottilmente anche tra le pieghe di un cervello che vuole indagare. Perché i luoghi comuni non muoiono mai? Com’è possibile per un’opinione o un potere naturalizzarsi fino al punto di diventare comandamenti, guide o chiavi di accesso all’altro?

Per rispondere a questi interrogativi si può fare ora uno scambio, effettuare una sorta di sdoppiamento: cioè mettere noi stessi, noi esseri umani, di fronte all’obiettivo, sull’altra sponda, e cominciare ad analizzarci anche con l’apporto del luogo comune stesso, cioè con quel suo proprio modo di guardare e operare. E per fare questo entrano in gioco due visioni specifiche dell’uomo e del suo pensiero che procedono di pari passo fino ad un certo punto ma poi divergono. Da un lato l’uomo come creatura mai autenticamente e individualmente libera, e dall’altro un uomo che, ad un certo momento della storia, può raggiungere un’autonomia. Ed è esattamente in quel punto di allontanamento che si determina quanta potenza eserciterà il luogo comune. Mi sto riferendo al pensiero di Mary Douglas e di Immanuel Kant. Mary Douglas descrive un uomo che Immanuel Kant definirebbe abitante di uno stato di minorità e ciò su cui la Douglas non si interroga è il modo per ‘accompagnarlo all’uscita’. Perché per la Douglas, anche il più elementare processo cognitivo degli individui dipende dalle istituzioni sociali e sempre ne dipenderà; per Kant, invece, l’incapacità di servirsi del

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proprio intelletto senza la guida di un altro, stato di cui ne è colpevole, è una minorità che l’uomo potrà essere in grado di superare.

In Come pensano le istituzioni1 colpisce il fatto che vengano analizzati come maggiormente interessanti e significativi gli aspetti più usuali e scontati della vita quotidiana, il che combacia con la mia idea riguardo al luogo comune.

Invero, con esso, e nella sua quotidianità e diffusione, si dischiudono epocali tematiche e vecchi interrogativi. Bastano le leggi della logica, basta l’esperienza soggettiva, basta la ragione ad arrestare l’influenza di un potere?

Per la Douglas non è solo il contenuto del pensiero ad essere influenzato ma il modo di funzionare stesso delle menti individuali. In un luogo comune, quindi, vi sono ingranaggi in assenza dei quali il senso della realtà e dell’altro crollerebbe, come un epoché senza seguito. Se lo si immagina nella forma di un sistema di dominio totalitario orwelliano2 ci spaventeremmo, ma non è proprio così. L’influenza di cui parla la Douglas è un’autorità, in altre parole “un’obbedienza nella quale gli uomini rimangono liberi”3, o meglio, si sentono liberi. Il luogo comune riesce ad attecchire nel terreno dei pensieri e

1 Douglas, M., How Institutions think, 1986-87; tr. it., Giglioli P. P. e Caprioli C., Come pensano le istituzioni, Bologna, il Mulino 1990. Alle domande presentate, si risponderà andando più in là dei confini della sua ricerca. Mary Douglas non accompagna l’uomo all’uscita perché propone una spiegazione a posteriori sul funzionamento delle istituzioni senza chiedersi, ad esempio, perché sono venute ad essere.

2 Orwell G, Nineteen Eighty-Four, Londra, 1948; tr. it, 1984, a cura di Baldini G., Milano, Mondadori 1989. Quando Syme, parlando della lingua del futuro ne contrappone le finalità:

p. 56. “Non hai ancora capito bene che cos’è la Neo-Lingua, caro Winston […] non ti accorgi che il suo principale intento consiste proprio nel semplificare al massimo le possibilità del pensiero? Giunti che saremo alla fine, renderemo il delitto di pensiero, ovvero lo psico-reato, del tutto impossibile perché non ci saranno più parole per esprimerlo. Ognuna delle idee che sarà necessaria verrà espressa esattamente da un’“unica” parola, il cui significato sarà rigorosamente definito, mentre tutti gli altri significati sussidiari verranno aboliti e dimenticati […] ogni anno ci saranno meno parole, e la possibilità di pensare sarà sempre più ridotta”.

3 Arendt H., Between Past and Future: Six Exercises in Political Thought, New York, 1961; tr. it., Che cos’è l’autorità, in Tra passato e futuro, Garzanti, Milano, 1991, p. 147.

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dei suoi meccanismi, perché noi non siamo in grado di cogliere il processo di naturalizzazione che ha subito in quanto esso si presenta, da sempre, come qualcosa di innocuo, che non ha ripercussioni ma anzi ci aiuta a lanciare un filo, visto che non ne vediamo altri da lanciare, tra noi e gli altri, tra noi e il consorzio umano nel quale vogliamo ‘buttarci’. La sicurezza, la strada liscia senza inciampi, è una ‘trappola’ che ci costruiamo da soli? Se sì, perché?

Douglas accenna solamente una risposta: nelle crisi e in risposta a difficili domande, gli individui non riescono a prendere da soli delle decisioni e spesso lo fanno fare alle istituzioni. Più precisamente, gli uomini s’illudono di poter rispondere, ma il pensiero istituzionale è già presente nelle loro menti e risponde al bisogno di ordine e di avere sotto controllo la vita4. Non si può trascurare il fatto però che parlare di luoghi comuni significa guardare ad un uomo che vive in una comunità dove sono inevitabili scambi e condivisioni di valori. Dal luogo comune si scorge all’orizzonte l’uomo sociale e penso che per l’uomo sociale il luogo comune possa divenire un’istituzione vera e propria poiché ne possiede tutte le caratteristiche.

“Invece di usare le credenze per spiegare la società, si usa la società per spiegare le credenze”5; invece di spiegare l’uomo attraverso i luoghi comuni,

4 Si noti l’influenza di Émile Durkheim, Les Règles de la Méthode Sociologique (1895), Paris, Presses Universitaires de France, 195613 ; tr. it., a cura di Antimo Negri, Le regole del metodo sociologico, Firenze, G. C. Santoni, 1962, p. 22. “Nello stesso tempo che le istituzioni ci si impongono, noi vi ci adeguiamo. Esse ci obbligano e noi le amiamo; esse ci costringono e noi troviamo il nostro tornaconto nel loro funzionamento e in questa stessa costrizione […]. La pressione esercitata da uno o più corpi su altri corpi o anche su delle volontà non può essere confusa con quella che esercita la coscienza di un gruppo sulla coscienza dei suoi membri.

Ciò che ha di interamente speciale è che essa è dovuta, non alla rigidità di certe composizioni molecolari, ma al prestigio di cui sono investite certe rappresentazioni. È vero che le abitudini individuali o ereditarie hanno, sotto certi aspetti, questa medesima proprietà. Esse ci dominano, ci impongono delle credenze o delle pratiche. Solo che esse ci dominano dall’interno, giacché sono interamente in ciascuno di noi”.

5 Come pensano le istituzioni, op. cit. p. 75.

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qui vorrei servirmi dell’uomo stesso (e comprenderlo) per spiegare i luoghi comuni. Che cosa accade? Affinché si dia e affinché sopravviva una società,

“i membri iniziano a camminare insieme lungo un sentiero che termina con la costruzione collettiva di uno stile di pensiero […]. Certamente tutto ciò include anche elementi sgradevoli […]. Il fatto che la produzione dello stile di pensiero sia collettiva nasconde a ogni membro del mondo di pensiero, le conseguenze delle sue azioni”6. Il luogo comune è un sotto-mondo di questo

‘mondo di pensiero’. Se, conformemente allo spirito douglasiano, pensiamo alla mente come se fosse un microcosmo della società e supposto che il consolidamento di un’idea è un processo sociale, allora il consolidamento di un luogo comune è cognitivo e sociale. Ecco dove possiamo cercare la sua legittimità. Se c’è interesse comune per una regola, un’idea, una guida che garantisca coordinazione ed organizzazione in nome di una crescita collettiva, si cerca di non violarla, di adeguarsi ad essa. L’esperienza passata viene mutata in regole che fanno da guida per il futuro: “Quanto più pienamente le istituzioni codificano le aspettative, tanto più controllano l’incertezza, con l’ulteriore effetto che il comportamento tende a conformarsi alla matrice istituzionale: se questo grado di coordinazione viene raggiunto, il disordine e la confusione spariscono”7. Ritengo che il luogo comune nasca in questo processo ma ne costituisca un po’ la deviazione, cioè quell’effetto

‘sgradevole’ di cui parla Douglas. Quello che accade è che l’esperienza passata, le aspettative, diversamente, vengono incastonate in regole,

6 Ivi, p. 76.

7 Ivi, pp. 81, 82, citando A. Shotter, The economic theory of social istitutions, Cambridge, Cambridge University Press, 1981.

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affermazioni, modi di vivere che tendono o ad un’enfatica semplificazione, o ad una grossolana generalizzazione o, infine, ad una uniformizzazione che impoverisce. E, come riconosce la Douglas, se quell’interesse comune legittima anche le istituzioni più fragili, di conseguenza, si legittimano altresì i luoghi comuni. E non solo.

In nome di queste regole e congiuntamente all’interesse collettivo, a ogni pensiero e comportamento che dovesse minare alla solidità della cooperazione e della comunità, si applicherebbero delle pene. Certamente, e non sottoforma di sanzioni vere e proprie, accade questo anche per il luogo comune. Ma come?

Una volta che esso viene legittimato, la nostra mente non cerca più una sua verifica. Anzi, la legittimazione è la prova assoluta della sua validità. Ciò che conta è che vi sia organizzazione, collaborazione e pianificazione della realtà.

Qualunque pensiero o comportamento metta in dubbio l’autorità di un luogo comune e ne sveli l’illusione prospettica, rischia doppiamente: se la messa in discussione o addirittura la squalifica avviene pubblicamente, si mette a repentaglio la vita sociale, saremmo bollati come infedeli ed emarginati; se riflettiamo sulla validità che ha per noi stessi e vogliamo farlo ritornare ad essere quello che veramente è, cioè semplice elemento ineliminabile del nostro bagaglio ma non più una guida, potremmo rischiare improvvisamente di sentirci smarriti, persi di fronte ad aspetti che dovremmo vagliare nuovamente. Rischiamo tempo, revochiamo le memorie e le certezze che ci facevano procedere con serenità.

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Un luogo comune è un’isola di pace che rassicura. Se poi, ‘saccheggiarla’ e subire le dure sanzioni che ne conseguono è il prezzo che consapevolmente accettiamo di pagare pur di riuscire ad avere in cambio quella ‘merce’ rara e preziosissima che è l’autonomia, l’autocoscienza, la libertà, è un’altra storia che, per ora, lascio in sospeso. Tuttavia sorge un dubbio: se fosse possibile, saremo adatti per l’autonomia? È possibile prevederlo, capire se dopo il rischio non ci ritroveremo in un mare burrascoso nel quale gestire la navigazione lontano dal porto sarà per noi impossibile?8

Faccio un semplice ragionamento. La ragione di un solo uomo è ‘limitata’

rispetto all’unione delle ragioni che potrebbe crearsi fra più uomini, nel senso che tale unione consentirebbe un’effettiva estensione dei limiti della loro capacità di gestire informazioni e fatti. Lo scambio reciproco di esperienze starebbe quindi alla base di questa estensione e dell’edificazione di dati, nozioni, idee, concezioni, saperi, dottrine, scienze ecc., che dovrebbero rispondere all’umano bisogno di certezza. L’unione, se è stabile, consente il dialogo e la vita di ognuno di noi tra gli altri. Ma cosa determina l’affermazione di un’idea o il suo competere con un’altra? Perché un sistema di conoscenza resta a galla mentre un altro affonda tra le onde del mare?

“La sopravvivenza dipende dall’avere abbastanza energia emotiva per continuare ad effettuare questa elementare impresa classificatoria che polarizza il mondo rendendolo coerente e praticabile. […] Perché

8 La metafora della navigazione lontano dal porto è comune, ma qui mi riferisco in particolare a mio padre Ceco che è solito usarla per parlare della vita a me e ai miei fratelli e motivare i ‘sì’ e i ‘no’.

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un’istituzione sia stabile, bisogna che, oltre a requisiti intellettuali, siano soddisfatti anche requisiti sociali necessari per classificare”9.

Ripropongo il ragionamento. La limitatezza di una sola ragione sta nella quantità delle informazioni che può raccogliere rispetto a più ragioni. Qui il termine limitatezza non è usato con connotazione sprezzante. Ma considerato che da questo processo unificante hanno origine anche i luoghi comuni, e considerate le loro peculiarità, nel momento in cui alla nostra ragione basterebbe solamente quel processo stesso a giustificare l’attecchimento di un’idea nello spazio delle verità incontestabili, allora ecco che la limitatezza della ragione si costruirebbe attorno a sé veri e propri limiti.

Insieme all’utilità essenziale del congiungimento e dell’interazione fra le ragioni, è indispensabile una perizia qualitativa dei dati raccolti per intercettare i luoghi comuni. Quello che rende ancora più ardua l’impresa della ragione è l’energia emotiva che il luogo comune stimola da un lato e ci fa risparmiare dall’altro, e che gli permette di perseverare nella sua impresa polarizzante. Anche in questo caso la negatività si dà quando l’emozione di conoscere, di avere sotto controllo le cose, di scambiare anche piacevoli chiacchiere con gli altri, maschera pregiudizi, cancella la bellezza delle sfumature, porta a opposizioni gerarchiche, fa prevalere un’idea a scapito di altre, solo perché appaiata ad una autorità riconosciuta dalla collettività.

I risvolti negativi di questo processo confermano che è realmente difficile, se non impossibile, per un essere umano intraprendere un indipendente lavoro

9 Douglas M., Come pensano le istituzioni, op. cit., pp. 101, 102.

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di classificazione e costruirsi solo con le proprie forze una visione del mondo. Stiamo all’interno di un ingranaggio per cui, insieme agli altri uomini, si costruiscono visioni e le si monumentalizzano, e contemporaneamente, ce le si ritrova dinnanzi e se ne subiscono di già fatte.

Se ogni epoca, ogni società, ogni cultura genera valori, modelli, regola le emozioni di coloro che ne fanno parte, se ogni uomo vive all’interno di questo circolo, allora è da questa inevitabile ‘miopia’ interna che si può avere maggiore comprensione del potere di un luogo comune.

Ritorna nuovamente una metafora dell’occhio. Prima il funzionamento, per il quale un punto di vista diveniva il punto di vista, ora la visione: l’occhio del luogo comune è un occhio miope. Che tipo di memoria si plasma dietro il lavoro di un occhio miope? Cosa archivia la nostra mente se le idee, i gesti, il rapporto con gli altri sono fondati su schemi che non lasciano spazio alle emozioni, alla curiosità, alla scoperta? Che ne è della memoria di ognuno se sopra di essa ne grava una che si pretende collettiva? E se si ribalta la domanda: che ne sarebbe della storia, degli avvenimenti, della nostra vita trascorsa, se non fossimo dotati di questa capacità di classificazione, polarizzazione, semplificazione, se non ci fossero mezzi per supplire alla limitatezza della nostra ragione? In questo, ancora, trova ossigeno un luogo comune per respirare e non morire?

Certamente, anche penetrando la memoria, è chiaro il doppio volto del luogo comune che riduce togliendo e aumenta riducendo. Riduce perché infila il mondo, ricco di differenze, in uno stretto vestito togliendo di mezzo gli ostacoli, gli aspetti e le domande che lo sformerebbero; aumenta perché

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lascia posare qualche raggio di luce laddove non arriviamo con le nostre gambe, laddove i nostri limiti non ce lo permettono (per esempio nella capacità di instaurare dialoghi o di accrescere le memorie del mondo) riducendo le diversità che creerebbero caos e disaccordo.

Allora, il luogo comune confermerebbe la tesi douglasiana per la quale le influenze sociali controllerebbero e modellerebbero le emozioni, il pensiero e quindi i ricordi di ogni singolo uomo. Ma dove dobbiamo guardare? Alla natura collettiva degli atteggiamenti o al processo di naturalizzazione per cui sarebbero, viceversa, le emozioni e i pensieri individuali ad essere istituzionalizzati in forme, guide, verità infallibili per tutti? È fattibile e ha senso distinguere queste due direzioni?

No. Sotto c’è una velata circolarità: un’emozione, un pensiero, un’opinione individuale si naturalizza e diviene luogo comune; il luogo comune opera distinzioni, generalizzazioni, classificazioni che determinano modi di pensare e agire collettivi; le azioni e i pensieri di ogni essere umano rafforzano i luoghi comuni.

“Fino ad ora gli uomini si sono sempre fatti idee false intorno a sé stessi, intorno a ciò che essi sono e devono essere. In base alle loro idee di Dio, dell’uomo normale, ecc. essi hanno regolato i loro rapporti. I parti della loro testa sono diventati più forti di loro. Essi, i creatori si sono inchinati di fronte alle loro creature. Liberiamoli dalle chimere, dalle idee, dai dogmi, dagli esseri prodotti dall’immaginazione, sotto il cui giogo essi languiscono.

Ribelliamoci contro questa dominazione di pensieri […] smascheriamo

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queste pecore che si credono lupi e che come tali vengono considerate”10. Il luogo comune avrebbe vita se non ci fosse una collettività? Se l’uomo politicus è l’uomo dei luoghi comuni, ha senso pensare ad una loro eliminazione?

2. L’identità e il peso storico del luogo comune

“Tutto ciò che è reale ha una natura definita che si impone, con la quale bisogna fare i conti e che, anche quando si giunge a neutralizzarla, non è mai completamente vinta. In fondo, proprio qui sta ciò che di più essenziale c’è nella costrizione sociale; ed invero tutto ciò che essa implica è che i modi collettivi di agire o di pensare hanno una realtà al di fuori degli individui che, ad ogni istante, vi si conformano. Sono cose che hanno un’esistenza propria, l’individuo le trova belle e fatte e non può fare in modo che esse non siano o siano diversamente da quelle che sono. Egli, dunque, è obbligatissimo a tenerne conto e gli è tanto più difficile (non diciamo impossibile) modificarle quanto più, a diversi livelli, esse partecipano della supremazia materiale e morale che la società ha su questi membri. Senza dubbio l’individuo gioca un ruolo nella loro genesi. Ma, perché ci sia fatto sociale, occorre che parecchi individui almeno abbiano messo insieme la loro azione e che questa combinazione abbia creato qualche nuovo prodotto. E, siccome questa sintesi ha luogo al di fuori di ciascuno di noi (poiché c’entra

10 Marx K., Engels F., Die deutsche Ideologie, Berlin, Dietz, 1845; tr. it., di Codino F., L’ideologia Tedesca, 1845-46, apparsa postuma nel 1932, in Marx K., Engels F., La concezione materialistica della storia, a cura di Merker, Roma, Editori Riuniti, 19982; il riferimento specifico è Marx K., Prefazione, 1846, p. 53.

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una pluralità di coscienze), il suo effetto è necessariamente quello di fissare, di istituire fuori di noi certi modi di agire e certi giudizi che non dipendono da nessuna volontà particolare presa isolatamente”11.

Ne Les regles si spiega bene il meccanismo di cui stavo parlando. I luoghi comuni, come modi di parlare, agire e pensare sono fatti sociali nella misura in cui sono modi di agire e di pensare collettivi e la loro coercizione deriva proprio dal fatto di essere sociali. Però c’è una risposta individuale a questa influenza sociale: “Dal fatto che le credenze e le pratiche sociali penetrano in noi così dal di fuori, non segue che le riceviamo passivamente e senza far subir loro modificazione. Pensando le istituzioni collettive, assimilandole in noi le individualizziamo, diamo più o meno loro la nostra personale impronta. È così che, pensando al mondo, ciascuno di noi lo colora a suo modo e che soggetti differenti si adattano differentemente ad un medesimo ambiente fisico. Ecco perché ciascuno si fa, in certa misura, la sua morale, la sua religione, la sua tecnica. Non c’è conformismo sociale che non comporti tutta una gamma di sfumature individuali. Ma (e lo sottolineiamo fortemente) ciò non toglie tuttavia che il campo delle variazioni permesse è limitato”12.

Il luogo comune si fa comune con la sintesi di più menti e si alimenta penetrandoci individualmente. La sfumatura individuale, sottile segno di personalità e di distacco, parvenza di autonomia13, è concessa, a mio avviso,

11 Durkheim É., Le regole del metodo sociologico, op. cit. p. 24.

12 Ivi, pp. 24, 25.

13 Espressione marxiana in La concezione materialistica della storia, op. cit. p. 63. Marx riconosce l’intreccio tra produzione delle idee, della coscienza e attività materiale degli uomini. Secondo Marx, i giovani hegeliani sbagliavano nel credere che fosse “la coscienza a determinare la vita”, a credere che morale, religione, metafisica fossero qualcosa di

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dal luogo comune stesso per continuare a circolare, per camuffarsi e quindi fortificarsi, poiché in effetti i suoi confini, prima o poi, fermano i nostri passi.

Cosa si deduce, in poche parole, da tutto questo?

Si deduce che il luogo comune parla di un uomo sociale, con un determinato tipo di ricordi e un determinato tipo di identità, dimentico del fatto che idee, conoscenze, modi di comunicare e comportarsi, avevano radici umane ma che a causa della natura collettiva, percepisce come autorità al di fuori di sé, con un esistenza propria, a cui conformarsi come segno di identificazione, d’apertura a dialoghi o come limiti che determinano esclusioni. L’attenzione viene diretta qui o là e, non di meno, da questo dipenderanno scioglimenti o rafforzamenti di ricordi.

Il filtro del luogo comune modella lo sguardo collaborando con l’individualità e così facendo si rigenera nel tempo e nella storia senza fare rumore. È difficile revisionarlo poiché esso partecipa alla supremazia morale e materiale che la società ha sui suoi membri. I luoghi comuni effettuano per noi classificazioni facendoci perdere un certo grado di indipendenza e costringendoci ad assumere individualmente responsabilità che ci attribuiamo però reciprocamente. Interagendo, accade che stabiliamo qual è il pensiero giusto e deploriamo quello sbagliato. Così comprimiamo le nostre idee in una forma comune in modo da dimostrare la loro correttezza con la superiorità numerica delle volontà concordi. Kant, che aspira

autonomo rispetto agli uomini, qualcosa che discendesse su di loro a determinare la loro vita. L’errore stava nel non riconoscere la base umana e credere che la coscienza fosse qualcosa di diverso dall’essere cosciente. Qui, con parvenza d’autonomia mi riferisco all’intreccio tra pensiero individuale e coscienza collettiva. L’individuo, cioè, dimentica la vera origine dei luoghi comuni e la parvenza di autonomia altro non è che una sorta di

’escamotage’ della specifica coscienza collettiva del luogo comune per riuscire meglio ad imporsi.

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all’indipendenza intellettuale dell’uomo, sarebbe disgustato dall’idea di un’‘unica mente’.

Perché un cantante occupa i primi posti delle classifiche musicali o un leader diventa tanto influente da vincere le elezioni, senza che il loro clamoroso successo si possa collegare a reali doti o competenze? Perché le loro voci non sono altro che un’imitazione, cioè il rimbombo di ciò che sta sulla bocca di tutti, uno strumento passivo, “una delle tante zampogne attraverso le quali lo spirito del tempo fa risuonare la propria melodia”14. È impossibile non riconoscere il clamoroso successo dei luoghi comuni che si generarono e si generano dal legame con i mutamenti d’opinione delle epoche; così come è impossibile negarne la realtà e la loro facile autorità morale.

Il luogo comune crea identità anche perché orienta la memoria e dirige le percezioni verso alcune cose e non altre, affinché restino compatibili con il suo contenuto; quindi si perde la dinamicità delle emozioni, dei pensieri, delle conoscenze. Il luogo comune vuole un mondo più statico per averne il controllo, e la mente vede se stessa e il mondo più statici di quello che sono.

E c’è un aspetto considerevole da non sottovalutare: il successo, l’autorità, la supremazia di un luogo comune è direttamente proporzionale al suo attecchimento nella mente dell’uomo, cioè alla sua interiorizzazione. Sarebbe a dire, focaultianamente, che il potere conserva la sua forza perché trova in noi una presa. Se c’è efficacia è perché il luogo comune funziona anche dove si sta mirando, per chi lo ascolta o lo vede15; per cui proviene dal e si riversa unicamente nel suo stesso territorio. È una costante auto-referenza che

14 Douglas M., Come pensano le istituzioni, op. cit., p. 141.

15 Ritorna ciò che si è detto nel capitolo primo, par. 4.

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conseguentemente stabilisce identità non-comuni: quella del dubbioso, dell’incoerente, del ribelle, del diverso che vuole minare il luogo con un’altra prospettiva, con altri confini, con il suo disturbo.

Il ‘seccatore’, a sua volta, che potrebbe non curarsi di essere ritenuto tale, deve riconoscere, però, il potere di distinzione del luogo comune, al di là della validità del suo contenuto, e accettare che per esso c’è annientamento. Il luogo comune è eterno. Non riconoscerlo come reale sarebbe non riconoscere uno dei processi più semplici e funzionanti che unificano separando e separano unificando l’umanità. È impossibile rifiutare la sua benché minima autorità. E come ogni potere che si rispetti, esso ha caratteristiche, mezzi, scopi e conseguenze che restano, come dicevo, nascosti se non invisibili. Con l’intromissione della domanda, del dubbio che mette in discussione, l’azione del luogo comune varia di intensità e la sua colonizzazione può essere contenuta, ma non verrà bloccata mai la sua mappatura identificativa tra gli uomini.

Voglio fare un ultimo riferimento alla trattazione di Mary Douglas per esaminare più approfonditamente quel funzionamento che, la maggior parte delle volte, riesce a rendersi invisibile agli occhi umani, anche per mezzo della presunzione stessa dei luoghi comuni a sentirsi lucidi e presenti sui problemi che riguardano la vita. C’è un grave errore che si può commettere:

credere che i luoghi comuni si fermino a livelli bassi, quotidiani, di stupidi scambi comunicativi fini a se stessi, che la ragione resti libera di farsi carico di questioni decisive nel momento in cui ce n’è bisogno e ‘concedere’, quindi, la presenza dei luoghi comuni senza troppo problematizzare perché, intesi in

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questo modo, essi non cambiano la vita. Ma non è così. L’individuo, affaccendato dalla quotidianità e preso dai dettagli della vita, talvolta rilega ai luoghi comuni le decisioni più importanti16. Fare proprie le idee che i politici siano tutti corrotti, i meridionali mafiosi, gli extracomunitari pericolosi, che bisogna possedere una bella vettura o un occhiale firmato, che concedersi sia aprire le porte al futuro, che i bei tempi siano andati, farebbe risparmiare tempo, quello necessario ad una corretta riflessione e eviterebbe l’ansia della ricerca di altre strade.

Come riescono i luoghi comuni a stabilizzarsi fino al punto di divenire guida o, di più, ‘incarnazione’ degli interessi generali in epoche e circostanze diverse? “Ogni istituzione che vuole conservare la propria forma deve venire legittimata da una fondazione specifica nella natura e nella ragione. Su questa base trasmette ai propri membri un insieme di analogie per esplorare il mondo”17. Il luogo comune, grazie al processo di naturalizzazione che coinvolge la ragione degli uomini, trova entrambe queste basi ed è in grado di conservare una propria forma identificabile e permanente. Così imposta il controllo dell’attenzione e della memoria dei suoi ‘abitanti’, fa dimenticare loro le esperienze contrastanti il suo contenuto e fa ricordare invece gli eventi o le caratteristiche che sono compatibili con esso. Come non rilevare che si va ben oltre livelli bassi, chiacchiere fini a se stesse, ben oltre eventi irrilevanti che non incidono sui nostri giorni? Il luogo comune “fornisce categorie di pensiero, fissa i confini dell’autocoscienza e definisce identità”18.

16 Cfr. Le istituzioni prendono decisioni di vita e di morte, op. cit. p. 167.

17 Ivi, p. 168.

18 Ivi, p. 169.

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Penso che anche determinati passaggi storici siano dipesi dal comportamento di uomini che interiorizzarono modelli di azione e di pensiero ritenendoli naturali e validi nonostante nuovi scenari e sconosciute eccezioni. Se un uomo fosse stato eletto primo ministro perché la sua vita rispondeva ad un modello di self-made man, nonostante la sua ignoranza politica, la sua corruttibilità; o se si fosse dato inizio ad una guerra giustificandola con la paura di essere sotto l’attacco di un popolo nemico della democrazia, senza capire cosa si intenda per democrazia e per nemico, come non convincersi allora che sotto tutti gli strati non riposi il germe del luogo comune? Come rinnegare che da esso possano venir partoriti eventi che cambiano la storia? È cosi estremo pensarlo? Se anche le opinioni morali vengono plasmate da e su modelli naturalizzati ed è raro che un individuo scelga una posizione morale su base individuale; e se, ad esempio, “la storia dimostra che le carestie non aboliscono automaticamente le convenzioni e non segnano l’avvento di una sorta di legge naturale dell’uguaglianza dei diritti”19, allora il luogo comune fa scattare la domanda dei filosofi morali: agire valutando le conseguenze delle nostre azioni o fare ciò che è universalmente giusto?

Mi sto muovendo in profondità e non sulla superficie dove le cose accadono e passano. Essere un luogo comune descrive un individuo legato ad altri non solo semplicemente perché ne professa gli stessi sentimenti, perché calpesta lo stesso sentiero o persegue gli stessi scopi, ma soprattutto perché egli è quei sentimenti, quel sentiero, quegli scopi. Non si tratta di un puro bagaglio condiviso.

19 Ibidem.

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Chi abita luoghi comuni ha un’identità definita dal luogo comune di cui fa parte, non dalla normale relazione di un individuo con gli altri membri di una comunità. C’è un vero e proprio attaccamento, una dipendenza che diventa costitutiva dell’identità.

3. Una parvenza di libertà: il luogo comune e le scelte pronte all’uso

Che tipo di scelte fanno gli abitanti di luoghi comuni? È corretto parlare di scelte? Per meglio afferrare il punto, bisogna guardare ad entrambe le dimensioni, cioè all’interno del luogo comune e dentro la mente dell’uomo che lo abita.

Dentro al luogo comune ci sono scelte da fare, ma esse riguardano principi e soluzioni già pronti per l’uso. La mente dell’uomo che lo abita crede di scoprire una sua identità proprio attraverso quel tipo di scelta. Egli cioè percepisce la libertà in quel ventaglio ‘finito’ di scelte, senza percepirne però una dipendenza. Non c’è spazio per la costruzione di condizioni che effettivamente consentano scelte. Esse vengono fornite. Non solo. Talvolta la coercizione del luogo comune non impedisce di fare o di dire, ma, curiosamente, ‘obbliga’ a fare o a dire, perpetuando il potere impercettibile di determinare esperienze, coscienze, memorie e persino ambiti morali.

Lo si può considerare come una propagazione specifica o una sottoforma di comunità, un ‘mondo pensato’, per servirsi di un’espressione durkheimiana, manifestato in uno stile di pensiero distinto, che penetra la mente dei suoi membri e prende decisioni. Si è certamente lontani dalla concezione di un

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uomo che si interroga, che cerca di scoprire la propria via e i propri obiettivi.

L’uomo dei luoghi comuni è quell’uomo che resta nella caverna platonica.

Mary Douglas non si chiede come sarà in grado di uscire poiché l’uomo non è altro che ‘gli uomini nel loro insieme’ che condividono pensieri e armonizzano preferenze; e la società è un insieme di menti che stabilisce i confini di ciò che è o non è pensabile ed è il cosmo nel quale gli uomini vivono e ricevono risposte ai loro interrogativi. Colui che pensa per luoghi comuni non è quindi sovrano delle sue idee, ma muovendosi in quei ‘confini’

continua a sentirsi autonomo.

I luoghi comuni come fatti sociali drammatizzano il punto di vista douglasiano: il prezzo da pagare per pensare sembrerebbe una reciproca colonizzazione delle menti. Il luogo comune diviene un’entità dotata di super poteri che esiste al di fuori delle coscienze individuali, perché la nostra mente non ricerca più la loro vera origine; il luogo comune pretende rispetto dall’individuo il quale, facendo altrimenti, subirebbe un’esclusione sociale.

Eppure non si è forse conosciuto anche un uomo diverso da questo? Non abbiamo sentito parlare di uomini in grado di uscire dal buio della minorità, di raggiungere la bocca assolata della caverna, di frantumare la crosta delle convenzioni sociali, in un preciso momento della loro vita e della storia? E il luogo comune dove si colloca in queste visioni? È appropriato collegarcene quando si parla di libertà e autonomia?

Bisogna capire in che senso l’uomo possa essere definito libero o autonomo e se possa esserlo davvero di fronte all’esistenza eterna del luogo comune e alla sua indubbia potenza di infiltrarsi nei pensieri e nelle membra umane.

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Non è forse proprio esso, in entrambe le sue forme, che impedirà in ultimo di dichiararci uomini dai ragionamenti e dai comportamenti veramente liberi?

Se il luogo comune è tutto quanto è stato detto finora, lo si comprende o meno nella liberazione? Dice Hume, e in questo si mostra vicino alla Douglas: “Diamo uno sguardo molto generale e rapido al corso ordinario delle faccende umane. Quale che sia la prospettiva in cui le vediamo, il nostro principio ne verrà sempre confermato. Sia che noi consideriamo l’umanità tenendo conto delle differenze di sesso, oppure di età, di governo, di condizioni o di metodi educativi, rintracceremo sempre la stessa uniformità e la stessa azione regolare dei principi naturali […] Il mutare del nostro corpo dall’infanzia alla vecchiaia è forse più regolare e certo del mutare della nostra mente e del nostro comportamento? Dobbiamo certamente ammettere che la coesione tra le parti della materia deriva da principi naturali e necessari, qualsiasi possa poi essere la difficoltà che incontriamo nel renderne conto. Per una ragione simile dobbiamo ammettere che la società umana si fonda su principi analoghi […] infatti osserviamo che gli uomini cercano sempre di vivere in società […], le differenti condizioni di vita conseguono necessariamente, in quanto uniformemente, dai principi uniformi e necessari della natura umana. Gli uomini non possono vivere senza società”20. Eppure anche Hume riconosce la possibilità che qualcuno possa mettere in dubbio quella uniformità delle azioni umane su cui fonda la sua tesi. Infatti “cosa c’è di più capriccioso delle azioni umane? Cosa c’è di

20 Hume D., Libertà e necessità, in Trattato sulla natura umana. Un tentativo di introdurre il metodo sperimentale di ragionamento negli argomenti morali, Sezione I, Parte IIIA, Libro II, in Opere Filosofiche, Vol. I, Editori Laterza, Bari, 1971; pp. 421, 422.

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più incostante dei desideri degli uomini? E quale creatura si allontana maggiormente non solo dalla retta ragione ma anche dal suo stesso carattere e dalle proprie disposizioni? […] il comportamento umano è irregolare e incerto. […] Ma un’unica esperienza contraria non deve annullare completamente tutto il nostro ragionamento […] il caso e l’indifferenza stanno solo nel nostro giudizio, data l’imperfezione della nostra conoscenza e non nelle cose stesse che restano comunque necessarie anche se all’apparenza non sono egualmente costanti e certe […] questa unione tra motivi e azioni ha altresì la medesima influenza sull’intelletto determinandoci a inferire l’esistenza di una cosa dall’esistenza di un’altra”21. Le parole di Hume sull’uniformità e sull’azione regolare che ritmano le faccende umane sono pienamente confermate dai luoghi comuni. Anzi, in questo caso la tesi viene aggravata poiché non verrebbero coinvolti solo i comportamenti, ma persino il nostro giudizio.

Il luogo comune conferma la tendenza degli uomini a voler vivere in società e conferma l’imperfezione della nostra conoscenza in quanto causa dell’uniformità e della prevedibilità del nostro giudizio. Il luogo comune pare non lasciare spazio nemmeno ai capricci e pare annullare i desideri degli uomini, non perché li annienti, ma perché li spinge all’uniformizzazione. Fino a che punto essi sono desideri?

È difficile ammettere, anzi sentire di essere stati influenzati da prospettive o motivi che ci hanno fatto agire in quel modo impedendoci di pensarne ad uno alternativo. È difficile perché nella maggior parte dei casi quella

21Ivi, p. 423.

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‘violenza’, quella ‘costrizione’ che riduce la libertà, non viene nemmeno avvertita. Ritorna l’invisibilità di cui si era parlato.

Dall’interno di un luogo comune si percepisce libertà, ma è una facciata di libertà, ciò che Hume definisce come indifferenza in cui “una falsa sensazione o una falsa esperienza viene considerata come prova della sua esistenza reale”22. La libertà esiste nella mente che abita luoghi comuni. Se la necessità è una qualità presente in ogni creatura, se il pensiero di ogni creatura fosse determinato a inferire l’esistenza dell’azione da oggetti che lo precedono, se al massimo “possiamo immaginarci di essere liberi dentro di noi”, il luogo comune è testimone di questa dinamica poiché l’immaginazione di libertà si fonda su false sensazioni dovute al funzionamento del luogo comune stesso, il quale si propone non solo come solida sensazione ed esperienza, bensì come verità che ci soccorre. Il luogo comune ha la pretesa di dedurre esattamente gesti o azioni dalla sola conoscenza di motivi o caratteri, di indoli o inclinazioni.

Allora ancora una volta mi domando: cosa consente la sua vita e la sua permanenza? Dove scavare per rintracciare i suoi perché? È la socialità dell’uomo, la necessità che costituisce ogni faccenda umana, la ragione o l’istinto di sopravvivenza? È il bisogno di protezione, in quanto semplicemente esseri umani, nei confronti di una realtà complessa che non riusciremo mai a fare nostra? Ci si deve interrogare su come sia possibile, se mai lo sarà, liberarsi dai luoghi comuni e non ritrovarsene più vittime, se è corretto definirsi vittime nel caso in cui non si riesca ad estirparli o se c’è

22 Ivi, p. 428.

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invece qualcosa di più, tale da dover usare altre parole per definire il rapporto con essi.

4. Kant. L’anti-luogo comune e la promessa di uscita

All’inizio di questo capitolo ho parlato di due visioni dell’uomo. Accanto a quella per cui mai sarà in grado di essere solo e libero per quello che la sua essenza o la sua socialità comportano, c’è una visione che prevede un’occasione per l’uomo di raggiungimento di un’autonomia, di un affrancamento da guide o falsi fari. Questa visione con possibile ‘finale alternativo’ è la visione di Kant e in essa il luogo comune si colloca, secondo me, in ciò che il filosofo chiama stato di minorità da cui l’essere umano dovrebbe uscire con le proprie forze. Il luogo comune è un esempio nello stato di minorità, una delle regioni dello stato di minorità, un luogo di minorità e l’illuminismo rappresenterebbe l’uscita da esso e l’assunzione della consapevolezza che davanti a noi si ergono fari con la pretesa di guidarci ma che tuttavia lo fanno sulla base di inesattezze, fari che anzi finirebbero addirittura per accecarci.

La risposta di Kant alla domanda Was ist Aufklärung?23 definisce la minorità come l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro, da imputare a se stessi se la causa non dipende da difetto di intelligenza ma dalla mancanza di decisione e di coraggio di servirsi del proprio intelletto.

23 Kant I., Beantwortung der Frage: Was its Aufklärung? Rivista mensile di Berlino, 1784; tr. it., Nicolao Merker, Che cos’è l’Illuminismo? con altri tesi e risposte di Erhard, Forster, Hamann, Herder, Laukhard, Lessing, Mendelssohn, Riem, Schiller, Wedekind, Wieland; qui Kant (5 dicembre 1783 p. 516), Roma, Universale Idee Editori Riuniti, 1987; pp. 48, 49.

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Quello che si è detto fino ad ora del luogo comune non corrisponde forse a questo stato dove ci spostiamo guardando il mondo, le genti e gli eventi mancando del coraggio di rischiare, privi di quesiti, sicuri di quello che ci è stato trasmesso? La comodità che esso offre consente di risparmiare la fatica, il tempo e talvolta la noia del passare al setaccio i nostri bagagli, di evitare lo shock di una scoperta. Kant, come Flaubert o Bloy, punta il dito contro quei tutori che si assumono l’educazione-vigilanza della maggior parte degli uomini. I luoghi comuni, come ho già cercato di spiegare, non sono forse cristallizzazioni di opinioni, di idee legate al potere con lo scopo di sottomettere le genti, di affermazioni e gesti che avrebbero creato una comunità e quindi, con una forte rigidità, delle regole per convivere? Kant non sta forse puntando il dito anche verso di essi?

Considerando l’uomo, si deve considerare anche l’educazione che esso ha ricevuto e che a sua volta dovrebbe trasmettere. L’educazione, ‘congegnata’

da una socialità ma al tempo stesso una modalità per inserirsi in quella stessa socialità, viene sagomata inevitabilmente da chi se ne fa tutore. Costui, non in modo esplicito, può scoraggiare a imboccare nuove vie e invitare a seguire insegne arrugginite; un’educazione, invero, può far nascere in noi la paura di perdersi. Ma lo smarrimento non è la sola alternativa al cambiamento di rotta e non è necessariamente da scansare. Talvolta con il nomadismo si scoprono strade più brevi, nuove terre, talvolta si diventa più maturi e si acquisisce ulteriore forza24. Immaginiamo quanto possa essere difficile districarsi dalla

24 Sto utilizzando in varie occasioni la metafora della strada e dei percorsi, non a caso.

Desideravo ricordare i Luther Blisset e in particolare il loro libro “Totò, Peppino e la guerra psichica 2.0” (Torino, Einaudi, 2000). Luther Blisset è un nome collettivo che raggruppa da anni scrittori che lavorano per mettere in crisi ogni preconcetto e luogo comune sui media,

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minorità se viviamo di e da luogo comune, se su di noi esso influisce come istituzione e non ce ne rendiamo conto, se conformarci alla maggioranza degli uomini significa stringerci tra le mani la verità ma, di contro, non mettere alla prova il nostro intelletto e costringerci a zoppicare per l’eternità.

Kant ci pone di fronte all’uomo, al singolo uomo, che viene ‘istupidito come un animale domestico’, di quelli che fanno pipì sempre sullo stesso vaso, che non oltrepassano soli ‘le colonne di Ercole’ dell’appartamento ordinato in cui abitano al riparo dai mali della strada e dalla complessità di un ‘là fuori’

troppo sporco e caotico; uno di quegli animali che aspettano il guinzaglio o vanno soli a cercarselo quando sentono ‘aria di uscita’ e tirano da una parte all’altra, ma una volta sciolti si voltano a guardare il padrone ‘poiché non sono allenati a siffatti movimenti’. Eppure, per Kant, con l’educazione corretta del proprio spirito, ci è consentito un giorno acquisire sicurezza anche fuori dal luogo in cui ci siamo sempre mossi. Che cosa vuole dire? Che

sull’identità, contrari al copyright, alla figura dell’autore, che criticano il concetto di

‘Individuo’, che saccheggiano il patrimonio dei miti e degli archetipi comuni a tutte le società umane, ecc. Luther Blissett è un progetto, un ‘multi-use name’ (tecnica di comunicazione già sperimentata da alcune avanguardie estetiche nel corso del XX secolo) che chiunque può usare se ritiene di avere gli stessi obiettivi. E’, in particolare, al capitolo VII, dedicato al concetto di Psicogeografia (pag 142-171) quello a cui mi riferisco. La Psicogeografia come teoria secondo la quale una metropoli sarebbe in grado di controllarsi per evitare la sua deflagrazione; un controllo ottenuto con le direzioni dei flussi urbani, l’architettura stessa della città attraverso la rete dei semafori, la cartellonistica, la dislocazione delle cabine telefoniche ecc. Nella città, infatti, siamo spesso costretti, e spesso senza rendercene conto, ad una serie di passaggi obbligati che non permettono una vera coscienza del territorio. Saremmo cioè dentro un reticolo di traiettorie che ci dominano e ostacolano l’esplorazione autonoma. Per questo lo spaesamento, il Nomadismo Psicogeografico, lo studio delle leggi e degli effetti di un ambiente sugli individui è fondamentale per recuperare quella coscienza. La tecnica di esplorazione psicogeografica è la Deriva, cioè l’andare in giro senza meta o orario e scegliere il percorso man mano, non in base a ciò che sappiamo, ma in base a ciò che vediamo intorno. Gli Psicogeografi formulano addirittura nuove ipotesi cartografiche per l’interpretazione dello spazio urbano e l’individuazione delle ley-lines, cioè quegli allineamenti di edifici o luoghi, subiti inconsciamente che costringono agli stessi percorsi, a frequentare gli stessi posti e che sottraggono energia cognitiva per la ‘deriva’.

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è possibile distaccarci definitivamente anche dai luoghi comuni? La libertà di cui sta parlando Kant è una libertà che si attua con il “pubblico uso della propria ragione in tutti i campi perché esso solo può attuare il rischiaramento tra gli uomini”25.

Essa non porterebbe al depennamento dei luoghi comuni ma al raggiungimento di una dimensione in cui saremo capaci di manifestare apertamente il nostro pensiero sulla loro inesattezza o sulla loro infondatezza. Questo è ciò che accadrebbe. Se la conquista ottenuta attraverso l’educazione dello spirito consiste nell’aperta messa in discussione, nella rivelazione del nostro parere attorno ai luoghi comuni, nell’avervi a che fare senza ritrovarci vittime o sentirci emarginati, i luoghi comuni rimangono realtà con le quali convivremo sempre.

Dopo duecentoventiquattro anni, la sensazione rimane la stessa e cioè che la maggior parte degli uomini circoli ancora nel “girello per bambini”, in uno stato di minorità nonostante gli usi pubblici della ragione da parte di molti uomini. Perché?

Perché mi pare che a mostrarsi pubblicamente, e attraverso i mezzi ‘più pubblici’ coi quali si comunica, siano sempre più frequenti le ragioni dominate dai luoghi comuni e che esse riescano nei loro insegnamenti, tanto che il luogo comune, con tutte le caratteristiche raccolte finora, è divenuto pressoché una seconda natura per molti esseri umani, il simbolo ultimo dell’impossibile libertà umana: “Nessuna epoca può collettivamente impegnarsi con giuramento a porre l’epoca successiva in una condizione che

25 Kant, op. cit., p. 50.

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la metta nell’impossibilità di estendere le sue conoscenze (soprattutto se tanto necessarie), di liberarsi dagli errori e in generale di progredire nel rischiaramento. Ciò sarebbe un crimine contro la natura umana, la cui originaria destinazione consiste proprio in questo progredire; e quindi le generazioni successive sono perfettamente legittimate a respingere quelle convenzioni come non autorizzate ed empie”26.

Riconosco una sorta di progresso nella natura umana ma rimane al di fuori del luogo comune. In esso è come se quel giuramento si fosse compiuto. I suoi confini non si estendono, rimangono stabili e le menti accettano le convenzioni. Nel suo territorio si commettono spesso crimini contro l’umana natura: si uccidono domande, si fanno sparire conseguenze, si soffocano le sfumature o le si esagerano per perseguitarle. Raramente si punisce questi crimini perché raramente ne scorgiamo la pericolosità.

Allora cos’è l’uscita dalla minorità? “Che gli uomini presi in massa siano già in grado di, o anche solo possano essere in grado di valersi sicuramente e bene del loro intelletto […] senza la guida di altri, è una condizione da cui siamo ancora molto lontani. Ma che ad essi, adesso, sia comunque aperto il campo per lavorare ad emanciparsi verso tale stato, e che gli ostacoli alla diffusione del generale rischiaramento o all’uscita dalla minorità a poco a poco diminuiscano, di ciò noi abbiamo invece evidenti segni”27. Oggi, ci sono questi evidenti segni se guardiamo attorno a noi? Dopo così tanto tempo, per certi versi siamo ugualmente distanti dall’uso dell’intelletto senza guide

26 Ivi, p. 52.

27 Ivi, p. 54.

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altrui. Credo però altrettanto che quelle condizioni favorevoli per lavorare al raggiungimento dell’autonomia si siano anche moltiplicate.

Ma è soprattutto per questo che la presenza così forte dei luoghi comuni come guide dell’intelletto, rende tragica la situazione. Dove dobbiamo guardare per riconoscere un progresso? La politica, la televisione, i giornali non sono forse anch’essi popolati di luoghi comuni?

Se Kant si riferiva per lo più alla forma di minorità nelle cose di religione “fra tutte la più dannosa ed anche la più umiliante […] poiché riguardo alle arti e alle scienze, infatti, i nostri reggitori non hanno alcun interesse a esercitare la tutela sopra i loro sudditi”28, in cosa consiste quella libertà civile, così inneggiata e proclamata dall’Italia? In un ambito, come ad esempio quello artistico, che cos’è la libertà quando frequentare inaugurazioni o aggregarsi alle cene che ne seguono, viene prima delle proprie reali capacità, per riuscire a farsi spazio tra i critici? Non si dovrebbe essere ancora più arrabbiati e preoccupati per questo? La parola ‘critico’ non è un paradosso se gli artisti che presenta fanno cose così simili da non riuscire nemmeno a distinguerli? Dobbiamo aspettare ancora per non avere nessuna guida, per emanciparci dallo stato di minorità?

28 Ibidem.

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5. L’infinito complesso delle possibilità di vivere e i luoghi comuni come rovine della minorità

Le parole di Robert Musil, possibiliste quasi fino all’irrisolutezza, in riferimento alla moralità di Urlich, spiegano cosa dovremmo fare come singoli uomini: “La morale non era per lui né costrizione né saggezza, bensì l’infinito complesso delle possibilità di vivere”29. In ogni situazione che viviamo, in qualunque posto siamo e in ogni momento, oltre a ciò che stiamo per compiere o dire, oltre a ciò che pensiamo di conoscere, potrebbero sussistere altre infinite possibilità. È questo l’insegnamento della filosofia:

riconoscere l’infinito complesso delle possibilità di vivere è il primo passo per avvicinarsi a quella libertà che è libertà da ogni guida, ovvero non ancora o forse mai il possesso di una verità — perché restiamo esseri umani — ma almeno non schiavi di un potere che pretende di detenerla.

La realtà delle infinite possibilità implica prima di tutto che anche il nostro sguardo o il nostro gesto ne faccia parte. Implica controversie e le controversie rafforzano lo spirito di indagine. Così lo spirito di indagine, infine, indebolisce i luoghi comuni. Non sono le verità che le guide fanno credere di aver colto a condurre fuori dalla minorità, ma la loro continua e soggettiva ricerca, cioè la messa in discussione di ogni possibilità. Per affrontare i luoghi comuni, tra una verità che viene offerta e la sempre viva tensione della ricerca con il rischio di errare eternamente e sentirsi esclusi dalla maggioranza degli uomini, ci si dovrebbe allenare a scegliere sempre la

29 Musil R., Der Mann Ohne Eigenschaften, 1930-1943 (opera incompiuta); tr. it. di Rho A., L’Uomo senza qualità, Torino, Einaudi, 1972, p. 995.

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