• Non ci sono risultati.

Pratiche di riutilizzo. Dal found footage al cinema esposto

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Pratiche di riutilizzo. Dal found footage al cinema esposto"

Copied!
126
0
0

Testo completo

(1)

INDICE

Premessa

Il riutilizzo nell’arte contemporanea, dal ready-made all’Appropriazionismo …… 2

Cap.1 1.1 - La pratica del found footage ……… 9

1.2 - Rose Hobart ………. 13

1.3 - A MOVIE ………. 16

1.4 - Il détournement. Situazionismo e cinema ……….. 20

1.5 - Verifica incerta ………... 24

Cap.2 2.1 - Le immagini riciclate nel video: memoria e materia ……… 29

2.2 - Figure della ripetizione: dal loop allo scratch video ……… 31

2.3 - Figure di mescolanza: sovrimpressione, finestre, intarsio ……… 46

2.4 - Altre figure ed effetti ……… 60

2.5 - Il cinema come repertorio: le compilation ……… 68

Cap. 3 3.1 - Il “cinema esposto” nelle videoinstallazioni ……….. 76

3.2 - Douglas Gordon ……….. 83 3.3 - Pierre Huyghe ………. 93 3.4 - Candice Breitz ………. 99 Conclusioni ………. 107 Bibliografia ………. 109 Sitografia………. 117

(2)

Premessa

Il riutilizzo nell’arte contemporanea, dal ready-made all’Appropriazionismo.

Dalla pratica dadaista del ready-made fino alla categoria tipicamente postmoderna dell’Appropriazionismo, nella tradizione artistica del Novecento si è affermata e via via sempre più diffusa la tendenza a riciclare elementi preesistenti nella creazione di opere d’arte originali, ed in particolare estratti da lavori di altri artisti (quando non intere opere d’arte altrui) o prodotti dell’industria culturale: ovviamente, ciò è stato reso possibile dall’esistenza di un nuovo contesto, quello della riproducibilità tecnica, che ha profondamente rivoluzionato lo statuto stesso dell’opera d’arte, e che ha creato una sorta di archivio collettivo e condiviso in cui opere d’arte e prodotti culturali sono divenuti accessibili come copie, immagini; infatti, sia che l’elemento riciclato venga modificato o meno, uno degli aspetti fondamentali di questa pratica consiste nel fatto che gli artisti che la utilizzano presuppongono che il fruitore riconosca l’elemento oggetto dell’appropriazione (e quindi il contesto originale da cui esso proviene), in modo da poter cogliere il senso della ricontestualizzazione cui l’elemento in questione è stato sottoposto. Si tratta di una tendenza che trova le sue origini formali all’inizio del Novecento con il collage cubista, ossia in quella tecnica che consiste nell’integrare elementi eterogenei (pezzi di carta, ritagli di giornale, fotografie) sul supporto bidimensionale della pittura tradizionale (polimaterismo), ma che si svincola dalla pittura qualche anno più tardi, con l’opera di Marcel Duchamp; infatti, come afferma Nicolas Bourriaud, “se le radici dell’appropriazione si trovano nella storia, la sua narrativa comincia con il ready-made, che ne rappresenta la prima

(3)

manifestazione concettualizzata e pensata in relazione alla storia dell’arte”1. Il ready-made è un comune oggetto di uso quotidiano, prelevato dall'artista e posto in una situazione diversa da quella che gli sarebbe propria tramite l'esposizione in un luogo consacrato all'arte. Grazie a tale cambio di destinazione l'oggetto perde la specificità della sua funzione per porsi in evidenza come pura forma, in assoluta autonomia da qualsiasi aspetto utilitaristico; il valore aggiunto dall'artista è dato dall’operazione di scelta, di acquisizione e di isolamento dell'oggetto. Inaugurata da Marcel Duchamp, che ne ha coniato anche il nome, la pratica del ready-made è intimamente connessa con l’interesse, nato con le Avanguardie storiche, per gli oggetti di fattura industriale; infatti, “a differenza del generico objet trouvé, di cui può essere considerato una sottocategoria, si tratta generalmente di un prodotto della moderna produzione di massa”2. Non a caso, quando Duchamp presenta anonimamente alla

mostra della Society of Independent Artists di New York quello che sarebbe divenuto il suo più famoso ready-made, Fountain (un orinatoio rovesciato firmato “R. Mutt 1917”), gioca con il nome dell’azienda di articoli sanitari produttrice (Mott’s), enfatizzando la natura industriale dell’oggetto e l’assenza di un autore-artista riconosciuto (l’autore-artista dichiarò inoltre che l’opera non era sua, e di averla ricevuta da un “certo” Richard Mutt); ancora più in là si spinge Duchamp quando realizza nel 1919 l’opera intitolata L.H.O.O.Q. (sostanzialmente un gioco di parole: il suono di tali lettere, lette in sequenza in francese, restituisce la frase “Elle a chaud au

       

1 Nicolas Bourriaud, Postproduction. Come l'arte riprogramma il mondo, Postmedia Books,

Milano, 2005, p.18-19. Titolo originale: Postproduction: Culture as Screenplay: How Art

Reprograms the World, Lukas & Sternberg, New York, 2002. 

2 http://www.moma.org/collection/theme.php?theme_id=10468. Traduzione mia, corsivo nel

testo (ultimo accesso maggio 2013).  

(4)

cul”, letteralmente “Lei ha caldo al culo”, ossia “Lei è eccitata”), disegnando baffi e pizzetto su una riproduzione fotografica della Gioconda di Leonardo da Vinci.

Marcel Duchamp, Fountain, 1917 Marcel Duchamp, L.H.O.O.Q, 1919

Senza soffermarci sui significati e le possibili interpretazioni dell’opera in questione, che vanno dalla semplice presa d’atto di un gesto iconoclasta nei confronti della tradizione (rappresentata da uno dei simboli della pittura per eccellenza) all’interpretazione degli aspetti esoterici dell’artista francese, è da notare come in questo caso il ready-made non sia più un semplice oggetto (quotidiano o meno), ma un’altra opera d’arte, più precisamente una riproduzione dell'opera più diffusa dalla carta stampata, più osservata e studiata già al tempo di Duchamp.

A raccogliere in un certo qual modo l’eredità duchampiana, senza però condividere quella carica provocatoria e critica che ne aveva contraddistinto profondamente lo spirito, è la Pop Art, che nasce in Gran Bretagna alla fine degli anni Cinquanta ma si sviluppa soprattutto negli USA a partire dagli anni Sessanta. Gli artisti pop

(5)

concentrano il proprio interesse esclusivamente sui prodotti ed i miti della società dei consumi, e ne utilizzano i linguaggi; traggono i propri soggetti (specificatamente le immagini dei mezzi di comunicazione di massa) dall'universo del quotidiano, fondando la comprensibilità delle loro opere proprio sul fatto che quei soggetti siano assolutamente noti e riconoscibili per tutti; le realtà che vengono alla luce attraverso il linguaggio “freddo” della Pop Art, fondato sulla sospensione critica, l’oggettività e il distacco, sono quelle del consumo e dell’invasione dei linguaggi di massa, ma anche la celebrazione del potere espressivo dell’immagine mediatica e della sua capacità d’interferenza con il linguaggio dell’arte.

Figura prominente della Pop Art statunitense, non a caso formatosi studiando arte pubblicitaria, Andy Warhol produce a partire dai primi anni Sessanta una serie di lavori (litografie e serigrafie) lavorando su ritratti fotografici delle stelle del cinema, della musica, e celebrità in generale (da Marilyn Monroe a Elvis Presley, da Marlon Brando a Jackie Kennedy), come anche su altri simboli dell’immaginario collettivo come la sedia elettrica, la zuppa in scatola, il detersivo in polvere, le foto dei criminali ricercati; i suoi lavori, come ad esempio quelli di Roy Lichtenstein, che si appropria delle immagini dei fumetti, o di James Rosenquist, che lavora sulle locandine cinematografiche, dimostrano come prodotti artistici e beni commerciali siano ormai sullo stesso piano, quello della serialità e del consumo di massa.

Se, come abbiamo visto, il riciclo è una tendenza che percorre in modo trasversale diversi movimenti artistici del Novecento, la definizione di “appropriation art” risale soltanto alla fine degli anni Settanta, in un’ottica tipicamente postmodernista di critica ai concetti di autorialità, originalità e autenticità dell’opera d’arte, proprietà intellettuale e diritto d’autore; la definizione nasce in riferimento alle opere di alcuni artisti della scena newyorkese, le cui opere sono state all’epoca riunite sotto la

(6)

definizione comune di “pictures” (dal titolo della mostra omonima del 1977, che presentava opere selezionate dal curatore Douglas Crimp).

Andy Warhol, Triple Elvis, 1963 Richard Prince, Untitled (Cowboys), 1980 – 1986

Tra i più noti esponenti di questo movimento possiamo citare Richard Prince, che prima di iniziare l’attività artistica aveva lavorato nel reparto archivistico della rivista Time-Life, collezionando ritagli pubblicitari, e che nella seconda metà degli anni Settanta comincia a produrre dei lavori basati sulla riproduzione fotografica, sviluppando le tecniche di taglio e reinquadratura che diventeranno una sua firma (tra le sue opere, la serie Cowboys ricicla immagini pubblicitarie delle sigarette Marlboro). Nella sua forma più radicale, come possiamo ad esempio osservare in alcuni lavori di Sherrie Levine, l’appropriazione diventa un atto in sé, che non prevede particolari manipolazioni o interventi sul materiale scelto; emblematica in tal senso è la serie After Walker Evans del 1981, in cui l’artista statunitense mette in atto una pratica che consiste nel fotografare una fotografia (in questo caso ri-fotografando da un catalogo una serie di ritratti realizzati nel 1936 da Walker Evans). Quasi a chiudere il cerchio, l’appropriazione del ready-made («A un livello più sofisticato, non si potrebbero trattare gli stessi ready-made - nel frattempo saliti al

(7)

rango di “opere d'arte” - come materiale per altri ready-made?», si chiede Senaldi 3): Fountain (After Duchamp), di Sherrie Levine, è infatti una replica in bronzo dell’orinatoio di Duchamp.

Sherrie Levine, After Walker Evans #4, 1981 Sherrie Levine, Fountain (After Duchamp), 1991

Infine, a partire dagli anni Ottanta, con il definitivo passaggio verso l’era della società dell’informazione globalizzata, la pratica dell’appropriazione diviene addirittura predominante nella produzione artistica occidentale; in un contesto che Nicolas Bourriaud ha definito come epoca della “post-produzione”, «gli artisti non considerano più il campo artistico (ma aggiungiamo pure la televisione, il cinema o la letteratura) come un museo che contiene opere da citare o “sor-passare”, come richiedeva l’ideologia modernista del nuovo, ma come tanti magazzini riempiti di utensili da usare, stoccaggi di informazioni da manipolare per essere poi rimesse in

       

3 Marco Senaldi, Doppio sguardo. Cinema e arte contemporanea, Bompiani, Milano, 2008,

(8)

scena”4, e di conseguenza «la questione artistica non si pone più nei termini di un “Che fare di nuovo?”, ma piuttosto di “Cosa fare con quello che ci troviamo?”»5.

       

4 Nicolas Bourriaud, op.cit., p.13.  5 Ibidem. 

(9)

“ L'insieme della produzione hollywoodiana degli ultimi quaranta anni potrebbe divenire un semplice materiale per dei futuri artisti registi” Jonas Mekas

1.1.

La pratica del found footage

Nella storia e nella critica del cinema il concetto e la pratica del ready-made trovano corrispondenza nel cosiddetto found footage6, espressione con cui si indica qualunque film realizzato con materiale già girato, dal film classico o di serie B al documentario scientifico, dal reportage televisivo al filmino amatoriale, dal materiale pornografico a quello pubblicitario; trovato per caso o frutto di ricerche d’archivio e impegnative catalogazioni, questo materiale può essere riproposto nella sua forma originaria, e “semplicemente” ricontestualizzato, oppure reimpiegato nelle forme più diverse, applicando le tecniche del collage e del fotomontaggio al mezzo cinematografico e sfruttando pienamente le proprietà dei diversi supporti dell’immagine in movimento, che può appunto per sua stessa natura essere smontata, rimontata, modificata a piacimento fino a infonderle un senso totalmente nuovo, sia in direzione narrativa, sia in previsione di un discorso meta o anti-narrativo.

       

6 Letteralmente traducibile in italiano con “metraggio trovato”, con riferimento all’unità di

(10)

Come riporta Bruno Di Marino, found footage è una definizione diffusasi piuttosto recentemente (sarebbe stata usata per la prima volta da David Curtis nel saggio del 1971 Experimental Cinema. A Fifty Year Evolution), ma che indica una tendenza già presente da decenni; ovviamente nel genere documentaristico, in cui il cinema e la televisione vengono utilizzati come archivio storico dell’immaginario collettivo, ma anche e soprattutto nell’ambito del cinema sperimentale; quest’ultimo aspetto è sottolineato in particolare da Marco Senaldi (la cui riflessione è incentrata sul rapporto tra cinema e arte contemporanea in generale), che afferma: «l'uso del found footage è da sempre stato caro agli approcci artistici verso il cinema, perché sembra liberare le immagini dalla loro costrizione a divenire significanti, a dover “dire” qual-cosa oltre se stesse, riconducendole al loro splendore originario, alla loro “materialità pura”»7. Ed è proprio questa “materialità pura” l’aspetto fondamentale e

“problematico” del found footage: a differenza della forma “storica” del riutilizzo nell’arte, adottata fin dagli albori anche dal cinema narrativo (quella intertestuale, che costituisce fin dall’antichità la forma fondamentale della trasmissione culturale, per cui, ad esempio, L' Orlando furioso è una ripresa dei poemi cavallereschi), in questo caso le immagini riciclate non sono mai citazioni, bensì dei reperti materiali; il found footage si configura quindi come un “riciclaggio materiale della cosa-stessa”8 che permette al linguaggio delle immagini in movimento di esprimere quella componente di autoriflessività tipica dell’arte moderna e contemporanea, che si interroga su se stessa proprio in quanto linguaggio.

Sono piuttosto rari i lavori di teorici e critici esclusivamente incentrati sulla pratica del found footage (tra coloro che in Italia si sono occupati dell’argomento, oltre ai già

       

7 Marco Senaldi, op. cit., p.184.  8 Ivi, p.183. 

(11)

citati Marco Senaldi e Bruno Di Marino, Maria Rosa Sossai e Alessandro Amaducci); in questo ambito i più riusciti tentativi di categorizzazione sono stati fatti da Nicole Brenez e Pip Chodorov, autori del saggio Cartographie du Found Footage (2000), e da William Wees con Recycled Images: The Art and Politics of Found Footage Films (1993). La prospettiva adottata da Brenez e Chodorov è di tipo sincronico e paradigmatico, finalizzata alla delineazione di una mappatura di tipo formale, un vero e proprio inventario dei differenti tipi di riuso; viene proposta dai due studiosi una suddivisione piuttosto articolata, in cui si individuano cinque diversi possibili tipi di uso del found footage (uso elegiaco, uso critico, uso strutturale, uso materiologico, uso analitico), ma che allo stesso tempo si dimostra come sia sempre difficile fare distinzioni nette poiché molte opere possono presentare caratteristiche inerenti a più tipologie ma anche a più generi (film-diario, film-saggio). Nonostante questo limite, il saggio di Brenez e Chodorov è un utile strumento di lavoro per affrontare l’argomento found footage, soprattutto nella misura in cui individua l’opposizione, puntualmente rilevata anche da Senaldi, tra «due grandi filoni: quello elegiaco, materialista e intrafilmico, e quello critico-concettuale, meta o iperfilmico. Benché entrambi i filoni facciano uso del found footage, il loro intento è radicalmente diverso: i primi tendono a “rimanere” dentro la storia del cinema, i secondi sono inclini a porsene fuori (anche se i modi di questa esteriorità sono molto diversi)»9.

La sistematizzazione proposta da Wees, che riconduce le diverse forme a tre categorie principali (compilation, collage e appropriazione), segue invece un criterio di tipo cronologico, delineando un excursus storico in cui si sottolinea il legame tra la storia dell’arte e le forme filmiche e si traccia un percorso diretto che va        

(12)

dall’avanguardia al postmoderno e dal collage all’appropriazione; in questo percorso Wees evidenzia come l’utilizzo del found footage, nel suo sviluppo storico, sia venuto ad assumere quasi naturalmente un accento marcatamente critico; configurandosi come “a, if not the, dominant critical procedure in independent film and videomaking.”10, finalizzata a cercare di “interrompere la circolazione senza fine e la ricezione irriflessa delle immagini massmediali”11.

Prendendo ispirazione da questi lavori, in questa sede illustreremo come la pratica del riutilizzo abbia trovato applicazione fin da subito nell’uso “artistico” dell’immagine in movimento, in un percorso che parte dal cinema delle Avanguardie storiche per poi arrivare alla videoarte e alle videoinstallazioni del cosiddetto “cinema esposto” (una tendenza diffusasi in maniera davvero esponenziale all'interno della sperimentazione audiovisiva soprattutto negli ultimi anni), e come tale pratica si sia configurata generalmente come atto critico di appropriazione, con la quale rivendicare la non appartenenza delle immagini al ciclo dell’industria (che ne determina la nascita, la visione e la morte), e il loro essere parte dell’immaginario collettivo condiviso.

       

10 William C. Wees, Recycled images: the art and politics of foud footage film, Anthology

Film Archives, New York, 1993. Trad.it. in Senaldi, op.cit., p.186. 

11 William C. Wees, Recycled images: the art and politics of foud footage film, Anthology

Film Archives, New York, 1993, p. 34. Citato in Rob Yeo, Cutting through History, in Cut:

film as found object in contemporary video, Milwaukee Art Museum, 2004, p.17. Corsivo

(13)

1.2

Rose Hobart

L’opera generalmente considerata come primo esempio di recupero di un film preesistente è Rose Hobart, cortometraggio di 12’ realizzato nel 1936 da Joseph Cornell. Il lavoro di Cornell rappresenta un modello per le pratiche che prenderemo in considerazione più avanti: per il materiale scelto, per il trattamento cui il materiale viene sottoposto, per la forma della presentazione finale dell’opera. Joseph Cornell (1903-1977), artista considerato tra i maggiori esponenti del surrealismo negli USA, conosciuto per i collage, per le sue scatole assemblate e i suoi poèmes-objects, autore di una ventina di film (principalmente in collaborazione con altri registi più giovani, tra i quali Stan Brakhage), si era già dimostrato essere fin da sempre affascinato dalle figure delle star cinematografiche (come Lauren Bacall e Greta Garbo), tanto da inserire spesso i loro ritratti nelle proprie opere. Nel 1936 Cornell estrapola da una copia in 16 mm di East of Borneo (Borneo selvaggio), film del 1931 di George Melford, solamente le scene in cui è protagonista l’attrice Rose Hobart, rimontandoli senza un criterio logico-narrativo e inserendovi sporadicamente dei brevi spezzoni tratti da un film di divulgazione scientifica sulle eclissi, che accentuano il carattere notturno e sognante del film. Il montato risultante fu ulteriormente manipolato da Cornell durante la proiezione del film: rallentando la velocità del proiettore da ventiquattro a sedici fotogrammi al secondo (quella del cinema muto), applicando alle lenti un filtro di colore blu, e infine sostituendo il sonoro originale del film con una registrazione in loop di due canzoni, Forte Allegre e Belem Bayonne, tratte dal disco di musica sudamericana Holiday in Brazil della Nestor Amaral’s Orchestra.

(14)

Joseph Cornell Joseph Cornell, Rose Hobart, 1936

La proiezione del film, della durata di quasi diciannove minuti, ebbe luogo alla Julien Levy Gallery di New York nel dicembre del 1936, in contemporanea con la mostra Fantastic Art, Dada, Surrealism presso il MoMA, in cui lo stesso Cornell era presente con diverse opere, nonché come proiezionista (nell’allestimento della mostra era infatti presente anche una sezione dedicata ai film); l’opera di Cornell, in effetti, si inserisce pienamente nei canoni della poetica e dell’estetica surrealista, mirando a riprodurre sullo schermo il meccanismo dell’inconscio (“Cornell's version of continuity is the continuity of the dream”12, scrive Brian Frye), così come suggerì lo stesso Salvador Dalì dopo aver assistito alla proiezione del film, non senza manifestare un certo disappunto perché convinto di essere stato “derubato” di una propria idea. Dopo questa prima, Cornell mostrò una crescente resistenza verso le proiezioni pubbliche dei suoi film, e fu soltanto grazie all’insistenza di Jonas Mekas se Rose Hobart poté essere riproiettato nel 1960. Nella categorizzazione proposta da Nicole Brenez, Rose Hobart rappresenta il primo e fondamentale esempio dell’uso        

12 Brian Frye, Rose Hobart, Senses of Cinema 2001, CTEQ Annotations,

http://www.sensesofcinema.com/contents/cteq/01/17/hobart.html (ultimo accesso settembre 2012). 

(15)

cosiddetto “elegiaco” del found footage, un uso sostanzialmente celebrativo-commemorativo, che si manifesta nella forma dell’omaggio, capostipite di un filone che avrebbe avuto grande seguito negli anni successivi, fino ai tempi più recenti. Secondo Marco Senaldi, il lavoro di Cornell è certamente “il capolavoro dell'elegia decostruita, un ritratto onirico di donna che, tuttavia, non mette in discussione lo specifico filmico come tale - esaltandone anzi le capacità di fascinazione immaginaria - spostando l'attenzione dall'intreccio all'aspetto mitico della diva.”13. Il

lavoro di appropriazione di Cornell infatti, a differenza dei successivi sviluppi dell’uso del found footage, non presuppone alcun atteggiamento critico né nei confronti del materiale selezionato né verso l’istituzione cinematografica in generale o i suoi divi o il fenomeno del divismo in generale (anzi lo alimenta: secondo le dichiarazioni dell’autore, Rose Hobart era la sua attrice preferita). Ciò che invece è importante sottolineare è che il tipo di approccio al film come materiale da utilizzare è in un certo senso totale, riguardandone tutti gli aspetti; considerando appunto non soltanto il lavoro sulla selezione e sul montaggio, ma anche quello sulla proiezione e sul suono, Cornell si dimostra infatti artista pienamente conscio delle potenzialità del mezzo che usa, in questo caso le specificità del linguaggio del film.

       

(16)

1.3. A MOVIE

Passando dall’uso elegiaco a quello critico, a sancire l'inizio di una pratica “consapevole” di found footage è molto probabilmente A MOVIE (1958) di Bruce Conner (1933–2008), artista statunitense che ha praticato nella sua carriera soprattutto l’utilizzo del collage e dell’assemblaggio (spaziando dalla pittura alla scultura, dalla fotografia al cinema), producendo lavori generalmente contraddistinti da precisi messaggi sociali, in particolare di dissenso contro il consumismo, il militarismo, la violenza sulle donne. Alla fine degli anni ’50 Conner si stabilisce a San Francisco (una delle roccaforti storiche del libertarismo negli USA, in quegli anni patria elettiva della Beat Generation) e si affaccia al mondo del cinema sperimentale, applicando il metodo del collage anche alla pellicola; nel 1958 realizza il suo primo film, A MOVIE (Conner utilizza volutamente per il titolo caratteri in stampatello), prendendo ispirazione da una sequenza contenuta nel film del 1933 Duck & Soup con i fratelli Marx, in cui il presidente di Freedonia (interpretato da Groucho Marx) viene attaccato dalle truppe della vicina Sylvania; una scena in cui, grazie al meccanismo comico della gag, dietro il sottile umorismo si cela un forte messaggio pacifista. Presentato in occasione della prima mostra personale di Conner a San Francisco, A MOVIE è un cortometraggio in bianco e nero della durata di quasi 12’, risultato dal recupero e dal montaggio di frammenti di diversi film a soggetto e vecchi cinegiornali, il cui sonoro originale è sostituito da un montaggio di alcuni brani tratti dal poema sinfonico I pini di Roma (1924) di Ottorino Respighi.

(17)

Bruce Conner, A Movie, 1958

L’inizio del film di Conner è contraddistinto da un trattamento piuttosto particolare dei consueti titoli di testa: all’inizio il nome dell’autore, per un tempo insolitamente lungo, poi un montaggio disordinato in cui allo schermo completamente bianco o nero si alterna il classico conto alla rovescia che segnala l’inizio del film; a seguire il titolo A MOVIE, ma sottosopra, e il segnale di chiusura “the end”; il tutto intervallato da brevi immagini di uno strip-tease. L’utilizzo anomalo di questi segnali “tecnici”, che nella prassi del cinema classico costituiscono per lo spettatore gli elementi fondamentali per entrare gradualmente dentro il complesso meccanismo di visione del film narrativo, ha l’effetto immediato e provocatorio di produrre una sensazione di spiazzamento; inoltre, il loro ripetersi immotivato per diverse volte lungo l’intera lunghezza del film, “interrompendone” la visione, priva ulteriormente questi

(18)

elementi del loro significato originario, facendo soffermare lo spettatore sulla natura del medium utilizzato per la fruizione delle immagini. Accanto a questa componente di autoriflessività, nell’opera di Conner persiste un’evidente impronta narrativa (o almeno pseudo-narrativa), a dimostrazione di come “seemingly random film footage can be recombined to develop complex concepts and construct a larger logic”14; in questo tipo di trattamento del materiale la musica assume un ruolo decisivo, non soltanto scandendo il ritmo delle immagini, ma anche e soprattutto orientandone la lettura in una determinata direzione. Il primo tema del film è quello della corsa, del movimento (cavalli al galoppo, un elefante che carica, locomotive a tutta velocità, corse automobilistiche), immagini montate in un trascinante crescendo in perfetto accordo con l’andamento della musica (nel primo movimento, intitolato I pini di Villa Borghese, si descrivono dei bambini che giocano ai soldati e marciano nella pineta). A questa prima parte segue una serie di scene in cui emerge un senso di tensione e di minaccia incombente (il lento volo di un dirigibile, degli acrobati che camminano su un filo teso tra due grattacieli), accompagnate dalla musica cupa e malinconica dell’inizio del secondo movimento, intitolato Pini presso una catacomba; in questa seconda parte emerge anche un certo (e voluto) umorismo, soprattutto nella scena di un corteo di bizzarre ed improbabili biciclette e in quella (la più famosa e citata del film) nella quale, dopo un uomo che guarda nel periscopio di un sottomarino, vediamo una giovanissima Marilyn Monroe in uno spogliarello, poi il lancio di due siluri ed infine, vera icona dell’immaginario contemporaneo, il “fungo” atomico; in questa sequenza Cornell utilizza il meccanismo comico, che tanto aveva apprezzato nei film dei fratelli Marx, con un intento polemico-satirico,

       

14 Rob Yeo, Cutting through History, in (a cura di) Stefano Basilico, Cut: film as found object in contemporary video, Milwaukee Art Museum, 2004, p.17. 

(19)

che veicola un messaggio allo stesso tempo anti-sessista e anti-militarista. Nella sua parte centrale e finale, l’andatura del film svolta decisamente verso il tragico: il montaggio si fa meno serrato, mentre ci viene mostrata tutta una serie di disastri naturali (eruzioni, inondazioni, terremoti) e incidenti vari, in generale accomunate dal tema della caduta (un’auto che ruzzola giù in un burrone, aerei che precipitano, un dirigibile in fiamme, una nave che cola a picco); in un deciso crescendo di drammaticità (anche qui sottolineato dalla musica) assistiamo poi a delle immagini di guerra e di morte decisamente crude (una fucilazione, cadaveri ammucchiati, il corpo di Mussolini e di altri fascisti appesi a testa in giù a Piazzale Loreto); in chiusura, mentre il tono della musica diventa trionfale (l’ultimo movimento, I pini della via Appia, descrive una legione romana che avanza lungo la via omonima, mentre sorge il sole), vediamo un subacqueo che ispeziona un relitto e, trovata un’apertura, vi si addentra scomparendo alla vista. Come abbiamo ricostruito attraverso questa breve sinossi, se l’argomento generale di A MOVIE sembra essere la catastrofe della società occidentale e il fallimento del progresso, secondo una personale “Bosch-like vision of modern progress”15, la riflessione di Cornell non si esaurisce sul piano dei contenuti, ma va ad investire anche quella del significante, operando sulla struttura profonda del film; a ribadire lo spiazzamento iniziale degli inconsueti titoli di testa, l’ultima scena si presenta infatti volutamente al di fuori del contesto delle immagini viste precedentemente, e viene a chiudere il film come un enigma, quasi a mettere un metaforico punto interrogativo al posto del classico “the end” (che infatti non c’è, come non ci sono titoli di coda).

       

15 Scott MacDonald, A critical cinema: interviews with independent filmmakers, University

of California Press, Berkeley, 1988, p.254; citato in Rob Yeo, op.cit., p.16 .  

(20)

1.4

Il détournement. Situazionismo e cinema

Intanto, in Europa, le diverse pratiche di appropriazione e ricontestualizzazione introdotte dalle Avanguardie artistiche prima della Seconda Guerra Mondiale trovano una nuova concettualizzazione con l’Internazionale Lettrista, in seguito Internazionale Situazionista (a partire dal 1957), e compare un nuovo concetto, quello del détournement16 artistico, che si potrebbe descrivere come “l’uso politico del readymade reciproco duchampiano (il suo esempio in questo caso era Rembrandt usato come tavola da stiro)”17. Come indicato dal fondatore del movimento, Isidore Isou, i valori estetico-formali del Lettrismo derivavano da quelli del Surrealismo e del movimento Dada, secondo una prassi piuttosto comune nella storia dell'arte contemporanea: “il détournement, ovvero il riutilizzo in una nuova unità di elementi artistici preesistenti, è una tendenza permanente dell’attuale avanguardia, sia precedente alla costituzione dell’Internazionale Situazionista che successiva”18; a differenza però delle pratiche di surrealisti e dadaisti, la cui reazione antitradizionale tendeva a rimanere “all’interno” della storia dell’arte, il détournement situazionista si configurava dichiaratamente come “una deviazione che procede, però, da un'idea di

       

16 Letteralmente la traduzione in italiano del termine détournement è “deviazione”. Il détournement è strettamente collegato all’altra teoria situazionista della decontestualizzazione, che comporta il cambiamento del contesto comunicativo dell’opera. 

17 Nicolas Bourriaud, op.cit., p.33. 

18 Isidore Isou, De l'Impressionisme au Lettrisme, Filipacchi, Parigi, 1973; cit. in Dacia

Palmerino, Il détournement come cifra della visualità contemporanea, in (a cura di) Andrea La Porta, Visionari. Lo sguardo del cinema e del video tra arte, realtà e utopia, Le Mani – Microart’s Edizioni, Recco, Genova, 2009, p.147 

(21)

critica politica o culturale”19, un metodo per “utilizzare l'eredità letteraria e artistica dell'umanità a fini di propaganda partigiana”20. Il superamento rivoluzionario

dell’arte costituisce infatti uno degli aspetti fondamentali del movimento situazionista, il cui fine era quello di realizzare una “deviazione” dalla forma passiva e acritica in cui erano recepiti certi meccanismi alienanti legati alla comunicazione di massa, per cui testi, immagini, suoni citati dovevano risultare estranei e inattesi (fino alla dispersione del loro significato originario), ma allo stesso tempo portatori di una nuova direzione di significato che inizialmente non avevano; nella pratica, ciò era possibile effettuando delle citazioni fuori contesto, oppure con delle variazioni (in modo da produrre uno scarto di senso), come pure mescolando piani culturali differenti (citazioni dotte con elementi della cultura popolare); secondo le parole di Guy Debord, principale teorico del Situazionismo, “va da sé che non solo è possibile correggere un'opera o integrare diversi frammenti di opere sorpassate in un'opera nuova, ma anche mutare il senso di quei frammenti, e camuffare in tutti i modi che si giudicheranno opportuni quel che gli imbecilli si ostinano a chiamare citazioni”21. A differenza delle pratiche delle avanguardie storiche, finalizzate alla creazione di opere che avevano in generale un valore autonomo ancora artistico, i situazionisti si facevano promotori di un progetto rivoluzionario già “di per sé stesso e nel suo

       

19 Ibidem. 

20 Guy Debord e Gil J. Wolman,Le détournement comme négation et comme prélude, in

“Internationale Situationiste”, n.3, dicembre 1959; trad.it in (a cura di) Enrico Ghezzi e Paolo Turigliatto, Guy Debord (contro) il cinema, Editrice Il Castoro/la Biennale di Venezia, Milano, 2001, p.50-51. 

21 Guy Debord e Gil J. Wolman, Mode d’emploi du détournement, in “Les Lèvres Nues”, n.

(22)

insieme al di là del campo dell’estetica”22, il cui punto d’arrivo era un prodotto che, pur potendosi valere di mezzi artistici e addirittura di opere d’arte, si rivelava immediatamente come la negazione dell’arte stessa, per cui non potevano esserci pittura o musica o un’ arte in generale “situazionista”, ma piuttosto un uso “situazionista” dei linguaggi artistici.

Nel 1958 (quando il movimento lettrista era appena stato rifondato come Internazionale Situazionista), commentando un articolo sul Circarama23 pubblicato su Le Monde, Debord aveva evidenziato la necessità di un suo “situazionista” del cinema, definito senza mezzi termini “la forma d’arte centrale della nostra società”24: in virtù della sua intrinseca capacità di fascinazione e suggestione, che aveva logicamente comportato “il suo accresciuto controllo da parte della classe dominante”25, il mezzo cinematografico aveva infatti finito per attribuire “poteri

inediti alla logora forza reazionaria dello spettacolo senza partecipazione”26; oltre che sul piano dei contenuti, per Debord questo “asservimento” si manifestava anche su quello formale e linguistico, e aveva già determinato “il ritardo della comparsa dei moderni sintomi dell’arte nel cinema (ad esempio certe opere formalmente distruttrici, contemporanee di quanto è accettato da venti o trent’anni nelle arti        

22 Guy Debord, Pour un jujement révolutionnaire de l’art, in Notes critiques, bulletin de recherches et d’orientation révolutionnaire, n. 3, 1962, Bordeaux, ; trad.it in Guy Debord

(contro) il cinema, cit. p.58. 

23 Il Circarama, detto anche Circle Vision, è un sistema di ripresa e di proiezione a 360 gradi

prodotto dalla Walt Disney Corporation, con lo scopo di "immergere" completamente lo spettatore nel film; la sala di proiezione del Circarama è di forma cilindrica, con uno schermo che è disposto lungo tutta la parete interna del cilindro. 

24 Guy Debord, Avec et contre le cinéma, in Internationale Situationniste, n.1, giugno 1958,

trad. it. in Guy Debord (contro) il cinema, p.65. 

25 Ibidem.  26 Ibidem. 

(23)

plastiche o nella scrittura, sono ancora respinte anche nei cineclub)”27. Per Debord, che non si considerava un sovversivo o un provocatore, ma piuttosto uno stratega (non a caso citazioni di Von Clausewitz, Machiavelli, Sun Tzu ritornano spesso nei suoi libri e nei suoi film), il cinema si offriva dunque come un’arma, il cui utilizzo rivoluzionario avrebbe dovuto ritorcersi contro quello stesso potere che fino allora aveva sostenuto; di un tale utilizzo aveva già fornito un esempio nel 1956, quando aveva proposto il détournement “integrale” di un classico come The Birth of a Nation (Nascita di una nazione, 1915) di David W. Griffith, da lui considerato un capolavoro di linguaggio cinematografico, “senza nemmeno doverne toccare il montaggio, con l'aiuto di una colonna sonora in grado di trasformarlo in una possente denuncia degli orrori della guerra imperialista e dell'attività del Ku Klux Klan”28.

Copertina di un’edizione in inglese de La societè du Spectacle di Guy Debord

       

27 Ibidem. 

28 Guy Debord e Gil J. Wolman, Mode d’emploi du détournement, in Les Lèvres Nues, n. 8,

(24)

1.5

Verifica incerta

Celebre caso in cui si fondono l’utilizzo critico del found footage e lo spirito anti-artistico del détournement è Verifica Incerta, realizzato tra il 1963 e il 1965 da Gianfranco Baruchello (1924), all’epoca artista visivo già affermato, e da Alberto Grifi (1938-2007), allora giovane ma già esperto montatore, il quale fu tra i primi artisti in Italia a esplorare le risorse del mezzo video, per poi diventare una delle figure più rilevanti del cinema sperimentale in Italia.A parte una serie di primi piani di Marcel Duchamp, girati alla fine del 1963 nella casa romana dello stesso Baruchello (che fu allievo ed amico dell’artista francese), il film si basa sulla selezione e il rimontaggio di brani tratti da una cinquantina di lungometraggi soprattutto statunitensi degli anni Cinquanta e Sessanta girati in Cinemascope, in totale 150.000 metri di tagli di pellicola acquistati come rifiuti destinati al macero per estrarne sali d'argento. Il risultato del lungo lavoro, un film della durata di 35’, fu proiettato per la prima volta a Parigi nel 1965 (Grifi ricorda di aver continuato a montare altri spezzoni manualmente e “a occhio” durante il viaggio in auto verso la capitale francese) di fronte a grandi personalità del mondo dell'arte come Max Ernst, Man Ray, John Cage e, naturalmente, Marcel Duchamp, la cui presenza nel film (brevi inquadrature disseminate lungo il film che lo ritraggono sorridente, mentre fuma un sigaro) dichiarava la natura di ready-made dell'opera; secondo l’intenzione iniziale dei due autori, al termine della proiezione il film sarebbe dovuto essere smembrato29 e i suoi pezzi distribuiti al pubblico presente, trasformato in testimone

       

29 La prevista distruzione del film in realtà non ebbe luogo; dall'originale 35mm, per

(25)

di un vero e proprio happening artistico intitolato Disperse Exclamatory Phase. Il film esordisce con una trovata che stabilisce subito il senso di provocazione in stile dada-situazionista: le sigle d'apertura tipiche delle grandi case di produzione hollywoodiane (20th Century Fox su tutte) si susseguono rapidamente in batteria (stesso trattamento viene riservato ai titoli di chiusura; in effetti il film “inizia” e “finisce” più volte nel corso del suo svolgimento), creando fin dall’inizio nello spettatore un senso traumatico di disorientamento, rafforzato dal montaggio particolarmente “sporco” e dall’audio volutamente asincrono. Il cortocircuito a cui il film prepara sta proprio nell’attesa dello spettatore che si ritrova di fronte a delle immagini potenzialmente già viste, ma ricomposte secondo criteri che fuoriescono dalla pratica e dalla teoria canoniche del montaggio, un metodo che Umberto Eco definì “una spezzatura di un sistema di aspettative, di attese, di risoluzioni, che fa sì che lo spettatore si trovi improvvisamente in una situazione di shock, in una situazione di crisi”30, in cui si disattendono gli schemi abituali di percezione del linguaggio cinematografico; il sistema di aspettative non viene più basato sulla risoluzione, ma si instaura un “nuovo” sistema basato sul godimento della frammentazione e della sua ripetizione, un sistema di attese ripetuto, reiterato all'esasperazione e mai concluso. Tutto il film è costituito da spezzoni di scene, dialoghi, azioni che si ripropongono instancabilmente nel cinema più popolare e classico come stilemi ricorrenti, qui rimontati secondo un principio di ripetitività disorientante e allo stesso tempo ipnotica, in una concatenazione di gesti che si

        lasciando la distorsione dovuta alla riproduzione nel nuovo formato fatta senza l'uso di una lente Cinemascope, nonché il colore originale già degradato. 

30 Umberto Eco, intervento all'incontro del Gruppo 63 a Palermo nel 1965, in (a cura di)

(26)

replicano come in una sorta di eterno ritorno, di campi e controcampi “sbagliati” e vari altri tipi di falsi raccordi e rovesciamenti.

Alberto Grifi e Gianfranco Baruchello, Verifica incerta, 1965

Anche se all’inizio la selezione fu fatta mediante l'uso della tabella statistica dei numeri casuali (“random numbers”), la maggior parte delle associazioni e dei rimandi tra un film e l'altro furono accuratamente pensati, secondo la chiara presa di posizione dei due autori, che mirava a “fare a pezzi” il cinema commerciale di Hollywood e la sua vocazione al consumismo sfrenato (quello che Grifi definì “il

(27)

cinema carosello”31). Secondo le dichiarazioni di Grifi, Verifica Incerta è un “massacro cinematografico”32 che “smonta ciò che l'industria spettacolarizzante

monta […] l'occasione per vendicarsi, tirando giù dal loro piedistallo quegli eroi di cartone, ovvero ufficiali del settimo cavalleggeri che zittivano a fucilate i musi rossi o marines che, durante la guerra di Corea, eliminavano i musi gialli”33. Quasi a illudere lo spettatore che ci possa essere una continuità narrativa, magari nascosta nel caos apparente, emerge in effetti la figura di un protagonista, Eddie Spanier, e la storia di una sua relazione omosessuale con un compagno d’armi; sempre secondo le parole di Grifi: “attraverso questi slittamenti di montaggio, facevamo emergere le pulsioni che quei film rimuovevano: la temutissima omosessualità maschile di quegli eroi muscolosi, virili e maccartisti, allevati a latte e bistecche; i nipoti dei pionieri che avevano ripulito l'America dai pellerossa e che avevano a loro volta salvato la Corea dai comunisti e il mondo dai giapponesi con le bombe di Hiroshima e Nagasaki…”34.

L’opera venne accolta con grande entusiasmo dai presenti alla prima proiezione (John Cage, entusiasta della colonna sonora, ne organizzò una a New York) e suscitò vivo interesse nell’ambito del cinema sperimentale e in generale dell’avanguardia artistica degli anni Sessanta; in un contesto culturale e politico caratterizzato da un clima di profonda sperimentazione in tutti i campi di espressione, i due artisti italiani si dimostrarono infatti compagni di strada di Situazionisti, Neo-Dadaisti e Fluxus, che nel medesimo periodo e con la stessa “violenza” stavano spazzando via ogni        

31Alberto Grifi, Perché da un sottoscala facemmo a pezzi Hollywood,

http://www.albertogrifi.com/106?post=145 (ultimo accesso settembre 2012). 

32 Ibidem.  33 Ibidem.  34 Ibidem. 

(28)

illusione realistica e mimetica dal panorama artistico attraverso la decostruzione dei linguaggi tradizionali. Il carattere ipotetico e aperto dell'opera, a cui fa riferimento il titolo, riflette infatti la necessità di verificare il linguaggio in maniera incerta, non definita, non chiusa; Umberto Eco scrisse a proposito: “La Verifica costituisce un esempio storico di trasformazione radicale dello statuto dell’opera d’arte nella seconda metà del ventesimo secolo, in quanto si è posta come possibilità di pensare l’opera non già come oggetto definitivamente compiuto, ma come processo artistico, che pone le scelte delle sue tecniche e delle procedure di realizzazione al di sopra della realizzazione finale, ottenuta attraverso di esse” 35. Secondo la classificazione di Wees, Verifica Incerta appartiene al genere del film-collage modernista, contrassegnato da un evidente obiettivo polemico, quello di criticare Hollywood e i suoi clichés sia come serbatoio di immagini stereotipate che come elementi di un determinato linguaggio. In effetti, la forza dell’opera non sta solo nella critica agli stereotipi americani, ai modelli di storie e alle figure ricorrenti; è vero che nelle ripetizioni e negli accostamenti ironici si possono riscontrare le ideologie, i messaggi subliminali, la propaganda, la superiorità culturale e l'omosessualità repressa di gran parte del cinema americano, ma è soprattutto attraverso la decostruzione che si mette in gioco l'intero sistema narrativo e rappresentativo su cui si fonda la prassi della visione nel cinema classico. La riflessione di Grifi e Baruchello si configura come una critica delle pratiche classiche di costruzione e di ricezione del visibile cinematografico; i due artisti usano un linguaggio standardizzato contro se stesso, e attraverso una forma radicale di decostruzione e rimontaggio costruiscono un discorso autoreferenziale sul cinema attraverso il cinema.

       

35 Umberto Eco, intervento all'incontro del Gruppo 63 a Palermo nel 1965, in (a cura di)

(29)

2.1

Le immagini riciclate nel video: memoria e materia

Dopo aver esaminato alcuni esempi di riutilizzo di immagini preesistenti all’interno di opere cinematografiche, veniamo ora ad analizzare lo stesso fenomeno nell’ambito della videoarte. Analizzeremo le diverse opere, in questa sezione, raggruppandole in base ai differenti tipi di trattamento cui le immagini riciclate sono state sottoposte; infatti, oltre che ad essere considerate per il loro contenuto, in quanto archivio dell’immaginario collettivo e condiviso (non a caso le immagini più frequentemente utilizzate appartengono al cinema classico, ma anche alla cronaca, alla pubblicità, alle serie televisive), le immagini sono per il video anche e soprattutto una materia prima da manipolare e rimodellare. A tale proposito sarà utile una breve digressione sul video. A differenza dell’immagine cinematografica, che è sostanzialmente una serie di fotografie impressionate su pellicola mediante un procedimento chimico, fatte poi scorrere ad una certa velocità attraverso un procedimento meccanico in modo da dare l’illusione del movimento, l’immagine video non ha la consistenza fisica del fotogramma, essendo originata da un processo elettronico di conversione degli impulsi luminosi in vibrazioni elettriche di diversa intensità e dalla loro ricostruzione sullo schermo all’interno di una griglia di punti luminosi (denominati pixel), al ritmo di venticinque immagini al secondo circa. Costituita da una trama in costante vibrazione, l’immagine video è qualcosa che continuamente si crea e si distrugge, per poi rigenerarsi e ridistruggersi in un tempo infinitesimale di frazioni di secondo, e le cui modificazioni, come la luminosità o il colore, sono provocate dai cambiamenti della tensione, che varia continuamente; proprio in virtù di questa natura fluida di mosaico scomponibile e modificabile, l’immagine elettronica si

(30)

presta ad essere manipolata attraverso un’infinita gamma di effetti. Difatti, la nascita “ufficiale” della videoarte coincide con il lavoro di Nam June Paik (Seoul, 1932- Miami, 2006), uno dei protagonisti del movimento Fluxus in Germania e poi negli Stati Uniti, il quale (a differenza di altri artisti che già prima di lui si erano interessati all’immagine televisiva, ma limitandosi ad un generico utilizzo del televisore in quanto “oggetto luminoso”) mette in mostra nel 1963 una serie di televisori accesi che agiscono in modo differente dal normale, manomessi da interventi che li modificano dall’interno o alterando la ricezione del segnale. Ulteriori manipolazioni saranno possibili soltanto qualche anno più tardi, grazie alla possibilità, inizialmente inesistente, di fissare le immagini su nastro magnetico e di montarle (e quindi anche di utilizzare materiale preesistente), applicandovi una serie di figure di linguaggio già codificate dal cinema. Il video infatti eredita e sviluppa secondo le sue potenzialità una serie di figure stilistiche già esistenti, in particolare utilizzate da parte delle avanguardie storiche degli anni Venti, contraddistinte da una volontà di ricerca estetica e di sperimentazione che il cinema delle origini stava via via abbandonando per seguire la strada della verosimiglianza e della narrazione. Procedimenti come la sovrimpressione, l’intarsio, la scomposizione dello schermo in finestre, che sono infatti considerati delle eccezioni nel linguaggio del cinema convenzionale, e vengono appunto definiti «effetti “speciali” perché vengono elaborati a parte e si inseriscono con la loro «specialità» in film dall’andamento spesso normalmente narrativo»36, sono invece per il video «del tutto “normali”, connaturati cioè al funzionamento stesso del medium, al modo in cui le immagini si formano (e si trasformano) sullo schermo»37.

       

36 Sandra Lischi,, Il linguaggio del video, Carocci editore, Roma, 2005, p.46.  37 Ivi, p.47. 

(31)

2.2

Figure della ripetizione: dal loop allo scratch video.

Per cominciare, esamineremo alcune opere in cui il materiale riciclato è stato trattato con procedimenti fondati sulla ripetizione (montaggio in loop e il cosiddetto scratch video); partiremo da due video realizzati tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta; si tratta di due lavori molto diversi tra loro, ma accomunati dall’utilizzo di immagini estrapolate dal contesto televisivo. Il loop (parola inglese il cui significato originario di “anello” ha assunto nel lessico dell’elettronica l’accezione di “ciclo chiuso e ripetuto”) consiste in una successione di elementi, in questo caso immagini, che in sequenza ricomincia da capo, scorrendo senza soluzione di continuità; pur essendo un termine il cui uso nell’ambito artistico deriva dal linguaggio della musica (tra i pionieri nell’uso del loop ricordiamo Pierre Schaeffer, inventore della “musica concreta”), è nel cinema che troviamo uno dei suoi primi esempi: nel cortometraggio Ballet mécanique (1924) di Fernand Léger, è presente un breve passaggio in cui una signora sale una scalinata con un cesto di panni appoggiato su una spalla, montato ripetutamente in modo tale che la il movimento della donna diventi una sorta di meccanismo vivente, un “balletto meccanico” appunto. Si tratta, come sottolinea Alessandro Amaducci, di “un’importante sequenza, un’idea visiva che […] costituisce un vero e proprio archetipo dell’immaginario”38, tale da poter essere considerata “il prototipo di un fenomeno visivo tipico dell’immagine digitale”39. Infatti, il montaggio in loop, a differenza dei procedimenti che analizzeremo in seguito, utilizzati come “trucchi” nel cinema classico, è una figura totalmente anti-       

38 Alessandro Amaducci, Segnali video. I nuovi immaginari della videoarte, GS Editrice,

Santhià (VC), 2000, p.232. 

(32)

realistica e quindi del tutto assente nel cinema di finzione; presente nel cinema sperimentale, è soltanto con la post-produzione video che il loop diventa una procedimento più immediatamente accessibile, e quindi praticato con maggiore frequenza (fino all’uso-abuso40 dei tempi più recenti, in cui alcuni software di montaggio hanno “direttamente inserito nell’interfaccia il comando loop, dandogli la stessa importanza che il tasto forward ha in qualsiasi videoregistratore”41).

Il primo video in questione è un’opera di Dara Birnbaum (nata a New York nel 1946), artista statunitense che, dopo aver esplorato il mezzo pittorico e studiato architettura e scultura, approda al video verso la fine degli anni ’70, realizzando tutta una serie di brevi opere (tra il 1978 e il 1980: Technology / Transformation: Wonder Woman, Kiss the Girls: Make Them Cry, Pop-Pop Video, Kojak / Wang) costruite selezionando e rimontando materiale estrapolato esclusivamente da trasmissioni televisive (serie, quiz, eventi sportivi, spot pubblicitari). Il suo lavoro nasce dall’interesse verso le produzioni di massa come materia prima di lavoro secondo una strategia finalizzata a rileggerne e a sovvertirne modelli e ideologie, attraverso una decostruzione analitica delle strutture che determinano il processo collettivo della ricezione delle immagini mediatiche; la sua tecnica espressiva consiste nell’ estrapolare alcune scene particolarmente significative dal flusso delle immagini televisive, isolandone e ripetendole fino a creare dei cicli continui che rendono “la

       

40 A tal proposito, è interessante citare, come esempio di come il contesto televisivo abbia

ormai fagocitato dei procedimenti un tempo ad esclusivo appannaggio dell’uso “artistico” del video (tra cui appunto il montaggio in loop) lo spot Conad prodotti a 1 Euro realizzato nel 2011 dall’agenzia Aldo Biasi Comunicazione. 

41 Lev Manovich, Cos'è il cinema digitale?, http://www.trax.it/lev_manovich.htm (ultimo

(33)

representation télévisuelle un echo infini et obsédant”42. Considerato uno dei primi esempi di riappropriazione dell’immaginario televisivo mainstream, Technology / Transformation: Wonder Woman è un video di circa 6’ realizzato tra il 1978 ed il 1979, una selezione e rimontaggio di alcune scene tratte dalla popolarissima serie televisiva Wonder Woman (ispirata all’omonimo personaggio dei fumetti creato da William Moulton Marston nel 1941), prodotta dalla Warner Bros. e trasmessa negli USA dal network ABC dal 1974 al 1976 e dalla CBS dal 1977 al 1979 (il video fu “provocatoriamente” trasmesso nel 1979 da una stazione via cavo newyorkese proprio alla stessa ora in cui la CBS mandava in onda la serie originaria). Il titolo prende spunto dalla scena più emblematica e ricorrente in tutte le puntate, quella della trasformazione di Diana Prince (l’identità segreta dietro la quale si cela la super-eroina) in Wonder Woman, che avviene con un giro su se stessa ed una esplosione, e che è stata un'invenzione della serie (si dice creata dall’attrice protagonista, Lynda Carter; fu una trovata così riuscita da essere in seguito adottata anche nei fumetti). Il video è nettamente diviso in due parti: la prima parte consiste nella riproposizione in loop di una scena in cui la protagonista corre tra gli alberi e di due diverse trasformazioni: in una l’azione avviene all’aperto, in un’altra invece la trasformazione si svolge all’interno di una stanza completamente ricoperta di specchi; in entrambe, quasi come in una sorta di allucinato carillon, Wonder Woman e Diana Prince girano su loro stesse trasformandosi l’una nell’altra tra le ripetute esplosioni. Dopo questa seconda trasformazione, Wonder Woman “attraversa” la parete di specchi ed incontra un giovane uomo al quale si rivolge dicendo “We’ve got to stop meeting like this” (l’unica battuta di dialogo presente in tutto il video),        

42 Stéphanie Moisdon, Dara Birnbaum. Selected Works 1978-1980, in (a cura di) Christine

Van Assche, Vidéo et après. La collection vidéo du Musée national d’art moderne, Éditions du Centre Georges Pompidou, Parigi, 1992, p.82. 

(34)

salvandolo poi da una raffica di proiettili che riesce a deviare con i suoi braccialetti. In questo conciso montaggio, dominato dalla figura del loop, l’intenzione di Dara Birnbaum è stata quella di creare una “abbreviated narrative”43 in cui condensare i tratti salienti del personaggio e che, secondo le parole dell’autrice stessa, “allows the underlying theme to surface: psychological transformation versus television product”44; la trasformazione della donna in super-eroina è infatti soltanto un effetto video, un “trucco” tecnologico che diventa metafora di un fenomeno, quello dell’emancipazione femminile nella società contemporanea, del quale viene qui denunciato il carattere puramente esteriore e superficiale. Nella seconda parte, in un ulteriore processo di decontestualizzazione e decostruzione del materiale, sullo schermo completamente blu scorre il testo di una versione “disco” della sigla della serie televisiva, Wonder Woman in Discoland, che intanto ascoltiamo in sottofondo; in particolare, sono riportate non solo le parole del testo, ma anche i vari vocalizzi “orgasmici” tipici del carattere sessualmente ammiccante della discomusic (“I-I-I- ahh, I am Wonder, Wonder Woman, yeah, ouhh….I’ve got to shake thy wonder maker, oh-h-h, ah-h-h-h, show you all the powers I possess baby”). Tra i diversi contributi critici esaminati a proposito del lavoro di Dara Birnbaum, è da notare la divergenza tra il giudizio di Francesco Bernardelli (autore della scheda di commento alle opere di Dara Birnbaum presenti nella collezione del Museo del Castello di Rivoli), secondo cui l’intenzione dell’autrice sarebbe quella di voler “rappresentare l’icona pop per eccellenza del nuovo «soggetto femminile» allora in ascesa nella

       

43 Dichiarazione dell’artista riportata in: http://www.eai.org/title.htm?id=1673 (ultimo

accesso novembre 2012). 

(35)

società”45 e quello di Stephanie Moisdon, (autrice di un’analoga scheda per una pubblicazione del Museo Pompidou), che al contrario si esprime in termini di “caricature de l’héroine feminine”46; per quanto ci riguarda, concordiamo con il giudizio dell’autrice francese: lo sguardo ironico dell’artista statunitense va infatti interpretato all’interno di un discorso finalizzato a criticare i miti creati dalla televisione e il potere accumulato dalle immagini mediatiche, insieme ai codici rappresentativi che ne stanno a fondamento, con particolare riferimento al genere femminile; il ruolo della donna, in un periodo cruciale nella storia del femminismo, è infatti al centro delle sue riflessioni sul linguaggio televisivo.

Dara Birnbaum, Technology/Transformation: Wonder Woman (1978-79)

       

45 Francesco Bernardelli, Dara Birnbaum, in (a cura di) Giannelli Ida, Beccaria Marcella, Castello di Rivoli Museo d’arte contemporanea, La Collezione Video, SKIRA, Milano,

2005. 

(36)

Cronologicamente vicino, ma piuttosto distante dallo spirito ironicodi Technology / Transformation: Wonder Woman è Das Duracellband del tedesco Klaus Vom Bruch, analogamente basato sul riutilizzo di materiale televisivo, in questo caso uno spot pubblicitario, e di un trattamento imperniato sulla ripetizione, qui però radicalizzato fin quasi all’estremo. Nato nel 1952 a Colonia, formatosi dapprima studiando arte concettuale con John Baldessari e poi filosofia all’Università di Colonia, fondatore del gruppo di ricerca e sperimentazione audiovisiva ATV negli anni ’70 con Ulrike Rosenbach e Marcel Odenbach, Vom Bruch è sicuramente uno dei più importanti esponenti della videoarte tedesca degli anni Ottanta; il suo lavoro spazia dal video alla performance all’installazione, ed è generalmente incentrato sul tema dell’identità tedesca dopo la seconda guerra mondiale e dal rapporto tra guerra e tecnologia. Das Duracellband è un breve video di 10’ realizzato nel 1980 e fa parte di una trilogia (Das Propellerband, Das Duracellband e Das Alliertenband, realizzati tra il 1979 e il 1982) intitolata Warum wir Männer die Technik so lieben (“Perché noi uomini amiamo la tecnologia”), incentrata sul tema dell’industria bellica come motore dello sviluppo tecnologico, in cui l’autore esprime una sostanziale critica del militarismo come base del progresso tecnologico occidentale, con particolare riferimento alla storia e alle responsabilità della Germania sotto il regime nazista. Come chiaramente indicato dal titolo, in Das Duracellband Vom Bruch trae ispirazione dallo spot della famosa marca di pile Duracell “di lunga durata”, il cui testimonial è, fin dal 1973, un coniglietto meccanico (ovviamente alimentato a batterie).

L’opera inizia con delle immagini di repertorio in bianco e nero: una veduta aerea di una città appena bombardata, poi un corteo di giovani nazisti in tenuta sportiva ed infine la breve scena (una vera e propria icona dell’immaginario collettivo contemporaneo) di una esplosione atomica, alla quale, con una serie di velocissimi

(37)

stacchi, si alterna la testa disegnata che ruota su se stessa tratta dal film Le sang d’un poète (1931) di Jean Cocteau.

                             

Klaus Vom Bruch, Das Duracellband (1980)

Dopo la riproposizione delle immagini della parata nazista, viene la famosa sequenza tratta dallo spot pubblicitario della Duracell, in cui la pila dell’omonima marca, spezzata in due parti, si richiude con un rumore fragoroso, che Vom Bruch mantiene ed amplifica. Al suo interno, questa già di per sé breve sequenza viene spezzata da altre due inquadrature che compaiono a volte per un tempo talmente breve da essere difficilmente percettibili, quasi fossero immagini subliminali: nella prima, vediamo un uomo (lo stesso Vom Bruch, ripreso durante un intervento alla 11a Biennale di

(38)

nell’abitacolo del suo aereo, visto da dietro, che fa un cenno di assenso con la mano. Per quasi tutta la sua restante durata, il video consiste nelle ripetizione di questo breve loop, creando un effetto visivo e sonoro che, arrivati a un certo punto, risulta quasi impossibile da sopportare. Queste tre immagini formano l’unità di senso fondamentale del video, in cui da una parte la pila (una riserva di energia destinata ad alimentare) è assimilata alla bomba (anch’essa un “contenitore” di energia, ma finalizzata alla distruzione), e dall’altra si oppongono il gesto del pilota e quello dell’autore, che si copre il viso “quasi per non vedere lo sgorgare della memoria per immagini che lui stesso ha provocato”47, oppure per non essere riconosciuto (comunque un gesto di distanziamento dalle immagini della pila-bomba e del pilota). Il video si chiude con brevi spezzoni di riprese aeree di una città distrutta con cui si era aperto, cui seguono due brevi sequenze in cui si mostrano le devastazioni sulla pelle di alcuni giapponesi sopravvissuti ai bombardamenti atomici del 1945, immagini a loro volta intervallate, in questo caso solamente due volte, da un’altra famosa scena tratta dallo spot Duracell; si tratta di una serie di due brevi inquadrature, in cui alcuni coniglietti meccanici rivestiti di peluche avanzano in corteo suonando un tamburo fissato sulla loro pancia, un’immagine che rimanda immediatamente alla parata nazista vista all’inizio, creando una amara ed ironica associazione mentale che rende sinistri e inquietanti degli apparentemente inermi giocattoli di peluche. Come abbiamo visto, nel video compaiono temi e figure stilistiche ben precisi, che sono ricorrenti in tutta l’opera dell’artista tedesco: la visione aerea e l’assimilazione tra lo schermo e il parabrezza, “punti di vista

       

(39)

oscillanti fra descrizione e distruzione”48, la presenza di immagini che ritraggono lo stesso autore, la meccanicità di gesti e rumori, le ripetizioni ossessive “che svelano le memorie sepolte che giacciono dentro le immagini”49, la dolorosa rievocazione degli orrori della guerra; Vom Bruch, infatti, mette in opera dei meccanismi formali e retorici più complessi e stratificati di quelli che abbiamo potuto vedere all’opera nel lavoro di Dara Birnbaum; nella sua opera non soltanto mescola elementi eterogenei (scene di repertorio e pubblicità, citazioni cinematografiche colte e autoritratto), ma veicola pure significati più articolati, in cui si uniscono tv e cinema, presente e memoria, immaginario collettivo e autobiografia privata; la ricerca di Vom Bruch, in cui ad “uno stato di fascinazione per la tecnologia in quanto scienza”50 si unisce “l’attrazione per l’immensa capacità seduttiva dell’immagine cinematografica, per la sua materia”51, si ispira esplicitamente alle teorie del filosofo e urbanista Paul Virilio

sullo sviluppo della tecnologia in relazione alla velocità, al potere, alla guerra e lo stesso filosofo francese ha riscontrato nel lavoro di Vom Bruch una certa attinenza con le proprie analisi dei rapporti tra l’universo tecnologico e bellico moderno e l’immaginario cinematografico e televisivo.

L’applicazione della figura stilistica della ripetizione su immagini riciclate dal cinema e dal contesto televisivo si sviluppa soprattutto a partire dagli anni Ottanta, fino a dare vita ad un vero e proprio genere, il cosiddetto scratch video. Ancora una        

48 Philippe Dubois, Marc-Emmanuel Mélon, Colette Dubois, Cinema e video: compenetrazioni, in (a cura di) Sandra Lischi, Cine ma video, Edizioni ETS, Pisa, 1996,

p.138. 

49 Alessandro Amaducci, op.cit, p.215. 

50 Stephen Sarrazin, La video-arte in Francia, Germania e Inghilterra, in (a cura di) Sandra

Lischi e Felice Pesoli, IN VIDEO ‘90. Mostra internazionale di video d'arte e ricerca. I

Edizione, Edizioni Ergonarte, Milano, 1990, p.114. 

(40)

volta, si tratta di una definizione presa in prestito dal linguaggio musicale, in particolare dal contesto della musica Hip-hop: lo scratching, infatti, è una tecnica sviluppata dai disc jockey nei night-club newyorkesi negli anni Settanta e diventata famosa in tutto il mondo nel decennio seguente nell’ambito del rap, e consiste nel fare un mixaggio di due copie di uno stesso disco o di due dischi diversi, facendo andare il disco avanti e indietro sul piatto; attraverso questo procedimento, il disc jockey “scompone e ricompone i ritmi, isolando una singola frase, congelandola per poi ripeterla, rendendola stridula fino a farne nascere suoni completamente nuovi”52. L’analogia tra l’attività del dj e quella degli artisti in generale che praticano varie tecniche di riassemblaggio e manipolazione di materiale riciclato è particolarmente enfatizzata da diversi critici, tra i quali Nicolas Borriaud e Stefano Basilico: il primo sottolinea, all’interno di quel fenomeno più generale che definisce arte della “post-produzione”, l’attività basata su “principi ereditati dalla storia delle avanguardie artistiche: détournement, readymades reciproci o assistiti”53, accompagnata da un lavoro di selezione che implica a sua volta una profonda conoscenza della materia; entrambi poi evidenziano la somiglianza tra “l’attività di agire fisicamente sull’oggetto che utilizza praticando lo scratching o usando determinate azioni (usare i filtri, adottando certi parametri dal mixage, aggiungendo suoni, ecc…)54 e ciò che può essere definito un vero e proprio “gestural use of editing”55. Il termine scratch        

52 Testo di Robert Elms, citato in Sean Cubitt, Videografia: la scansione elicoidale, in (a

cura di) Valentina Valentini, Video d’autore. Luoghi forme tendenze dell’immagine

elettronica, Cangemi Editore, Spoleto, 1994, p.22. Traduzione parziale di Videography: The Helican Scan, Mac Millan, Londra, 1993. 

53 Nicolas Borriaud, op.cit., p.35. Corsivo dell’autore.  54 Ibidem. 

55 Stefano Basilico, The Editor, in (a cura di) Stefano Basilico Cut: film as found object in contemporary video, Milwaukee Art Museum, 2004, p.30. Corsivo dell’autore. 

Figura

Figure di mescolanza: sovrimpressione, finestre, intarsio.

Riferimenti

Documenti correlati

A Poly(GP) levels were measured by MSD immunoassay in C9orf72 patient iPSC-motor neurons treated for 7 days with 8–16 lM of the G 4 C 2 repeat G-Q-binding small molecules DB

It might be expected that mutation analysis of kindreds affected by familial hypercalciuria with nephrocalcinosis and/or nephrolithiasis (with an apparently dominant mode

Il panorama si presenta quindi molto ampio e articolato ed entrambi gli approcci di ricerca hanno evidenziato limiti costitutivi insiti nella modellazione della fisica del

inconsapevolezza della propria personalità, in quando spesso affermano di sentirsi totalmente vuoti, addirittura niente, senza quella che fino a poco tempo prima era l’altra

It provides an overview of EU-India trade across various dimensions and links it with migration in three specific contexts: (a) The $ 14 billion EU-India diamond trade that

Sottolinea nelle seguenti frasi i verbi che sono nella forma passiva.. Ieri Marco è andato al cinema con

futuro anteriore io sarò stato premiato tu sarai stato premiato egli sarà stato premiato noi saremo stati premiati voi sarete stati premiati essi saranno stati premiati. presente

Coniugazione del verbo SGRIDARE (forma passiva) Completa la seguente tabella:..