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Nella storia dell'umanità, le malattie sono sempre state fonte di grande apprensione;

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Introduzione

Nella storia dell'umanità, le malattie sono sempre state fonte di grande apprensione;

esse venivano interpretate come stati direttamente riconducibili agli influssi di forze sovrannaturali che intervenivano sull’uomo. Di conseguenza, la mediazione tra uma- no e sovrannaturale diveniva fondamentale (Perin 2007: 1). Per ottemperare a questa funzione, nacquero delle figure “dedicate”, quali, ad esempio, stregoni, sciamani, guaritori e sacerdoti, che, attraverso riti particolari, tentavano di assistere coloro che necessitavano di cure.

Nella storia delle grandi civiltà antiche, il concetto di forza sovrannaturale respon- sabile della salute (e dei mali) degli uomini conobbe la propria oggettivazione nelle varie rappresentazioni di divinità alle quali rivolgersi in caso di bisogno. Nell’antico Egitto, molte divinità erano legate alla cura delle malattie, tra queste: Thot, il dio del- la scienza, Sekhmet, protettrice dei medici e Horus, al quale ci si rivolgeva nelle formule pronunciate per promuovere la guarigione.

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Anche nella Grecia antica erano presenti divinità collegate alla sfera medica; una di queste era Apollo, figlio di Zeus e Latona, celebre per la sua arte divinatoria e pro- fetica, nonché inventore della scienza medica. Il dio era responsabile della buona e della cattiva salute; con l’ausilio della sua lira poteva affascinare e curare i malati, ma era anche in grado, con le sue frecce, di provocare epidemie come quella che col- pisce il campo di Agamennone nel primo libro dell’Iliade. Crise, anziano sacerdote del culto di Apollo, aveva raggiunto la Grecia per riscattare la figlia, divenuta schia- va di Agamennone in seguito al saccheggio della città di Crisa (odierna penisola di Biga, Turchia) (Sivieri 1962: 4). A seguito della accorata richiesta del sacerdote, tutti gli astanti ritengono opportuno rilasciare la figlia dell’uomo, ma Agamennone si op- pone, accompagnando il rifiuto con la seguente minaccia:

Vecchio, non far che presso a queste navi Ned or né poscia più ti colga io mai;

1. Martini 2009: 28, fonte reperibile al link: http://docente.unife.it/mauro.martini/appunti-dispense/3- la-medicina-nelle-civilta-antiche.ppt/view

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ché forse nulla ti varrà lo scettro

né l’infula del Dio [Apollo]. Franca non fia costei, se lungi dalla patria, in Argo, nella nostra magion pria non la sfiori vecchiezza, all’opra delle spole intenta.

...

Or va, né m’irritar, se salvo ir brami.

(Sivieri 1968: 5)

In seguito al comportamento di Agamennone, Apollo decide di decimare l’accampamento del re per punirlo.

Oltre ad Apollo, i greci solevano rivolgere le loro preghiere a un’altra importante divinità: Asclepio (o Esculapio, per i Romani), figlio di una donna mortale e dello stesso Apollo. In suo onore vennero eretti molti templi, dove i malati venivano invia- ti quando i dottori non sapevano più come aiutarli (Arikha 2009: 41). Di questi tem- pli-ospedali, il più importante era quello situato

presso Epidauro, città natale del semidio; la struttura sorgeva presso una fonte di acque sorgive e i malati vi erano ammessi solo dopo un bagno rituale. A que- sto punto, il malato veniva posto in una zona chia- mata ábaton, dove passava la notte nella speranza che Asclepio intervenisse su di lui durante il sonno.

Il drakón, un serpente del tutto innocuo che spesso accompagnava Asclepio, era ritenuto capace di gua- rire le ferite con la saliva (Arikha 2009: 42) e anche lui, come il suo padrone, interveniva durante il son- no.

Oltre all’aiuto di Asclepio e del suo drakón, il

malato si affidava alle cure dei sacerdoti del tempio (detti “asclepiei”), capaci di pro- durre medicamenti utilizzando le proprietà delle erbe. Si pensa che essi potessero in- tervenire chirurgicamente sui malati, considerando che nei templi dedicati ad Ascle- pio sono stati ritrovati dei bisturi (Arikha 2009: 42).

Figura 1: Statua di Asclepio con il drakón

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3 A riprova della loro importanza in campo medico, Apollo e Asclepio vengono an- che nominati nella parte iniziale dell’antico

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Giuramento di Ippocrate, redatto intorno al V secolo a.C.:

Giuro per Apollo medico e per Asclepio e per Igea e per Panacea e per tutti gli Dei e le Dee, chiamandoli a testimoni che adempirò secondo le mie forze e il mio giudizio que- sto giuramento e questo patto scritto.3

Sulla paternità del giuramento sussistono parecchi dubbi, considerando che Ippo- crate aveva dato il via a un nuovo modo di intendere la medicina, del tutto distaccato dalle ingerenze degli dèi. La sua medicina non interveniva solo nel momento del ma- lessere, ma si occupava dell’individuo in modo costante, consigliando accorgimenti per mantenere la salute. Nel momento in cui si manifestavano dei disturbi, Ippocrate e i suoi seguaci facevano riferimento a una teoria che, come si vedrà, influenzò, non solo la storia della medicina fino alla fine del XVII secolo, ma anche il teatro inglese rinascimentale: la teoria degli umori.

La teoria umorale è frequentemente (e anche erroneamente) attribuita a Ippocrate, come accade anche per i testi che fanno parte del cosiddetto Corpus Hippocraticum, redatti da autori spesso sconosciuti.

Le origini della teoria umorale non sono semplici da identificare; essa rappresenta, infatti, il risultato della fusione di idee provenienti da diverse scuole filosofiche. Le radici della teoria umorale non vanno quindi ricercate in ambito medico, ma in quello filosofico e questo risulta sensato se si considera che, nella Grecia antica, non era possibile intervenire sui cadaveri per capire come funzionasse il corpo umano.

Come si dimostra nel primo capitolo del presente elaborato, la teoria degli umori richiamerebbe, prima di tutto, la filosofia della scuola di Mileto, risalente al VI seco- lo a.C. (par. 1.3.). I pensatori di questo movimento erano intenzionati a capire quali fossero i principî fondanti della natura, concentrando l’attenzione su tutti quegli ele- menti che costituiscono il mondo naturale così come esso si presenta all’osservatore.

2. Si è ritenuto utile specificare che il Giuramento di Ippocrate in esame è quello risalente al V secolo a.C. per distinguerlo dalle due versioni più moderne, risalenti rispettivamente agli anni 1998 e 2007, dalle quali le due divinità sono state ovviamente estromesse.

3. Tratto da: http://www.academiavita.org/_pdf/others/hippocrates/Ippocrate.pdf, consultato in data 28/08/2016

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4 Successivamente, Alcmeone di Crotone, rappresentante della scuola Italica (par.

1.4.), aveva sostenuto che la natura si reggeva su elementi peculiari, o “qualità”, che influenzavano l’uomo. Secondo Alcmeone, nel corpo era presente un numero impre- cisato di principî attivi che, perdendo il loro bilanciamento, lasciavano campo libero allo svilupparsi della malattia.

Un altro contributo molto importante viene poi offerto da Empedocle di Agrigen- to, il quale riduce gli elementi fondanti della natura a quattro (aria, acqua, terra e fuoco). Secondo questa visione, tutto, nel mondo, sarebbe riconducibile ai quattro e- lementi, corpo umano compreso; quest’ultimo presenterebbe quattro sostanze caratte- ristiche che fungono da tramite tra lo stesso corpo umano e gli stimoli che il mondo esterno gli invia (par. 1.5.). A questo punto, le premesse per la nascita delle teoria umorale, così come è conosciuta oggi, sono tutte presenti.

Colui a cui si deve la codificazione della teoria umorale è il medico ippocratico Polibo, genero di Ippocrate, che nello scritto dal titolo La natura dell’uomo, dà la propria versione della teoria umorale, riassumendo ciò che il ragionamento filosofi- co, insieme alla teoria medica, aveva man mano elaborato (par. 1.6.).

La teoria di Polibo venne successivamente ripresa e ampliata da Claudio Galeno (par. 1.7.), che la introdusse nel mondo latino; dopo di lui, la medicina subì un perio- do di stallo, nel quale nessuno continuò gli studi da lui intrapresi; ci si limitava, quindi, a fare riferimento a ciò che Galeno e gli ippocratici avevano scritto (par.

1.8.).

In questo frangente, un ruolo importante fu ricoperto dagli Omayyadi (e successi- vamente anche dagli Abbasidi), che nel 641 sottomisero la città di Alessandria, il più importante centro culturale dell’epoca. Oltre che della città, gli Omayyadi si impa- dronirono anche della cultura medica, approntando traduzioni in lingua araba di mol- ti testi medici dell’antichità.

Le traduzioni arabe furono poi raccolte all’interno dei monasteri occidentali, uni- che strutture in grado di tramandare le cultura, all’indomani della caduta dell’Impero Romano (par. 1.9.).

Le conoscenze tramandate negli scritti antichi passarono dal periodo medioevale a

quello rinascimentale (par. 1.10.-1.11.), e la teoria umorale andò modificandosi nel

corso degli anni, fino ad arrivare all’ultima parte del XVII secolo, quando le nuove

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5 scoperte in ambito anatomico minarono irrimediabilmente la credibilità dell’antica teoria.

Come si è accennato, la teoria umorale era nata grazie al ragionamento filosofico;

nella Grecia antica non era permesso, per motivi strettamente religiosi, servirsi dei cadaveri per osservarne la struttura interna. Non potendo ottenere informazioni di ca- rattere anatomico, si mise insieme una teoria che ben poco sapeva di anatomia. Come conseguenza, all’indomani degli approfonditi studi anatomici rinascimentali, l’antica teoria venne quasi del tutto scardinata a livello teorico, mentre, a livello pratico, essa continuò a essere utilizzata ancora per molto tempo, da una parte, perché occorrono anni prima che le grandi scoperte facciano percepire i propri effetti anche sul modo di agire quotidiano, e, dall’altra, perché la teoria umorale era divenuta, pian piano, molto conosciuta anche a livello popolare, per cui risultava difficoltoso, se non im- possibile, demolire le antiche credenze mediche, oramai del tutto acquisite dal popo- lo.

Come si è cercato di dimostrare in questo elaborato, la teoria umorale ebbe riper- cussioni anche in ambiti diversi da quello medico, poiché essa fece percepire i suoi effetti, per esempio, nelle opere del teatro inglese rinascimentale. La prima opera che viene in mente è senza dubbio Hamlet, Prince of Denmark, il cui protagonista è af- fetto da melanconia. Analizzando proprio il personaggio di Amleto, si è cercato di dimostrare che, ad oggi, gli si attribuisce con troppa facilità la diagnosi di “depres- sioneˮ. Stando a quanto si legge nell’opera, Amleto sembrerebbe afflitto, non da un semplice disturbo depressivo, ma da sindrome bipolare e, per provare questa ipotesi, si è fatto riferimento, per prima cosa, al testo per individuare tutte le possibili sfuma- ture riguardo alla malattia del principe, concentrando poi l’attenzione su elementi di carattere storico e letterario, come, ad esempio, il fatto che nella Londra shakespea- riana fosse possibile osservare da vicino i malati di mente, insieme agli spunti che Shakespeare può aver avuto da un’opera sulla melanconia intitolata Treatise of Me- lancholie.

Per quanto riguarda il terzo capitolo, in esso si è dimostrato in che modo la teoria

umorale fu utilizzata per dare vita a un nuovo genere teatrale, fiorito intorno alla fine

del XVI secolo: la humours comedy. Fautori di questa novità furono George Cha-

pman, che inaugurò il nuovo genere con la commedia dal titolo An Humorous Day’s

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6 Mirth, e Ben Jonson, il quale accolse l’idea di Chapman e la sviluppò, elaborando due commedie che, ne bene e nel male, riscossero molto successo: Every Man in His Humour e Every Man out of His Humour. Come si vedrà, le due commedie appena citate sono permeate di riferimenti alla teoria umorale, sia per quanto concerne i per- sonaggi, sia per il linguaggio utilizzato. Riguardo a questo ultimo punto, infatti, si è osservato che, tra le parole utilizzate, ve ne sono tre in particolare che ricorrono mol- to spesso; tali sostantivi sono collegati alla teoria umorale e, tra quelli usati, risultano essere i meno specifici, segno, forse, che essi erano già da tempo presenti nel voca- bolario quotidiano dell’epoca.

L’obiettivo del presente elaborato è dunque quello di instaurare un collegamento

tra due realtà del tutto diverse tra loro, tra medicina e teatro, mostrando in che modo

esse siano, in realtà, intimamente collegate, grazie al tramite riconoscibile nell’antica

teoria umorale.

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Capitolo 1

1.1. Una lettera da parte del re

7 luglio 1528?

Since your last Letters, myne awn Darling, Water Welche, Master Brown, John Care, Yrion of Brearton, John Cocke the Pothecary, be fallen oft he Swett in this House, and thankyd be God all well recovered, so that as yet the Pleague is not fully ceased here, but I trust shortly it shall by the Mercy of God […] As touching abode at Hever, do therein as best shall like you, for you know best what Aire doth best with you […] (Ple- scia 2013: 76-78, corsivo nel testo).

Con queste parole re Enrico VIII (1491-1547) informava la sua futura consorte, Anna Bolena (1501/1507-1536), a proposito dei risvolti riguardanti la temuta sweating si- ckness, ‘malattia del sudore’ o pestis sudorosa (Plescia 2013: 45), che nel 1528, epo- ca in cui la lettera venne probabilmente redatta, aveva colpito la città di Londra e stava mietendo un numero impressionante di vite.

I primi casi della malattia vennero individuati nel mese di aprile

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e a chi veniva colpito spesso non rimanevano che poche ore da vivere. I sintomi erano inequivoca- bili: iniziale senso di disorientamento, forti dolori addominali, fitte alla testa, tremo- re, mancamenti, forte sudorazione e febbre molto alta. Nel caso in cui la persona riu- scisse però a superare la prima giornata nella quale i sintomi si erano manifestati, le probabilità di sopravvivenza aumentavano (Erickson 2002: 181).

Durante il regno di re Enrico VIII furono ben due le ondate di sweating sickness che decimarono la popolazione, ma l’epidemia del 1528 sembra essere stata più leta- le di quella diffusasi nel 1517. Facendo riferimento ad alcuni dati risalenti proprio al 1528 si evince che, solo nella capitale, le persone uccise dal morbo nelle prime set- timane dell’emergenza si aggiravano intorno alle quarantamila unità (Erickson 2002:

181).

4. L’epidemia si protrarrà fino agli ultimi giorni dell’agosto del 1528 (Erickson 2002: 186).

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8 Il re, non avendo ancora un erede maschio legittimo, temeva per le sorti del regno poiché, in caso di morte, nessuno gli sarebbe succeduto. Lasciò quindi la corte, stabi- lendosi a Tittenhanger, nelle campagne circostanti la capitale.

Le parole del sovrano riportate nella citazione mostrano in che modo si potesse tentare di sfuggire alla pericolosa epidemia. Il primo passo consisteva nell’affidare la propria salute e quella degli altri nelle mani del Creatore e sperare in una Sua inter- cessione. Il re, nella lettera del 7 luglio, nutre la speranza che Dio intervenga a placa- re la malattia e chiosa « […] but I trust shortly it shall by the Mercy of God […] »; da parte loro, i sudditi tentavano di contrastare l’epidemia con processioni e preghiere (Erickson 2002: 183).

Il secondo passo consisteva nel far riferimento a criteri, di natura anche solo va- gamente medica, la cui efficacia era risaputa. Un buon sistema per sfuggire al conta- gio od ottenere una piena guarigione sembrava essere quello di trasferirsi, come si è visto, in luoghi fuori città, dove l’aria fosse migliore:

Dal canto suo il re, che era da sempre un convinto assertore degli effetti benefici della vita all’aria aperta, aveva fatto ingrandire le finestre del palazzo [di Tittenhanger] e tra- scorreva lunghe ore passeggiando nei giardini e nel parco, respirando a pieni polmoni l’aria salubre della campagna (Erickson 2002: 184).

Dello stesso avviso sembrerebbe essere stata anche la destinataria della missiva, Anna Bolena, che in una lettera precedente aveva probabilmente espresso il desiderio di trasferirsi momentaneamente nel castello di Hever (luogo in cui la futura regina aveva trascorso la propria infanzia) per trarre giovamento dall'aria salubre della tenu- ta circondata da magnifici giardini.

Re Enrico era un uomo del Rinascimento, partecipe del fermento culturale che ca- ratterizzò quel periodo storico, ma allo stesso tempo era rimasto profondamente an- corato a una mentalità di tipo medievale.

Come infatti accadeva nel Medioevo, si tendeva a fare maggiore affidamento, come si vedrà, sull’intervento divino per una veloce guarigione che non sui rimedi prescritti i quali, spesse volte, si rivelavano fallaci se non addirittura mortali.

Durante il suo soggiorno presso Tittenhanger, Enrico doveva combattere contro il

timore della malattia e della morte e tale stato lo spinse a una incessante preparazione

spirituale al proprio temuto trapasso; assumeva giornalmente i sacramenti e si sentiva

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9 di conseguenza fortificato al pensiero della propria anima totalmente immacolata con la quale si sarebbe presentato davanti al Salvatore, ottenendo conseguentemente la Sua benevolenza (Erickson 2002: 185).

Per quanto concerne l’importanza attribuita da Enrico all’aria respirata normal- mente, essa potrebbe rappresentare l’eco di una teoria medica originatasi nella Grecia del V secolo a.C. e impostasi man mano con sempre maggiore forza sulla scena me- dica. Si tratta della celebre teoria degli umori, fonte di “cure” per i secoli successivi, nonché elemento di marcata influenza sulle opere letterarie inglesi di periodo rina- scimentale.

Stando infatti a quanto sostenevano i seguaci del famoso medico greco Ippocrate (460-370 a.C.), per ristabilire l’equilibrio degli umori in un corpo malato si dovevano considerare diversi fattori come, per esempio, le caratteristiche fisiologiche innate del paziente, come pure i fattori ambientali e igienici che caratterizzavano il luogo in cui questi viveva. Tra i cosiddetti “fattori ambientali” si era soliti considerare l’aria un componente fondamentale che poteva essere fonte di salute, ma anche di epidemie (cfr. La natura dell’uomo di Polibo) (Arikha 2009: 166). Ecco forse individuata la fonte medica per la quale re Enrico VIII si dichiarava un fermo sostenitore dell’importanza di vivere in luoghi caratterizzati da aria pura.

L’intento del presente capitolo è quello di fornire una ricostruzione dei trascorsi storici riguardanti la teoria degli umori che, dopo secoli, fa percepire ancora il pro- prio influsso, sia nella medicina odierna (vd. Omeopatia), sia in alcune “abitudini”

come ad esempio il ricorso a rimedi caldi per mitigare i disturbi della sintomatologia

da raffreddamento.

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1.2. La teoria degli umori: origini

Nella titolatura del presente paragrafo ci si è serviti del sostantivo alla forma plurale

‘origini’ poiché la teoria umorale vide la luce grazie all’interazione di più spunti pro- venienti da scuole di pensiero differenti. I diversi principî vennero riuniti e rielaborati successivamente, come si vedrà, dal medico ippocratico Polibo (IV sec. a.C.), andan- do a costituire la teoria degli umori così come oggi è conosciuta.

Nel tentativo di individuare le fonti della teoria umorale, si è preferito, per motivi di chiarezza, suddividere la trattazione facendo riferimento alle scuole di pensiero al- le quali i filosofi che verranno presi in esame facevano capo. Come si vedrà, maggio- re attenzione nell’analisi è stata riservata, per motivi di attinenza, ai contributi che ogni pensatore indicato è stato in grado di fornire nei riguardi della teoria umorale, senza perciò soffermarsi più del dovuto su questioni di natura filosofica non diretta- mente riconducibili all’obiettivo del presente capitolo.

1.3. La scuola di Mileto

La teoria umorale si è originata in tempi molto remoti; il suo esordio non avvenne, come si potrebbe presumere, in ambito medico, poiché essa fu il prodotto della com- penetrazione di principî derivanti dal dibattito filosofico instauratosi prevalentemente nella Magna Grecia nel V secolo a.C.. Le fondamenta di tali dibattiti vanno ricercate nella Mileto (nell’odierna Turchia) del VI secolo a.C., dove si manifestò un movi- mento di pensiero che, attraverso la propria embrionale razionalità scientifica (Veget- ti 1976: 15), tentò di esaminare i principî reconditi della natura. La corrente di pen- siero in esame è conosciuta come “scuola ionica”, che annoverava, tra le personalità di spicco, Talete (fine VII sec.-metà VI sec. a.C.), Anassimandro (610 a.C.-546 a.C.) e Anassimene (585 a.C.-528 a.C.); questi pensatori diedero vita a riflessioni profon- de, aventi per oggetto la natura/mondo, intesa come physis,

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che grazie alla scuola ionica acquisì un ruolo nuovo e di primaria importanza.

5. Con physis si intende propriamente « […] il mondo quale esso si disvela all’osservazione immedia- ta […] » (Vegetti 1976 b: 27).

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11 Buona parte del processo atto a rivalutare la natura è attribuito allo sviluppo delle città; vennero infatti erette nuove cinte murarie di protezione che contribuirono alla separazione dell’uomo dalla natura, una novità, se si considera che nei secoli prece- denti l’uomo era stato completamente immerso nel mondo naturale, formando quasi un tutt’uno con esso. Con le nuove fortificazioni andò quindi creandosi un “dentro umano e civilizzato” e un fuori, dove la natura esercitava ancora il proprio dominio (Vegetti 1976: 16). L’ambiente circostante iniziò ad assumere un altro volto per l’uomo dell’epoca, divenendo un qualcosa di sconosciuto e misterioso che doveva essere quindi preso in esame e valutato.

Allo stesso tempo, gli Ionici elaborarono una nuova concezione religiosa, anch’essa volta a fare della natura l’elemento chiave.

L’aspetto religioso era sempre stato, chiaramente, appannaggio della classe sacer- dotale; con l’avvento della nuova ideologia ionica, la divinità non venne più intesa come un’entità che doveva rimanere forzatamente chiusa in templi la cui affluenza e regolamentazione era stabilita da sacerdoti, ma, seguendo la propria dottrina, gli Io- nici si adoperarono in modo da non far più coincidere la presenza della divinità con luoghi di culto e simulacri. Per loro, la divinità risiedeva direttamente in quella stessa natura (Vegetti 1976: 17) che era stata relegata al di fuori delle mura cittadine, dive- nendo oggetto di studio.

La natura deve quindi alla scuola ionica due nuove prerogative: essa diviene fonte primaria di sapienza sia oggettiva che spirituale ed è, di conseguenza, compito pri- mario del pensatore rintracciarne, attraverso il setaccio della ragione, i principî fon- damentali più nascosti in modo da poter così interpretare il volere divino.

Gli Ionici tentarono di districare il groviglio di leggi naturali attraverso la selezio- ne di un gruppo di fenomeni la cui importanza era ritenuta sostanziale per poi, trami- te una generalizzazione, innalzarli al rango di “principî” (arché) (Vegetti 1976: 19).

Ogni pensatore andava dunque elaborando la propria teoria su cui far poggiare alla natura tutta le proprie basi.

Secondo Talete, fondatore della scuola ionica, l’elemento originario del mondo

era costituito dall’acqua o, più precisamente, dall’elemento umido. Nella formula-

zione della propria teoria, egli era stato forse influenzato da culture antiche, come ad

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12 esempio quella mesopotamica ed egizia, che fondavano la loro esistenza sui beni che i grandi fiumi fornivano (Vegetti 1976: 20).

Stando a quanto sosteneva invece Anassimandro, l’universo si fonderebbe su una sostanza chiamata aperion, da cui si sarebbero successivamente sviluppati i quattro elementi (aria, acqua, terra e fuoco), insieme a tutto ciò che fa parte del mondo a noi percepibile. Probabilmente Anassimandro riteneva che la nascita e lo sviluppo degli elementi naturali percepiti dall’uomo non fossero altro che un continuo venire alla luce, perire e rinascere, facendo sì che gli elementi si trasformassero gli uni negli al- tri (Vegetti 1976: 22). Alla base di tale “ciclo” stava sempre la massa dell’aperion che, grazie alla propria capacità generativa illimitata, era in grado di mantenere stabi- li i processi di trasformazione, di provvedere sempre nuovo materiale per evitare che il mondo si consumasse e, nel caso in cui il mondo intero si dissolvesse, di generare nuovi universi (Vegetti 1976: 22-23).

Anassimene, allievo di Anassimandro, sosteneva che la natura avesse come fonte primigenia, non l’aperion, ma l’aria. Anassimene spiegava la nascita e la trasforma- zione degli elementi naturali attraverso i due processi di condensazione e rarefazione, equivalenti rispettivamente alla nascita e alla morte (Vegetti 1976: 23).

Come certamente si sarà notato, gli Ionici furono i primi a far riferimento ai quat-

tro elementi, chiamati in causa dal pensatore ionico Anassimandro e rilevanti per lo

sviluppo della teoria umorale; essi non costituiscono ancora delle sostanze primarie

su cui la natura si fonda, ma esistono come prodotto essenziale dell’aperion, in linea

con il pensiero ionico.

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1.4. La scuola italica

La scuola medica italica fu caratterizzata da due periodi: il primo rappresentato dai pensatori Democede (VI sec. a.C.) e Alcmeone di Crotone (fine VI-inizio V sec.

a.C.) e il secondo contrassegnato invece da una più precisa aderenza ai dettami della scuola di Mileto (Vegetti 1976 b: 42).

Per ciò che riguarda la teoria umorale, sembra opportuno restringere qui il campo alla dottrina di Alcmeone, il quale opererà un forte influsso sul pensiero di Ippocrate.

Alcmeone si caratterizzò subito per la sua scarsa attenzione dedicata alle dottrine ioniche; egli coglieva nell’esperienza del mondo e della natura, non un insieme di principî fondamentali, « […] bensì principî attivi o ‘qualità’, vale a dire […] stimoli capaci di determinare nell’organismo una certa reazione fisiologica (l’amaro, il fred- do e così via) […] » (Vegetti 1976 b: 32). Secondo il pensiero di Alcmeone, quindi, non può sussistere una precisa sovrapposizione tra individuo e physis, ma può stabi- lirsi un rapporto di reciproca influenza (Vegetti 1976 b: 32).

Riguardo a questo assunto, sembra tornar utile ciò che riferisce Aristotele (384/383 a.C.-322 a.C.) nella Metafisica (libro primo, capitolo quinto) riguardo ad Alcmeone. Qui, Aristotele tratta della concezione pitagorica secondo cui la natura si fonda su dieci coppie di opposti (finito-infinito, dispari-pari, uno-pluralità, destra- sinistra, maschio-femmina, calmo-agitato, lineare-ricurvo, luce-buio, buono-cattivo, quadrato-rettangolo) (Schwarz 1970: 31). La paternità di tale idea sembra essere un problema per Aristotele poiché, come afferma egli stesso, anche Alcmeone aveva avuto un’intuizione molto simile a quella dei suoi contemporanei pitagorici e di con- seguenza non sa stabilire chi l’abbia formulata per primo (Schwarz 1970: 31).

Per Alcmeone (o per i Pitagorici), chiosa Aristotele, il principio di tutto sta negli opposti, così come i principî umani si reggono su rapporti di reciproca contrarietà, con la differenza che Alcmeone non attribuiva contrari precisi ai propri principî, cosa che invece veniva fatta dai Pitagorici (Schwarz 1970: 32).

Tornando a quanto affermato in precedenza, e cioè che tra uomo e physis può in-

tercorrere solamente un rapporto di influenza e che in natura sussistono principî che

producono una reazione fisiologica sull’individuo, la teoria dei contrari di Alcmeone

sembra trovare giustificazione. Se infatti si pensa, per esempio, al fenomeno naturale

delle basse temperature, tale circostanza ha sicuramente un impatto sull’organismo

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14 umano, stimolando nel corpo dei meccanismi di difesa come, ad esempio, la cosid- detta “pelle d’oca”. L’uomo riesce a sperimentare tale sensazione perché ha un ricor- do ben preciso della situazione contraria al freddo, quella cioè caratterizzata da tem- perature, se non alte, perlomeno gradevoli. Secondo la teoria dei contrari di Alcmeo- ne, quindi, l’uomo sarebbe in grado di percepire il mondo solamente se questo gli si presenta sotto forma di elementi tra loro opposti.

Questo concetto andrà a ricoprire, come si vedrà, un ruolo di primaria importanza nello strutturarsi della teoria umorale.

Il contributo di Alcmeone alla teoria degli umori si estende ulteriormente grazie all’elaborazione di una seconda teoria di cui si ha notizia dal medico bizantino Ae- zio, attivo tra il 502 e 575 d.C.:

Alcmeone afferma che la garanzia della salute è l’armonia (ἱσονομίαν) delle qualità, l’umido, il secco, il freddo, il caldo, l’amaro, il dolce e le altre; invece il predominio d’una sola di esse produce la malattia: è distruttivo infatti il predominio di ogni singola qualità. E la malattia si determina, quanto alla causa, per l’eccesso del caldo o del fred- do; quanto per l’occasione, per sovrabbondanza o scarsezza di cibo; quanto alla sede, nel sangue o nel midollo o nel cervello. A siffatte malattie se n’aggiungono poi altre de- rivanti da cause esterne, quali certe acque, la regione, gli sforzi, le violenze subite, o al- tre di tale genere. La salute è invece il temperamento (χρᾶσιν) proporzionato delle qua- lità (Vegetti 1976 b: 100, corsivo mio).

Alcmeone sosteneva che nel corpo fossero presenti dei principî attivi (dynameis) che si amalgamano tra loro, formando un composto, chiamato krasis, caratterizzato da omogeneità (Vegetti 1976 b: 42). Nel momento in cui la krasis veniva meno e le sostanze non erano più bilanciate, ovvero se uno solo degli elementi facente parte della krasis prevaleva, la malattia faceva la sua comparsa.

Alcmeone non fornisce un numero preciso di dynameis, non le tramuta cioè in un

numero esatto di sostanze liquide, come avviene invece nella visione del medico Po-

libo (vd. oltre, par. 1.6.).

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1.5. La scuola pitagorica

I due aspetti di matrice ionica arché e physis vennero ripresi dal pitagorico, politico, mago e medico Empedocle di Acragas (490 ca.-430 a.C.).

Empedocle di Agrigento (anticamente Acragas) faceva fondare l’intera realtà na- turale direttamente su quattro pilastri fondamentali: l’acqua, l’aria, la terra e il fuoco (Vegetti 1976: 64). Secondo il pensiero del pitagorico, non era sufficiente far risalire tutto ciò che di naturale l’intelletto umano poteva percepire a un solo elemento origi- nario (arché) a causa della vastità di fenomeni che la natura offre agli occhi dell’osservatore (Vegetti 1976 b: 29). Per rispondere a tale pluralità, Empedocle ap- prontò quindi la teoria per cui la natura affondava le proprie radici in quattro archai immutabili nella loro costituzione, eterni e identici a se stessi; era possibile infatti di- videre ogni elemento originario in sezioni più piccole, che avrebbero sempre mante- nuto le peculiarità fondamentali dell’elemento originario, fosse esso acqua, aria, terra o fuoco (Vegetti 1976:64-65). Esemplificando, si potrebbe affermare, per esempio, che l’elemento ‘fuoco’, così come tutte le sue suddivisioni, manterrà sempre le carat- teristiche di calore, leggerezza e tendenza verso l’alto; l’elemento ‘terra’, e annesse suddivisioni, sarà sempre caratterizzato da pesantezza, solidità e freddezza (Vegetti 1976: 65).

Ogni elemento della teoria empedoclea poteva poi riferirsi a più sostanze naturali;

il termine ‘terra’, per esempio, comprendeva un numero elevato di sostanze solide; il termine ‘acqua’ veniva utilizzato non solo per definire le sostanze liquide in genere, ma anche per indicare i metalli che, a seconda delle diverse temperature di fusione, divengono anch’essi liquidi, mentre il termine ‘aria’ indicava i gas in genere. Come osserva Lloyd, i quattro elementi selezionati da Empedocle sembrano rappresentare la materia nei suoi tre diversi stati (solido, liquido e gassoso) se si considera la terra come stato solido, l’acqua come stato liquido e l’aria come gassoso; il fuoco venne aggiunto come quarta sostanza (Lloyd 1970: 41).

La varietà di elementi che caratterizza il mondo naturale sarebbe da attribuire,

sempre secondo Empedocle, al grande numero di combinazioni in cui i quattro ele-

menti naturali possono fondersi. Essi si uniscono, decretando la nascita di un nuovo

elemento, e successivamente si sciolgono, stabilendone la morte, grazie ai due prin-

cipî di Amore (forza di attrazione) e Odio (forza di repulsione).

(16)

16 Come spiega appunto Vegetti:

Al principio era il regno di Amore: in esso gli elementi erano così intimamente mesco- lati, così strettamente intrecciati, che il cosmo intero si configurava come un’immobile Sfera, omogenea in ogni sua parte […]. L’irruzione di Odio in questo mondo armonioso e amato dalla divinità ne determina la disgregazione. Gli elementi rescindono quella o- riginaria, pacifica unità, e tendono a ritirarsi ognuno in se stesso; la Sfera è così frantu- mata in aggregati particolari, e questi a loro volta periscono nella lotta implacabile di ogni radice contro tutte le altre (Vegetti 1976: 65-66).

L’Odio non è la fine di tutto. Come asserisce Vegetti, Empedocle sosteneva che dopo la separazione degli elementi, l’Amore tornava a riunirli grazie alla sua forza unificatrice, instaurando in tal modo un ciclo infinito che prevedeva la nascita, la morte, la rinascita e così via (Vegetti 1976: 66).

Il corpo umano, nella dottrina empedoclea, sarebbe anch’esso un prodotto dell’unione dei quattro elementi; a sua volta il corpo contiene delle sostanze liquide peculiari, originate dai quattro elementi, chiamate umori,

6

che fungono da recettori per gli stimoli del mondo circostante (Arikha 2009: 25). A ogni umore umano erano fatte combaciare due qualità caratteristiche di ogni elemento naturale (Arikha 2009:

25), come mostra la seguente tabella:

Elemento naturale aria acqua fuoco terra Coppia di opposti caldo/umido freddo/umido caldo/secco freddo/secco

Tabella 1: Rapporto elementi naturali e rispettivi opposti

In questo frangente, sembrerebbe ricorrere la dottrina di Alcmeone secondo cui il mondo si regge su caratteristiche opposte l’una all’altra (cfr. par. 1.4.).

6. Dal punto di vista etimologico, la parola ‘umore’ ha origine nel vocabolario della lingua greca. Essa deriva da υμον (humon) che significa letteralmente ‘fluido’ (Arikha 2009: 10); tale parola è presente anche in latino, dove è riscontrata come sostantivo di genere maschile in (h)ūmŏr, -ōris con significato di ‘umidità, umore’ e come verbo intransitivo di seconda coniugazione (h)ūmĕo, il cui significato è traducibile come ‘essere umido, bagnato’ (Castiglioni, Mariotti 1966: 650 e 649).

(17)

17

1.6. La scuola ippocratica

L’influsso di Alcmeone fu decisivo su Ippocrate, uno dei maggiori medici dell’antichità, fondatore della scuola medica di Cos e probabile autore di alcuni dei testi successivamente raccolti nel Corpus Hippocraticum.

7

Gli umori non venivano considerati da Ippocrate in numero finito; quei liquidi corporei si presentavano come un insieme diversificato di sostanze organiche ed egli sembrava derivare tale spunto proprio da Alcmeone di Crotone (cfr. sopra, par. 1.4.).

Essendo numerosi, non risultava possibile racchiudere gli umori in schemi, special- mente se si considera che:

[…] in quanto liquidi organici, essi sono molteplici, possono trasmutare l’uno nell’altro, e soprattutto presentano una costellazione di dynameis o qualità attive (l’acidità, l’astringenza, la zuccherosità, ecc), che reagiscono, entrano in composti, decadono e a loro volta si trasmutano (Vegetti 1976 b: 59).

Ippocrate sembrava comunque riconoscere che vi fossero degli umori che tende- vano a imporsi sulle altre sostanze durante lo sviluppo dello stato patologico:

[…] così flegma era chiamato il liquido biancastro, freddo e acre che si manifestava nel- le malattie dell’apparato respiratorio o nelle affezioni acute degli occhi; la nozione di bi- le nera poteva allo stesso modo derivare dalle feci dei malati che soffrono di ulcere ga- striche, da certi vomiti, dalle urine prodotte da una forma di malaria; la bile gialla pure dai vomiti e da altri tipi di feci (Vegetti 1976 b: 59).

Gli umori costituivano, tuttavia, solo uno degli aspetti da considerare nella ogget- tiva composizione di un modello teorico di base, riguardante la formulazione di di- versi “tipi” psicosomatici, che Ippocrate utilizzava per valutare i tanti casi individuali su cui si trovava a intervenire; gli altri fattori da tener presenti quando si interveniva su un malato erano di carattere, oltre che anatomico, dietetico e geografico.

Gli umori erano parte integrante del sistema corporeo che, oltre ad essi, compren- deva anche le strutture anatomiche degli organi (gli schemata) e le dynameis che agi- scono nell’organismo. La salute dell’individuo scaturiva in questo disegno dal bilan-

7. Il Corpus Hippocraticum è un insieme eterogeneo composto da una sessantina di testi redatti in dia- letto ionico. Tali testi vennero riuniti in età ellenistica (323-31 a.C.) e attribuiti a Ippocrate (Jori 1996:

1).

(18)

18 ciamento di umori, qualità attive (dynameis) e strutture anatomiche degli organi (schemata); gli umori cioè dovevano rimanere uniti alle qualità attive, evitando la corruzione della krasis stabilita. Lo stato patologico si presentava, come facilmente intuibile, nel momento in cui tale bilanciamento si incrinava, comportando lo « […]

sprigionarsi irrelato dell’attività delle dynameis […] » o il « […] liberarsi degli umori dai composti organici […] » (Vegetti 1976 b: 59), comportando il manifestarsi degli umori come « […] ‘intemperati’, ‘crudi’, e [che] manifestano l’insorgere di dynameis anormali. » (Vegetti 1976 b: 59).

Il metodo che il corpo adotta al fine di ristabilire l’equilibrio perduto risiede nella cosiddetta ‘cozione’, un:

[…] cambiamento che gli umori subiscono nel corso di una malattia, che, togliendo loro in generale la tenuità, la liquidità e l’acrità, dà loro più consistenza, una colorazione più spiccata, e qualche carattere che è stato metaforicamente assimilato al cambiamento prodotto nelle sostanze della cottura (Vegetti 1976 b: 59-60).

In seguito a una simile rielaborazione, quelli che prima erano chiamati umori ven- gono rinominati materia peccans e il corpo è pronto ad espellerli, ristabilendo così il precedente bilanciamento.

Oltre alla cozione, il corpo può sperimentare, durante i suoi tentativi di ristabilire il regime di salute, un momento di ‘crisi’, ovvero:

[…] la trasformazione decisiva che si compie a un punto cruciale dell’evoluzione della malattia, preceduta di solito da un acutizzarsi (paroxysmos) della febbre, e che orienta verso la guarigione (non necessariamente, perché possono esservi sempre ricadute o ypostrophai) (Vegetti 1976 b: 60).

Il rapporto tra crisi e cozione non sembra essere stretto, considerando che la crisi,

di cui alcuni sintomi possono essere riconosciuti nella forte sudorazione,

nell’epistassi e nei depositi nelle urine, può anche non essere coincidente con la co-

zione. Ippocrate sosteneva che fosse possibile osservare una crisi senza che contem-

poraneamente avesse luogo anche una cozione, come anche il compiersi di una gua-

rigione senza che vi fosse crisi o che i due fenomeni nascondessero un peggioramen-

to della malattia (Vegetti 1976 b: 60).

(19)

19 Vi era poi la possibilità che si verificasse una seconda tipologia di crisi, chiamata

‘apostasi’, che consisteva nella concentrazione degli umori rielaborati dalla cozione in un punto specifico del corpo a causa dell’impossibilità della materia di essere e- spulsa. Era risaputo che il fenomeno dell’apostasi potesse assumere una doppia va- lenza: da un lato esso poteva risultare sintomatico di una guarigione imminente, dall’altro poteva costituire invece un serio ostacolo alla guarigione stessa (Vegetti 1976 b: 60).

Ippocrate considerava nella propria dottrina anche le ripercussioni che elementi esterni al corpo potevano avere sulla salute dell’individuo, come si è accennato so- pra. Egli soleva suddividere le cause esterne dei mali in tre grandi gruppi, i cui ele- menti si trovavano del tutto relazionati, ricoprendo un ruolo non secondario nell’elaborazione della diagnosi; questi tre grandi raggruppamenti erano: l’ambiente,

8

il regime

9

e i traumi. Tra le cause delle malattie venivano addirittura considerate pro- blematiche di carattere genetico ed embriologico (Vegetti 1976 b: 61) che però, per motivi di attinenza, si è deciso qui di tralasciare.

Come si è visto, la teoria degli umori contemplata da Ippocrate sulla scorta di Al- cmeone presentava un grado di complessità relativamente alto; di diverso avviso sembrava essere invece Polibo, genero di Ippocrate e autore della schematizzazione relativa alla teoria umorale su cui per millenni moltissimi altri medici si sarebbero basati, a partire da Galeno.

Polibo espose la propria rielaborazione della teoria umorale in uno scritto facente parte del Corpus Hippocraticum intitolato La natura dell’uomo, risalente probabil- mente a un periodo compreso tra il 400 e il 410 a.C.

La dissertazione di Polibo aveva inizio con l’affermazione secondo cui le sostanze che compongono l’uomo rimangono le medesime per tutta la durata della sua vita e

8. Le cause ambientali erano ripartite in:

1) geografico–climatiche che comprendevano: « influenza delle stagioni, delle temperature, dei venti, della configurazione idrica e della qualità delle acque, dell’umidità atmosferica » (Ve- getti 1976 b: 61);

2) storico–sociali secondo cui la salute veniva influenzata anche dall’ « assetto politico e co- stumi che ne derivavano, modi di vita delle comunità, distribuzione del lavoro fra liberi e schiavi » (Vegetti 1976 b: 61);

3) individuali, ovvero « età, professione, abitudini, psicologia, storia personale del malato » (Vegetti 1976 b: 61).

9. Il regime comprendeva le malattie derivanti sia da abitudini alimentari non ottimali, sia da proble- matiche che erano conseguenze di sforzi fisici, del troppo ozio o anche di traumi psicologici (Vegetti 1976 b: 61).

(20)

20 che esse non subiscono cambiamenti in base alle stagioni o all’età (par. 2, Vegetti 1976 b: 437). Quando la vita lasciava il corpo, le sostanze che lo componevano tor- navano a fondersi con la natura poiché, come afferma lo stesso Polibo:

[…] è necessario che ognuno di essi [i componenti del corpo umano] ritorni alla propria natura, quando perisce il corpo dell’uomo, l’umido all’umido e il secco al secco e il cal- do al caldo e il freddo al freddo. Tale è anche la natura degli animali e di tutte le cose:

tutte le cose vengon generate similmente e tutte periscono similmente (par. 3, Vegetti 1976 b: 438).

Come si sarà certamente notato, l’autore fa riferimento agli opposti (l’umido, il secco, il caldo e il freddo), elementi che probabilmente costituivano oramai un fon- damento della dottrina ippocratica.

La teoria dei quattro elementi che costituivano la struttura fondante sia del corpo umano che dell’intera realtà naturale è ripresa da Polibo dalla scuola medica italica del secondo periodo. In particolare, l’autore ippocratico si serviva della dottrina degli elementi e delle qualità che:

[…] spiegava la natura sulla base di un gruppo di realtà sostanziali che derivavano dall’osservazione della natura stessa, e insieme fruivano di una permanenza, di un’identità, di una autosufficienza sia logica sia empirica, che ne assicuravano la riduci- bilità a sistema (Vegetti 1976 b: 432).

Secondo Vegetti:

La serie parallela delle quattro qualità valeva ad avvicinare maggiormente questi ele- menti [i quattro elementi], di portata cosmica, alla complessità del mondo biologico;

mentre, proprio per questo duplice carattere, elementi e qualità conservavano in sé, me- glio articolandola, l’esigenza ionica di analogia fra macrocosmo e microcosmo, fra uni- verso fisico e mondo della vita, che continuava ad apparire come la miglior garanzia della validità del sapere naturalistico (Vegetti 1976 b: 432).

All’interno del quarto paragrafo della Natura, Polibo descrive, in modo molto semplice e chiaro, quali siano gli umori che albergano nell’uomo, fissandone così per sempre i nomi e il numero:

Il corpo dell’uomo ha in sé sangue, flegma, bile gialla e nera; questi costituiscono la na- tura del suo corpo e per causa loro soffre od è sano (par. 4, Vegetti 1976 b: 439).

(21)

21 L’autore, nel definire la propria dottrina, operò una scelta tra le qualità attive che e- rano state retaggio di Alcmeone prima e di Ippocrate poi, decidendo al contempo di mantenere i due umori più rilevanti per Ippocrate, cioè il flegma e la bile, promuo- vendo una differenziazione tra bile gialla e bile nera (solo accennata in Ippocrate) e aggiungendo quindi l’umore ‘sangue’, di influenza probabilmente empedoclea.

Il trattato procede col definire in quali casi l’uomo manteneva la salute e quando invece i mali potevano insorgere:

È dunque sano [l’uomo] soprattutto quando questi componenti si trovino reciprocamen- te ben temperati per proprietà e qualità, e la mescolanza sia completa. Soffre invece quando uno di essi sia in difetto o in eccesso o si separi nel corpo e non sia temperato con tutti gli altri. Giacché è necessario, quando uno di essi si sia separato e resti di per sé, che non solo la regione abbandonata si ammali, ma anche che là dov’è fluito e si ar- resta, causi, sovrabbondando, dolori e disturbi (par. 4, Vegetti 1976 b: 439).

Polibo si distacca dalla teoria umorale ippocratica, riducendo semplicemente il numero e le qualità delle sostanze che governano il corpo umano a un insieme costi- tuito da soli quattro elementi, tutti diversi tra loro, ognuno con una proprietà specifi- ca e una natura altrettanto peculiare (Vegetti 1976 b: 440). Polibo riteneva che ogni essere vivente dovesse necessariamente essere in possesso di tutti e quattro gli umori, poiché è stato concepito da un padre che li possedeva e si è sviluppato nel ventre del- la madre, anch’essa in possesso dei quattro umori (par. 5, Vegetti 1976 b: 440).

Il settimo paragrafo della Natura è dedicato a un’analisi ravvicinata degli umori, iniziando dalle caratteristiche dell’umore flegma, considerato da Polibo il più freddo delle quattro componenti umane. Esso era presente nel corpo in quantità maggiore nei mesi invernali e i sintomi della maggiore produzione di flegma in questo specifi- co periodo dell’anno erano le sostanze emesse sia dal naso che dalla bocca, insieme a gonfiori bianchi (par. 7, Vegetti 1976 b: 442).

Durante la stagione primaverile era invece il sangue a trovarsi in maggioranza, a causa dell’umidità delle giornate piovose e calde allo stesso tempo. I sintomi che de- notavano la prevalenza di sangue erano identificati da Polibo in dissenteria, sangue dal naso, temperatura corporea elevata e arrossamento.

Nel periodo dell’anno che andava dall’estate all’autunno poi, prevaleva la bile

gialla e i segni erano da ricercare nel rigurgito spontaneo di bile, nella presenza di

(22)

22 sostanze molto biliose nei prodotti corporali di scarto, nel riscontro di stati febbrici- tanti e infine nel colorito del malato (par. 7, Vegetti 1976 b: 442).

L’autunno era poi favorevole alla bile nera, i cui sintomi sembravano essere simili a quelli della bile gialla.

Per maggiore chiarezza, si è ritenuto utile produrre una tabella riassuntiva, nella quale si riportano i quattro umori individuati da Polibo, insieme ai periodi dell’anno in cui questi sono presenti in maggiore e in minore quantità nel corpo umano, ac- compagnati dalla sintomatologia da essi provocata:

Umore Prevalenza Minoranza Sintomi prevalenza umore flegma inverno

(freddo/umido)

estate (caldo/secco)

1) emissione sostanze ricche di flegma dal naso e dalla bocca;

2) presenza di gonfiori bianchi;

sangue primavera (caldo/umido)

autunno (freddo/secco)

1) dissenteria;

2) sangue dal naso;

3) temperatura corporea elevata;

4) arrossamenti;

bile gialla

estate (caldo/secco)

inverno (freddo/umido)

1) rigurgito spontaneo di bile;

2) produzione sostanze di scarto molto biliose;

3) febbri;

4) colorito sintomatico;

bile nera

autunno (freddo/secco)

primavera (caldo/umido)

i sintomi sembrano essere gli stessi del- la bile gialla

Tabella 2: Schema riassuntivo della teoria umorale sviluppata da Polibo

All’interno del settimo paragrafo della sua Natura, Polibo tenta di costituire la sintesi perfetta tra: dottrina italica degli elementi e qualità, teoria umorale di matrice ippocratica e rilevanza medica delle stagioni, sempre di ispirazione ippocratica.

Il legame tra umori e stagioni è per Polibo indiscutibile:

(23)

23

Prevale nell’anno ora l’inverno, ora la primavera, ora l’estate, ora l’autunno: così anche nell’uomo ora il flegma prevale, ora il sangue, ora la bile, prima la gialla, poi quella co- siddetta nera. Questa ne è testimonianza certissima: se dài allo stesso uomo lo stesso purgante in quattro periodi dell’anno, d’inverno ti vomiterà le sostanze più flegmatiche, in primavera quelle più liquide, d’estate quelle più biliose, d’autunno quelle più nere (par. 7, Vegetti 1976 b: 443-444).

Le stagioni si susseguono dunque di anno in anno e gli elementi caldi, freddi, sec- chi e umidi procedono in maniera concatenata, senza che nessuno di loro possa aste- nersi dal comparire, poiché l’universo, come afferma Polibo rifacendosi probabil- mente a Ippocrate che a sua volta si riferiva ad Alcmeone, si regge sul rapporto tra opposti; se quindi anche un solo elemento scomparisse, anche gli altri sarebbero con- dannati allo stesso destino (par. 7, Vegetti 1976 b: 443). Per questo stesso motivo, gli umori devono obbligatoriamente essere presenti nell’uomo, pena la morte dello stes- so.

Riguardo ai metodi di cura attuabili dal medico, l’autore osserva che una appro- priata metodologia di intervento risiederebbe nel curare il paziente tenendo ben pre- sente che ogni disturbo è strettamente legato a un periodo dell’anno specifico (par. 8, Vegetti 1976 b: 444), ribadendo quindi lo strettissimo rapporto esistente tra il macro- cosmo della natura e il microcosmo rappresentato dall’uomo.

Polibo supporta nella Natura un metodo curativo di carattere allopatico, ovvero, rimedi fondati sul trattamento della malattia attraverso l’assunzione di comportamen- ti o farmaci che agiscano in modo contrario rispetto all’evolversi della patologia. Po- libo asserisce che:

Le malattie che derivano dalla pienezza, le cura la vuotezza, quelle che derivano dalla vuotezza, le cura la pienezza, quante conseguono agli sforzi, le cura il riposo, quante si generano dall’ozio, le curano gli sforzi (par. 9, Vegetti 1976 b: 445).

La fonte delle malattie, e quindi dello sbilanciamento umorale, è individuata dall’autore nel regime alimentare o nell’aria respirata (par. 9, Vegetti 1976 b: 445).

Un esempio dell’importanza che gli ippocratici erano soliti attribuire all’aria salubre

è racchiusa nello scritto intitolato Le arie, le acque, i luoghi, facente parte sempre del

Corpus Hippocraticum, in cui l’anonimo autore prende in esame gli effetti che l’aria

(24)

24 respirata, insieme alle peculiarità geografiche del luogo in cui si abita, possono avere sulla persona, definendo in questo modo uno dei cardini della scienza ippocratica.

1.7. Galeno riprende e potenzia le teoria umorale

Successivamente alla sua codificazione da parte di Polibo, la teoria umorale conobbe un'ulteriore ottimizzazione attribuibile al medico, anatomista e filosofo Claudio Ga- leno (129 d.C.-199/200 d.C. ca.), originario di Pergamo (Asia Minore), che integrò la teoria umorale servendosi di nuovi fattori.

Egli, che definiva la teoria degli umori quale « splendida dottrina della medicina » (Garofalo, Vegetti 1978: 914), ne intraprese la rielaborazione partendo da un elemen- to che già da lungo tempo trovava posto nei dibattiti filosofici: lo πνεῦμα o pneuma,

‘soffio’, derivante a sua volta dal verbo πνέω che significava propriamente ‘soffia- re’.

10

In relazione ad esso, già Alcmeone sosteneva la tesi secondo cui lo pneuma circo- lasse nel corpo per mezzo delle arterie; a sua volta, Aristotele ne perfezionò la quali- tà, facendolo divenire un quinto elemento che, agendo in sinergia con le quattro so- stanze umorali, contribuiva a far divenire il corpo umano un’entità coerente e a sé stante (Arikha 2009: 55). Diversamente da Aristotele, Galeno fece derivare diretta- mente lo pneuma dall’attività umorale (Arikha 2009: 55). Secondo la teoria galenica, che trovava a sua volta una base solida nel pensiero platonico,

11

l’anima umana era tripartita (Vegetti 1976: 262) e lo pneuma ricopriva un ruolo fondamentale per il suo corretto funzionamento.

10. Tratto da http://www.treccani.it/vocabolario/tag/pneuma/, consultato in data 26/3/2016.

11. Secondo Platone (428/427-348/347 a.C), l’anima si divideva in tre parti: l’anima razionale, colle- gata alla ragione, l’anima irascibile, che si occupava delle intenzioni, e quella concupiscibile, fonda- mento del desiderio (Vegetti 1976: 131). Nel Timeo (circa 360 a.C.), Platone attribuiva a ogni parte dell’anima un organo ben preciso, nel tentativo di congiungere l’anima ineffabile e il corpo oggettivo:

l’anima razionale, e quindi la ragione, aveva sede nel cervello, l’anima irascibile (intenzioni), risiede- va nel cuore, mentre l’anima concupiscibile, e quindi il desiderio, trovava la propria sede nel ventre.

Nell’uomo era sempre prevalente una delle tre parti di anima e per questo si avevano uomini saggi e intelligenti quando in essi prevaleva la ragione, coraggiosi quando era l’anima irascibile a prevalere e schiavi del proprio corpo, ma che potevano ugualmente mostrare la qualità della temperanza nel re- primere gli stimoli, quando l’anima concupiscibile si trovava in maggioranza (Vegetti 1976: 131).

(25)

25 Lo pneuma traeva origine dal fegato do-

ve, materia ancora grezza, prendeva il no- me di ‘pneuma naturale’ (Arikha 2009: 55) e già presentava una propria funzione carat- terizzante: era il tramite dell’anima ‘vege- tativa’, ovvero quella parte dell’anima che si occupava di ottemperare alle funzioni fondamentali per vivere, come il respirare e il nutrirsi (Arikha 2009: 73). Da parte sua, lo pneuma naturale diveniva materia più raffinata grazie all’azione esercitata dagli umori durante il suo scorrere nelle vene;

qui, infatti, i fluidi umorali intervenivano, si direbbe, chimicamente, provocando una raffinazione dello pneuma stesso che da

‘naturale’ passava a ‘vitale’, con una ri-

percussione sul ruolo svolto all’interno dell’organismo. Il compito assegnato da Ga- leno allo pneuma vitale, arrivato a questo punto al cuore, era quello di trasmettere gli impulsi vitali provenienti dal secondo tipo di anima, l’anima ‘sensitiva’, responsabile di ciò che era percepito, delle sensazioni provate dall’individuo, della capacità di immaginazione e di memorizzazione (Arikha 2009: 73). Dal cuore, l’ex pneuma na- turale continuava il suo tragitto, servendosi questa volta dei nervi, arrivando fino al cervello, dove questo toccava l’apice della propria affinazione, divenendo pneuma

‘psichico’ o ‘animale’, lo strumento grazie al quale l’anima razionale, la terza e ulti- ma parte dell’anima, comunicava con l’intero organismo utilizzando i nervi (Vegetti 1976: 262). La figura 2 fornisce un’immagine in cui si evidenzia il tragitto percorso dallo pneuma, dal fegato al cervello.

Ogni cambiamento di stato subito dallo pneuma vedeva la propria causa nell’azione degli umori che intervenivano nelle vene (fegato-cuore), nelle arterie (cuore-cervello) e nei nervi (cervello-organi).

Figura 2: Il percorso dello pneuma per Galeno

(26)

26 A loro volta, ognuna delle tre tipologie di pneuma era caratterizzata da particelle (pneumata) che contribuivano al buon funzionamento dei fluidi umorali (Arikha 2009: 56).

Differenziandosi da Platone,

12

le tre facoltà dell’anima intese da Galeno erano mortali come il corpo; tra corpo e anima si instaurava infatti un rapporto di profonda correlazione a seguito della quale l’anima subiva direttamente le influenze del corpo.

A questo argomento Galeno dedicò un saggio dal titolo Le facoltà dell’anima seguo- no i temperamenti del corpo, dove tenta di porre le basi per una psicologia e psico- patologia a carattere umorale, cercando di far combaciare fattori di natura psichica con disposizioni particolari di natura invece corporea (Garofalo, Vegetti 1978: 959).

Nella sua analisi, Galeno si distacca dal pensiero platonico secondo cui l’anima sarebbe incorporea e quindi non direttamente collegata alle dinamiche corporali, ser- vendosi di due argomentazioni: la prima consiste nel far notare che « l’anima si al- lontana dal corpo per motivi fisici (riscaldamento, raffreddamento eccessivi) » (Ga- rofalo, Vegetti 1978: 961), mentre nella seconda si afferma che se l’anima « […] fos- se incorporea non potrebbe distendersi per il corpo o in generale avere rapporti con esso: cosa che è invece dimostrata dal punto uno [cioè dalla prima argomentazione] » (Garofalo, Vegetti 1978 : 961).

Secondo la teoria galenica, ognuna delle tre parti dell’anima presentava facoltà proprie, corrispondenti a una ‘essenza’ (Garofalo, Vegetti 1978: 960). Tutti i corpi erano provvisti di tali ‘essenze’ e ognuna era costituita a sua volta dall’unione di

‘materia’ e ‘forma’, dove la prima rappresentava il contenitore delle quattro qualità (calore-freddo, secchezza-umidità) da cui derivano i cosiddetti ‘corpi omogenei’, corrispondenti più o meno ai tessuti (Garofalo, Vegetti 1978: 960); mentre la ‘forma’

era il risultato del temperamento (o mescolanza) delle quattro qualità (Mouraux 2000: 341).

Per Galeno, l’anima era un prodotto del corpo omogeneo; secondo questa dottrina, l’anima psichica, per esempio, era frutto del corpo omogeneo ‘cervello’, essa era un

12. La dottrina platonica considerava l’anima strettamente vincolata al corpo e immortale, a differenza di quanto sosterrà Galeno. Il ruolo del corpo era paragonabile a quello di una prigione per l’anima, poiché negava ad essa di poter ottenere la conoscenza delle idee, immortali e anch’esse incorporee, alle quali l’anima poteva accedere solamente in parte, data la presenza del corpo. Solo con la morte dell’individuo poteva verificarsi la totale liberazione dell’anima dal corpo, che diveniva in questo mo- do del tutto in grado di contemplare pienamente la verità delle idee (Vegetti 1976: 129).

(27)

27 temperamento del cervello stesso e quindi, dipendendo dalle quattro qualità, era di conseguenza mortale (Garofalo, Vegetti 1978: 960). Stando a tali premesse, l’anima doveva chiaramente subire l’influsso corporeo, essendo essa stessa composta dalla commistione di secco, umido, caldo e freddo. Tale commistione era basata, a sua vol- ta, sul rapporto tra qualità e umori.

Il merito di Galeno sembra essere stato quindi quello di aver corredato la teoria umorale di un aspetto psicologico, fornendo alla teoria stessa una maggiore comple- tezza.

Galeno potenziò ulteriormente la teoria umorale attraverso la formulazione della teoria cosiddetta ‘temperamentale’, secondo cui l’uomo era considerato un essere contraddistinto dalla commistione specifica degli stessi quattro umori che, a causa della prevalenza non patologica di un umore rispetto agli altri, andavano a formare diverse tipologie di ‘temperamento’ (Vegetti 1976: 263), ovvero, differenti personali- tà e qualità fisiche. Quattro erano i temperamenti possibili secondo Galeno: melanco- lico (bile nera prevalente), bilioso (prevalente bile gialla), flemmatico (prevalenza di flegma) e sanguigno (prevale l’umore sangue) (Vegetti 1976: 263); il melanconico è

« magro, debole, pallido, avaro, triste; si deprime e si sottovaluta », il bilioso è « magro, asciutto, di bel colore, irascibile, permaloso, furbo, generoso e superbo; ha sensibilità viva e profonda, è rapido nelle decisioni e tenace nell’esecuzione », il flemmatico è « beato, lento, pigro, calmo e talentuoso, ma è anche freddo e distacca- to. », infine il sanguigno è caratterizzato dall’essere « colorito, gioviale, allegro, go- loso ed incline ad una sessualità vivace; è impulsivo, facile all’entusiasmo ma inco- stante, ottimista quando si tratta di sé e delle proprie capacità, irriflessivo e troppo trasportato dal sentimento e dall’immaginazione ».

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Se le facoltà dell’anima si fondano sui temperamenti corporali, non è possibile, sostiene Galeno, definire positivamente o negativamente un individuo per i compor- tamenti che egli mette in atto, poiché essi sono diretta conseguenza di dinamiche corporali che non hanno niente a che vedere con l’aspetto morale:

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13. Per la descrizione di ogni temperamento, si sono citati passi desunti da:

http://www.impararestudiando.eu/wp-content/uploads/2014/01/La-genesi-della-teoria-dei-quattro- temperamenti-pp.3.pdf, consultato in data 28/3/2016.

14. Di quest’ultima argomentazione Galeno dà notizia sempre in Le facoltà dell’anima (cfr. par. 11, Garofalo, Vegetti 1978: 994).

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In che modo allora […] si può approvare, biasimare, odiare, amare, una persona che è cattiva o buona non per sé, ma per il temperamento, che chiaramente gli deriva da altre cause? (par. 11, Garofalo, Vegetti 1978: 994).

Le categorie umorali rappresentavano nel disegno galenico le fondamenta da cui sia le funzioni organiche che quelle psicologiche derivavano il proprio funzionamen- to; a loro volta, la produzione degli umori dipendeva dall’apporto di cibo e dal mec- canismo della digestione.

Ne Le facoltà naturali, Galeno tentò di dimostrare in che modo il cibo fosse uti- lizzato per la produzione degli umori. Il primo di loro a essere preso in esame è il sangue, segue la motivazione per cui si plasmano anche gli altri umori:

[…] quando il nutrimento viene alterato nelle vene dal calore innato, dalla giusta pro- porzione di questo risulta sangue, mentre dalla mancanza di giusta proporzione nascono gli altri umori […] (par. 8, Garofalo, Vegetti 1978: 907).

Galeno descrive più o meno dettagliatamente come si origini ogni umore, soste- nendo che da cibi caldi ha origine la bile, da quelli naturalmente più freddi si produce invece il flegma (par. 8, Garofalo, Vegetti 1978: 907); un esame a parte viene riser- vato alla creazione della bile sia gialla che nera:

Durante la genesi del sangue la parte piuttosto densa e terrosa che deriva dal nutrimento della natura dei cibi, la quale non subisce l’alterazione derivante dal calore innato, viene attirata a sé dalla milza. La parte del nutrimento, invece, […], arrostita e bruciata (sarà quella in sé più calda e più dolce, come, ad esempio il miele e il grasso) divenuta bile gialla viene scaricata attraverso i vasi detti biliari. Questa è sottile, umida e fluida, e non come è quando, arrostita eccessivamente, diventa gialla, infuocata e densa, simile ai tuorli d’uovo: situazione questa ormai innaturale […]. Allo stesso modo […] la parte dell’umor nero che non produce, per così dire, bollitura e fermentazione della terra è se- condo natura, mentre quella parte che prende tale aspetto e facoltà è innaturale certa- mente, perché ha assunto un’asprezza in seguito alla combustione innaturale del caldo ed è divenuta una sorta di cenere » (par. 9, Garofalo, Vegetti 1978: 916-917).

D’altra parte, Galeno sosteneva che i cibi non producevano gli stessi umori in tutti

gli individui indistintamente poiché, così come suggeriva la dottrina ippocratica, di-

verse erano le costanti da tenere in considerazione quando si interveniva su un pa-

ziente: si dovevano considerare, per esempio, l’età e le caratteristiche del luogo in cui

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29 il malato viveva. Un esempio è dato dal passo in cui Galeno tratta della differenza ri- guardante la produzione di umori che il miele può provocare in persone di età diver- se:

Per la stessa ragione nelle persone calde per natura e in quelle nel fiore dell’età [il mie- le] si trasforma facilmente in bile, perché il caldo unito al caldo finisce facilmente in sproporzione di temperamento e diventa subito bile, non sangue. Perciò il miele richie- de, nella persona, un temperamento freddo e un’età fredda [la vecchiaia] per essere por- tato alla natura di sangue. (par. 8, Garofalo, Vegetti 1978: 910).

e, riguardo al consumo di vino, continua:

Il temperamento dei ragazzi è, in effetti, caldo e ricco di sangue, mentre quello dei vec- chi è povero di sangue e freddo e perciò, è ovvio, è utile ai vecchi il bere vino perché ri- porta alla giusta misura di calore la freddezza dell’età, ma è dannosissimo a coloro che crescono. La loro natura è bollente e fortemente agitata: il vino la surriscalda e la spinge a moti immoderati e violenti (Garofalo, Vegetti 1978: 992).

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1.8. La crisi medica dopo Galeno

Galeno fu probabilmente l’ultimo grande medico dell’antichità; dopo di lui, la scien- za medica subì una battuta d’arresto le cui cause furono di diversa natura. In primo luogo, la biblioteca di Alessandria d’Egitto e l’accademia di palazzo, punti nevralgici della cultura dell’epoca, entrarono in crisi conseguentemente al logoramento dell’apparato statale (III sec. d.C.) da cui le due strutture, come anche altre istituzioni culturali, dipendevano in modo diretto (Vegetti 1976: 273); in secondo luogo, nuove dottrine filosofiche si imposero ai danni delle precedenti che avevano fatto del ragio- namento scientifico la propria ragion d’essere. Le nuove filosofie preferivano occu- parsi di aspetti morali e, in generale, di aspetti concernenti l’individuo in sé e per sé, più che di questioni di carattere scientifico.

In terzo luogo, con l’avvento del Cristianesimo, innalzato a religione ufficiale a inizio del IV secolo, si instaurò una nuova ortodossia religiosa che prese forma in se- guito ai vari Concili indetti a tale scopo. Al ragionamento si sostituì il concetto di ri- velazione, attraverso la quale Dio estendeva la sapienza a coloro che ne fossero de- gni, dando in questo modo la spallata decisiva al ragionamento scientifico (Vegetti 1976: 274).

Ad Alessandria, tra i secc. III e IV d.C., per ovviare forse alla crisi derivata

dall’indebolimento delle istituzioni culturali, venne istituita una nuova scuola medica

di matrice ippocratico-galenica, con l’obiettivo di riscoprire le antiche fonti mediche

derivate dalle dottrine dei due influenti medici (Arikha 2009: 83). Il risultato più im-

portante si ebbe con Oribasio (325-403 d.C.), autore di un compendio composto uti-

lizzando alcuni contributi del suo concittadino Galeno (anche Oribasio era infatti ori-

ginario di Pergamo), che prese il nome di Raccolta medica. Per dare un saggio

dell’importanza di questa opera, si consideri che ancora nei secoli V e VI i medici

bizantini facevano largo riferimento a questo scritto; ad esso potevano essere fatte

delle aggiunte a margine, magari nel caso in cui venissero ritrovati scritti attribuiti,

forse troppo frettolosamente, a Ippocrate o allo stesso Galeno (Arikha 2009: 83). La

scuola non ebbe però vita lunga; essa era stata fondata, come si è detto, tra i secc. III

e IV e già tra la fine dello stesso secolo IV e il VII essa diede cenni di disgregamento

(Arikha 2009: 84).

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