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6. IL DIBATTITO OTTOCENTESCO I. Genealogia delle idee

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6. IL DIBATTITO OTTOCENTESCO

I. Genealogia delle idee

A partire dalle leggi rivoluzionarie del 1791 e del 1793, il diritto di proprietà dell'autore subì una progressiva estensione temporale ad opera del legislatore: il periodo di durata post mortem di 20 anni istituito dall'art.39 del decreto del 5 febbraio 1810 fu portato prima a 30 anni dalla legge dell'8 aprile 1854, poi a 50 dalla legge del 14 luglio 1866. Gli storici sono unanimemente concordi nel riconoscere un ruolo determinante alla giurisprudenza, che nel corso del secolo ha fatto emergere e definito i diritti morali dell'autore ed ha specificato il quadro d'esercizio del diritto patrimoniale.

Le puntuali modifiche legislative intervenute nel XIX secolo si inscrivono all'interno di un intenso dibattito intellettuale che si articola intorno allo statuto ontologico degli oggetti di proprietà intellettuale, quindi alla natura del diritto d'autore, e alla durata della tutela del diritto d'autore. Tre sono i filoni di pensiero rintracciabili:

• la posizione culturalmente egemone degli economisti liberali, eredi della tradizione lockeana, il cui padre intellettuale è Fréderic Bastiat;

• la posizione utilitarista, improntata alla filosofia benthamiana, il cui maggior esponente è l'ingegnere ed economista Jules Dupuit;

• la corrente collettivista capeggiata da Louis Blanc.

Da un punto di vista genealogico occorre notare che le posizioni del primo e del terzo filone sono figlie degli scritti di Diderot e di Condocet, mentre il filone utilitarista declina all'interno di un nuovo paradigma il dispositivo previsto dalla legislazione rivoluzionaria.

Negli spazi di giuntura, a cavallo tra le posizioni liberali e quelle collettiviste, possiamo collocare i contributi originali di Pierre-Joseph Proudhon e Léon Walras.

Il congresso internazionale di Bruxelles del 18581 costituì l'occasione di confronto delle differenti

posizioni in campo. Fu in tale contesto che gli economisti liberali Victor Modeste, Frédéric Passy e Prosper Paillottet, discepoli di Bastiat, presentarono una mozione a favore della perpetuità dei diritti d'autore, le cui argomentazioni furono sviluppate nell'opera De la propriété intellectuelle pubblicata nel 18592.

Poiché le critiche di Dupuit, di Proudhon e di Walras furono costruite in reazione alle tesi esposte in quest'opera, partiremo dal primo filone per ricostruire i termini del dibattito.

1 Cfr. Journal des économistes, t. 19, 2° serie, 15 juillet 1858.

2 De la propriété intellectuelle, études par MM. Frédéric Passy, Victor Modeste, Prosper Paillottet, Guillaumin – Dentu, Parigi, 1859.

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Fermo restando i rapporti d'influenza tra il dibattito illuministico e quello ottocentesco, è bene rilevare sin da adesso una prima evidente differenza: mentre le divergenze tra i philosophes sorgevano in primo luogo da differenti teorie della conoscenza, la diatriba tra gli economisti del XIX secolo, pur attingendo a piene mani a questo lascito intellettuale, scaturisce dalle rispettive teorie della proprietà ed in particolar modo dall'articolazione del rapporto del diritto di proprietà con la legge.

II. Frédéric Bastiat: teorie giusnaturalistiche ed armonie economiche

La teoria delineata da Bastiat in occasione del discorso tenuto al Circolo della Libreria il 16 dicembre 1847 parte dall'assunto che «l'uomo nasce proprietario, vale a dire che la proprietà è il risultato della sua organizzazione»3. Tale assunto contiene un elemento consequenzialista: la

proprietà è valutata in quanto mezzo necessario al soddisfacimento dei bisogni mediante il libero impiego delle proprie facoltà naturali. Da ciò derivano le seguenti traslazioni: «È quindi la proprietà della persona che comporta la proprietà delle cose, ed è la proprietà delle facoltà che comporta quella del loro prodotto»4. In ultima analisi, a fondamento morale delle azioni di possesso e di

creazione che giustificano la proprietà vi è la libertà individuale, intesa come “assenza d'impedimento o di costrizione”. Ne consegue che il diritto di proprietà sia considerato un diritto naturale, in quanto tale anteriore e superiore alla legge, e specularmente che la legge sia ritenuta «il risultato della proprietà»5.

La proprietà intellettuale è annessa ai casi particolari della teoria generale della proprietà: le argomentazioni a favore della proprietà sulle idee sono quindi costruite in termini analogici rispetto alla proprietà degli oggetti tangibili. A ciò occorre aggiungere che da un punto di vista economico l'autore è un produttore e come gli altri produttori ha diritto a trarre profitto da ciò che produce, mentre la pubblicazione rientra nel libero scambio di servizi.

Su queste basi Bastiat giudica la legislazione in vigore del tutto incoerente e contraddittoria: se si riconosce che l'autore è proprietario della sua opera, allora non si può trattarlo come mero usufruttuario; se invece l'opera appartiene al pubblico, allora non c'è motivo di attribuirne l'usufrutto all'autore.

3 Frédéric Bastiat, Le libre échange, Guillaumin et C.ie Libraires, Parigi, 1862, p. 329. 4 Ibidem, p. 329.

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Mi sembra che la legislazione più illogica sia quella che regola da noi la proprietà letteraria. Essa le conferisce un regno di 20 anni dopo la morte dell'autore. Perché non quindici? Perché non sessanta? Sulla base di quale principio è stato fissato un numero arbitrario? Sull'infelice principio che la legge crea la proprietà, principio che può rivoluzionare il mondo6.

La battaglia degli economisti liberali fu quindi volta ad estendere ad aeternum il diritto di proprietà dell'autore, o meglio ad equiparare gli effetti della proprietà intellettuale a quelli della proprietà fondiaria.

Sebbene figlia del giusnaturalismo moderno, la teoria della proprietà perorata da Bastiat contiene «un assunto utilitarista celato»7: l'interesse del proprietario si dimostra un movente utile nei suoi

effetti di giustizia sociale poiché innesca mediante il libero scambio di servizi un circolo virtuoso che porta alla diffusione, vedi distribuzione, dell'opera pervenendo quindi ad avere una ricaduta sociale positiva.

Furono Victor Modeste, Frédéric Passy e Prosper Paillottet a sviluppare ulteriormente le tesi del loro maestro mediante un'analisi più ampia dei fondamenti e delle conseguenze della proprietà intellettuale.

Nel saggio De la propriété intellectuelle Victor Modeste definisce i principi fondamentali alla base della proprietà, intesa come idea di giustizia: «La proprietà è il diritto del lavoratore al prodotto del lavoro. Quali sono le condizioni nelle quali questo diritto si costituisce? Queste: che il lavoro sia personale; che l'oggetto sia appropriabile. Il lavoro personale è l'impiego, da parte della persona umana, delle facoltà che ha ricevuto dal Cielo: Forza, intelligenza, libertà. L'oggetto appropriabile è quello che, prestandosi di diritto all'occupazione, è di fatto definito, afferrabile, suscettibile d'appartenere ad una sola persona, atto a ricevere il deposito del lavoro umano contraendo, sotto la sua azione, delle modifiche e una forma che lo rendono mediante i suoi effetti apprezzabile, misurabile, duraturo»8.

Data questa definizione, Modeste si appresta a applicare tali condizioni all'opera intellettuale per verificarne la perfetta corrispondenza.

Per quanto riguarda la prima condizione, non c'è dubbio che la composizione di un'opera implichi l'impiego delle facoltà di cui l'autore per natura è dotato e che di conseguenza essa costituisca un

6 Ibidem, p. 341.

7 Alan Ryan, Property, University of Minneapolis Press, Minneapolis, 1987, p. 63 cit. in Tom G. Palmer, Brevetti e

diritti d'autore sono moralmente giustificabili? La filosofia dei diritti di proprietà e degli oggetti ideali in La proprietà (intellettuale) è un furto? Riflessioni su un diritto per il futuro, Rubettino Editore, Soveria Mannelli, 2006,

p. 78.

8 De la propriété intellectuelle, études par MM. Frédéric Passy, Victor Modeste, Prosper Paillottet, Guillaumin – Dentu, Parigi, 1859, pp. 150-151.

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lavoro personale. Tuttavia, ammette Modeste, non si può ancora propriamente parlare di proprietà, se non si verifica che alla composizione dell'opera abbia contribuito solo ed esclusivamente il lavoro dell'autore. Ebbene, anche su questo punto Modeste si accinge a diradare le nubi: le opere nascono le une dalle altre, ma lo spirito dei tempi, le tradizioni, gli studi coevi e passati, per emergere all'interno dell'opera, devono passare attraverso il filtro delle originali facoltà dell'autore, che li annette al proprio lavoro conferendo loro il suo marchio individuale. Rispondendo poi alle obiezioni di coloro che avanzavano dei diritti del pubblico derivanti dall'atto di pubblicazione, Modeste asserisce che poiché il pubblico non compie alcun lavoro, non lo si può legittimamente ritenere proprietario dell'opera.

Occorre precisare che il lavoro dell'autore non può essere equiparato a quello di un salariato poiché egli non si limita a prestare un servizio, né concorda in anticipo il prezzo del suo lavoro, ma piuttosto a quello di un coltivatore diretto. Di conseguenza, Modeste giudica del tutto infondata la teoria del contratto tacito, che tanto aveva influenzato la legislazione rivoluzionaria, poiché non è possibile né identificare esattamente i soggetti che hanno stipulato un tale contratto, né accertare la prestazione del consenso.

Ritorna quindi la similitudine dell'autore con il coltivatore di un campo, tanto cara a Diderot. Essa rappresenta lo strumento retorico utilizzato per argomentare la seconda condizione.

Dell'opera distinguiamo il supporto materiale e le idee. Che il supporto materiale sia appropriabile, non è un punto controverso. Sulla possibilità di appropriarsi delle idee occorre invece soffermarsi, risolvendo due distinte questioni: da un punto di vista descrittivo, l'uomo può mediante le proprie facoltà appropriarsi delle idee? Da un punto di vista normativo, l'oggetto di appropriazione si presta legittimamente a questa invasione?

Senza dubbio, il vero, il giusto, la bellezza, la poesia, i rapporti delle cose esistono indipendentemente dai noi stessi e dalle nostre sciocche concezioni; e tuttavia, è chiaro che per noi niente di tutto questo conta e ha origine se non dal giorno e nella misura in cui l'idea è giunta a brillare in un cervello umano. Le idee, in quanto incarnate nella forma che le ha messe al mondo, non sono quindi solamente per essenza appropriabili, sono umane. Sono, nel modo più assoluto, personali. Anche arrivate a quello stadio in cui le chiamiamo idee comuni, esse sono ancora personali9.

Risuonano in questo passo motivi diderottiani: l'autore attinge a un fondo comune, dando forma individuale alle idee che ivi trova. Su una parte di tale fondo, applicandovi il proprio lavoro, egli

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esercita il diritto del primo occupante. L'opera che ne deriva ha caratteri individuali imprescindibili, poiché è il frutto del particolare stile dell'autore: «Si può affermare senza timori che non esistono due uomini presso i quali la stessa idea comune si traduca in una concezione identica del suo oggetto. La maggior parte delle cose che si dicono, ripeteva Voltaire, colpiscono meno della maniera in cui le si dice»10. La parola assurge a «forma elementare della proprietà intellettuale»11.

L'analogia con la proprietà di beni tangibili non sarebbe completa se non si considerasse il “fondo comune” una res nullius: l'atto di apprensione, ovvero il lavoro personale, si realizza su un bene che, non essendo mai appartenuto ad altri, si presta all'occupazione.

Questa occupazione, secondo il nostro autore, è però meno tragica rispetto a quella di una parte della superficie terrestre, in quanto grazie agli effetti del libero scambio i frutti del campo seminato dall'autore torneranno ad essere comuni.

[L'opera intellettuale] è un campo d'idee, di sentimenti, di ricordi, che produce a sua volta dei sentimenti, dei ricordi, delle idee; qui raccolta, là capitale e seme. Ora, al proprietario produttore la proprietà del campo d'idee nella sua forma fissa, immutabile, personale; al pubblico, allo spirito consumatore, il vantaggio di venirci a fare una sua raccolta. [...]

Ed è cosi che, nonostante la giusta persistenza della proprietà dell'opera intellettuale nelle mani dell'autore, le sue idee, seguendo la sua aspirazione, divengono e non cessano d'essere comuni12.

Poiché si è dimostrato che l'oggetto di proprietà intellettuale è appropriabile e frutto di un lavoro personale, l'autore è titolare di un diritto di proprietà non surrogabile con un mero diritto di godimento, poiché le facoltà del proprietario godono della pienezza del diritto.

Da un punto di vista economico, l'opera costituisce il capitale fisso e produttivo dell'autore, i cui modi di sfruttamento possono essere ridotti solo dai limiti della conoscenza umana.

Se l'opera intellettuale è a tutti gli effetti una proprietà, allora la facoltà di godere e disporre in modo pieno ed esclusivo del bene oggetto di proprietà, positivizzata all'interno del Codice Civile napoleonico all'art. 544, richiede di essere garantita da una protezione legale analoga a quella predisposta per gli oggetti materiali.

Nel caso dell'opera intellettuale, la protezione legale consiste nel diritto di riproduzione esclusiva. Coerentemente ai principi precedentemente espressi, l'economista dimostra l'illegittimità della ristampa in questi termini: nella ristampa dei libri non sussiste la seconda condizione della

10 Ibidem, p. 178, corsivo mio. 11 Ibidem, p. 179.

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proprietà; sebbene il lavoro del ristampatore sia un lavoro personale, esso si applica su un bene non qualificabile come una res nullius: sia il supporto materiale che le idee seminate nell'opera hanno ora un legittimo proprietario.

Assodato che la proprietà intellettuale sia una proprietà, bisogna sgombrare il campo dalle insidie di coloro che, pur ammettendo questo, giudicano la proprietà intellettuale una proprietà sui generis. E per far ciò bisogna dimostrare che ad essa sono applicabili tutte le leggi economiche della proprietà ordinaria.

L'opera intellettuale è un valore. Per comprendere quest'asserzione occorre far riferimento alla concezione soggettiva del valore elaborata da Frédéric Bastiat e condivisa da Modeste: il valore delle cose sta nel valore dei servizi, reali o immaginari, resi o ricevuti in termini di lavoro risparmiato13; esso dipende quindi dai giudizi soggettivi degli agenti economici.

In quanto valore, l'opera intellettuale può essere oggetto di scambio, di vendita e di contratto così come gli altri valori: il suo mercato risponde alle leggi della domanda e dell'offerta che regolano i regimi della libera concorrenza; i suoi costi di produzione sono pari ai costi di riproduzione degli uomini; essa può essere oggetto di consumo.

Inoltre essa compendia le due nature della proprietà sotto il profilo economico poiché è al contempo capitale e prodotto, proprietà immobiliare e proprietà mobiliare.

L'analisi economica di Modeste è quindi concorde con quella filosofico-giuridica nel far rientrare a pieno titolo la proprietà intellettuale nella proprietà ordinaria. Ne consegue che l'autore, oltre al pieno ed esclusivo godimento dell'opera, ha diritto a disporne in modo altrettanto pieno ed esclusivo e tale diritto può spingersi fino alla soppressione dell'opera stessa.

Risolta la questione di diritto, Modeste si propone di analizzare la proprietà intellettuale dal punto di vista dell'interesse. Sotto quest'ottica, la consacrazione legale dei diritti di proprietà intellettuale si dimostra un incentivo economico efficace all'aumento dell'offerta, di cui può beneficiare il pubblico, e alla valorizzazione del capitale intellettuale.

In relazione ai mezzi pratici che avrebbero dovuto garantirne la regolamentazione, Modeste propone la creazione di apposite istituzioni quali una mappa catastale che funga da registro e un'imposta della proprietà intellettuale, affinché essa sia completamente equiparata alla proprietà dei beni tangibili.

L'analogia è quindi perfetta; essa è fatta derivare al contempo dal diritto del lavoratore e dal diritto del primo occupante. Fu proprio questa duplice origine a costituire il bersaglio polemico delle critiche che si susseguirono.

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III. Proudhon: sui maggioraschi letterari

Per controbattere le tesi dei “perpetuisti”, occorreva partire dall'argomento principe che risale a Locke: la proprietà è conseguenza del lavoro, cioè dell'azione produttrice del proprietario. Su questa base, che si può applicare perfettamente all'opera intellettuale, si è costruita la similitudine tra la proprietà letteraria e la proprietà fondiaria. La confutazione delle tesi dei perpetuisti passa attraverso la scomposizione di tale similitudine presentata nello scritto “Les Majorats littéraires, examen d'un projet de loi ayant pour but de créer, au profit des auteurs, inventeurs et artistes, un monopole perpétuel” pubblicato da Proudhon nel 1862.

Al fine di sgombrare preliminarmente il campo da probabili pregiudizi sull'oggetto di dibattito, Proudhon avverte il lettore: «La questione in effetti non è sapere se lo scrittore, l'inventore o l'artista ha diritto alla remunerazione della sua opera: chi pensa di rifiutare un tozzo di pane al poeta, tanto più che al colono parziario? Si dovrebbe una volta per tutte bandire dal dibattito questa questione odiosa, pretesto per le più ridicole declamazioni. Ciò che dobbiamo determinare è di che natura è il diritto dello scrittore; in che modo si farà la remunerazione del suo lavoro; se e come questo lavoro potrà dare origine ad una proprietà analoga a quella fondiaria così come richiedono i sottoscrittori della petizione per il monopolio e lo riteneva nel 1844 il principe Luigi Napoleone; o se la creazione di una proprietà intellettuale seguendo l'esempio della proprietà fondiaria non riposa su una falsa assimilazione, su una falsa analogia»14.

L'assunto iniziale dell'analisi di Proudhon è identico a quello degli economisti liberali: da un punto di vista economico, l'autore è un produttore e l'opera costituisce un prodotto, al pari di una produzione agricola o industriale. Tuttavia, poiché l'uomo non è capace di creare ex nihilo, occorre precisare cosa s'intende per produrre : «l'uomo non ha il potere di creare un atomo di materia; la sua azione consiste nell'impadronirsi delle energie della natura, nel dirigerle, nel modificarne gli effetti, nel comporre o scomporre i corpi; nel cambiare le forme, e, mediante questa direzione delle forze naturali, mediante questa trasformazione dei corpi, mediante questa separazione degli elementi, nel rendersi la creazione più utile, più feconda, più benefica, più brillante, più vantaggiosa. Di modo che la produzione umana nella sua interezza consiste 1° in un'espressione d'idee, 2° in uno spostamento di materia»15.

La traslazione di questa definizione nel campo gnoseologico induce l'analisi di Proudhon sulla

14 Pierre-Joseph Proudhon, Les Majorats littéraires, examen d'un projet de loi ayant pour but de créer, au profit des

auteurs, inventeurs et artistes, un monopole perpétuel, Imp. de A.N. Lebègue, Bruxelles, 1862, p. 11.

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falsa riga di una teoria della conoscenza assimilabile a quella di Condorcet: le idee costituiscono delle realtà oggettive, inamovibili, impersonali, indipendenti dalla volontà umana, che l'uomo può solo disvelare mediante uno studio ed una dedizione incessanti.

Il discorso non sta in rapporto di filiazione con le idee, ma rappresenta il modo individuale in cui esse sono formulate. Di conseguenza l'autore non può arrogarsene la creazione; egli può al più vantare una «priorità d'appercezione»16.

L'uomo non crea le sue idee, le riceve; non fa affatto la verità, la scopre; non inventa né la bellezza, né la giustizia, esse si rivelano alla sua anima, come le concezioni della metafisica, spontaneamente, nell'appercezione dei fenomeni, nei rapporti delle cose. Il fondo intellegibile della natura, così come il suo fondo sensibile, è fuori dal nostro dominio: né la ragione né la sostanza delle cose sono nostre; anche quell'ideale che sogniamo, che perseguiamo e ci fa fare tante follie, miraggio del nostro intelletto e del nostro cuore, non ne siamo i creatori, ne siamo solo i veggenti. Vedere a forza di contemplare; scoprire a forza di cercare; mescolare la materia e modificarla secondo ciò che abbiamo visto e scoperto; ecco ciò che l'economia politica chiama produrre17.

Riprendendo la similitudine con la proprietà terriera, Proudhon concepisce il mondo delle idee come un fondo comune a cui tutti gli uomini possono attingere e che tutti possono sfruttare e mettere a frutto (res communes omnium). Al pari di una distesa di terreno, esso appare come un dato di natura al di fuori del dominio umano, ma a differenza di una distesa di terreno, esso non è lottizzabile poiché non esistono mezzi adeguati allo scopo di farne le parti. Il fondo risulta incommensurabile rispetto ai mezzi con i quali ci si propone di recintarlo. Poiché le idee sono per natura indivisibili, esse non possono essere rese oggetto di proprietà. In termini più contemporanei, possiamo affermare che “il campo” delle idee è un bene non escludibile dal consumo.

Dalla produzione di un libro non è quindi deducibile secondo Proudhon la proprietà delle idee che in esso sono contenute. Per esemplificare quest'idea, egli ricorre ad un'allegoria: «In primavera, le povere contadine vanno nel bosco a raccogliere fragole che portano in seguito in città. Queste fragole sono il loro prodotto, di conseguenza, per parlare come l'abate Pluquet, la loro proprietà. Ciò prova che queste donne sono ciò che chiamiamo proprietarie? Se dicessimo questo, tutti crederebbero che esse sono proprietarie del bosco da cui provengono le fragole. Ahimè! La verità è proprio il contrario. Se queste commercianti di fragole fossero proprietarie, non andrebbero nel

16 Ibidem, p. 123. 17 Ibidem, p. 14.

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bosco a prendere il dessert dei proprietari, lo mangerebbero esse stesse»18.

Fintanto che non diviene oggetto di scambio e non intercorre un contratto di vendita, il libro in quanto prodotto è proprietà del suo autore.

Ci si chiede allora se lo scambio possa dar luogo ad una rendita perpetua come quella ricavabile da un appezzamento di terreno. Nella misura in cui il prodotto intellettuale è una cosa fungibile e consumabile, ovvero soggetto a deterioramento e usura come gli altri prodotti, risponde Proudhon, non si vede perché lo scambio non debba comportare un trasferimento di proprietà in capo all'acquirente.

Tuttavia lo scambio dell'opera intellettuale presenta delle caratteristiche peculiari poiché esso non coinvolge solo privati, ma un intero pubblico. Per offrire una soluzione pragmatica al problema della remunerazione dello scrittore privo di un secondo impiego, Proudhon rinverdisce l'espediente del contratto tacito, caposaldo della legge del 1791, in base al quale l'autore perde la facoltà di disporre sovranamente del libro, ma ottiene in contropartita un privilegio temporaneo di vendita. Egli tiene però a precisare l'errore insito proprio in questa legge, e nella teoria del contratto tacito che ne costituisce il framework, quando si sostiene che la proprietà del pubblico abbia inizio una volta giunto a scadenza il privilegio di vendita. L'errore nasce dalla sovrapposizione di due oggetti distinti: la proprietà dell'opera letteraria ed il diritto di venderne degli esemplari. Il contratto di vendita e di scambio implica il passaggio di proprietà dal venditore all'acquirente della merce al momento della sua consegna. Nel caso dell'opera letteraria, una volta pubblicata, essa entra nel dominio della pubblicità, entra a far parte di un patrimonio collettivo; la proprietà passa quindi dall'autore al pubblico all'atto stesso della pubblicazione. Il diritto dell'autore di vendere delle copie rappresenta invece un dispositivo economico-giuridico volto a garantire la sua remunerazione. Poiché svolge una funzione strumentale a fini economici, questo diritto è sottoposto alle disposizioni legislative che ne delimitano la durata.

Il servizio dello scrittore, considerato da un punto di vista economico ed utilitario, si risolve in un contratto, espresso o tacito, di scambio di servizi o prodotti, il quale scambio implica che l'opera di genio, remunerata mediante un privilegio di vendita temporanea, divenga proprietà pubblica a partire dal giorno della pubblicazione19.

Si potrebbe obiettare che se l'opera divenisse di proprietà pubblica al momento della pubblicazione, ne deriverebbe, quale spiacevole conseguenza, che l'autore non abbia il diritto di

18 Ibidem, p. 18. 19 Ibidem, p. 159.

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correggere, modificare, estendere o ridurre l'opera, in altre parole di esercitare i propri diritti morali su di essa. Tuttavia, scrive Proudhon, in virtù del diritto di vendere in esclusiva l'opera, si può ammettere che l'autore disponga delle facoltà di emendare, rettificare e ritrattare nel corso della durata del suo privilegio e che le possa esercitare mediante nuove edizioni. Ma tali facoltà non possono estendersi al diritto di ritirare l'opera dal mercato poiché ciò comporterebbe la possibilità di arrecare un danno al dominio pubblico.

Punto fragile delle argomentazioni sin qui delineate è l'assimilazione delle opere intellettuali ai prodotti industriali e agricoli, nella misura in cui trascura una rilevante caratteristica delle prime: il prodotto intellettuale non si consuma mediante l'uso e non è soggetto a deterioramento in tempi e modi paragonabili a quelli degli altri prodotti poiché le idee hanno una vita media incomparabilmente più lunga di quella di un oggetto tangibile. La transazione tra lo scrittore ed il pubblico, piuttosto che risolversi nel mero scambio, potrebbe allora essere qualificata come un'operazione di credito, nella quale l'opera costituisce il capitale dato in prestito dall'autore al pubblico.

Le controbiezioni di Proudhon al riguardo sono duplici: da una parte egli evidenzia che le caratteristiche del prodotto non sono indici della natura del contratto poiché il prestito può avere ad oggetto tanto prodotti consumabili e fungibili quanto beni durevoli; d'altra parte, egli controbatte la tesi secondo cui l'opera intellettuale è al contempo capitale e prodotto. Il capitale dell'autore, intendendo per esso «la massa di prodotti accumulati mediante il risparmio e destinati alla riproduzione»20, consiste infatti dei suoi studi, delle sue annotazioni, dei suoi mezzi d'esistenza,

della sua biblioteca, ovvero di elementi non valorizzabili che non entrano all'interno di una transazione economica. Una volta concluso il contratto di vendita, il prodotto della autore potrà sì diventare capitale, ma capitale pubblico.

In sintesi, Proudhon opera un superamento dell'argomento lockeano sostenendo che il lavoro può considerarsi un titolo sufficiente alla proprietà del prodotto, ma non del mezzo di produzione e che l'occupazione, se nel caso della proprietà fondiaria si attesta come fatto empirico, rispetto ad una pretesa proprietà intellettuale si riduce a mezzo difficilmente praticabile e richiedente barriere tecniche e contrattuali mai del tutto adeguate allo scopo.

Lungi dal farsi fautore di un mecenatismo di Stato, egli ritiene che i diritti dell'autore debbano limitarsi al diritto di vendere in esclusiva la propria opera per un numero di anni definito dalla legge e proporzionale alla remunerazione del suo lavoro ed ai diritti morali ad esso connessi, fatta eccezione per il diritto di ritirare dal mercato l'opera pubblicata.

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IV. Jules Dupuit: la concezione utilitaristica della proprietà intellettuale

In netta contrapposizione con la tradizione giusnaturalistica, gli scritti di Jules Dupuit sulla proprietà intellettuale si caratterizzano per una struttura argomentativa consequenzialista imperniata sull'idea invisa agli economisti liberali secondo la quale «il diritto di proprietà e le sue conseguenze non hanno altro fondamento che la legge»21 . Sulle orme di Pascal, di Montesquieu e di Mirabeau,

Jules Dupuit considera la proprietà un'istituzione umana fondata su un consenso sociale conforme ad un interesse pubblico.

Quando dico che il consenso dovuto alla società, una convenzione umana, è all'origine del diritto di proprietà della terra, non voglio certo dire che la società si sia riunita un giorno senza i suoi comizi, che abbia deliberato sul diritto di proprietà, che dopo averne riconosciuto i vantaggi li abbia sanzionati per legge. d No, l'uomo si è impadronito della terra, come ha preso possesso del servitore, mediante la forza e l'astuzia; attaccato si è difeso con gli stessi mezzi, ha chiamato in suo soccorso prima gli altri proprietari per un interesse comune, poi la società che gli ha prestato assistenza più o meno efficace secondo i tempi e i luoghi; ma quest'assistenza è andata crescendo con la civiltà, perché la società ha visto che il suo interesse era in accordo con quello del proprietario della terra, mentre quella che ha prestato al proprietario dell'uomo è andata diminuendo perché ha visto che agiva contro il suo interesse22 .

Tale narrazione è volta a confutare le teorie giusnaturalistiche, le quali sono accusate di confondere il sentimento naturale, ovvero la propensione umana a appropriarsi di ciò che procura un godimento, con l'esistenza di un diritto naturale, opponendosi sia alle teorie che fanno derivare la proprietà fondiaria dal diritto del primo occupante, sia a quelle che la fondano sul lavoro: le une non prendono in considerazione le testimonianze storiche di una occupazione collettiva delle terre, le altre trascurano il fatto che il valore della proprietà terriera è sovente indipendente da quello del lavoro.

Conformemente all'utilitarismo edonista benthamiano, Jules Dupuit perora a favore di una legislazione che abbia quale propria bussola e criterio di valutazione il principio dell'utilità

21 Jules Dupuit, Du principe de propriété, Le juste et l'utile, in Journal des économistes, t.30, n°1, gennaio 1861 e n °14, aprile 1861 riportato in Dominique Sagot-Duvauroux, La propriété intellectuelle c'est le vol!, Les Majorats

littéraires et un choix de contributions au débat sur le droit d'auteur au XIX siècle, Les presses du réel, Dijon, 2002,

p. 87. 22 Ibidem, p. 61.

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pubblica, sintetizzato nella seguente proposizione: «procurare la più grande somma di benessere all'universalità di ciascun membro della società, rispettando, per quanto questo obiettivo lo permette, la loro libertà ed i loro diritti naturali»23. Tale principio implica che per ciascuna

situazione in cui il legislatore è chiamato a deliberare, sia operato un calcolo degli interessi in gioco e che le opzioni siano valutate sulla base delle conseguenze attese e verificate.

Jules Dupuit si propone quindi di esaminare qual è il modo di appropriazione delle opere intellettuali più conveniente all'interesse pubblico e agli autori.

In relazione al primo, il dominio pubblico delle opere intellettuali costituisce il miglior modo di appropriazione poiché consente attraverso l'ampliamento dell'offerta di ristampe la riduzione del prezzo, la libera traduzione ed elaborazione di opere derivate e presenta anche il vantaggio di conseguire la conservazione inalterata nel tempo delle opere. Questi vantaggi sono da connettersi ad una caratteristica peculiare delle risorse intellettuali: l'inesauribilità. Si può godere delle opere intellettuali senza distruggerle; in altre parole, mentre Proudhon fa valere la non escludibilità dal consumo, Jules Dupuit fa leva su ciò che in termini contemporanei definiamo non rivalità nel consumo: «I prodotti del libro e dell'invenzione non si distruggono mediante la fruizione. La fruizione è illimitata, vale a dire che quella degli uni non impedisce quella degli altri, e quella d'oggi quella di domani. Essa è la più ampia possibile quando il libro e l'invenzione sono caduti nel dominio pubblico. L'appropriazione personale diminuisce i prodotti, non migliora il libro, ne compromette l'esistenza»24. Passando all'esame degli interessi degli autori, non si può tuttavia

negare che in un sistema di comunismo intellettuale la loro remunerazione sarebbe alquanto incerta e presumibilmente molto bassa. Operando quindi un tradizionale bilanciamento d'interessi, l'ingegnere si fa fautore del mantenimento dello status quo: la massimizzazione dell'utilità pubblica richiede che all'autore sia accordata una proprietà vitalizia estendibile a qualche anno dopo la sua morte.

Ancor più risoluta è la difesa del dominio pubblico in relazione alle invenzioni industriali poiché nel campo delle applicazioni tecnico-industriali il processo cumulativo delle conoscenze apportate da scienze ed attività industriali differenti consente un rinnovamento ed un miglioramento più rapido e più diffuso dei processi e delle produzioni industriali: «Se il comunismo conviene all'opera letteraria, esso è indispensabile all'opera industriale, la cui caratteristica è di propagarsi e diffondere i suoi benefici istantaneamente, e di non poter essere protetta, difesa tra le mani del proprietario senza imbattersi in difficoltà che, con il tempo, divengono inestricabili. [...] Un'invenzione si completa, si modifica, si perfeziona in mille modi diversi, prendendo a prestito da scienze e

23 Ibidem, p. 106. 24 Ibidem, p. 106.

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industrie, che spesso appaiono molto distanti, sia nei principi, sia nei procedimenti già conosciuti e utilizzati, ma sconosciuti all'inventore che non può sapere tutto»25.

Jules Dupuit non esita tuttavia a riconoscere i limiti di una concezione utilitarista nella misura in cui il principio dell'utilità pubblica non è un principio assoluto ed inalterabile nel tempo; esso si presta infatti ad un rinnovo continuo dei suoi contenuti normativi per ciascun tempo e ciascuna società nel quale viene applicato, consentendo al legislatore margini di arbitrarietà molto più ampli rispetto a quelli derivanti da un sistema di norme fondato sul diritto naturale.

V. Léon Walras: ricchezza sociale e ricchezza intellettuale

A conclusioni identiche ma per vie differenti perviene l'economista Léon Walras, il quale dedicò al problema della proprietà intellettuale tre articoli pubblicati sulla Gazzetta di Losanna il 10, l'11 e il 12 giugno 1880, nei quali riprendeva le fila di un'analisi presentata sulle colonne del Journal des Economistes nel dicembre del 185926. Proprio in quest'ultimo articolo egli critica le tesi esposte da

Modeste, Passy e Paillottet confutando l'assimilazione del fondo comune delle idee alla superficie terrestre:

Non si crea la materia, ma si creano le idee. Il fondo comune delle idee non è affatto rispetto alla proprietà intellettuale ciò che la superficie terrestre è rispetto alla proprietà fondiaria. La superficie terrestre è un capitale valorizzabile, appropriabile, scambiabile, che produce un reddito; il fondo comune delle idee non né valorizzabile, né appropriabile; e non è affatto scambiabile; non costituisce ricchezza sociale; tutt'al più ricchezza naturale. Esso è al di fuori di ogni proprietà27.

Per comprendere questo passaggio occorre definire gli elementi costitutivi di ciò che Walras classifica sotto il nome di ricchezza sociale: essa si compone solo delle utilità rare, ovvero quantitativamente limitate. Affinché un bene possa essere sottoposto ad un regime proprietario e sia ad esso attribuibile un valore di scambio, è necessario che soddisfi due condizioni gerarchicamente ordinate:

1. l'utilità, cioè la rispondenza ad un bisogno;

25 Ibidem, p. 99.

26 Gli articoli del 1880 apparsi sulla Gazzetta di Losanna sono riportati in Léon Walras, Etude d'économie sociale, Ristampa anastatica della prima edizione del 1896 a cura di Oscar Nuccio, Edizioni Bizzarri, Roma, 1969.

27 Léon Walras, De la propriété intellectuelle, Position de la question économique, in Journal des Economistes, t.24, n °12, dicembre 1859 riportato in Dominique Sagot-Duvauroux, op. cit., p. 124.

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2. la rarità, cioè la limitazione quantitativa.

In altre parole, «il valore di scambio e la proprietà nascono insieme dalla rarità o dalla limitazione nella quantità delle utilità»28.

Il problema della proprietà intellettuale viene riformulato dall'economista nei seguenti termini: la ricchezza intellettuale è ricchezza sociale?

Egli dà una prima definizione, in sede euristica, di ricchezza intellettuale come insieme delle idee scientifiche, artistiche e industriali che si vogliono rendere oggetto di proprietà intellettuale e si propone di verificare se ciò che è stato nominato in tal modo sia al contempo utile (e si possa propriamente parlare di ricchezza intellettuale) e raro (e possa di conseguenza far parte della ricchezza sociale).

Se la ricchezza intellettuale è utile, allora si possono ipotizzare tre possibili soluzioni del problema:

• la ricchezza intellettuale è utile, ma quantitativamente illimitata; essa non potrà allora essere sottoposta ad un regime proprietario allo stesso modo in cui non ci preoccupiamo di renderci proprietari dell'aria atmosferica;

• la ricchezza intellettuale è utile e rara, essa potrà quindi essere resa oggetto di appropriazione e ad essa sarà attribuito un valore di scambio;

• la ricchezza intellettuale è utile e può, a nostro piacimento, essere quantitativamente limitata o illimitata; occorrerà allora individuare le ragioni di giustizia e d'interesse a favore dell'una o dell'altra opzione.

L'economista procede prima a scandagliare lo statuto ontologico della ricchezza intellettuale, poi a predisporre il meccanismo organizzativo ad esso più coerente.

Sebbene non tutte le idee scientifiche, industriali ed artistiche siano utili, almeno una parte di esse risponde ad un bisogno e costituisce a pieno titolo ricchezza. Walras definisce quindi ricchezza intellettuale l'insieme delle idee scientifiche, industriali ed artistiche utili, cioè rispondenti ad un bisogno.

La verifica della rarità è questione più spinosa e controversa poiché si dà il caso che «le idee scientifiche, artistiche, industriali, quando sono utili, non sono naturalmente e necessariamente limitate nella quantità»29. È proprio infatti delle cose immateriali d'essere condivise senza che ciò

comporti una loro riduzione e di diffondersi attraverso la moltiplicazione. La limitazione quantitativa di un'idea persiste solo se essa non viene per deliberata scelta comunicata; tenuta in segreto, sarà molto difficile trarne profitto. Nella maggior parte dei casi è necessario che l'idea

28 Léon Walras, Etude d'économie sociale, Ristampa anastatica della prima edizione del 1896 a cura di Oscar Nuccio, Edizioni Bizzarri, Roma, 1969, p. 247.

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venga comunicata per poter essere messa a frutto.

Poiché non sussiste il presupposto della rarità, Walras ne deduce che la proprietà intellettuale non può essere considerata come un caso particolare della teoria generale della proprietà e di conseguenza la sua disciplina legislativa non può essere analoga a quella della proprietà ordinaria, a meno che il legislatore non decida di costituire dei monopoli, al fine di rendere mediante un apposito artificio la ricchezza intellettuale una ricchezza sociale. Quali sono le ragioni di giustizia e d'interesse che militano a favore della persistenza di una ricchezza naturale o della trasformazione della ricchezza intellettuale in ricchezza sociale?

Dal punto di vista della giustizia, o più precisamente nel nostro caso dell'equità di trattamento, occorre esaminare quanto le idee scientifiche, industriali ed artistiche dipendano dai loro autori ed inventori. A questo proposito, anche Walras abbozza una concezione del processo conoscitivo simile a quella del marchese di Condorcet, fatto salvo per gli accenti deterministici che essa denota: pur riconoscendo l'attività creativa che l'uomo svolge nella produzione di nuove idee, egli rileva che «Poiché la verità è assoluta e universale, essa è una; deve quindi infallibilmente prodursi prima o poi come tale; lo spirito umano deve incontrarla un giorno o l'altro nella sua forma necessaria»30.

Ciò spiega la possibilità di una scoperta simultanea. L'economista riconosce però che la stessa cosa non può dirsi per le idee artistiche e letterarie, le quali faticano a ridursi a delle verità oggettive, necessariamente determinate in una data forma. Tuttavia, in entrambi i casi le idee non sono il frutto unico dei loro autori o inventori, esse si devono in parte ai loro autori, in parte alla società in cui sono nate e sono state coltivate.

Dal punto di vista dell'interesse, Walras constata che «è assolutamente contrario all'interesse generale che delle cose utili, illimitate in quantità, siano trasformate in monopoli, in modo che al posto di averle gratuitamente, siamo obbligati a pagarle al prezzo del massimo profitto»31. Ma è

d'altro canto contrario all'interesse generale il fatto che gli autori e gli inventori siano disincentivati ad elaborare teorie scientifiche e comporre opere d'arte se privati della possibilità di trarne un compenso pecuniario.

Stando così le cose, l'analisi si trova di fronte ad un problema economico e politico: occorre scegliere come allocare i diritti di proprietà e tale scelta non può che fondarsi su una convenzione tra l'autore e la società, suggellata dalla legge. Walras fa quindi ricorso alla teoria del contratto tacito che a partire della storica arringa dell'avvocato Marion si è infiltrata negli orientamenti giurisprudenziali ed ha costituito il perno attorno a cui è stata elaborata la legislazione rivoluzionaria.

30 Ibidem, p. 253. 31 Ibidem, p. 254.

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La modulazione di tale contratto non può essere però la stessa nel caso di un'opera d'arte o di letteratura, di una teoria scientifica o di un'invenzione industriale. Poiché l'applicazione industriale di teorie scientifiche è sovente incerta e lontana nel tempo, la ricerca scientifica può essere assicurata solo a condizione di essere considerata come un servizio pubblico. È bene quindi, sia dal punto di vista dell'interesse che da quello della giustizia, che le scoperte scientifiche ricadano immediatamente nel dominio pubblico.

La proprietà intellettuale, così circoscritta, si comporrà quindi di due specie: la proprietà artistica e letteraria e la proprietà industriale.

In merito a quest'ultima, Walras evidenzia quanto la legislazione in vigore avesse elargito benefici nei confronti degli inventori, consentendo pratiche abusive a discapito degli industriali. La legge del 5 luglio 1844 aveva ulteriormente esteso i vantaggi già previsti dalla legge del 7 gennaio 1791 consentendo agli inventori di vedersi accordati i brevetti senza un esame preliminare del contenuto innovativo dell'invenzione. Tale verifica veniva eseguita ex post da parte di una commissione di esperti all'interno di un procedimento intentato dall'autore contro presunti contraffattori. Mentre il procedimento era ancora pendente, il titolare di brevetto poteva richiedere il sequestro preventivo dei presunti prodotti contraffatti e degli strumenti di fabbricazione. Grazie a questo sistema, il titolare di brevetto poteva esercitare un potere ricattatorio nei confronti dell'industriale, minacciandolo di farlo perseguire per contraffazione.

Le distorsioni rilevate all'interno del sistema indussero Walras a ritenere che le procedure giuridico-amministrative da applicare alla proprietà artistica e letteraria e alla proprietà industriale al fine di riconoscere i rispettivi diritti degli autori e degli inventori dovessero essere differenziate: alla prima è più adeguato secondo l'economista un sistema in base al quale l'autorità amministrativa preposta dalla legge prende semplicemente atto dell'opera dell'autore, senza conferirgli dei diritti prima di una decisione dei tribunali chiamati a giudicare sull'esistenza di contraffazione; per la seconda è più opportuno che l'esame da parte di una commissione di esperti avvenga ex ante e che lo Stato possa acquistare il brevetto indennizzando il suo inventore nel caso in cui ritenesse l'invenzione così utile da dover ricadere immediatamente nel dominio pubblico.

In conclusione, in quanto non naturalmente riducibili alla categoria delle utilità rare che costituiscono ricchezza sociale, Walras confuta la tesi secondo cui le idee artistiche, letterarie ed industriali possono essere ricondotte allo schema della proprietà ordinaria e sostiene che solo un dispositivo giuridico ed economico creato ad hoc possa limitarne artificialmente la quantità nell'interesse della remunerazione dell'autore.

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VI. Louis Blanc: il sacerdozio intellettuale e la libreria sociale

Fermamente contrario al professionismo letterario, tacciato di indurre l'autore ad abdicare alla funzione di elevazione morale attribuita alla letteratura, Louis Blanc si fece strenuo fautore di ciò che Walras definì un «sacerdozio intellettuale»32.

La radicale opposizione all'istituzione di una proprietà letteraria costituì l'oggetto della seconda parte dell'opera “Organisation du travail”33: rispetto all'analisi degli economisti liberali, quella di

Blanc presenta un capovolgimento del termine di paragone.

La proprietà del pensiero! Tanto varrebbe dire la proprietà dell'aria chiusa nel pallone che tengo in mano. Fatta l'apertura, l'aria fugge via; si spande dappertutto, si mescola ad ogni cosa: ognuno la respira liberamente. Se volete assicurarmene la proprietà, occorre che mi diate quella dell'atmosfera, potete farlo?34

La non tangibilità delle idee le rende al contempo indivisibili e non soggette a scarsità. Poiché l'individuazione del titolare del diritto di proprietà sulla base dell'origine della produzione conduce verso conclusioni controverse e contraddittorie, Blanc persegue la via offerta dall'origine del valore della produzione: come posto in evidenza anche da Proudhon e da Walras, il valore di un'opera intellettuale dipende dalla pubblicità, ovvero dalla sua pubblica condivisione.

Qualunque sia la parte di tutti nel pensiero di ognuno, non si negherà tuttavia che il pensiero tragga dalla pubblicità tutto il suo valore. Che vale il pensiero nella solitudine? […]

La consumazione distrugge, fa sparire gli oggetti materiali. La pubblicità, questa consumazione intellettuale, lungi dal distruggere gli oggetti immateriali, li moltiplica, li rende più preziosi, ne accresce la loro fecondità, aumenta le loro chance di vita. Non c'è quindi bisogno di sapere da dove proviene l'origine delle produzioni intellettuali, basta sapere da dove proviene il loro valore, per comprendere che esse non potrebbero essere il patrimonio di nessuno. Se la società conferisce loro un valore, il diritto di proprietà appartiene solo alla società35.

32 Cfr. Léon Walras, De la propriété intellectuelle, Position de la question économique, in Journal des Economistes, t.24, n°12, dicembre 1859 riportato in Dominique Sagot-Duvauroux, op. cit., pp. 112-113.

33 Louis Blanc, Organisation du travail, Meline Cans et C., Bruxelles, 1848. 34 Ibidem, p. 226.

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Un'idea consumata non sparisce, ma si spande. Ne consegue che «sottomettere il pensiero alla teoria dello scambio significa designare una quantità finita come misura di una quantità infinita»36.

Per proteggere la letteratura da una concorrenza esacerbata e consentire l'accesso alla pubblicazione ad autori di talento, ma privi di risorse economiche e notorietà sufficienti, Louis Blanc ideò l'istituzione di una libreria sociale, i cui statuti sarebbero stati sottoposti a legge dello Stato. I prezzi dei libri da essa pubblicati sarebbero stati predeterminati dallo Stato; una commissione di specialisti avrebbe selezionato le opere. In cambio dei loro diritti d'autore, gli autori avrebbero ricevuto una ricompensa nazionale, quale attestazione di merito.

I punti deboli della posizione di Louis Blanc sono dati dalla riduzione di un problema economico e politico ad una questione di morale privata e dal fatto che il progetto di libreria sociale, per impedire la sottomissione della produzione pubblicistica a leggi ed interessi di ordine economico, la sottopone ad un altro padrone, predisponendo nuovi meccanismi per un mecenatismo di stato.

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VII. Intorno alla Convenzione di Berna

Il dibattito ottocentesco mostra i limiti delle teorie della proprietà intellettuale fondate sul lavoro e sull'analogia con la proprietà di beni tangibili, mediante la disgiunzione del legame funzionale suggellato dalla legislazione rivoluzionaria tra il diritto dell'autore ad essere remunerato ed il diritto di proprietà sull'opera.

Le differenti critiche mosse alla riconduzione delle idee allo schema ordinario della proprietà privata convergono nel sostenere che le idee, a differenza degli oggetti tangibili, non sono soggette a scarsità, non rappresentano quindi dei beni rari, il cui monopolio legale è indispensabile ai fini del loro uso e godimento. Al contrario, si dà la possibilità di una fruizione simultanea della parte immateriale di un testo senza che ciò comporti il venir meno del testo stesso e senza che la fruizione dell'uno ostacoli o impedisca quella dell'altro. Ed è inoltre molto difficile impedire che le idee dell'uno siano fruite e messe a frutto anche dall'altro: occorre a questo proposito elevare barriere tecniche e contrattuali sempre più sofisticate e sempre più repressive.

Fatta eccezione per Walras, il quale riconosce la rilevanza dell'atto creativo nell'elaborazione di un'opera intellettuale, queste considerazioni sullo statuto ontologico delle idee si accompagnano ad una concezione del processo conoscitivo all'interno della quale l'uomo ha un ruolo di mero contemplatore di idee, i cui atti di volizione si riducono alla scelta etica di perseguirle o voltar loro le spalle.

All'interpretazione analogica si oppone la configurazione dei diritti patrimoniali dell'autore come finzione giuridica volta per motivi di utilità pubblica e di equità a remunerare il lavoro dell'autore e fondata sull'idea regolativa di un patto sociale stretto tra l'autore ed il pubblico.

Le argomentazioni economiche rafforzano quelle giuridiche: poiché la creazione di valore di un'opera dell'ingegno è direttamente proporzionale alla sua pubblicità, un regime rigidamente proprietario, oltre ad essere iniquo, si dimostra controproducente rispetto all'obiettivo di massimizzare la diffusione e la pubblica condivisione di un'opera.

Persiste tuttavia, lo ritroviamo nello scritto di Blanc, il pregiudizio di matrice aristocratica per cui l'autore dovrebbe rinunciare all'attribuzione di un valore venale alla propria opera; le alternative proposte alla mercificazione non lasciano ben sperare circa le libertà di espressione e di accesso alla pubblicazione garantite all'autore poiché non si fondano su sistemi cooperativi, come quelli abbozzati da Condorcet, ma su organizzazioni rigidamente gerarchiche sottoposte al controllo del potere politico.

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La Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche stipulata il 9 settembre 188637 segna una tappa fondamentale nella storia del diritto d'autore continentale,

sancendo la reciproca tutela dei diritti degli autori tra gli stati contraenti. L'articolo 7 comma 1 della Convenzione stabilisce una durata post mortem della tutela concessa di 50 anni, estesa poi a 70 dai paesi europei e dagli USA in virtù delle facoltà disposte all'art. 7 comma 6.

La Convenzione sancì la messa in sordina delle posizioni critiche rispetto al prevalere del paradigma della proprietà privata, relegando il dominio pubblico a parte residuale dei modi legali di diffusione e fruizione delle opere.

Se un patto sociale è stato stretto tra gli autori ed il pubblico, quanto contratto risulta nettamente sbilanciato a favore dei primi, andando ben oltre le necessità di remunerazione.

Nati sulle spoglie dei privilegi d'autore e dei privilegi d'edizione, i diritti d'autore ne replicano il dispositivo economico al fine di consentire l'emancipazione dell'autore dal mecenatismo e garantire la titolarità delle opere. La «dichiarazione dei diritti del genio» del 19 luglio 1793 segna l'apogeo della trasposizione legislativa di quella «trasmutazione del concetto di arte in attività produttrice»38

di cui Denis Diderot fu precursore e che tanto influenzò la delineazione della figura giuridica dell'autore. Il “diritto di proprietà limitata”, che costituì il portato della Rivoluzione Francese in materia di proprietà intellettuale, sintetizza la bipolarità degli interessi in gioco stabilendo un labile equilibrio tra proprietà privata e dominio pubblico delle opere. Il compromesso raggiunto ebbe vita relativamente breve poiché le successive modifiche legislative intervenute nel corso del XIX secolo contribuirono in modo incrementale a rendere l'autore il centro di gravità della legislazione francese sui diritti d'autore. Mentre dalla tribuna del Congresso Letterario Internazionale del 1878 Victor Hugo arringava l'uditorio dicendo «Constatiamo la proprietà letteraria, ma allo stesso tempo, fondiamo il dominio pubblico. Spingiamoci ancor oltre. Ingrandiamolo. La legge dia a tutti gli editori il diritto di pubblicare tutti i libri dopo la morte degli autori, alla sola condizione di pagare agli eredi diretti un indennizzo molto modesto, che non superi in nessun caso il cinque o il dieci per cento del profitto netto»39, l'erosione del dominio pubblico fervidamente invocato era già all'opera,

riducendo la pubblicazione a strumento attraverso cui si estrinseca la sovranità del singolo. E tale erosione dispiega in modo ancor più incisivo i suoi effetti in campo scientifico.

Se è vero che «ogni volta che le discipline scientifiche mutano il loro orizzonte da un punto di vista filosofico c'è sempre una nuova conquista di senso»40, il suo sistema di articolazione tramite la 37 http://www.interlex.it/testi/convberna.htm

38 Jacques Chouillet, L’esthétique des lumières, Presses universitaires de France, Vendôme, 1974, p. 9.

39 Estratto da Victor Hugo, Actes et Paroles, Volume 4, Depuit l'Exil 1876-1885 disponibile online all'indirizzo http:// www.gutenberg.org/etext/8490.

40 Intervista a Michel Serre di Giulio Giorello e Nuccio Ordine, Elogio della pirateria, Corriere della Sera, 14 agosto 2006.

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tecnica e lo statuto giuridico attribuito ai beni informazionali41 dipendono da scelte politiche capaci

di incidere significativamente sulle modalità attraverso cui tali conquiste diventano elemento dinamico nello scambio, nella produzione e nella condivisione di informazioni e conoscenze.

L'originalità creativa posta a fondamento della tutela del diritto d'autore presuppone che la forma attraverso cui le idee trovano espressione sia indissociabile non solo dalla persona dell'autore, costituendone una sua propaggine espressiva, ma anche dalle potenzialità comunicative dell'idea stessa. Ciò che brilla per la prima volta in una mente umana rimane entro i limiti della persona che l'ha prodotta; vi potrà essere negozio, ma partendo da differenze irriducibili.

Le critiche a tale impostazione pongono in evidenza che l'origine individuale delle idee non impedisce la costituzione di ponti tra l'autore ed il pubblico che ne moltiplicano le potenzialità comunicative ed accrescono il valore dell'opera intellettuale. Da qui, parafrasando un interrogativo di Walras, possiamo chiederci: abbiamo interesse a che questa ricchezza intellettuale sia resa oggetto di monopoli? Nella misura in cui ciò assicura la remunerazione degli autori, si. Ma che questo monopolio abbia una durata molto più lunga della vita di un autore ci appare come una netta sproporzione tra mezzi e fini. Un passo indietro nella storia del diritto d'autore potrebbe rappresentare in questo caso un passo in avanti del dominio pubblico delle opere, stemperando l'antagonismo degli interessi in gioco e riconfigurando gli equilibri nel campo della produzione pubblicistica.

41 Uso il termine nel senso indicato da Philippe Aigrain in Philippe Aigrain, Causa Comune, Stampa alternativa, Roma, 2007.

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