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INTRODUZIONE 1.1 La Miastenia gravis

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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE

1.1 La Miastenia gravis

La Miastenia gravis (MG) è una malattia acquisita caratterizzata clinicamente da una abnorme affaticabilità muscolare riportabile ad un disturbo autoimmunitario che si esprime a livello della giunzione neuromuscolare.

Il termine miastenia deriva dal greco myastheneia (μύς – muscolo, ά – privativo, σθενος – forza) e significa “debolezza muscolare”. In tempi passati era difficilmente curabile; da qui il termine di “gravis”. L’origine del termine risale al 1895, quando il tedesco Friedrich Jolly coniò il termine di miastenia gravis pseudoparalitica per descrivere le condizioni di debolezza muscolare in cui versavano due giovani ragazzi (Jolly, 1895). La miastenia è stata riconosciuta per la prima volta come entità clinica distinta dal medico inglese Thomas Willis, il quale, nel 1672, a proposito di una donna affetta da questa patologia, disse che “per un pò di tempo riusciva a parlare liberamente ma, dopo aver parlato a lungo, non era più capace di proferire parola”. Alla fine del XIX secolo, Erb e Goldflam descrissero per la prima volta i sintomi clinici della miastenia, quali frequenti ptosi con diplopia, disfagia ed un decorso clinico caratterizzato da remissioni e ricadute (Erb et al., 1879). Negli anni '30 venne identificata come neurotrasmettitore l’acetilcolina (Dale, 1935) e nel 1936 Norris osservò che la maggior parte dei pazienti miastenici da lui visitati presentava un timoma od un iperplasia timica (Norris, 1936). Nello stesso anno venne eseguita una timectomia in una paziente di 19 anni affetta da miastenia grave generalizzata, paziente che ebbe da subito degli importanti benefici clinici (Blalock, 1944). Negli anni ‘60 Nastuk e Simpson proposero per la miastenia una eziologia autoimmune (Nastuk et al., 1959; Simpson J.A., 1960).

Nel 1973, Fambrough osservò la riduzione di AChR (Acetylcholine receptor) nelle placche neuromuscolari dei pazienti miastenici (Fambrough, 1973) e dal 1970 in poi sono stati condotti diversi studi sulla presenza degli anticorpi anti-AChR a livello della giunzione neuromuscolare. La recente scoperta di due nuovi

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target, MuSK (Muscle Specific Kinase) e LRP4 (low density lipoprotein receptor-related protein 4) ha ridotto la percentuale di pazienti che presentano anticorpi sconosciuti, sebbene ci siano ancora pazienti sieronegativi (Hoch et al., 2001; Pevzner et al., 2012).

Nella Figura 1 è riportata la struttura di una giunzione neuromuscolare.

Figura 1: Struttura della giunzione neuromuscolare.

La MG colpisce tutte le popolazioni, ha una prevalenza di 40-80/1.000.000 abitanti ed una incidenza di 1/20.000 abitanti/anno. E’ maggiormente colpito il genere femminile rispetto a quello maschile e per l’età si ha una distribuzione bimodale:

- 20-30 anni (F) - 60-80 anni (M)

1.2 Eziopatogenesi

La Mistenia gravis può essere considerata un prototipo di malattia autoimmune ed è determinata dalla presenza di autoanticorpi diretti contro il recettore nicotinico dell’acetilcolina (AChR). Questo recettore è formato da 5 sub-unità (2 alfa, 1 beta, 1 gamma ed 1 delta) e si estende attraverso la membrana plasmatica ed, in seguito al legame con l’acetilcolina (ACh), modifica la sua configurazione

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permettendo il flusso ionico e quindi l’inizio della contrazione muscolare. Il determinante antigenico responsabile della produzione di auto-anticorpi nella miastenia è, nella maggior parte dei casi, una regione delta della sub-unità alfa distinta dal sito legante l’ACh.

II ruoto patogenetico degli anticorpi anti-AChR è suggerito da una serie di evidenze:

1) il riscontro di elevati livelli di anticorpi anti-AChR nel siero del 90% circa di pazienti con miastenia generalizzata e nel 70% circa dei pazienti con la forma oculare;

2) transitorie manifestazioni cliniche di miastenia in nati da madri miasteniche con anticorpi anti-AChR circolanti;

3) la possibilità di produrre un modello sperimentale di miastenia mediante la somministrazione di anticorpi anti-AChR o di IgG ottenute da sieri di malati miastenici.

Un quesito essenziale riguarda il meccanismo con cui l’anticorpo, che si lega a livello della giunzione neuromuscolare, determina una imperfetta funzionalità del recettore.

E’ ipotizzabile più di un meccanismo:

1) blocco diretto o modifica della funzione dell’AChR da parte dell’anticorpo che previene il legame del mediatore con l’AChR;

2) aumentata degradazione del recettore in seguito al legame con l’anticorpo: questo infatti faciliterebbe l’endocitosi e la distruzione lisosomiale del recettore; 3) danno recettoriale mediato dal complemento.

Il motivo per cui il sistema immunitario attacca il recettore per l’Ach è sconosciuto.

Quale evento o fattore attiva la risposta immune nella miastenia e/o quali fattori inducono la produzione di anticorpi? Oggi si ritiene che nel timo si generi l’errore che attiva il sistema immunitario contro i recettori per l’acetilcolina. Ci sono molti dati che suggeriscono che il timo svolga un ruolo di primo piano nella produzione di anticorpi anti-AChR; anomalie timiche sono presenti nell’80% di miastenici o come timoma (10%) o come iperplasia timica (70%) ed

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una completa o parziale remissione clinica è osservata nei 2/3 dei pazienti dopo timectomia. Queste considerazioni sono il razionale per proporre la timectomia come cura chirurgica della miastenia.

1.3 Quadro clinico

La Miastenia gravis è caratterizzata clinicamente da una ipostenia muscolare che si manifesta in seguito a contrazioni muscolari prolungate o ripetute e si attenua o scompare con il riposo, con conseguente tendenza a variare di gravità nel corso della giornata o da un giorno all’altro o anche per periodi più lunghi (esacerbazioni e remissioni).

Interessa tutti i muscoli scheletrici, più frequentemente quelli innervati dai nervi cranici ed in particolare i muscoli oculari estrinseci e non si associa generalmente ai segni clinici (fascicolazioni, ipo/areflessia-tendinea, ipo/atrofia muscolare) ed elettromiografici tipici di denervazione. Si hanno: disturbi oculari (ptosi palpebrale, diplopia, strabismo, disturbi bulbari (difficoltà a masticare, disfagia, disfonia), astenia muscolare degli arti.

La malattia si manifesta generalmente in maniera insidiosa, raramente in modo acuto. L’esordio è nel 40-60% dei casi a carico dei muscoli oculari e nell’80-90 % di questi vi è un successivo coinvolgimento di distretti muscolari innervati dagli altri nervi cranici, dei muscoli prossimali degli arti ed in alcuni casi anche dei muscoli addominali ed intercostali.

Sulla base della distribuzione dell’ipostenia muscolare e dell’evoluzione, si distinguono alcune forme cliniche di MG (Osserman e Genkins, 1971):

I miastenia oculare pura, benigna.

IIA miastenia generalizzata senza segni bulbari, benigna;

IIB miastenia generalizzata con segni bulbari, a lenta evoluzione; III miastenia generalizzata con segni bulbari, a rapida evoluzione; IV miastenia tardiva grave con alto rischio di paralisi respiratoria.

Questa è una classificazione che da un’ idea delle varie possibilità di evoluzione della sintomatologia miastenica. E’ infatti difficile, se non si tiene conto di altri

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parametri, sostenere che una forma oculare resterà tale o non evolverà e in quest’ultimo caso come evolverà. Il 15% dei pazienti miastenici presenta solo sintomi oculari per tutta la durata della patologia; dal momento che un'alta percentuale di pazienti presenta sintomi oculari nel primo anno, per essere diagnosticata la forma oculare deve intercorrere un periodo di almeno due anni senza che la miastenia divenga generalizzata (Leite et al., 2008).

Quasi l'85% dei pazienti presenta la forma generalizzata di miastenia con anticorpi anti-AChR. Non è ancora chiaro se esiste una correlazione tra il titolo anticorpale e la gravità della condizione patologica; gli anticorpi anti-AChR appartengono alle classi IgG1 e IgG3 e sono coinvolte nella fissazione del complemento (Verschuuren et al., 2013). Berrich et al. hanno riscontrato frequenti alterazioni del timo nei pazienti di miastenia ed un titolo anticorpale più alto è stato riscontrato nei pazienti con iperplasia follicolare del timo (Berrich et al., 1984). Più recentemente è stata proposta una classificazione della miastenia che tiene conto non solo della distribuzione dell’ipostenia, ma anche dell’età d’esordio e della presenza o meno di patologia timica (Tabella 1).

II titolo degli autoanticorpi organo-specifici è alto. Frequente è infatti il riscontro in questi casi di altre patologie autoimmuni associate, quali l’artrite reumatoide, il lupus eritematoso sistemico, la sarcoidosi, la tiroidite di Hashimoto ed altre.

Genere (M:F) Ab-anti AChR sierici HLA

Miastenia oculare 3:1 + ? Miastenia generalizzata: a) senza timoma — ad esordio <40 anni — ad esordio > 40 anni b) con timoma 1:3 1:1 1:1 + + + + + + Al, B8, Dr3 A3, B7, DR2 A2

Tabella 1 Classificazione della miastenia gravis (in rapporto all’età d’esordio e alla patologia timica). Da: Newsom-Davis, 1984; modificata.

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Una particolare forma di miastenia è quella che si osserva nel 1-2% dei figli di madri miasteniche e che va sotto il nome di miastenia neonatale transitoria. E’ dovuta al passaggio di anticorpi anti-AChR attraverso la barriera placentare. La sintomatologia è caratterizzata essenzialmente da: ipotonia generalizzata; risposta assente o torpida al riflesso di Moro; disturbi della suzione, deglutizione, respirazione. Tali sintomi si manifestano in genere precocemente e si protraggono mediamente per circa un mese; in alcuni casi la sintomatologia esordisce più tardi (nella prima settimana) per cui è opportuno tenere sotto stretta osservazione questi neonati.

1.4 Protocollo diagnostico

La diagnosi di Miastenia gravis è essenzialmente clinica, ma va confermata attraverso l’esecuzione di un protocollo diagnostico che prevede test farmacologici, indagini elettroneuromiografiche, immunologiche e radiologiche. I criteri diagnostici sono:

— anamnesico: ptosi e/o diplopia dopo lettura, progressiva difficoltà a deglutire o masticare durante il pasto, difficoltà nella parola dopo un lungo discorso;

— clinico: esauribilità muscolare a livello oculo-cranio-somatico; eccessiva affaticabilità dopo attività muscolare ripetuta o continua e che migliora col riposo;

— farmacologico (test al Tensilon): l’iniezione di bromuro di edrofonio (Tensilon), un anticolinesterasico ad azione rapida e fugace, determina un miglioramento del quadro clinico e/o elettroneuromiografico. Allo scopo si iniettano per via endovenosa in 15 sec 2 mg di edrofonio e si valuta il miglioramento di uno o più segni clinici; se non vi è alcuna risposta entro 30-60 sec, si iniettano lentamente gli altri 8 mg. Bisogna tenere presente la falsa negatività che si ha nelle forme oculari;

— elettrofisiologico: a) test di stimolazione ripetitiva: decremento superiore al 10% dell’ampiezza del potenziale muscolare dopo stimolazione sopramassimale di un nervo motore a bassa frequenza (3-5 stimoli al sec), 3’ dopo la fine di una

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stimolazione tetanica (20-50 stimoli al sec) o di uno sforzo volontario massimale (prova di Desmedt); b) EMG a singole fibre: presenza di blocchi delle trasmissioni.

— immunologico: presenza di anticorpi anti-AChR; incremento di linfociti T suppressor (T8) rispetto a T helper (T4);

— radiologico: evidenza di iperplasia timica o timoma alla TAC.

La diagnosi differenziale si pone con le sindromi miasteniche, in particolare la sindrome di Lambert-Eaton e quella indotta da farmaci, e, più raramente, con la miopatia oculo-faringea e l’oftalmoplegia plus.

Il decorso della malattia è cronico progressivo, talora con gravi esacerbazioni ed è generalmente difficile formulare una prognosi data l’imprevedibilità del decorso, soprattutto nei primi anni.

1.5 Terapia

La terapia della Mistenia gravis ha come obiettivi: 1) migliorare la trasmissione colinergica; 2) inibire la produzione e/o rimuovere dal circolo gli anticorpi anti-AChR; 3) controllare le funzioni vitali in caso di grave crisi miastenica.

Il primo obiettivo può essere raggiunto mediante l’uso di anticolinesterasici, farmaci che migliorano la trasmissione colinergica inibendo la degradazione dell’acetilcolina da parte dell’acetil-colinesterasi a livello dello spazio sinaptico. Quelli utilizzati a scopo terapeutico sono essenzialmente: a) piridostigmina bromuro: MESTINON la dose può variare da 30 mg presi ogni sei ore fino a 60-120 mg assunti ogni 3-4 ore; b) neostigmina metilsolfato: viene utilizzata prevalentemente nel decorso post-operatorio (come dopo una timectomia) o quando è impossibile la deglutizione. E’ somministrata per via intramuscolare alla dose di 0,5-1 mg.

Il secondo obiettivo richiede l’impiego di cortisonici e/o immunosoppressori e l’applicazione della plasmaferesi e/o della timectomia. I cortisonici agiscono riducendo la produzione di anticorpi anti-AChR e vengono utilizzati nei casi di mistenia generalizzata, ma anche nella forma oculare resistente agli

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anticolinesterasici. II farmaco che meglio risponde alle esigenze terapeutiche è il prednisone. Il protocollo terapeutico prevede di iniziare con una posologia di 0,2 mg/kg/die per aumentarla di 0,1 mg/kg ogni 2 giorni, fino al dosaggio pieno di 1,4 mg/kg/die, in unica somministrazione al mattino. Raggiunto il risultato terapeutico si inizia la riduzione della posologia per passare rapidamente alla terapia di 1,4 mg/kg a giorni alterni e poi, lentamente, alla dose minima di prednisone che consenta di mantenere il vantaggio terapeutico ottenuto con il dosaggio pieno.

La respirazione assistita e l’alimentazione per sondino naso-gastrico o parenterale sarà invece necessaria nelle gravi crisi miasteniche. Le corticotropine come l’ACTH, ma più ancora i suoi analoghi, quali il tetracosactide esacetato e l’alsactide, possono essere usati nel trattamento delle forme severe e non responsive di miastenia e delle crisi miasteniche, alla dose di 100 U al giorno per via intramuscolare, con risultati non superiori a quelli ottenibili con il prednisone. Pertanto, l’uso delle corticotropine è accessorio e può essere limitato alla stimolazione surrenalica quando la posologia del prednisone viene ridotta a meno di 0,3-0,4 mg/kg a dì alterni dopo un lungo trattamento prednisonico ad alto dosaggio. Gli immunosoppressori non steroidei vengono impiegati nei pazienti con mistenia severa sempre in associazione con altre terapie, quando i risultati non sono sufficientemente soddisfacenti. L’azatioprina é il farmaco più utilizzato in ragione soprattutto della sua migliore tollerabilità. La dose giornaliera, somministrata per os, varia tra 2,5 e 3,5 mg/kg/die. Altri citostatici o agenti alchilanti quali il methotrexate, la ciclofosfamide ENDOXAN e il clorambucil sono stati proposti senza però che alcuno studio abbia dimostrato la migliore efficacia (o una maggiore tollerabilità) di alcuno di essi rispetto alla azatioprina. Va infine menzionata la ciclosporina A somministrata per via orale ad una dose compresa tra i 2 e i 10 mg/kg/die.

Questi farmaci migliorano la qualità della vita del paziente, ma raramente portano alla completa scomparsa del sintomi e talora sono del tutto inefficaci (in caso di miastenia oculare). Il trattamento deve essere rigorosamente controllato onde evitare pericoli dell’eventuale sovradosaggio responsabile della cosiddetta

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crisi colinergica. Questa determina una astenia muscolare generalizzata, simile a quella da crisi miastenica, cui si associano fascicolazioni, crampi muscolari e segni e/o sintomi neurovegetativi quali: lacrimazione, scialorrea, sudorazione, dolori addominali, vomito, diarrea, dispnea, broncorrea.

La plasmaferesi trova la sua indicazione terapeutica nel trattamento delle crisi miasteniche, quando in breve tempo si ha necessità di ridurre drasticamente il titolo anticorpale anti-AChR. La timectomia é una terapia efficace soprattutto in assenza di timoma. Se invece il timoma è presente, l’efficacia è minore ma l’intervento deve essere ugualmente eseguito per evitare i rischi di invasione mediastinica. In generale, la maggior parte dei pazienti affetti da miastenia può trarre giovamento dal trattamento chirurgico, ma la massima efficacia si ha in età comprese tra i 10 e i 50 anni.

1.6 Le Miastenie congenite

Le miastenie congenite sono un gruppo eterogeneo di patologie geneticamente determinate, dovute ad alterazioni di diverse componenti a livello della placca neuromuscolare.

Il malfunzionamento della placca neuromuscolare provoca debolezza muscolare, accentuata dall’esercizio, ed abitualmente esordisce in età infantile.

La prevalenza è stimata intorno ad 1 su 500.000 abitanti in Europa (Hantai D. et al., 2004) e si tratta di patologie molto più rare rispetto alle forme acquisite, cioè quelle con base autoimmune.

La placca è costituita dalla terminazione dell’assone nervoso (parte pre-sinaptica), da uno spazio detto intersinaptico e dalla fibra muscolare (spazio post-sinaptico). La trasmissione neuromuscolare avviene grazie al rilascio, in conseguenza della stimolazione nervosa, di molecole di acetilolina (ACh), abitualmente contenute in vescicole poste nella terminazione assonale. Tali molecole, una volta rilasciate nello spazio intersinaptico, si legano quindi ai recettori per l’acetilcolina (AChR), situati nella parte corrispondente della membrana muscolare, attivando in tal modo l’apertura di canali ionici, che a

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propria volta attivano una serie di reazioni, fino a portare alla contrazione muscolare.

Naturalmente l’attivazione deve avere un termine e così le molecole di acetilcolina vengono rapidamente eliminate dallo spazio intersinaptico da un enzima chiamato acetilcolinesterasi, per poi essere ricaptate a livello presinaptico e ricostituite nelle vescicole, per le successive stimolazioni.

Oggi le miastenie congenite vengono classificate in: – Forme dovute a difetti presinaptici: sono forme rare dovute soprattutto a mutazioni del gene che codifica per la colina acetiltransferasi (subunità epsilon di AchR, la rapsina e Dok7), (difetti nella resintesi di acetilcolina, scarsità di vescicole presinaptiche, miastenie congenite simil-sindrome di Lambert-Eaton). – Forme dovute a difetti sinaptici: dovute al deficit di acetilcolinesterasi, da mutazione della subunità che codifica per la coda dell'enzima simile al collagene. – Difetti post sinaptici: causano una diminuzione quantitativa o anomalie cinetiche dei recettori di acetilcolina (sindrome del canale lento, sindrome del canale rapido, mutazioni dei geni RAPSN, MuSK, Dok7 e mutazioni del gene del

canale del sodio SCN4A).

– Forme non completamente caratterizzate (deficit di plectina – miastenia dei cingoli familiare – miastenia congenita con aggregati tubulari). – Difetti non identificati.

La trasmissione delle miastenie congenite è autosomica recessiva, fatta eccezione per la sindrome del canale lento, che viene ereditata come carattere autosomico dominante.

Le varie forme di miastenie congenite hanno aspetti clinici comuni. L’esordio, infatti, è generalmente precoce e solo rari casi sono stati riportati con un esordio più tardivo (adolescenza o perfino in età adulta).

I sintomi principali sono l’oftalmoplegia, la ptosi palpebrale, la disfonia, le difficoltà di deglutizione, la paralisi della muscolatura facciale e l’affaticabilità muscolare.

Nella prima infanzia il quadro è dominato dall’ipotonia, dalla scarsa mimica del volto, da difficoltà di suzione e da pianto debole. In realtà questi sintomi sono

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comuni a molte patologie neuromuscolari che si manifestano nella prima infanzia (ad esempio le miopatie congenite), ma caratteristici delle miastenie congenite sono gli improvvisi peggioramenti, legati all’esercizio o ad episodi febbrili. La severità delle CMS è molto variabile e il principale fattore di rischio è costituito naturalmente dalle crisi respiratorie che possono essere scatenate da infezioni anche banali e che sono particolarmente frequenti nei primi mesi di vita.

La maggior parte di esse è trasmessa con meccanismo autosomico recessivo, ma alcune anche con meccanismo autosomico dominante.

L’andamento di tali patologie è variabile anche nel singolo caso, da periodo a periodo, con possibile aggravamento in età adulta avanzata ed un miglioramento in genere dopo i primi mesi di vita.

1.7 La Miastenia gravis ed i fattori ambientali

Si ritiene che sia fattori genetici che fattori ambientali contribuiscano all'eziologia delle patologie autoimmuni, come la Miastenia gravis.

Una suscettibilità genetica è verosimile, come è attestato dall’ esistenza di forme familiari di MG, dal riscontro nei parenti prossimi sani di anomalie elettrofisiologiche o di un innalzamento degli anticorpi contro il recettore

dell’Acetilcolina ed infine dai gruppi HLA particolarmente frequenti.

In un background di predisposizione genetica vi e’ un evento scatenante che abbatte la tolleranza periferica.

Quindi si riconoscono contemporaneamente la presenza di geni di suscettibilità, che influenzano il mantenimento della tolleranza , e fattori ambientali scatenanti (infezioni, ormoni, agenti fisici, etc) che promuovono l’attivazione di

linfociti auto reattivi.

Tra i secondi, i virus costituiscono i principali sospettati, anche se il loro ruolo nello sviluppo della malattia non è mai stato direttamente provato.

Nel lavoro di Bernasconi e collaboratori (2005), è stata individuata un aumentata espressione nel timo di pazienti MG dei recettori Toll-like-TLRs, principali

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sensori di patogeni e mediatori di meccanismi di difesa immediati contro le infezioni, faceva ipotizzare la presenza di agenti virali nel timo miastenico. In seguito, l’analisi di frammenti di tessuto timico di 27 pazienti, sottoposti a timectomia, per la presenza di microrganismi, tra cui il citomegalovirus, il virus varicella-zoster, l’herpes simplex virus di tipo 1 e 2, il virus respiratorio sinciziale e gli enterovirus, ha così portato alcuni ricercatori ad identificare nel 14,8% dei timi esaminati la presenza del genoma del poliovirus e l’espressione della proteina del capside virale VP1 in cellule diffuse all’interno del tessuto, evidenziando un’infezione di tipo persistente o cronica. Da qui, l’ipotesi secondo cui una persistente attivazione dei TLRs in risposta alle infezioni possa generare una reazione infiammatoria cronica che, alterando i normali processi immunologici del timo, rende tale organo suscettibile allo sviluppo dell’autoreattività (Cavalcante et al., 2010).

Numerosi studi hanno dimostrato l’esistenza di un’associazione tra l’infezione da EBV e l’insorgenza di patologie autoimmuni, quali la sclerosi multipla, il lupus eritematoso sistemico e l’artrite reumatoide. Alla lista delle malattie associate ad EBV da oggi può essere aggiunta la Miastenia grave.

Dall’analisi di 17 timi miastenici, è, infatti, emerso per la prima volta un anomalo accumulo di linfociti B positivi alle proteine del virus nel timo di tutti i pazienti presi in esame, ma non nel timo di soggetti sani analizzati come controllo, rivelando come la persistenza intra-timica del virus, e insieme la sua riattivazione, costituisca una caratteristica comune ai pazienti affetti da MG. La peculiarità di EBV di infettare i linfociti B stimolandone la proliferazione e la maturazione in cellule capaci di produrre anticorpi, fa ipotizzare che l’infezione del timo da parte del virus possa costituire uno dei principali eventi responsabili dell’innesco e del perpetuarsi della reazione autoimmune nella Miastenia gravis (Cavalcante et al., 2010).

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Intorno agli anni ‘70, l’ HLA è stata la prima regione genetica identificata nell’avere un ruolo significativo nel promuovere diverse patologie autoimmuni. Tuttavia, poiché in questa regione è presente un elevato numero di geni polimorfici ed in relazione con la funzione immunologica, l’identificazione di precisi alleli con la suscettibilità a questa patologia rimane ancora da chiarire. I timomi sono neoplasie epiteliali del timo e nel 30-45% dei casi sono associati alla MG (Marx et al., 2010). In letteratura non sono state riportate associazioni tra i geni del sistema HLA (Human Leukocyte Antigen) e pazienti di MG con timoma. Nel 2001, uno studio caso-controllo condotto da Garchon e collaboratori rivela una associazione non significativa tra il locus di Classe II HLA-DRB1 in 106 pazienti MG con il timoma (Giraud et al., 2001).

Un lavoro successivo eseguito dallo stesso gruppo di ricerca, ha studiato 78 pazienti francesi di MG con il timoma ed il locus di Classe I HLA-A in relazione al manifestarsi della MG paraneoplastica.

Un’ aumentata frequenza dell’allele HLA-A*25 è stata trovata nel gruppo dei pazienti; considerando solamente il sottogruppo dei 27 pazienti miastenici con il timoma di tipo B2, l’analisi ha dimostrato una associazione negativa dell’allele HLA-A*02, indicando un potenziale ruolo protettivo nello sviluppo del timoma B2 (Vandiedonck et al., 2009).

Di recente, i geni di classe II HLA-DQA1 e DQB1 sono stati associati con il timoma in una popolazione asiatica di pazienti miastenici. All’interno dei 102 pazienti MG del nord della Cina erano presenti 41 soggetti con il timoma; un aumento significativo degli alleli DQA1*0401 e DQB1*0604 è stato individuato nei pazienti MG con il timoma, rispetto ai pazienti senza timoma ed al gruppo di controllo (Yang et al., 2012).

Infine, non è stata osservata alcuna associazione nel gruppo di 30 pazienti MG norvegesi con il timoma, che sono stati genotipizzati per i loci HLA di Classe I e II (Maniaol et al., 2012).

Diversi lavori hanno messo in evidenza una associazione tra i geni del sistema HLA e la miastenia. In particolare nello studio di Vandiedonk et al. (Vandiedonk et al., 2005) vi è una relazione tra l'aplotipo 8.1 ed il fenotipo associato

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all'iperplasia timica nella miastenia gravis precoce, oltre ad essere connesso ad un alto titolo di auto-anticorpi AChR nel siero. Anche polimorfismi del tumor necrosis factor-alpha (TNF-α), una citochina pro-infiammatoria, sembrano essere connessi con la suscettibilità alla malattia (Skeie at al., 1999). Altri polimorfismi di geni in regioni cromosomiche diverse dalla 6p21, che sono stati associati con la Miastenia gravis, sono: CTLA4 (cytotoxic lympochyte-associated protein-4) (Wang et al., 2008), IFN-11, IL-10, IL-12 (Yilmaz et al., 2007), e PTPN22 (proteina tirosin-fosfatasi non recettoriale 22) (Burn et al., 2011). Recentemente il gene PTPN22 è stato descritto anche come fattore di rischio nella Miastenia Gravis associata al timoma (Chuang et al., 2009).

1.9 Le DNA metiltransferasi

Diversi studi hanno suggerito un contributo dei processi epigenetici nel promuovere la cancerogenesi e le patologie autoimmunitarie.

La Miastenia gravis è un disordine autoimmunitario e circa il 10-20% dei pazienti presenta un timoma. Alterazioni nella metilazione del DNA potrebbero contribuire ad aumentare il rischio di sviluppare la Miastenia gravis e/o i timomi ad essa associati. Tuttavia il ruolo della epigenetica nella Miastenia gravis non è ancora completamente chiarito.

Le DNA metiltransferasi (DNMTs) sono gli enzimi chiave per la metilazione del DNA e catalizzano il trasferimento di un gruppo metile dalla S-adenosil metionina (SAM) ad una citosina, formando una 5-metilcitosina. La metilazione delle isole CpG, nella regione del promotore di un gene, induce delle modificazioni conformazionali della cromatina tali da inibire l'accesso della macchina trascrizionale, alterando così i livelli di espressione genica. Pertanto, l'ipermetilazione del promotore è comunemente associata al silenziamento di un gene, la demetilazione del promotore, invece, con l'iperespressione di un gene (Coppedè, 2012). La metilazione può anche avvenire in siti CpG fuori dalla regione del promotore (gene-body methylation). Questo tipo di metilazione non è

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associata al silenziamento post-trascrizonale ma piuttosto all'attivazione transcrizionale (Hellman e Chess, 2007). La metilazione del DNA è un processo fisiologico che regola l'espressione genica ed esistono varie famiglie di DNMTs nei mammiferi. La DNMT1 è coinvolta principalmente nella metilazione di mantenimento durante lo sviluppo e la divisone cellulare; le DNMT3A e DNMT3B sono responsabili della metilazione de-novo, un tipo di metilazione che avviene principalmente durante le fasi precoci dello sviluppo (Coppedè, 2012).

È stata proposta l’ipotesi secondo la quale la DNMT3A e la DNMT3B potrebbero essere coinvolte nel mantenimento della metilazione del DNA correggendo gli errori che vengono lasciati dalla DNMT1 (Jones e Liang, 2009). DNMTL3 induce la metilazione de-novo reclutando o attivando DNMT3A, mentre DNMT2 è principalmente coinvolta nella metilazione delle molecole di RNA transfer (Goll et al., 2006). Oltre al ruolo che ricoprono nella metilazione de-novo, DNMT3A e DNMT3B fanno parte anche di un processo dinamico di metilazione, consentendo così una regolazione transitoria della trascrizione di diversi geni (Métivier et al., 2008). Modificazioni nella metilazione del DNA, correlati ad una alterata espressione genica, contribuiscono alla instabilità nel processo della cancerogenesi. Infatti alcune cellule tumorali mostrano ipermetilazione sito-specifica a livello delle isole CpG del promotore (Shen et al., 2007). L'ipermetilazione di specifici geni avviene generalmente a livello delle isole GpC inattivando la trascrizione.

I polimorfismi più studiati sono localizzati a livello del promotore e sono la DNMT3B -149C>T e la DNMT3B -579G>T. Si ritiene che le DNA-Metiltransfersi giochino un ruolo nel processo della cancerogenesi, in quanto sono essenziali nel mantenimento di un pattern di metilazione aberrante nelle cellule tumorali (Rhee et al., 2002) e per la sopravvivenza delle cellule neoplastiche stesse (Beaulieau et al., 2002).

Il polimorfismo DNMT3B -149C>T si trova nella regione del promotore a -149pb dal sito di inizio della trascrizione. La frequenza genotipica di questo polimorfismo nella popolazione caucasica è pari al 29,6% per il genotipo

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wild-type (CC), al 44,5% per il genotipo eterozigote (CT) e al 29,6% per il genotipo raro (TT) (Montgomery et al., 2004). Studi in vitro hanno rilevato che questo polimorfismo causa un aumento del 30% nell’attività del promotore in presenza dell’allele -149T (Shen et al., 2002).

Una prima evidenza della possibile associazione di questo SNP con patologie neoplastiche deriva da uno studio sul carcinoma polmonare del 2002, in cui si è ipotizzato che l’up-regolazione dell’espressione del gene DNMT3B causi un incremento della tendenza al silenziamento epigenetico di geni soppressori tumorali (Montgomery et al., 2004).

Ulteriori studi sono stati effettuati associando questo polimorfismo al rischio di sviluppare il carcinoma del colon (sindrome di Lynch). La presenza dell’allele mutato T, unita alla mutazione dei geni del mismatch repair (MMR), potrebbe comportare una aumentata probabilità di sviluppare il carcinoma del colon rispetto agli individui omozigoti wild-type per la DNMT3B -149C>T; inoltre, gli individui eterozigoti sviluppano il carcinoma più precocemente rispetto agli individui wild-type (Jones et al., 2006).

Successivamente, Bao e colleghi (2011) hanno sottolineato il fatto che il genotipo eterozigote non è associato ad un aumento della suscettibilità al rischio di sviluppare il carcinoma al colon-retto (Bao et al., 2011).

Nel carcinoma alla mammella, combinando gli individui eterozigoti (CT) e quelli wild type (CC), si è osservato che questi hanno un rischio significativamente minore rispetto agli individui omozigoti mutati TT (Montgomery et al., 2004). Il polimorfismo DNMT3B -579G>T è uno SNP situato a -579pb a monte dell’esone 1B, all’interno della regione promotrice del gene DNMT3B (Lee et al., 2005).

Il -579G>T non influenza l’attività trascrizionale a livello del promotore (Lee et al., 2005); tuttavia, esistono numerosi studi che ne sottolineano l’influenza in vari tipi di neoplasie (Bao et al., 2011), suggerendo che tale polimorfismo potrebbe essere utilizzato per valutare la suscettibilità di una popolazione alla cancerogenesi (Hong et al., 2007).

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Considerando i due polimorfismi insieme (DNMT3B 149C>T e DNMT3B -579G>T), Liu e colleghi (2008) hanno constatato che i soggetti portatori dei genotipi mutati presentano un significativo aumento del rischio di sviluppare neoplasie alla testa, al collo ed alle cellule squamose (Liu et al., 2008).

1.10 Timoma e Miastenia gravis

Il timo è l'organo centrale del sistema immunitario ed il timoma, neoplasia epiteliale del timo, è una patologia rara, che tende a diffondersi localmente ed ha una crescita indolente. Nonostante questo comportamento indolente i timomi hanno un potenziale metastatico ed invasivo e, per questo, non devono essere considerati benigni (Detterbeck e Zeeshan, 2013). Circa un terzo di questi tumori è associato alla Miastenia gravis e la timectomia migliora significativamente i sintomi della patologia. Sono state formulate numerose classificazioni, ma quella maggiormente usata è la classificazione di Masaoka (1981) con le modifiche apportate da Koga (1994), che prevede sei stadi:

 Stadio I. Tumore macroscopicamente capsulato, senza invasività capsulare microscopica.

 Stadio IIa. Invasione microscopica transcapsulare.

 Stadio IIb. Invasione macroscopica del tessuto adiposo circostante o della pleura mediastinica o pericardica.

 Stadio III. Invasione macroscopica degli organi vicini.  Stadio IVa. Metastasi pleurica o pericardica.

 Stadio IVb. Metastasi linfatiche o ematiche.

Il 15-20% dei pazienti con timoma è affetto dalla Miastenia gravis, mentre il 25% dei pazienti di timoma che sono asintomatici presenta anticorpi anti-AChR nel siero. La forte associazione tra timoma ed anticorpi anti-AChR suggerisce che ci sia una relazione di tipo causa-effetto (Okamura et al., 2008).

Gli autoanticorpi nei pazienti con timoma sono prodotti dall'azione delle cellule T generate nel timo ed in seguito trasportate in periferia, dopo un processo anomalo o insufficiente di selezione (Vernino et al., 2004).

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Le cellule T nel timo sono sottoposte ad una selezione positiva e negativa.

Il risultato della selezione positiva fa sì che le cellule T possano riconoscere un antigene specifico associato alla proteina MHC o altre cellule. La proteina MHC, presente sulle cellule epiteliali della corteccia timica durante lo sviluppo delle cellule T, è quella che le cellule T usano dopo essere maturate ed esportate fuori dal timo. Una cellula T che risponde ad un antigene presente nel timo viene eliminata mediante un processo detto selezione negativa. La selezione negativa all'interno del timo dipende dalla presentazione dell'auto-antigene da parte delle cellule epiteliali della midollare del timo e dalle cellule dendritiche derivate dal midollo osseo. Le cellule epiteliali della midollare del timo hanno bisogno di esprimere il gene AIRE (regolatore dell'autoimmunità), per poter presentare l'antigene (Zuklys et al., 2000).

AIRE è un fattore di trascrizione espresso nella midollare del timo che controlla il meccanismo che serve ad impedire al sistema immunitario di attaccare se stesso. Quando questo gene è difettoso, le cellule T possono attaccare l’organismo, portando ad una malattia autoimmune. Le cellule epiteliali della corticale del timo e il loro antigene MHC dettano la selezione positiva, mentre le cellule della midollare contribuiscono alla selezione negativa. Nella maggior parte dei casi nel timoma non viene eseguita una completa selezione negativa sulle cellule T in maturazione (Buckley et al., 2001). Una volta che queste cellule vengono poi trasportate in periferia probabilmente diventano funzionali, vista la loro frequente associazione con le malattie autoimmuni nei pazienti con timoma. Il timo nei pazienti con Miastenia gravis spesso mostra delle strutture dette centri germinali che portano all'iperplasia timica. Alcuni di questi centri germinali sono AChR specifici nei pazienti miastenici ed i linfociti recuperati dal timo producono immediatamente anticorpi anti-AChR in vitro (Fujii et al., 1984). Questi centri germinali creano un ambiente dove le cellule B AChR-specifiche sono sottoposte a proliferazione e aumentano l'affinità degli anticorpi che producono con l'AChR. Le cellule B mature, a questo punto, lasciano i centri germinali e diventano anticorpi che producono plasmacellule o cellule B della memoria (Fuji et al., 1986). Da qui si capisce come la timectomia possa

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migliorare i sintomi della miastenia; infatti, riducendo i centri germinali, diminuiscono anche gli anticorpi anti-AChR nel siero dei pazienti. Sembrerebbe che questi centri germinali svolgano un ruolo nella miastenia, ma questa ancora oggi è solo una pura ipotesi. Alcuni ritengono che la reazione immunologica della patologia contro l'AChR inizi proprio a livello dei centri germinali nel timo, mentre altri ritengono che i centri germinali si siano formati nei pazienti dopo la risposta autoimmune contro l'AChR iniziata in un altro distretto dell'organismo. Nella Miastenia gravis precoce l'iperplasia follicolare è molto comune, mentre nella forma tardiva sono più frequenti i timomi.

1.11 Modificazioni epigenetiche ed autoimmunità

I cambiamenti epigenetici indotti dai fattori ambientali sull’espressione genica sono recentemente diventati un nuovo settore di ricerca, ed in diversi lavori si è cominciato a studiare il ruolo di questi cambiamenti nella perdita della tolleranza del self e nello sviluppo di patologie autoimmunitarie (Richardson, 2007).

I meccanismi epigenetici giocano un ruolo essenziale nella regolazione genica tramite l’alterazione della struttura della cromatina, che in ultimo modula l’espressione genica.

I polimorfismi del gene delle DNMTs sono stati individuati in diverse patologie, in particolare nelle neoplasie. Il polimorfismo della DNMT3B nel promotore è associato con la neoplasia del colon-retto, del polmone e della testa-collo (Taberlay e Jones, 2011). Tuttavia, vi sono poche informazioni riguardo il ruolo svolto dai polimorfismi delle DNMTs nello sviluppo delle patologie autoimmunitarie (Chen et al., 2008; Nam et al., 2010).

Diversi studi indicano che l’ ipometilazione del DNA può modificare l’espressione dei geni delle cellule T e da qui la funzione immunitaria, contribuendo allo sviluppo di patologie simili al lupus ed altre forme di autoimmunità come la porpora idiopatica trombocitopenia (Che net al., 2008; El-Shiekh et al., 2012; Richardson et al., 1990). L’ipometilazione del DNA porta

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all’iperespressione di geni sensibili alla metilazione come LFA-1, antigene 1 associato alla funzione dei linfociti, che causa autoimmunità.

L’iperespressione di LFA-1 e di altre molecole di adesione determina una minore responsività delle cellule T ai normali stimoli incluse le molecole MHC di classe II che presentano antigeni inappropriati. Queste cellule sono abili nel determinare la necrosi di macrofagi autologhi e stimolano le cellule B. La secrezione di citochine promuove la differenziazione delle cellule B e contribuisce alla produzione di anticorpi anti-DNA e ad altre manifestazioni della patologia (Richardson, 2003).

1.102 Analisi di polimorfismi mediante PCR-RFLP

Un locus viene definito polimorfico quando, nella popolazione, la frequenza dell’allele raro è superiore all’1%. Un singolo individuo possiede per ogni locus due alleli, uno sul cromosoma materno e l’altro sul cromosoma paterno; se i due alleli sono uguali tra loro il soggetto è detto omozigote per quel dato locus, se invece sono diversi è detto eterozigote. La variabilità del genoma umano è rappresentata in gran parte da polimorfismi di inserzione/delezione (IN/DEL), ripetizioni in tandem in numero variabile (minisatelliti o VNTR) e polimorfismi a singolo nucleotide (SNP). Le ripetizioni in tandem a numero variabile, o VNTR, sono rappresentate da copie multiple di ripetizioni in tandem della stessa sequenza di DNA; in questo tipo di polimorfismi la sequenza ripetuta è compresa tra le 16 e le 70 pb. Gli SNP sono invece modificazioni a carico di una singola base che hanno una frequenza superiore all’1%; sono molto diffusi nel genoma umano, tanto che si stima ne siano presenti circa 4 milioni. La loro abbondanza fa sì che destino grande interesse nell’area medica, in particolare nello studio e nell’identificazione di geni coinvolti in malattie complesse. Per genotipizzare tali polimorfismi si possono utilizzare un gran numero di tecniche, molte delle quali si basano sulla reazione a catena della polimerasi (PCR). La PCR è una tecnica di biologia molecolare che permette l’amplificazione di frammenti di acidi nucleici dei quali sono note le sequenze nucleotidiche iniziali e terminali. Questa reazione

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prevede, come primo step, la separazione dei filamenti di DNA (fase di denaturazione), seguita dall’appaiamento dei primers alle loro regioni complementari a livello dei filamenti di DNA denaturati (fase di annealing). Tale processo risulta però incompatibile con la DNA polimerasi umana, che viene distrutta alle temperature necessarie alla denaturazione (96-99°C). Proprio per questa ragione, si utilizzano polimerasi appartenenti ad organismi termofili che non vengono inattivate alle alte temperature, come ad esempio la “Taq polimerasi” estratta dal batterio termofilo Thermus aquaticus.

Schema di un ciclo di PCR La mix di reazione è costituita da:  DNA da replicare  Desossiribonucleotidi trifosfati (dNTP)  Ioni magnesio (Mg2+)  Buffer di reazione  Primers  DNA polimerasi

Tale mix, assieme al DNA estratto, viene portata ad una temperatura compresa tra 94 e 99°C, situazione nella quale i due filamenti che compongono la doppia elica del DNA si separano e si trovano liberi in soluzione (fase di denaturazione). Successivamente, la temperatura viene abbassata fino a 50-70°C circa, al fine di permettere l’appaiamento dei primers alle regioni complementari presenti sui filamenti di DNA denaturato (fase di annealing). Infine, la temperatura viene alzata fino a 65-72°C, al fine di massimizzare l’attività della DNA polimerasi che determina un allungamento dei primers legati, utilizzando come stampo il filamento singolo di DNA (fase di estensione). Il ciclo descritto viene ripetuto per circa 20-30 volte. in quanto, ad un certo punto, la quantità di amplificato ottenuto raggiunge un plateau. Questo può dipendere da varie cause quali, ad esempio, una diminuzione dell’efficienza dell’enzima polimerasi, una minore quantità di oligonucleotidi disponibili da usare come inneschi oppure la diminuzione dei dNTPs. Va inoltre considerata la possibilità che possa avvenire

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una amplificazione eccessiva di eventuale materiale genomico contaminante. Per effettuare una reazione di PCR è possibile utilizzare anche una piccola quantità di DNA bersaglio in quanto la sensibilità della tecnica è molto alta. Si è visto che una quantità di DNA genomico di 100 ng è sufficiente per identificare un gene bersaglio presente in singola copia. Una scarsa quantità di DNA target, comunque, aumenta la probabilità che vengano amplificate sequenze non specifiche mentre una quantità troppo elevata di DNA può diminuire l’efficienza dell’amplificazione a causa della presenza di elementi contaminanti. Per ottimizzare la quantità di DNA utilizzato sarebbe opportuno quindi effettuare una serie di reazioni di amplificazione nelle quali tutti i parametri sono mantenuti fissi tranne il quantitativo di DNA, che viene invece utilizzato in dosi scalari. È necessario comunque valutare la concentrazione del DNA ottenuto durante il processo di estrazione attraverso una lettura spettrofotometrica a 260 nm; è anche possibile effettuare una lettura ad una lunghezza d’onda di 280 nm (picco di assorbanza delle proteine, che costituiscono il principale contaminante degli estratti) e ottenere così una stima della purezza del DNA ottenuto, tramite il rapporto tra le rispettive assorbanze a 260 e 280 nm.

La scelta dei primers da utilizzare rappresenta un aspetto fondamentale per la buona riuscita della PCR. Essi, infatti, devono ibridare in maniera specifica ed efficiente alla sequenza bersaglio, tralasciando quelle aspecifiche non perfettamente complementari. La lunghezza di un primer è solitamente compresa tra le 20 e le 30 paia di basi e non dovrebbe essere inferiore alle 16 (al fine di non pregiudicare la specificità del processo). Grazie alle banche dati ed alle pubblicazioni scientifiche, stanno diventando sempre più disponibili le sequenze di DNA o di RNA necessarie per poter disegnare i primers da utilizzare nelle PCR. Una volta ottenuta la sequenza di interesse è opportuno controllare che nel resto del genoma non siano presenti sequenze omologhe che possano portare alla formazione di falsi positivi, dopo di che si può iniziare a disegnare i primer. Il loro contenuto in GC dovrebbe essere compreso tra il 45 ed il 50%; inoltre all’interno dei primers non devono essere presenti sequenze tra loro complementari oppure sequenze invertite ripetute, per evitare che si formino

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aggregati di primer (detti anche “dimeri” di primer) o strutture a forcina (“hairpin”). Generalmente i primers vengono utilizzati a una concentrazione 1 mM perché si ritiene che tale quantità sia sufficiente per almeno 30 cicli d'amplificazione. Una concentrazione di primers troppo elevata potrebbe determinare l’amplificazione di sequenze non specifiche mentre, al contrario, una presenza troppo scarsa dei primer rende la PCR inefficiente. Per allestire correttamente una reazione di PCR è dunque necessario ottimizzare la concentrazione dei primer, tramite diluizioni scalari.

La concentrazione del magnesio è senza dubbio il fattore più critico di tutta la PCR. La presenza di questo ione condiziona l’attività della polimerasi, l’ibridazione dei primer ed aumenta la temperatura alla quale il DNA stampo si denatura. Si deve dunque fare in modo che nella soluzione non sia presente una eccessiva quantità di agenti chelanti (ad esempio: EDTA) o di gruppi carichi negativamente (ad esempio: gruppi fosfato), in quanto entrambe possono legare il magnesio presente rendendolo non disponibile. Per allestire una PCR, di conseguenza, è bene preparare diverse miscele di reazione contenenti quantità scalari di magnesio, che vanno da un minimo di 0.05 mM ad un massimo di 5 mM (il più delle volte si utilizza una concentrazione di magnesio pari a 1,5 mM). Generalmente i nucleotidi vengono utilizzati alla concentrazione di 200 μM ciascuno. Una concentrazione maggiore non porta ad un aumento dell’efficienza della reazione in quanto i gruppi fosfato carichi negativamente possono legarsi al magnesio della miscela di reazione rendendolo meno disponibile. I nucleotidi, in concentrazione superiore ai 200 μM, possono determinare un aumento della percentuale di errore della DNA polimerasi od addirittura inibirla, qualora presenti in concentrazione mM.

Una variante della PCR è la PCR-RFLP (Restriction Fragment Lenght Polymorphisms), che consiste nell’amplificazione del DNA target mediante PCR e successiva digestione enzimatica, effettuata tramite particolari enzimi detti enzimi di restrizione. Queste proteine hanno la particolare proprietà di riconoscere e tagliare il DNA in specifiche zone dette siti di restrizione. Un determinato enzima di restrizione è in grado di evidenziare la presenza di

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sostituzioni, inserzioni o delezioni di basi che creano o distruggono un sito di restrizione. Questi polimorfismi sono noti come polimorfismi di lunghezza di frammenti di restrizione (RFLP).

Da DNA integro si ottengono frammenti di varia lunghezza che possono essere visualizzati mediante elettroforesi su gel di agarosio; è possibile quindi discriminare il genotipo wild-type da quello mutato. La PCR-RFLP è una tecnica molto utile che però può essere applicata soltanto per lo studio di polimorfismi che alterano un sito di taglio dell‘enzima di restrizione.

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