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Scrivere di/il sé nella contemporaneità: approcci teorico-metodologici e nuove prospettive disciplinari della critica autobiografica

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CAPITOLO SECONDO

Scrivere di/il sé nella contemporaneità: approcci teorico-metodologici e nuove

prospettive disciplinari della critica autobiografica

[…] JE est an autre.

A.RIMBAUD, Lettre à George Izambard, 1871

Ce qu’il y a de merveilleux dans le domaine de l’autobiographie, c’est qu’on peut toujours continuer a faire autre chose sans en sortir. Voilà ce que j’aurais pu répondre à l’ami qui, après le Pacte, me suggérait de changer de genre et d’aller étudier l’épopée ou le sonnet.

P.LEJEUNE, Le pacte autobiographique, 1996

2.1. I nuovi orizzonti della critica: Eakin, Egan e Couser

Dall’inizio degli anni ’90 fino a oggi, la critica è stata propensa a disegnare itinerari di ricerca che non si irrigidiscono in astratti paradigmi teorici e che, lungi dal proporre poetiche normative plasmate su un settore di exempla circoscritto sotto il profilo strutturale e storico, mantengono un atteggiamento flessibile in rapporto a un genere provvisto, come quello autobiografico, di confini particolarmente facili a dilatarsi per accogliere materiali dai territori più vari.

Consapevoli delle inadeguatezze e delle aporie insite nei modelli che cercano di spiegare le dinamiche dell’autobiografia senza tenerne a sufficienza in considerazione la natura metamorfica, molti teorici hanno dunque calibrato i propri interventi in modo tale da eludere qualsivoglia estremismo definitorio. Uno tra i tanti esempi «di empiria non ossessionata dalle smanie della categorizzazione»1 proviene da Robert Folkenfilk, il quale ha di recente descritto l’autobiografia in termini sintomaticamente relativistici e relativizzanti:

1

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Autobiography, as I understand it, has norms but not rules. It is usually but not exclusively in the first person. […] Autobiographies may be in prose or in verse […]. Autobiography may be truthful or mendacious, for factuality is not crucial to its autobiographical interest, despite some critics’ neo-Romantic insistence on sincerity. […] Autobiographies may also be ostensibly fiction, though the subject of autobiography presented as fiction needs more theoretical examination. […] Autobiography is usually written in old age, or at least in mid-life. […] It is usually one book, though possibly of many volumes […]. Autobiography is usually an avocation rather than a vocation, though the autobiographer is often a writer. […] autobiographies are generally written by those who bear the same name as the protagonist of their narratives [but] some have been written in collaboration with others or entirely ghostwritten. […] Autobiographies are generally narratives about the past of the writer. This is not to say, however, that the past takes precedence over the present moment or moments […]2

.

Abbandonate le preoccupazioni tassonomiche e “scomparso” dall’orizzonte ermeneutico il problema della verità – che per alcuni critici neoromantici, ci ricorda Folkenfilk, rimane una condizione cruciale della topica autobiografica3 –, l’impegno della critica si è coagulato intorno a tematiche nuove, pervenendo anche a esiti interpretativi e conoscitivi di rilievo.

Le analisi di volta in volta condotte si sono articolate, più esattamente, alla luce delle questioni concernenti i fattori in grado di condizionare la pratica autobiografica (la memoria, l’esperienza, l’identità, lo spazio, il corpo, l’interazione con soggetti e script culturali diversi4) e le nozioni di relazionalità, performatività e posizionalità.

Sulla scia delle teorizzazioni bachtiniane sull’eteroglossia e degli studi sulle letterature e i soggetti marginali, è stato intanto assodato che scrivere un’autobiografia non è un’attività isolata nella quale l’individuo ritrae solipsisticamente la propria interiorità, bensì un atto relazionale con cui l’autobiografo ri-costruisce il proprio e l’altrui mondo.

Lo hanno per esempio affermato Adriana Cavarero e Nancy Miller5, secondo le quali la storia di una vita è di per sé incline all’inglobamento narrativo di una o molteplici alterità

2

R. FOLKENFLIK,op. cit., pp. 11-13. A conclusioni simili era già pervenuto May in op. cit., pp.

209-15. 3

Più che scomparso dal panorama teoretico, il problema della verità e del suo rapporto con la finzione è stato produttivamente rivisitato accettando come un dato di fatto l’impossibilità di una resa pienamente attinente al vero delle vicissitudini esistenziali di un individuo. In sintonia con i princìpi fondanti della poetica postmoderna, la critica ha così accolto «the challenges posed by [the] deconstruction of any solid ground of selfhood and truth outside of discourse and by

postcolonial theory’s troubling of established hierarchies of authority, tradition, and influence» (S. SMITH – J. WATSON, op. cit., p. 211). Sulla questione, cfr. infra, § 3.

4

Per quanto riguarda quest’ultimo punto, Smith e Watson preferiscono parlare di agency, un concetto introdotto per evidenziare come l’idea anacronistica di una soggettività autonoma e trascendentale abbia ormai fatto strada a correnti di pensiero che hanno palesato «how people, in the act of narrating their lives, might understand their addresses, change the stories they tell, gain access to other [cultures], and come to understand themselves differently» (S. SMITH – J. WATSON, op. cit., p. 59).

5

Cfr. rispettivamente A CAVARERO, Relating Narratives. Storytelling and Selfhood, Routledge, New York 2000 e N.K. MILLER, But Enough about Me. Why We Read Other People’s Lives, Columbia UP, New York 2002.

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che assumono configurazioni diverse a seconda delle situazioni esperite dall’autore: il soggetto autobiografico, commenta in proposito Smith,

is always a subject of the other, constituting and constituted by heterogeneous social discourses. The very words through which the story is “spoken” or written are the language of the other. […] Further, relationality is rhetorically implicated in the addressee(s) posited by the narrator, the narratee both within and the ideal reader to whom the narrative is directed and through whom it is imagined and circulated. Relationality, then, indicates how the subject is always in process and thus involved with others, not autonomous6.

L’autobiografia ha inoltre iniziato a essere investigata in quanto performance, ossia come luogo dinamico di interazioni indispensabili alla costruzione del sé («[performativity] must be understood not as a singular or deliberate “act”, but, rather, as the reiterative and citational practice by which discourse produces the effects that it names»)7. Pensare all’identità come al prodotto della reiterazione di pratiche e norme culturali ha significato prima di tutto il rifiuto degli schemi essenzialisti che conferivano al processo di Selbstbesinnung la facoltà di cogliere la natura immutabile di un io che invece è costantemente instabile e precario.

Secondariamente, l’idea della performatività dell’atto autobiografico ha costituito un valido supporto per gli studi relativi agli agenti fisici del discorso identitario e in particolare al corpo, ritenuto non più dipendente da una prospettiva metafisica e logocentrica che lo vede in antitesi con l’anima, ma implicato piuttosto in una lettura scientifico-antropologica: scientifica perché il corpo, da intendersi nella sua più stretta materialità, è ritenuto responsabile del processo di recupero e di organizzazione del materiale mnestico, e antropologica perché la ricognizione del “soggetto corporeo” insiste sulla contestualizzazione della fisicità e può perciò essere spesa per un discorso di impronta politica o sociale («writers positioned at the margins of discourse […] – women, slaves, and colonized subjects, the dislocated and disabled – have narrated bodily experiences as a way to intervene in social arrangements»)8.

Appellandosi al concetto di posizionalità, la critica è infine passata alla disamina delle prassi enunciative dei soggetti che agiscono e parlano internamente a un dato universo socio-culturale («[s]ubject positions […] are constituted on our social interactions and our positions within our culture and context. They are determined by history and circumstance»)9: dal momento che le identità sono collocabili all’incrocio di traiettorie regolate da ben precisi rapporti di potere, la loro espressione non solo è subordinata alle

6

S. SMITH – J. WATSON, op. cit., pp. 216-17. 7

J.BUTLER, Bodies that Matter. On the Discursive Limits of “Sex” (1993), cit. in ivi, p. 214. 8

Ivi, p. 141. 9

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restrizioni dei regimi discorsivi mediante i quali tali rapporti si esprimono, ma può avvenire unicamente a seguito di complesse negoziazioni.

Questo spiega la salienza assunta dalle “geografie del sé” nei racconti autobiografici nati dalla travagliata rievocazione delle oscillazioni identitarie di coloro che hanno vissuto l’esperienza di una dislocazione. Smith e Watson insistono opportunamente nel sottolineare che:

Issues of positionality and the geographics of identity are especially complex in autobiographical narratives of de/colonization, immigration, displacement, and exile. Critics and theorists […] have found it necessary to define and deploy new terms for colonial and postcolonial subjects in process. A host of adjectival terms have marked the historical, sociocultural, and psychic traces left by the displacements and disidentifications characteristic of diverse histories of oppression, and theorized the subject as hybrid, border, diasporic, mestiza, nomadic, migratory, minoritized. These terms gloss the “in-between”, the dynamic oscillations of subjects in motion and often uprooted10.

Gli studi di Paul Eakin si collocano appunto nel solco delle correnti critiche che hanno fatto delle suddette nozioni il nucleo fondante dei propri interventi speculativi, attestando quel peculiare cambio di prospettiva – sia nelle pratiche che negli strumenti ermeneutici – reso necessario dai profondi cambiamenti storici e socio-culturali degli ultimi due decenni11.

Vale riconoscere, in maniera ellittica quanto obbligatoriamente preliminare, che un primo momento dell’attività teoretica di Eakin è segnato dalla pubblicazione di Fictions in Autobiography e Touching the World, due opere affini a livello contenutistico per l’attenzione che in entrambe viene rivolta al ruolo giocato dalla finzione nel processo di self-invention e alle nozioni di verità e referenza, quest’ultima esibita come principale discrimine tra autobiografia e romanzo12.

Sebbene ultimamente Eakin sembri aver preso le distanze da questi volumi per spostare altrove il focus delle proprie ricerche, è interessante notare che in realtà tale cambio prospettico ha creato una cesura soltanto parziale nel suo macrotesto critico, almeno in

10

Ivi, p. 215. Sul punto torneremo più approfonditamente nel cap. 4, allorché tratteremo delle autobiografie di soggetti provenienti da contesti postcoloniali.

11

Si veda in merito quanto riportato nel cap. 1, § 1 della presente dissertazione. 12

Le opere di riferimento sono, rispettivamente:Fictions in Autobiography. Studies in the Art of Self-Invention, Princeton UP, Princeton (New Jersey) 1985 e Touching the World. Reference in Autobiography, Princeton UP, Oxford 1992. L’economicità del discorso condotto in questa sede

non prevede ulteriori digressioni sul contenuto dei due predetti volumi, tuttavia è necessario puntualizzare che, mentre in Fictions in Autobiography Eakin si sofferma ad analizzare la natura creativa dell’autobiografia («I shall argue that autobiographical truth is not a fixed but an evolving content in an intricate process of self-discovery and self-creation, and […] that the self that is the center of all autobiographical narrative is necessarily a fictive structure», conferma l’autore in ivi, p. 3), in Touching the World l’accento cade primariamente sulla referenza autobiografica nelle sue varie declinazioni: biografica, storica, sociale e culturale.

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relazione a certi nodi tematici e a certe metodologie di indagine: in Touching the World, infatti, il critico dimostra già la tendenza ad allargare le proprie speculazioni alle dimensioni somatiche e performative dell’identità, sfruttando – come farà in seguito – gli strumenti analitici dell’antropologia culturale e della psicologia dello sviluppo.

Indice di uno iato consistente rispetto ai lavori prodotti dalla seconda metà degli anni ’90 è semmai la concezione dell’autobiografia e della formazione identitaria, le cui interazioni, per esplicita ammissione dello stesso Eakin, sono state oggetto di trattazioni che non ne riconoscevano le effettive complessità:

Autobiographical discourse tends to promote an illusion of disarming simplicity when it comes to self and self-experience. […] Use of the first person […] compounds our sense of being in full command of our knowledge of our selves and stories; it not only conveniently bridges the gaps between who we were once and who we are today, but it tends as well to make our sense

of self in any present moment seem more unified and organized than it possibly could be. But who is the “I” who speaks in self-narrations? And who is the “I” spoken about? Are the

answers to these questions self-evident? I once thought so, at least sufficiently to be willing to think of autobiography as in some fundamental way “the story of the self”; now I don’t […]. Now […] I find myself reluctant to speak of “the self”, for the definite article suggests something too fixed and unified to represent the complexity of self-experience13.

È più propriamente con «Relational Selves, Relational Lives», il saggio comparso nel 1998 come parte di un volume miscellaneo non a caso incentrato sulla complessa trama di rapporti intersoggettivi entro la quale si inscrive il soggetto della contemporaneità14, che Eakin inizia a occuparsi diffusamente delle tematiche su cui si innesteranno le sue ulteriori disquisizioni: la concezione relazionale dell’identità (noi pensiamo all’autobiografia come a un tipo di letteratura in prima persona, ma il soggetto dell’autobiografia non è mai singolare, ed è anzi definito da – vive grazie a – le sue relazioni con gli altri, per cui si può affermare che «[a]ll selfhood […] is relational despite differences that fall out along gender lines»)15; il ruolo della narrazione nel processo di Selfbildung; la definizione del genere autobiografico e della sua storia sulla scorta delle manifestazioni dell’identità relazionale («[i]n forming our sustaining sense of self, we draw on models of identity provided by the culture we inhabit»)16.

La tesi che Eakin tenta di argomentare nel successivo How Our Lives Become Stories

recupera e sviluppa gli assunti del contributo appena menzionato17. Il self dell’

13

P.J.EAKIN, How Our Lives Become Stories. Making Selves, Cornell UP, Ithaca-London 1999,

pp. ix-x. 14

Il volume di riferimento è il seguente: G.T.COUSER –J.FICHTELBERG (eds.), True Relations. Essays on Autobiography and the Postmodern, Greenwood, Westport (Connecticut)-London 1998.

15

P.J. EAKIN, «Relational Selves, Relational Lives», in G.T. Couser – J. Fichtelberg, op. cit.,

pp. 63-81, qui p. 67. 16

Ivi, p. 65. 17

Alcune sezioni del presente volume derivano, infatti, dalla rielaborazione di quanto già esposto in «Relational Selves».

(6)

autobiografo, suggerisce qui lo studioso, è il frutto di una doppia costruzione, giacché dipende sia dall’atto della scrittura che dal processo esistenziale della formazione dell’identità, del quale il momento della stesura costituisce soltanto la fase conclusiva18

.

Esso, oltretutto, non è un’entità stabile ma una specie di «awareness in process» (il sottotitolo dell’opera, making selves, comunica alla perfezione l’operazione alla quale si

sottopone ininterrottamente l’io) cui nessuno di noi presta mai attenzione «not only because we want to get on with the business of living our lives, but also because identity formation is not available for conscious inspection as it happens»: ostacoli di ordine cognitivo e fisiologico ci impediscono dunque di cogliere nel suo dispiegarsi l’atto che ci rende coscienti di ciò che veramente siamo («there is always a gap or rupture that divides us from the knowledge that we seek»)19.

Malgrado la conoscenza di sé non sia percepibile nel suo divenire, si possono comunque studiare i meccanismi di self-representation e la natura stessa dell’esperienza

ricorrendo agli strumenti e alle pratiche delle scienze mediche e antropologiche (la neurologia, le scienze cognitive, i memory studies e la psicologia dello sviluppo)20. E questo è esattamente lo scopo che si prefigge Eakin ripartendo la propria trattazione in

quattro capitoli deputati all’approfondimento di alcune delle tematiche su cui la critica contemporanea ha appuntato il proprio interesse.

Così se la funzionalità del corpo nella costruzione dell’identità costituisce l’argomento del primo capitolo (Register of Self) – dove Eakin affaccia una descrizione dell’io sotto il profilo neuro-fisiologico e psichico – i due successivi (Relational Selves, Relational Lives. Autobiography and the Myth of Autonomy e Storied Selves. Identity through Self-Narration) sono organizzati intorno all’esplorazione delle sue matrici sociali («my reading […] of a large class of memoirs which brought home to me the importance of what I have been calling the relational life, a term I use to describe the story of a relational model of identity, developed collaboratively with others»)21, mentre il quarto è dedicato all’etica

18

Cfr. P.J.EAKIN, How Our Lives Become Stories, cit., p. ix. 19

Ivi, p. x. 20

«Given the face-off between experiential accounts of the “I”, on the one hand, and deconstructive analyses of the “I” as illusion on the other, my own instinct is to approach autobiography in the spirit of a cultural anthropologist, asking what [autobiographies] can teach us about the ways in

which individuals in a particular culture experience their sense of being “I” […]. Such an

approach requires that we accept the gambit of autobiography’s referential aesthetic» (ivi, p. 4. Corsivi nel testo.).

21

Ivi, p. 57. Corsivi nel testo. Nel secondo capitolo – quello più direttamente correlato al saggio apparso nel volume di Couser – Eakin adotta una prospettiva relazionale (l’esame dell’identità

relazionale lo conferma nella convinzione che la dinamicità e la pluralità sono attributi del sé); il terzo, al contrario, indaga le radici sociali dell’identità dal punto di vista narrativo (l’assunto da

cui parte l’autore è che il self e le sue esperienze possono essere sempre rappresentati per via testuale). L’idea portante di questa terza sezione, dove si dimostra che l’atto del narrare è una forma non solo di rappresentazione, ma anche di costruzione della realtà, è già presente in Jerome Bruner, nei confronti del quale Eakin stesso riconosce il proprio indebitamento: «inspired by

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della scrittura del sé e alle limitazioni che a essa impone il modello tradizionale di individualità, in base al quale l’autobiografia è il frutto di una sorta di privata ed egostistica recollection in tranquillity («I beg[i]n by delineating an ethics of privacy centered on the sanctity of the “inviolate personality” […]; [many stories], however, sugges[t] the difficulty of drawing the line between self and other, person and property»)22.

L’intima e dinamica connessione tra identità e atto narrativo, all’indagine della quale fa specificatamente da sfondo il terzo capitolo di How Our Lives Become Stories, rimane il filo conduttore perfino del più recente Living Autobiographically, che si presenta come una sorta di compendio delle posizioni su cui Eakin si era già espresso pochi anni prima23:

Now, decades later, I see published autobiographies as only the most visible, tangible evidence of the much larger phenomenon that this book seek to describe, the construction of identity that talking about ourselves and our lives perform in the world. I believe that our life stories are not merely about us but in an inescapable and profound way are us, at least insofar as we are players in the narrative identity system that structures our current social arrangements […]24.

L’ottica che governa la dissertazione dell’autore è, in parvo, che per autobiografia si debba intendere non un’arte meramente retrospettiva, deputata al recupero degli sparsi brandelli di un tempo passato, ma una parte essenziale delle esperienze che continuiamo a vivere nel presente, cosicché le storie che raccontiamo su di noi vengono a coincidere con noi e ci accompagnano nel nostro percorso di auto-scoperta25.

I meccanismi narrativi cui ogni individuo ricorre per tradurre in forma verbale la sua quest identitaria sono connotati socialmente e in quanto tali condizionati sia dalle relazioni interpersonali che instauriamo nel corso della vita, che dal sistema di valori che una cultura Jerome Bruner and the “narrative psychologists”, I asked whether the self could be said to be narratively structured. I concluded that self and story were ‹complementary, mutually constituting aspects of a single process of identity formation› [Touching the World]. In this view, narrative is not merely an appropriate form for the expression of identity; it is an identity content» (ivi, p. 100). Per quanto riguarda gli studi condotti da Bruner sull’argomento, cfr. in particolare i seguenti articoli: J.BRUNER, «Life as Narrative», Social Research, 54, 1987, pp. 11-32 e «The Narrative Construction of Reality», Critical Enquiry, 18, 1991, pp. 1-21.

22

La trasgressione della nozione di una scrittura autobiografica intima e privata è particolarmente manifesta nelle autobiografie etniche e in quelle scritte in collaborazione, per le quali cfr. P.J. EAKIN, How Our Lives Become Stories, cit., pp. 172-81. Sull’etica della scrittura autobiografica, cfr. inoltre G.T.COUSER,Vulnerable Subjects. Ethics and Life Writing, Cornell UP, Ithaca (New

York) 2004. 23

Il cap. 1 è dedicato alle sorgenti sociali del sé e alle implicazioni etiche della narrazione autobiografica, e fa quindi da pendant rispettivamente ai capitoli 2, 3 e 4 di How Our Lives Become

Stories; il cap. 2 esplora il sostrato corporale dell’identità riallacciandosi alla neurobiologia (cfr. di

nuovo How Our Lives Become Stories, cap. 3); gli ultimi due capitoli si concentrano sull’autobiografia come performance e azione, ossia come «[a] moment of conscious marking, the prototype of the autobiographical act» (P.J. EAKIN, Living Autobiographically. How We Create

Identity in Narrative, Cornell UP, Ithaca-London 2008, p. 86).

24

P.J.EAKIN, ivi, p. x. Corsivi nel testo. 25

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adotta. Per questo tutti noi «viviamo autobiograficamente»: adoperiamo in altre parole le identità narrative («narrative identity» è il termine con il quale Eakin indica «a much closer, more dynamic relation between narrative and identity»)26 di cui siamo in possesso per strutturare la nostra esistenza in seno a uno specifico gruppo sociale, e troviamo in esse la via primaria attraverso la quale entrare in contatto con gli altri.

Il self-writing quale pratica compiutamente indirizzata all’interazione con la realtà, rappresenta anche il problema intorno al quale gravitano le riflessioni di Susanna Egan, che con il suo Mirror Talk dota la teoria letteraria di dispositivi analitici tesi a valorizzare il senso e la funzione delle autobiografie di impianto prettamente dialogico27.

Lo studio di Egan trae innanzitutto ispirazione da un articolo di Olney risalente al 198628, nel quale l’autore riconosce da una parte che la scrittura autoreferenziale è il risultato della compenetrazione di più generi, e dall’altra che in questi stessi generi la figura del lettore e dello scrittore sono sovrapponibili.

L’apprezzamento della fusione tra varie forme letterarie apre la discussione in tre possibili direzioni: mette in primo piano il biografo come lettore/interprete di una vita che può essere letta solamente in forma scritta; suggerisce che l’io autoriale pone la biografia al confine tra storia e letteratura, svincolando così la narrazione da obblighi di verificabilità; produce l’incontro di due vite e genera una biografia che è, a ben vedere, un’opera d’arte o letteratura29.

La dialettica che Olney riscontra tra narratore e soggetto ha implicazioni teoriche e metodologiche di grande importanza, perché offre una replica della tensione generata dalla coincidenza di autore, narratore e personaggio. Alla difficoltà di conciliare in sé due diversi statuti, lo scrivente deve inoltre aggiungere le complicazioni che scaturiscono dalla presenza – non concreta ma presupposta – di un pubblico al quale presentare una storia attinente al vero.

Al fine di risolvere la tanto vexata questio della verità autobiografica occorre che il «writing self» compia un «atto immaginativo doppio», ossia che immagini di convincere delle proprie esperienze se stesso e coloro che le leggeranno, trasformandosi alternativamente in persona narrante e persona narrata o – se vogliamo – oscillando tra la soggettività dell’autobiografo (colui che rievoca percezioni ed esperienze «as [they]

26

P.J. EAKIN, «Talking about Ourselves. Narrative Identity and Everyday Life», in A. Righetti (ed.), The Protean Forms of Life Writing. Auto/Biography in English, 1680-2000, Liguori, Napoli 2008, pp. 11-26, qui p. 13.

27

Si veda in proposito S. EGAN, Mirror Talk. Genres of Crisis in Contemporary Autobiography,

North Carolina UP, Chapel Hill-London 1999. 28

L’articolo in questione è il seguente: J.OLNEY, «(Auto)biography», Southern Review, 22, 1986, pp. 428-41.

29

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appea[r] to himself, from his own position, when he looks out at the world») e l’oggettività del biografo (colui che ritrae la vita «as it appears from outside in the minds of others»)30.

Dopo aver ricapitolato una delle maggiori problematiche su cui istituzionalmente si fonda il genere autobiografico («[the self] doubled outward between two people, [who] tackle[s] head on the problem of “truth”»)31

, Egan registra come la consapevolezza di quanto intricata sia la questione della percezione della realtà e dell’attendibilità della sua riproduzione testuale abbia orientato l’interesse della critica verso la processualità dell’atto autobiografico. E questo non senza delle fondamentali ricadute teoriche:

later theorists, focusing on the activity or process and the necessarily fictive nature of writing, have altered our conceptions of “the supreme task” and revealed the rich lodes of contemporary work. […] significant numbers of recent autobiographical works foreground the processes and present time of their own construction. Downplaying even the narrative formations of identity that Eakin examines […], many forfeit historical depth for immediacy of experience and personal doubling of vision for interpersonal exchanges32.

Ciò che Egan estrapola dalle valutazioni dei critici che prima di lei hanno additato i paradossi della scrittura autobiografica (la scissione del sé, la difficoltà del ricordo e della resa degli eventi), è che il life writing della contemporaneità realizza incontri plurimi: di due o più vite, di voci, di generi e forme espressive33.

Le corrispondenze rilevate dall’autrice si fanno tra l’altro veicolo di un’apertura concettuale verso due fattori che condizionano il disegno testuale ed esistenziale realizzato dall’autobiografo. Il primo di essi – la rappresentazione della crisi34

– risponde all’urgenza del soggetto di manifestare il proprio dissenso o la propria volontà di resistere dinanzi a una situazione di instabilità cui si dovrebbe in qualche modo porre rimedio («such crisis writing often seeks to affect the politics of its environment»)35.

Come vuole un consenso critico corrente, l’intento che si cela dietro la testimonianza della crisi è quello di trasmettere un messaggio che abbia un qualche impatto a livello personale, politico, o sociale: «for subjects responding to one another in unresolved,

30

S. EGAN, op. cit., p. 2. 31

Ivi, p. 3. 32

Ibidem. 33

Anche per Eakin l’autobiografia non è soltanto «the autobiography of the self» ma una storia interazionale dove trovano spazio «the biography and the autobiography of the other» (P.J.EAKIN, How Our Lives Become Stories, cit., p. 58). Si veda inoltre quanto già affermato in merito alle

direttrici analitiche della critica contemporanea (cfr. cap. 1, § 1). 34

Afferma la studiosa: «Olney’s suggestion that encounter is particularly creative has led me not only to explore varieties of encounter and creativity but also […] to acknowledge Jean Starobinski’s point that crisis is seminal for autobiography. […] More recently, Anthony Paul Kerby developed the point that ‹[m]uch of our own narrating can be usefully seen as driven by some […] conflict, tension, or crisis in our own lives›» (S. EGAN, op. cit., p. 4).

35

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present-tense crisis», evidenzia Egan, «the personal is political and assumes agency. In practical terms, crisis is an unstable condition seeking change»36.

La crisi non è interpretabile unilateralmente, e a volte è condizionata dal genere che le persone scelgono per «reificare» l’incontro con l’alterità umana, come nei film documentaristici o nei drammi, dove la tecnologia e un lavoro di tipo collaborativo possono essere i motori di una varietà di transazioni: nel film, chiarisce Egan, «[t]echnical and personal collaboration interfere with and become part of the living moment, altering perception and creating, therefore, “new realities”», mentre nel teatro «the audience responds to various levels of “performance”, and the actors depend on the necessary involvement of others in the scenario»37.

Per le vittime della diaspora, la crisi è invece uno stato esistenziale permanente che deriva dalla perenne dis-locazione in uno o più luoghi, tutti ibridi e liminari in quanto lontani dalla terra d’origine: «Building a third […] space from two or more places of origin, the autobiographer of diaspora discriminates among a plurality of possible positions, all incomplete and in continuous process, in order to recognize who speaks, who is spoken, and just who might be listening»38. Le vittime dell’Olocausto e i malati terminali, infine, identificano lo sfaldamento di una condizione di apparente equilibrio con il trauma di un’umanità calpestata o di un’esistenza che non avrà futuro perché prossima alla morte39 .

La presenza del corpo, congiuntamente alla crisi, riveste un ruolo strutturante nel racconto del processo di formazione del sé e documenta, dal punto di vista teorico, l’infondatezza degli orientamenti che rintracciano nel soggetto autobiografico un costrutto linguistico irrelato al referente extra-testuale da cui ha avuto origine40.

Con i dovuti distinguo per quanto concerne le variabili della sua produzione culturale, la componente somatica è nel complesso il punto dal quale si irradia la storia personale

36

Ivi, p. 5. 37

Ivi, p. 101. Del rapporto tra autobiografia e altri media espressivi – verbali e non – ci occuperemo in dettaglio nel paragrafo 3 del presente capitolo, al quale rinviamo per approfondimenti sull’argomento.

38

S. EGAN, op. cit., p. 121. 39

Per quanto concerne le narrazioni autobiografiche dei reduci dei campi di concentramento e delle persone affette da malattie terminali, si consultino rispettivamente le voci trauma narratives e

autotanatografia nel glossario annesso alla presente dissertazione. Sulla connessione tra

autobiografia e trauma, cfr. inoltre: N.K.MILLER –J.TOUGAW, Extremities. Trauma, Testimony,

and Community, Illinois UP, Urbana-Chicago 2002.

40

Cfr. S. EGAN, op. cit., p. 5. Egan preferisce parlare di «presenza» del corpo proprio per rimarcare come nell’autobiografia contemporanea il dato corporale non rinvii a un’entità inconsistente, ma a una componente fisica della realtà: esso rientra pertanto in un modello identitario che si definisce attraverso il riconoscimento «of an embodied self as both part of and distinct from the world around one, as having both centre and limits, coherence and threats of dissolution that take bodily form» (ivi, p. 6).

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dell’individuo e la fonte delle crisi (sofferenze, malattie, morte) sulle quali l’autobiografo erige ulteriori impalcature narrative:

contemporary autobiographers seem concerned with exercising textual construction in such a way as to posit pre-, post-, and extra- textual selves. Certainly, the physical self grounds such issues as gender, color and sexuality that are central to the cultural constructions manifest or resisted in the text. Certainly too, the crises that generate autobiography may begin with the body […]. Not least, when two or more subjects work out their (auto)biographies together […] intersubjective recognitions are both more whole and more present than their solipsistic predecessors. […] For contemporary genres of autobiography, furthermore, the body provides maps of experience […], metaphors for the material production of the artifacts of life construction41.

L’autobiografia contemporanea “realizza” perciò l’identità attraverso una fitta rete di corrispondenze («intersubjective recognitions») che permettono al soggetto di rimanere se

stesso pur essendo coinvolto in un dialogo al quale altri soggetti partecipano. La metafora dello specchio diventa allora lo strumento più congeniale per esprimere i

rapporti dinamici tra una serie di narrazioni (auto)biografiche che si riflettono mutualmente le une nelle altre senza soluzione di continuità: questo gioco di rispecchiamenti – il mirror talk da cui è tratto il titolo del volume – oggettiva in sostanza l’inizio di un incontro in cui il biografo è anche lo scrittore di un’autobiografia, come avviene nel caso di Blake Morrison, che usa la malattia e la morte del padre per sondare i legami che lo uniscono a lui, o di Philip Roth, che esibisce la propria somiglianza a una figura paterna da cui paradossalmente cerca di differenziarsi («[v]ery commonly, the (auto)biographer is the child or the partner of the biographical subject, a relationship in which (auto)biographical identity is significantly shaped by the processes of exploratory mirroing»)42.

La polifonia della scrittura autobiografica implica ovviamente che non esista una verità assoluta cui poter risalire in modo invariabile. Ne consegue che, sotto il profilo della ricezione testuale, il lettore debba potenziare la propria attività ermeneutica per rispondere agli interrogativi sollevati dalla narrazione: da destinatario passivo di un insieme di dati egli si converte, quindi, in osservatore e interprete di un processo comunicativo del quale è

41

Ivi, p. 7. 42

Ibidem. Pur non sconfessando l’influenza del pensiero di Lacan sul proprio («[mirror talk] conveys some sense of Lacan’s illusion of wholeness received from reflection», ivi, p. 226), Egan sceglie la metafora dello specchio per segnalare, in termini generali, le pratiche intersoggettive e intergeneriche dell’autobiografia contemporanea: «autobiographers have always wrestled with the split between subject and object, between writing and written selves […]. Contemporary autobiographers, furthermore, who seem to stake no claim for a unified or coherent identity, seek no illusions of coherence from the reflections available to them. […] The mirroring process in these cases comes to no more than moment-by-moment confirmation of another subject or of generic means for articulating the crisis of the moment. The mirror of my title is more constructive than reflective of the self. It foregrounds interaction between people, among genres, and between writers and readers of autobiography» (ivi, pp. 11-12).

(12)

parte integrante («the self is constructed in relation to and in terms of other selves; […] life writing and life reading are simultaneous and mutually corrective processes»)43.

Oltre a dover ricostruire il narratore e il soggetto dell’autobiografia in collaborazione con l’autore, il lettore dovrà altresì verificare la veridicità del materiale che gli viene sottoposto44, e rivedere eventualmente le proprie posizioni qualora lo spazio autobiografico45 dello scrivente si allargasse al punto tale da includere più opere.

Tutto questo con la consapevolezza che dalle negoziazioni che lo vedono implicato uscirà un soggetto «permeable, unstable, essentially in distress», che altri ancora avranno il potere di manipolare: uno dei tratti caratterizzanti delle autobiografie “interazionali” riguarda d’altronde «the concern, propelling the text and built into its structure, that some other or others have, or will take control of the self, that the self risks expropriation, a subtle and dangerous form of erasure»46.

Come Egan, l’americano Thomas Couser si muove lungo una linea interpretativa che punta sulle nozioni di relazionalità e corporeità per esaminare un’ampia casistica di (auto)rappresentazioni di identità reali. La presa di posizione critica dei suoi interventi investe, nello specifico, l’esigenza di includere il ricco e crescente campo dei disability studies47 nel dibattito in corso sulle forme entro cui si realizza l’autobiografia e sugli elementi che inducono determinate categorie di individui a inserire in una griglia narrativa

43

Ivi, p. 47. 44

Anche nel momento in cui un testo di matrice autobiografica destabilizza il patto lejeuniano perché non ne soddisfa le condizioni, il lettore può tuttavia districare la vita dall’arte e arrivare a carpire un qualche frammento della self-consciousness autoriale: è il caso degli sperimentalismi con la rappresentazione del sé di cui si rendono protagonisti alcuni dei maggiori esponenti del Modernismo. Al di là, infatti, dell’alterazione della capacità del linguaggio di mediare tra vita pre-testuale e pre-testuale, autori come Proust, James Joyce, Virginia Woolf e Gertrude Stein hanno dimostrato che ciò che viene inficiato nella trasfigurazione artistica della vita non è l’esistenza del soggetto, né tantomeno la referenzialità: «Significantly, all [these authors] were attentive to somatic experience in their writing, suggesting not so much the disappereance of a physical subject as altered modes of artistic perception. All four, furthermore, blend the languages of visual art and music into the repertoire of writing to extend the imaginative and referential capacities of writing and reading» (ivi, p. 30). L’analisi ravvicinata di alcune delle opere più autoreferenziali di Hemingway (A Moveable Feast, 1964), Mary Meigs (Lily Briscoe. A Self-Portrait, 1981) e Breyten Breytenbach (Mouroir, 1983) conferma l’ipotesi secondo la quale le menzogne, i camuffamenti e le distorsioni del reale possono celare delle intime verità, per cui «[w]hen realism will no longer serve, when the living subject is trapped in cultural and linguistic constructions […] literary tropes […] enable some version of [an] original being» (ivi, p. 31). Per ulteriori approfondimenti in merito, cfr. le pp. 29-83 del presente saggio.

45

Con questa espressione, che è stata adattata da Lejeune, si fa riferimento allo spazio entro il quale si possono situare tutte le opere autobiografiche di un autore.

46

S. EGAN, op. cit., p. 85. 47

Tra la folta bibliografia sull’argomento, cfr. almeno: A. H. HAWKINS, Reconstructing Illness. Studies in Pathography, Purdue UP, West Lafayette 1993; D.T. MITCHELL – S.L. SNYDER,

Narrative Prosthesis. Disability and the Dependencies of Discourse, Michigan UP, Ann Arbor

2000; T.SIEBERS, Disability Theory, Michigan UP, Ann Arbor 2008; B.J. BRUEGGEMANN, Deaf

(13)

le proprie – e abbiamo visto con Egan, le altrui – storie per setacciarne le infinite polisemie.

Il proposito di attingere a un ambito di indagine interdisciplinare che può fornire strumenti e competenze agli studi critico-letterari sull’autobiografia, si combina poi con la volontà di incoraggiare una diversa visione della malattia e della disabilità all’interno delle ristrette mura accademiche, dove la propensione allo studio delle pratiche multiculturali sembra aver dissipato l’interesse per le identità altre, e soprattutto al di fuori di esse, in una società che ancora stigmatizza le disfunzioni fisiche e nega la mediazione del corpo nella vita spirituale e intellettuale delle persone48.

In questa direzione, e per mezzo di un confronto consapevole con le acquisizioni speculative delle scienze biomediche, Couser affaccia l’ipotesi che i racconti redatti dai soggetti affetti da patologie di varia natura – il cancro al seno, l’HIV/AIDS, la paralisi e la sordità sono le malattie prese in esame in Recovering Bodies, il primo volume dedicato dall’autore a questo tema – o dalle persone a loro vicine servono, da una parte, a dissipare le illusioni di cui si fa promotrice una “cultura del benessere” che punta sull’incremento della longevità e sulla responsabilizzazione degli individui in merito alla salvaguardia della propria salute; dall’altra, tali narrazioni si fanno garanti del desiderio del paziente in cura di riappropriarsi di una storia e di un corpo ai quali ha metaforicamente rinunciato nel momento in cui è stato costretto a sottoporli al vaglio delle autorità mediche:

The treatment of illness or disability typically, and necessarily, involves a sort of narrative collaboration between doctor and patient – the creation of a new “life text”. Diagnosis often relies at least in part on a medical history; the patient offers up testimony that the doctor interprets according to codes and conventions generally unavailable to the patient. In order to be treated, then, patients generally must have their medical history “taken”. […] Thus doctors may both reinterpret patients’ pasts and literally pre-script their futures. The process is collaborative but one sided. […] Of course, this is what most sick people expect, and perhaps even desire, from doctors, and this process is not inherently malign. Yet the process involves relinquishing control over one’s body, and one’s story […]. The narrative thus “collaboratively” produced may serve the physician’s needs more fully than it serves the patient’s. Thus, just as patients wish to vanquish the illness that alters their lives, they may also wish to regain control over their life narratives […]49

.

Non tutti i resoconti di una malattia, però, ostentano una chiara pulsione autobiografica, e solo alcuni di essi – quelli cioè che «[don’t] feature illness as their primary, even sole, focus» – riescono a oltrepassare la soglia del caso clinico per affrontare un lavoro archeologico, di scavo e ricerca interiore: a seguire un simile indirizzo sono soltanto le

48

Cfr. G.T. COUSER, Recovering Bodies. Illness, Disability and Life Writing, Wisconsin UP, Madison 1997, p. 4.

49

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persone capaci di inserire «illness narrative into a larger life narrative chronologically, by linear extension, or simultaneously, by conflation of other issues with the somatic»50.

Le storie sorte intorno alle disfunzioni fisiche, constata Couser, possono trasformarsi in autobiografie nella misura in cui si realizza un’identificazione con il corpo, perché in caso contrario il permanere della scissione tra il sé e l’elemento somatico riprodurrebbe le dinamiche del discorso medico, che mira all’astrazione e all’oggettivazione dell’identità51

. Le narrazioni dove assistiamo alla fusione del sé con il corpo traggono origine da un insieme di intenti: possono essere una forma di sublimazione del dolore da parte del diretto interessato, che cerca di dare una forma estetica alla propria infermità, oppure un modo per

commemorare la persona amata, quando a scrivere non è propriamente il malato52. Ma possono anche obbedire alla necessità di dare conforto agli individui che condividono

le sofferenze del protagonista («[a]lthough the authors are inevitably and appropriately self-concerned during their illnesses, in the act of writing they seek to enhance others’ chances of survival and to support them by sharing their experiences»), e contenere un messaggio di protesta contro la società per la sua inettitudine nel garantire ai disabili i diritti di cui godono tutti gli altri suoi membri («[r]egardless of their explicit politics […] all [these] narratives may be viewed as doing important cultural work»)53.

Giacché sono molti i sottogeneri autobiografici che possono farsi latori di un discorso inteso a sensibilizzare la coscienza degli individui appartenenti a un circuito socio-culturale ad ampio raggio, Couser ritiene opportuno sfumare i concetti e designare con il termine somebody memoir esclusivamente le forme di life writing nelle quali 50 Ivi, p. 14. 51 Cfr. Ibidem. 52

Nel primo caso le tre istanze che per Lejeune costituiscono la conditio sine qua non dell’autobiografia convergono tutte in un’unica persona (malato = autore/narratore/protagonista), mentre nel secondo solo due di esse collimano (malato = protagonista ma ≠ autore/narratore). Sebbene la critica odierna manifesti una comune tendenza a omologare le parole «autobiography» e «memoir», Couser preferisce impiegare «autobiography» o autosomatography (cfr. infra) per l’autobiografia propriamente detta – dove autore, narratore e protagonista sono la stessa persona – e «memoir» per le storie riguardanti la malattia di qualcuno che non è il narratore. In Recovering

Bodies l’autore giustifica la propria scelta in questi termini: «Memoir is a notoriously vague term.

It generally is understood to refer to a first-person narrative in which someone or something other than the narrator is central […]. But the distinction between a narrative focused on another person and one focused on the narrator’s career (such as political memoir) seems too great to justify the use of the same term for both […]. In the case of illness narrative the key distinction has to do with whether the narrator is ill or a witness to another’s illness» (ivi, p. 16).

53

Ivi, p. 37. Nelle storie delle donne malate di cancro al seno Couser rintraccia addirittura una “missione pubblica” che può assumere connotati politici sotto molti aspetti affini a quelli delle

slave narratives, «which were also written in the hope of abolishing a threatening condition that

their narrators were fortunate enough to escape». Come gli schiavi che hanno conquistato la libertà, le donne che hanno sconfitto la malattia sono consapevoli della temporaneità della loro situazione, e devono veder sottoscritta la propria storia dalle altre “autorità”. Così, «just as white abolitionists sometimes authorized slave narratives in introduction or forewords, medical professionals sometimes validate breast cancer narratives» (ibidem).

(15)

l’(auto)biografo, conferendo valore ai soggetti privi di quei requisiti fisici che li renderebbero “normali” agli occhi del sistema, insiste sull’esigenza di riscattare i disabili e i malati dal rischio della marginalizzazione.

In Signifying Bodies Couser fornisce alcune delucidazioni sulla scelta della parola e spiega, con dovizia di particolari, di averla desunta dalla lettura di una recensione in cui Lorraine Adams – una corrispondente del Washington Monthly – categorizzava le autobiografie imperniate sul corpo in base al grado di notorietà del firmatario prima della pubblicazione: l’articolo parlava di somebody memoir quando l’autore/trice era una persona già conosciuta (e.g. Living History [2003] di Hillary Clinton), o altrimenti di nobody memoir, se il racconto recava la firma di qualcuno che usciva dall’anonimato solo in seguito alla divulgazione della propria life history (e.g. Autobiography of a Face [1994] di Lucy Grealy)54.

Notando nella classificazione di Adams la presenza della «configurazione corporea» quale elemento propulsivo di una serie di narrazioni eterogenee55, Couser arriva alla conclusione che in realtà le “memorie di nessuno” appartengono sempre a some body, poiché attestano la necessità di non disgiungere la storia del corpo e delle sue percezioni dalle considerazioni culturali che lo riguardano: «Far more than the somebody memoir, the nobody memoir is often about what it’s like to have or to be, to live in or as, a particular body – indeed, a body that is usually odd or anomalous [autosomatography]. Less often, it’s about living with, loving, or knowing intimately someone with such a body [somatography]»56.

Le auto/somatografie57, nel tematizzare i disagi e le problematiche che nascono dall’interazione con il mondo esterno, denotano l’urgenza di mostrare quali codificazioni

54

Cfr. L.ADAMS, «Almost Famous. The Rise of the “Nobody” Memoir», Washington Monthly, April 2002. Il testo dell’articolo è reperibile e consultabile al seguente indirizzo web: http://www. washingtonmonthly/2001/0204.adams.html.

55

«Based on a sample of more than 200 recent memoirs, Adams drew up a taxonomy of the nobody memoir; according to her, the most popular types are […] ‹the childhood memoir – incestuous, abusive, alcoholic, impoverished, minority, “normal”, and the occasional privileged […] [;] the memoir of physical catastrophe – violence, quadriplegia, amputation, disease, death [;] […] and [the memoir of] mental catastrophe – madness, addiction, alcoholism, anorexia, brain damage› […]. Note the emphasis on dysfunction in the first type of memoir, with normal and privileged childhoods trailing traumatic ones, and the fact that the other two types are characterized as narrating distinct kinds of catastrophe. If you’re not somebody, it seems, you claim to public attention as a memoirist is strongest if you have had a tragic childhood or a past visited by traumatic injury, impairment, or illness» (G.T. COUSER, Signifying Bodies. Disability in Contemporary Life Writing, Michigan UP, Ann Arbor 2009, p. 1).

56

G.T.COUSER,Signifying Bodies, cit., p. 2. Corsivi nel testo. Tra le parentesi quadre sono stati

inseriti i termini con cui l’autore opera una distinzione, entro l’ampia categoria dei some body

memoirs, tra narrazioni in prima o in terza persona.

57

Il vocabolo auto/somatography è introdotto da Couser per distinguere esempi particolari di some

(16)

del vissuto producono le alterità emarginate che hanno l’occasione di risignificarsi in un contesto sempre più fluido e dinamico. Couser ricorda difatti che:

Facing our bodies is important in part because it is difficult, and it is difficult because so many forces in Western culture – Christian theology and Cartesian dualism, to name just two – operate to devalue and thus efface the body. Furthermore, as part of its pervasive and persistent tendency to efface embodiment, Western culture has tended to deface some bodies; that is to say, it has marked, marginalized, and muted whole sets of people on the basis of bodily difference – along lines of gender, race, ethnicity, and sexuality, of course, but more generally along the lines of those somatic conditions we call illness and disability. […] Like race and gender, [disability] also affects everyone in that all bodies are defined by the same standards and norms: just as we are all raced and we are all gendered, we are all embodied58.

La materialità del soggetto autobiografico, sulla quale convergono le linee guida degli studi di Couser come di Eakin ed Egan, deve la sua pertinenza al fatto che funge nel suo complesso da ancoraggio epistemico: in netto contrasto con l’essenzialismo di ascendenza umanistico-borghese, essa mette in risalto il posizionamento topografico, temporale, socio-culturale e linguistico dell’individuo, che vi fa così appello per pensarsi e identificarsi59

. Si profila quindi l’evidenza che l’accentuazione politica e semantica della traccia corporea sia soprattutto la cifra della produzione di categorie «off-center from the dominant group, those claiming or assigned nonhegemonic identities, [who] find themselves partitioned in their bodies, culturally embodied»60.

Tali categorie, e la loro complessa relazione con la questione dell’identità e della contaminazione, dell’appartenenza culturale e della diaspora, saranno appunto l’argomento intorno al quale verterà il prossimo paragrafo.

2.2. La critica femminista

Il dibattito sulle diverse configurazioni della scrittura autobiografica femminile si è acceso soltanto negli anni ’80 del ’900, grazie specialmente all’impegno della critica femminista di origine anglosassone e francese. Come per altri settori di indagine sul valore dell’esperienza degli individui marginali, l’avvio di una riflessione sulle matrici dell’autorappresentazione delle donne ha comportato una presa di distanza e una messa in discussione della tradizione ermeneutica e teorico-metodologica sorta intorno alle maggiori approfondimenti in materia, rinviamo al glossario in appendice, più esattamente alla voce

autosomatography/autopatography.

58

G.T.COUSER,Signifying Bodies, cit., p. 9. Corsivi nel testo.

59

Cfr. S.SMITH, «Identity’s Body», in K. Ashley – L. Gilmore – G. Peters (eds.), Autobiography & Postmodernism, Massachusetts UP, Amherst 1994, pp. 266-92, qui pp. 266-67.

60

(17)

letterature del sé, che con Olney e Gusdorf abbiamo visto rimanere ancorata allo studio delle vite degli uomini ai quali viene riconosciuto un alto grado di rappresentatività nella storia di un’epoca61

.

E se Lejeune, dal canto suo, ammette che il confronto tra le autobiografie maschili e femminili può far affiorare delle cospicue discordanze in rapporto alla posizione sociale o all’humus culturale dei singoli autori, anche lui – non diversamente dai suoi esimi colleghi – evita di assegnare una particolare rilevanza al sesso dello scrivente quale fattore in grado di condizionarne la pratica autobiografica62.

Fin da subito la memorialistica femminile appare pertanto invalidata da schemi interpretativi gerarchici e patriarcali, che negano alle donne la possibilità di contribuire al riassetto di un canone dal quale sono state escluse a seguito di un processo di repressione avvenuto su scala collettiva63.

Muovendosi proprio dal rifiuto di ogni categorizzazione in senso univoco, la critica femminista cerca di avventurarsi nella terra incognita dell’écriture féminine per perlustrarne le aree testuali e prelevare materiale utile a ridefinire problematicamente lo statuto dell’autobiografia. A guidare l’esplorazione di questo nuovo territorio, sotto molti aspetti affine al continente nero descrittoci da Shapiro, è la convinzione dell’impossibilità di cogliere il senso di una vita tramite modelli fissi, ma soprattutto la consapevolezza della necessità di un confronto con un patrimonio autobiografico capace di illuminare gli scarti rispetto a una situazione storico-sociale documentata attraverso canali discorsivi che sono il risultato di un privilegio, «one that excludes […] those writers who have been denied by history the illusion of individualism»64.

61

Sempre in questa direzione, Estelle Jelinek fa notare che alcuni dei primi e più importanti studi sul genere autobiografico non si interessano nemmeno marginalmente della produzione femminile: ne sono un esempio gli studi di Misch, le indagini pionieristiche di Burr, e le bibliografie

sull’autobiografia di William Matthew (British Autobiography, 1955) e Louis Kaplan (A Bibliography of American Autobiographies, 1961). Negli sporadici casi in cui viene fatta

menzione di scrittrici che si sono cimentate nelle forme della letteratura intima (l’autrice cita in questo caso i saggi di Shumaker, Pascal, Mandel, Cox e Hart), inoltre, le analisi si rivelano lacunose e del tutto arbitrarie, impregnate come sono dei pregiudizi sociali verso la condizione o la rappresentazione della vita femminile (cfr. E.C.JELINEK (ed.), Women’s Autobiography. Essays in

Criticism, Indiana UP, Bloomington-London 1980, pp. 1-3).

62

Cfr.P.LEJEUNE, «Women and Autobiography at Author’s Expense», in D.C. Stanton (ed.), The Female Autograph. Theory and Practice of Autobiography from the Tenth to the Twentieth Century, Chicago UP, Chicago-London 1984, pp. 205-18.

63

Questo è quanto rileva polemicamente Domna Stanton in The Female Autograph, cit., p. 4. 64

S. BENSTOCK (ed.), The Private Self. Theory and Practice of Women’s Autobiographical Writings, Routledge, London 1988, p. 39. Sull’interdizione della soggettività femminile insistono

efficacemente anche la stessa Smith e Carolyn Heilbrun, alle quali si deve una puntuale disamina delle autorappresentazioni femminili in relazione – o meglio, in opposizione – ai discorsi fallogocentrici del canone. Cfr. rispettivamente S.SMITH, A Poetics of Women’s Autobiography.

Marginality and the Fictions of Self-Representation, Indiana UP, Bloomington 1987 e C. G. HEILBRUN, Writing a Woman’s Life, Norton, New York 1988.

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Il ricorso a una categoria interpretativa di genere che assume la differenza sessuale come principio fondativo nel processo di costruzione dell’identità pubblica e privata delle donne, ha quindi costituito – almeno in un primo tempo – il dispositivo critico di un gran numero di studi, che ai più diversi livelli di complessità e impegno filologico si sono impegnati nel rilevamento delle cifre caratterizzanti della tradizione autobiografica femminile.

Pur nella permanenza dei topoi propri del genere autonarrativo, dal confronto con un repertorio istituzionalmente androcentrico è stato a più riprese osservato che le storie di vita delle donne manifestano strette consanguineità. Varie autrici rivendicano ad esempio il primato dei rituali quotidiani e dei sentimenti sulle cronache delle circostanze di risonanza pubblica – battaglie e imprese militari, scoperte scientifiche o carriere professionali – che sono da sempre l’immancabile oggetto delle memorie maschili: laddove gli uomini indugiano sulla narrazione degli «affari del mondo»65, le donne – comprese quelle «whose professional work is their claim to fame»66 – preferiscono ripiegare verso una dimensione privata, fatta di petits riens e dettagli cronachistici sulla vita domestica e famigliare.

Nonostante la diversità delle loro ascendenze culturali e storiche, le autobiografie femminili sono state inoltre assemblate in un corpus unitario in virtù di elementi di natura stilistica che suffragano la similarità dei modi con cui le donne estrinsecano il proprio essere nella – e attraverso la – scrittura.

Alcuni tra i tanti contributi sull’argomento stabiliscono così che gli uomini si dimostrano propensi ad articolare linearmente il racconto della propria esistenza, intorno a un progetto coerente e unitario dal quale poter estrapolare il senso di continuità con cui guardano se stessi e il mondo67. Le donne, più portate a «decostruirsi», adottano al contrario una narrazione episodica e frammentaria, che con le sue sintomatiche reticenze (Patricia Spacks parla non a caso di «retorica dell’incertezza»)68 cerca di riprodurre sul piano formale le difficoltà immanenti all’iscrizione del sé in un contesto tradizionalmente incline alla svalutazione dell’espressività e delle pratiche cognitive femminili69

.

Nell’intento di reindirizzare le traiettorie esegetiche della critica e valorizzare il «concetto-chiave […] di discontinuità come indizio di una forza disgregatrice operante

65

Spiega Jelinek: «One such distinguishing pattern is related to the restrictive male view of history. The consensus among critics is that a good autobiography not only focuses on its author but also reveals his connectedness to the rest of society; it is representative of his times, a mirror of his era» (E.C.JELINEK, op. cit., p. 7).

66

Ivi, p. 8. 67

Cfr. ivi, p. 17. 68

Cfr. P.M.SPACKS, «Selves in Hiding», in E.C. Jelinek, op. cit., pp. 112-32, qui p. 131.

69

«The multidimensionality of women’s socially conditioned roles seems to have established a pattern of diffusion and diversity when they write their autobiographies as well, and so by established critical standards, their life studies are […] cast into the “non-artistic” categories of memoir, reminiscence, and other disjunctive forms» (E.C.JELINEK, op. cit., p. 17).

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all’interno del modello cronologico-retrospettivo biografico»70

Stanton conia perciò il termine autogynography, con cui allude alla fondamentale drammatizzazione dell’alterità e della non-presenza delle donne in quanto soggetti all’interno di un sistema simbolico dal quale sono state espunte71:

autogynography […] ha[s] a global and essential therapeutic purpose: to constitute the female subject. In a phallocentric system, which defines her as the object, the inessential other to the same male subject […] the graphing of the auto [is] an act of self-assertion that denie[s] and reverse[s] woman’s status. It represent[s] […] the conquest of identity through writing […]. Creating the subject, an autograph [gives] the female “I” substance through the inscription of an interior and an anterior72.

La maggior parte degli interventi critici sul memorialismo femminile riscontra altresì come nei testi redatti dalle donne le fasi dell’autoconoscenza non sono quasi mai scandite dall’individualismo egotista che per Gusdorf è invece il contrassegno delle autobiografie maschili, quanto piuttosto da un impulso relazionale finalizzato alla legittimazione del proprio vissuto. Nella definizione ancora più autorevole di Susan Friedman:

taking the power of words, of representation, into their own hands, women project onto history an identity that is not purely individualistic. Nor it is purely collective. Instead, this new identity merges the shared and the unique. In autobiography, specifically, the self created in a woman’s text is often not a «teleological entity», an «isolate being» utterly separate from all others […]. Nor is he self a false image of alienation, an empty play of words on the page disconnected from the realm of referentiality […]. Instead, the self constructed in women’s autobiographical writing is often based in, but not limited to, a group consciousness – an awareness of the meaning of the cultural category WOMAN for the patterns of women’s

individual destiny73.

70

F.D’INTINO, «I paradossi dell’autobiografia», in R. Caputo – M. Monaco (a cura di), Scrivere la propria vita: l’autobiografia come problema critico e teorico, Bulzoni, Roma 1997, pp. 275-314,

qui p. 308. 71

Cfr. D.C.STANTON, op. cit., p. 15. Per meglio delimitare il proprio corpus operativo, la critica femminista ha impiegato, oltre ad autogynography, altre varianti della parola «autobiografia», ricombinando o elidendo i termini di cui si compone il suo etimo greco. Si possono citare, a campione di quanto appena accennato, le parole autography (Jeanne Perrault), autobiographics (Leigh Gilmore) e alter-biography (Jana Braziel), che sono state tutte introdotte con lo scopo di istituire un rapporto di tipo contrastivo con la tradizione autobiografica maschile. Per approfondimenti in merito, si veda altresì il glossario in appendice, alla voce autobiografia,

varianti.

72

D.C. STANTON, op. cit., p. 14. Corsivi nel testo. Sulla scorta dei dati attingibili da alcune

memorie giapponesi del X secolo, nel volume di Stanton si ipotizza addirittura che l’autobiografia potrebbe essere stata un’attività originariamente femminile, e che solo in un secondo tempo gli uomini l’avrebbero “usurpata” e proclamata come propria. Per maggiori approfondimenti in materia, cfr. R.BOWRING, «The Female Hand in Heian Japan. A First Reading», in ivi, pp. 49-56.

73

S.BENSTOCK, op. cit., p. 41. Ad avallare la tesi di Benstock interviene anche Mary Mason, per la quale «the self-discovery of female identity seems to acknowledge the real presence and recognition of another consciousness and the disclosure of the female self is linked to the identification of some “other”» (M.G. MASON, «The Other Voice. Autobiographies of Women

(20)

Dopo una prima fase votata al riesame delle formazioni ideologiche stratificatesi intorno alla soggettività femminile e alle sue manifestazioni discorsive, le ricognizioni della ginocritica sono state caratterizzate da una rimotivazione delle posizioni più estremiste in una prospettiva ancora attenta alla diversità delle determinanti storico-culturali di una vita, ma priva di pretese in merito alla possibilità di enunciare premesse teoriche assolute.

Alle femministe va indubbiamente il merito di aver promosso perlustrazioni sempre più complesse – nel quadro delle recenti teorie di impronta psicanalitica e post-strutturalista74 – delle fasi che hanno scandito il conseguimento, da parte delle donne, di un’autorità semantica su se stesse e sugli altri. Il loro lavoro ha poi contribuito ad avvalorare la tesi che la scrittura autobiografica sia un mezzo potenzialmente valido per contestare, spesso in nome di un intero gruppo (è il caso delle autobiografie redatte da donne di origine afro-americana), le interpretazioni cui ha dato adito la reificazione dell’individualità maschile.

Tuttavia si è fatta strada la consapevolezza che racchiudere le autonarrazioni delle donne in compartimenti stagni, o pensarle altrimenti in termini rigorosamente dicotomici, comporterebbe due problemi evidenti: quello di perseguire il modello essenzialista «that has plagued both American feminist criticism and écriture féminine in France», e quello di affermare una tradizione separatista, che lasciando in ombra altre soggettività «carries the danger of reverse reification»75 .

L’urgenza di svincolarsi da una griglia interpretativa fondata solo sul gender76

si mostra con particolare chiarezza, tra l’altro, nei lavori di Eakin, le cui letture – come abbiamo cercato di chiarire in precedenza – sono comprensive di ambiti del sapere e di uno sforzo di collegamento interdisciplinare reso praticabile perché effettuato in seno a un percorso organico e multiprospettico, dove le problematiche della rappresentazione del sé non sono necessariamente rapportate a esperienze costruite intorno a posizioni duali.

Writers», in B. Brodzki – C. Schenck (eds.), Life/Lines. Theorizing Women’s Autobiography, Cornell UP, Ithaca-London 1988, pp. 19-44, qui p. 22).

74

Su questo punto cfr. in particolare L. ANDERSON, op. cit., pp. 86-91 e L. MARCUS, op. cit. pp. 218-20.

75

B. BRODZKI – C. SCHENCK, op. cit., pp. 14-15. Sull’impossibilità di stabilire a priori delimitazioni teoriche a proposito delle forme entro cui si realizza il memorialismo femminile hanno insistito anche Stanton e Smith e, più di recente, Leigh Gilmore (Autobiographics. A

Feminist Theory of Women’s Self-Representation, Cornell UP, Ithaca-London 1994) e Linda

Peterson («Instituzionalizing Women’s Autobiography. Nineteenth-Century Editors and the Shaping of an Autobiographical Tradition», in R. Folkenflik,op. cit., pp. 80-103).

76

Come ci ricorda Broughton, il concetto di gender viene coniato per eludere il naturalismo sotteso a un sistema di valori che si fonda solo sulla differenza anatomica (cfr. T.L.BROUGHTON, op. cit.,

p. 53). Accogliamo qui la definizione che ne dà Elizabeth Fox-Genovese, per la quale il termine fa esplicitamente riferimento alla «costruzione sociale della sessualità» (cfr. E.FOX-GENOVESE, «My Statue, My Self. Autobiographical Writings of Afro-American Women», in S. Benstock, op. cit., pp. 63-89, qui p. 84).

Figura

Fig. 2. Tracey Emin (1963- ) è una delle maggiori esponenti del gruppo conosciuto come Britartists  o YBAs (Young British Artists)

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