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Una memoria del mondo bipolare: il teatro yiddish di Moni Ovadia al terzo millennio. La bella utopia. Lavoratori di tutto il mondo ridete

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Academic year: 2022

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35-36 | 2014

La letteratura italiana al tempo della globalizzazione

Una memoria del mondo bipolare: il teatro yiddish di Moni Ovadia al terzo millennio. La bella utopia.

Lavoratori di tutto il mondo ridete

Ilona Fried

Edizione digitale

URL: https://journals.openedition.org/narrativa/1168 DOI: 10.4000/narrativa.1168

ISSN: 2804-1224 Editore

Presses universitaires de Paris Nanterre Edizione cartacea

Data di pubblicazione: 1 septembre 2014 Paginazione: 157-169

ISBN: 978-2-84016-192-9 ISSN: 1166-3243

Notizia bibliografica digitale

Ilona Fried, «Una memoria del mondo bipolare: il teatro yiddish di Moni Ovadia al terzo millennio. La bella utopia. Lavoratori di tutto il mondo ridete», Narrativa [Online], 35-36 | 2014, online dal 01 avril 2022, consultato il 20 avril 2022. URL: http://journals.openedition.org/narrativa/1168 ; DOI: https://doi.org/

10.4000/narrativa.1168

Narrativa est mise à disposition selon les termes de la Licence Creative Commons Attribution 4.0 International.

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Ed eccoci così sul finire della Guerra Civile, siamo alla fine del 1921, il Partito Comunista bolscevico annuncia che, in una piccola cittadina della Bielorussia, verranno distribuite gratuitamente a tutta la popolazione delle arance.

Riuscite a pensare cosa potesse voler dire “arance” per quella povera gente martoriata dalla pellagra e dallo scorbuto? Immaginatevi una grande massa di ombre smunte, in fila dalle quattro di mattina, nell’alba gelida di quelle terre, che aspettano pazienti. In un chiosco, un compagno burocrate è preposto alla distribuzione. Lo si intravede armeggiare tra pile di scartoffie. Dopo un’ora il compagno alza la saracinescca, e annuncia: “Cittadini e compagni, le arance sono meno del previsto, quindi non verranno distribuite agli ebrei!”. Silenzio- samente un gruppo di vecchi ebrei ortodossi, con le barbe striate di brina e di ghiaccioli, si allontana con rassegnazione ciondolando e mormorando antiche preghiere mosaiche: da tempo sono abituati alle discriminazioni.

Rimangono i cittadini non ebrei.

Man mano che la storia va avanti, vengono selezionati i gruppi più scelti e più rispettati che continuano a soffrire il freddo in attesa delle arancie, alla fine:

Rimane lo sparuto gruppo dei mutilati: chi senza un occhio, chi senza una gamba o senza braccia, i volti solcati da profonde cicatrici… Con una disci- plina esemplare, sopportano i morsi del gelo. Appare dopo un’ora la faccia di gomma senza lineamenti del compagno burocrate che, sporgendosi dalla fines- trella del chiosco, fa loro cenno di avvicinarsi. Con una pena terribile questi eroi superdecorati si avvicinano, dolgono loro anche le giunture degli arti che non hanno più. E quando sono vicini, il compagno burocrate dice loro: “Compagni!

Voi siete gente di provata fede, a voi lo posso dire: di arance non ce ne sono proprio!”.

Con una dignità che non sappiamo neppure immaginare, gli eroici mutilati bolscevichi si allontanano dopo cinque ore di vana attesa, in un commovente silenzio.

La bella utopia. Lavoratori di tutto il mondo ridete

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Solo uno, si china e bisbiglia all’orecchio del vicino: “Vasilij Nikolaevich… avete visto gli ebrei? Sempre i più fortunati!”1.

Ecco uno degli aneddoti presi dallo spettacolo La bella utopia2, la rievoca- zione di Moni Ovadia dell’ipotetica fine delle ideologie, in un mondo globaliz- zato, di una delle grandi narrazioni del Novecento, la storia dell’Unione Sovietica. Come è solito fare nei suoi spettacoli, l’autore si basa su tradizioni musicali e folkloristiche; questa volta però, a differenza degli altri suoi spetta- coli, non si tratta di tradizioni prevalentemente yiddish, ma di quelle relative alla storia dell’Unione Sovietica.

Ovadia fa anche rivivere le tradizioni del cabaret e del teatro ebraico, gli aned- doti, il Witz, i commenti su eventi attuali della società, tutte rivisitazioni storiche vicine al teatro di narrazione. Il suo modo di recitare, di puntare sulle deforma- zioni sociali con l’umorismo, con l’ironia, rende il tragico e il quasi insopporta- bile molto umano; basti pensare alla trasformazione ironica, con riferimento storico, del sottotitolo dello spettacolo La bella utopia. Lavoratori di tutto il mondo ridete. Ecco cosa diventa una delle utopie più belle dell’umanità: fonte di ironia.

Nei suoi spettacoli Moni Ovadia unisce, elabora, rievoca attraverso la cultura ebraica quella dell’Europa dell’Est, che spazia per ben due secoli e attraversa vari imperi (la tradizione yiddish, originariamente la cultura dei ghetti, dei ceti poveri) – personaggi e situazioni che prima e dopo la Shoah diventano portatori e rappresentanti delle grandi tematiche della grande storia del Novecento.

Ovadia rivede elementi integranti dell’identità ebraica come la musica folk, la danza, i gesti, i movimenti, il modo di esprimersi con la capacità essenziale di ridere di se stessi e della tragicità della sorte di un popolo, di porre tutto in dubbio, di puntare sugli interrogativi anziché sulle certezze. In effetti, porsi quesiti importanti è un atteggiamento molto presente nella cultura ebraica, come evidenzia la liturgia della sera di Pesach, la cena accompagnata dalla let- tura della Haggadah3.

1. ovadIa, Moni, La bella utopia, Bologna, Corvino Meda Editore, 2008, pp. 30-32.

2. Lo spettacolo ebbe diverse versioni: la versione registrata sul dvd il 20 novembre 2007 è stata recitata da Moni Ovadia, Lee Colbert, Maxim Shamkov e la Moni Ovadia Stage Orchestra (Luca Garlaschelli al contrabbasso, Janos Hasur al violino, Massimo Marcer alla Tromba, Albert Mihai alla fisarmonica, Vincenzo Pasquariello al piano- forte, Paolo Rocca ai clarinetti, Emilio Vallorani a flauti e percussioni), per la regia di Moni Ovadia, coreografie di Maxim Shamkov, concept video, scene e costumi di Elisa Savi.

3. Durante questa cena, il più giovane dei festeggianti deve rileggere la storia della sopravvivenza del popolo ebraico scampato a un grande pericolo. Un momento inte-

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La lingua, la pronuncia italiana, le iscrizioni e i canti in russo sono elementi essenziali (in italiano Ovadia imita un accento, un modo di parlare yiddish, a volte usa forme sgrammaticate esprimendo l’estraneità dei parlanti). La cultura yiddish si presenta anche sotto forma di multiculturalismo e plurilinguismo, espressione della vastissima conoscenza di Ovadia delle lingue: parla e recita, infatti, in otto lingue. In La bella utopia ha un ruolo egregio la sua conoscenza del russo (che viene scelto come uno degli emblemi del movimento operaio), della cultura e della società dei tempi dell’Unione Sovietica. L’Ovadia studioso dimo- stra di conoscere in modo approfondito anche la storia e i fatti poco noti del periodo sovietico come, per esempio, il ruolo centrale della guerra in Afgani- stan nella dissoluzione ormai vicina dell’URSS.

Ovadia, personaggio cosmopolita, quel tipo di artista “della repubblica delle lettere” ricordato da Michele Cometa4, si considera figura diasporica. Egli raffi- gura infatti gli ebrei di Europa e Stati Uniti come diaspora, in nome di un mul- tilinguismo e di un multiculturalismo. Riferendosi alla cultura ebraica, Paolo Puppa sostiene:

Il suo teatro consiste in fondo in una parodia sacra, in un’umoristica nostalgia del cerimoniale religioso, non importa se musulmano, ebraico, cattolico o altro ancora. E il lato religioso viene inteso quale invito alla tolleranza, nell’accetta- zione di ogni diversità. Il suo, da un lato, è il Dio dell’esilio, nella tradizione chassidica, in quanto lo Spirito Santo scende meglio nella diaspora e per la creatura e il creatore vede sempre i lamenti del cantore, in cui il canto coincide con una preghiera-supplica a stanarlo dal suo silenzio, mentre la diaspora viene additata quale grazia-disgrazia, autentica scuola di vita, adattamento e flessibilità nel processo identitario; dall’altro un Padre umanissimo con cui si può scher- zare dentro a un familismo bachtiniano, irriverente e irrituale5.

Moni Ovadia si autodefinisce “saltimbanco” e racconta una storia per ricor- dare che l’arte è la forma più completa di conoscenza:

Una ghemarà del Talmud ebraico dice: una moglie bella, una casa bella e degli strumenti, intesi come strumenti di creazione, gradevoli, allargano l’orizzonte ressante della lettura della Haggadah è quello dedicato al brano riguardante i “quattro figli”: il sapiente, il semplice, colui che non è capace neppure di domandare, e il figlio cattivo. I quattro figli sono l’emblema dei vari tipi di cui è composta l’umanità e rap- presentano le domande da formulare. In questa occasione, la Haggadah fornisce dei suggerimenti sul tipo di risposta da dare ad ognuno di essi.

4. Si veda il saggio di Michele Cometa in questo volume.

5. PuPPa, Paolo, “Ridere della Shoah”, in La voce solitaria, Roma, Bulzoni, 2010, p. 122.

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della conoscenza dell’uomo. La bellezza e l’arte sono, quindi, strumenti di conoscenza. Noi abbiamo una visione limitata e occlusiva della conoscenza come atto concettuale e mentale. Il bello è una forma di conoscenza attraverso l’emozione e l’emozione è strumento di conoscenza6.

Per vedere la formazione di Ovadia, per capire com’è diventato gradualmente l’artista che attualmente è, si torna ancora all’analisi di Paolo Puppa che lo considera

un cantore-diseur, incalzato dal rovello di testimoniare qualcosa che lo rigu- arda da vicino. Ma prima di diventare l’Ovadia attuale, Moni ha cercato con fatica e a lungo una propria identità7. Solidale, tramite un patto sancito progres- sivamente con se stesso, verso un popolo scampato ai forni, dà voce alla perdita dello shtetl, allo sradicamento dal villaggio lontano, e finisce per riconciliare col teatro un mondo, come quello ebraico, da sempre in sospetto verso la figurati- vità antropocentrica del palcoscenico. A poco a poco, insomma, diviene il tea- trante ebreo finendo per sottolineare così la sua appartenenza ad una religione e accettando la debolezza e insieme la grandezza di eccentrica bandiera della Jewish culture.

Nato da un ceppo sefardita, ossia con lontane ascendenze ispaniche, da una famiglia intrisa del tipico cosmopolitismo multietnico di quel milieu, nonno fun- zionario delle ferrovie austro ungariche, padre greco turco e violinista, madre cantante e jugoslava, tende a non trascurare nondimeno l’altra grande corrente, quella mitteleuropea e haskenazita. Da ognuno di questi rami, Ovadia assimila una mostruosa competenza poliglotta8, in cui ovviamente, quale koinè esemplare per il vortice babelico della sua voce, risulta lo yiddish, lingua per eccellenza 6. Ovadia, Moni, “Arte e memoria, radici religiose della cultura” (Firenze 2011) (in http://www.youtube.com/watch?v=yveoUhrNbFo).

7. “Nato nel ’46 a Plovdiv in Bulgaria, presto si trasferisce con la famiglia a Milano, dove si laurea in scienze politiche. Dopo un apprendistato sessantottino e contestatore in giro per l’Europa, presso la band degli Stormy Six, eredita da Roberto Leydi la pas- sione per la ricerca etnologica e conservativa nei riguardi della musica popolare. Nel ’72 fonda il Gruppo Folk Internazionale, specializzato nel repertorio balcanico, divenuto nel ’78 l’Ensemble Havadià, nome remoto della sua famiglia ebraica scoprendo in tal modo le proprie motivazioni radicali legate, cioè, alla sua origine, prima che espressive.

Reclutato, infatti, da Kantor per una canzone, poi colonna musicale dell’intero spetta- colo, Qui non ci torno più del 1989, ha modo di perfezionare in una simile opportunità, sotto il regista polacco, il ritmo del montaggio per inquadrare le arie canore entro le proprie performances” (PuPPa, Paolo, “Ridere della Shoah”, cit., p. 122).

8. “Ovadia è in grado infatti di intrattenere agevolmente la sala, tra l’altro, in greco moderno, come nel recital sul poeta Ghiannis Ritsos del l989, o in russo, vedi il citato La bella utopia. Davanti alla sala abbacinata del La Mama a New York, nel ’92, esibisce per il suo Golem un perfetto inglese, colla medesima disinvoltura con cui lo offre in italiano nelle tournées nostrane” (PuPPa, Paolo, “Ridere della Shoah”, cit., p. 122).

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diasporica, stratificata storicamente tra adattamenti sul lessico del paese ospi- tante, vocabolario pastiche che aggancia il germanico antico di base (l’origine della parola essendo appunto il tedesco jüdish), tracimato via via dalla geografia in cui la ininterrotta peregrinazione dei tanti esodi ha costretto i “giudei”9. Ovadia affronta i grandi temi e la grande storia del Novecento dall’ottica del mondo ormai globalizzato attraverso la storia ebraica. A partire dal mito del Golem (la storia di una comunità, di personaggi emblematici come la madre, la

“Yiddishe Mame”), passando per i vari personaggi di spicco della letteratura e della cultura ebraica, egli tratta anche della cultura ebraica dell’immigrazione negli Stati Uniti in opere come Oylem Goylem, (“il mondo è scemo”) e poi la tragedia dell’Olocausto, ecc.

Le grandi storie, le grandi narrazioni vengono spesso filtrate attraverso microstorie e punti di vista di personaggi comuni – come sono di solito i perso- naggi comuni delle barzellette, dei Witz, dei cabaret – con molta empatia, ma anche con l’allontanamento dalle tragedie grazie all’umorismo e all’ironia. Con la scelta del cabaret, Ovadia risale anche a una delle fonti del teatro moderno.

Come noto, il cabaret partì da Parigi alla fine dell’ ’800 e divenne un genere importante della cultura dell’Europa dell’Est e della Mitteleuropa. Il cabaret poteva presentarsi sotto forme diverse e prendere anche una forma mista: tra musica, ballo e narrazione, recitazione di barzellette o di drammi. Il teatro yid- dish più famoso, il teatro Habima, partì dalla Russia e poi proseguì la sua attività fino alla metà degli Anni ’20 nell’Unione Sovietica e divenne famoso in tutta l’Europa e negli Stati Uniti10. Fra le sue produzioni merita di essere ricordata una versione del mito di The Golem di H. Levick, sotto il titolo The Deluge11. I

9. Ibid.

10. Venne fondato a Mosca intorno al 1905, poco dopo la Rivoluzione e dopo i primi anni di recitazioni da non professionisti in ebraico, divenne un teatro abbinato al Teatro d’Arte di Stanislavskij che dopo la Rivoluzione del 1917, sotto la guida del regista Vahtangov, non ebreo, nel corso delle numerose tournée internazionali godette di grande prestigio anche all’estero. Lo spettacolo di maggior successo divenne Dybbuk di Evgeny Vakhtangov, nel 1921. La leggenda venne scritta in forma di dramma da S.

Ansky. Fu anche messa in scena una versione di Golem scritta da H. Levick; una ver- sione di Golem venne prodotta sotto i titoli “Il Diluvio”, “Il Sogno di Jobbe” di Beer- Hoffman, e “L’ebreo eterno” di David Pinski (cfr. The Habima in New York, in http://

www.museumoffamilyhistory.com/habima-01.htm).

11. La compagnia nel 1926 arrivò a New York dove fece più di cento spettacoli, dopodiché alcuni attori rimasero a New York, mentre gli altri emigrarono in Palestina, dove rifondarono il Teatro Habima, che nel 1958 divenne il Teatro Nazionale d’Israele.

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critici italiani, compreso Silvio d’Amico, riconobbero l’Habima come uno dei migliori teatri d’Europa. Nella Mitteleuropa grandi personaggi del teatro del

’900 come Karl Kraus, Max Reinhardt o Bertolt Brecht sono partiti dal cabaret.

Anche grandi drammaturghi ungheresi come Ferenc Molnár si sono formati nel mondo del cabaret12.

Il genere accompagnò l’ebraismo fino all’inferno dell’Olocausto: come è noto, la Germania nazista lo perseguitò, per cui molti cabarettisti minacciati nella loro esistenza verso la metà degli Anni ’30 fuggirono13. Il cabaret del campo di concentramento di Theresienstadt finì con la tragica eliminazione della maggior parte dei detenuti che lo produssero14.

Il “cabaret yiddish” di Ovadia ottenne un grande successo di pubblico fin dalle primissime rappresentazioni: il Golem (1991), in collaborazione con Daniele Abbado, e l’Oylem Goylem (1993). Da allora Ovadia prosegue il suo itinerario artistico con spettacoli e collaborazioni importanti15.

È nel 2007-2008 che mette in scena La bella utopia, sempre con la collabora- zione di Daniele Abbado, un’opera di particolare interesse per questo saggio. Si tratta di uno spettacolo in cui “La grande narrazione del comunismo viene rivisitata dall’angolatura dell’ebreo comune, attraverso l’umorismo ebraico”16. Alla base dello spettacolo c’è anche l’apparente coinvolgimento intellettuale di Ovadia. La narrazione e gli aneddoti si alternano alla musica, alla danza e ad esempi di folklore ebraico. La maggioranza dei canti appartiene al patrimonio dei canti popolari russi e a quelli del movimento comunista che vengono cantati per lo più da Ovadia e/o da Lee Colbert o dai membri dell’orchestra composta

12. Il più grande cabarettista che produceva le sue opere in quell’ambito era Endre Nagy.

13. Fra i maggiori ricordiamo Friedrich Hollander (1896-1976), librettista anche delle canzoni di Marlene Dietrich.

14. Ormai anche la storia dello spettacolo durante l’Olocausto è nota. Molti fra i personaggi di spicco del cabaret tedesco si videro costretti a fuggire dopo l’ascesa al potere di Hitler, altri morirono nei campi di concentramento. Cfr. anche SenelIck, Laurence (dir.), Cabaret performance, Baltimore and London, The John Hopkins Univer- sity Press, 1993 (in particolare, vol. II, Europe 1920-1940, pp. 248-250).

15. Nel 1995 e nel 1998 collabora con Mara Cantoni, in Dybbuk e nella Ballata di fine millennio, sul tema dell’Olocausto. Sempre nel 1998, Ovadia produce Mame, mamele, mamma, mamà... e nel 2005-2006 lo spettacolo Es iz Amerike. La sua attività spazia su tanti altri campi, tra cui anche l’impegno civile e il coinvolgimento in problemi sociali.

Ha preso anche parte a film importanti come Caro Diario di Nanni Moretti ed è stato coprotagonista in Facciamo Paradiso di Mario Monicelli.

16. JanSen, Monica, “Nanterre globalizzazione”, in Italogramma (http://italogramma.

elte.hu/articoli/notizie).

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da musicisti/cantanti/danzatori. L’orchestra-coro, coro da ballo degli stessi personaggi, suonatori di clarinetto, di volino, di fisarmonica, armonica da bocca, danze popolari russe (piuttosto che dei contadini e/o militari).

Il tutto è molto autentico anche in quanto cantano di solito in russo, mentre le traduzioni in italiano per il pubblico vengono proiettate sullo schermo. La complessità della storia viene dimostrata attraverso brani letterari, testimo- nianze, come quelle di Majerhold e di Isaac Babel, documenti, commenti, ana- lisi come quella della figura di Trockij. I balli, la scenografia, i movimenti, la musica, i costumi, i documenti filmati proiettati rievocano la storia emblema- tica. La trasmissione di Ovadia anche quando sembra molto personale è allo stesso tempo anche molto oggettiva. Lo spettacolo comincia metaforicamente con l’Internazionale e finisce con l’Inno dell’Unione Sovietica (una melodia talmente popolare, che allo stesso autore dell’inno originale venne chiesto di rielabolarlo in tempi recenti come nuovo Inno della Russia).

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L’allusione al Manifesto del Partito Comunista di Marx e Engels per la nuova generazione ormai è poco chiara, mentre per le generazioni precedenti, formu- lata in questo modo, è ironia scontata. Nella visione di Ovadia:

I comunisti furono motore di lotte eroiche per il riscatto degli umili e degli oppressi, per la liberazione dei popoli e l’emancipazione delle minoranze perse- guitate. Ma eletto a sistema statuale il comunismo si trasformò nell’incubo di quel sogno, fece sorgere il sole dell’avvenire su albe tragiche di tirannia, di inganno burocratico fondato sulla propaganda della retorica menzognera e nelle epoche più buie divenne paradigma di violenza concentrazionaria e ferocia sanguinaria17. La bella utopia è uno spettacolo su

la più grande utopia mai concepita dall’essere umano, ovvero il comunismo:

un sogno che mobilitò milioni di uomini e donne su tutto il pianeta, ma si tras- formò anche in un incubo, tradì crudelmente coloro che avevano sperato nel suo avvento18.

17. Cfr. ovadIa, Moni, “La bella utopia. Note d’autore” (in http://www.moniovadia.net/

official/opere-e-parole/teatro/71-opere-e-parole/la-bella-utopia/270-la-bella-utopia-note- dautore.html).

18. ovadIa, Moni, “Vi racconto la Bella utopia del comunismo”, in La Repubblica, 11/03/2009 (http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2009/03/11/

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Lo spettacolo attraversa tutta l’esistenza dell’Unione Sovietica, dalla Rivolu- zione Bolscevica fino alla sua dissoluzione – seguendo le tradizioni del cabaret (yiddish), attraverso barzellette. Secondo Ovadia “La chiave di interpretazione de La bella utopia è quella urticante dell’umorismo ebraico, un umorismo para- dossale e critico che permette di guardare dritto negli occhi della Medusa senza rimanere pietrificati”19. L’ebraismo accresce ulteriormente il senso tragico che Ovadia dà allo spettacolo. Un ottimo esempio è la barzelletta citata sopra che dimostra la pessima posizione degli ebrei, visti con umorismo nero.

Gli aneddoti e le barzellette, le poesie, le memorie, le confessioni, raccontati e cantati, insieme ai costumi e alle immagini, servono a rievocare e a rendere fedeli i vari periodi della storia dell’URSS, emblema di una rivisitazione del Novecento. Ovadia indossa un costume che ricorda il modo di vestire del con- tadino russo-sovietico. I canti del movimento operaio, cantati in russo a volte in coro con il gruppo dell’orchestra in marcia, fanno proprio sentire l’atmosfera di quegli anni. Come rievocazione storica le immagini sono molto espressive, spesso documentarie, disegnate con molta fantasia e cura, proiettate sullo schermo, su un sottofondo ben elaborato: parlando di comunisti ebrei, per esempio, la stella rossa accanto alla stella, sempre rossa, di Davide.

“Lo spettacolo nasce da un’urgenza antirevisionista” – dice Ovadia – “ma lo strumento è sempre l’umorismo ebraico con le sue storielle feroci e paradossali, le sue canzoni capaci di riaprire il capitolo anche sulle figure più discusse della storia dell’URSS”20. I colori e le luci, la sceneggiatura minimale ma nella sua semplicità molto efficace, tutto questo rende l’atmosfera dello spettacolo molto vivace.

Per lo spettacolo La bella utopia Moni Ovadia voleva che la scena fosse rappre- sentata da una “scatola” di immagini del mondo sovietico con effetto tridimen- sionale in cui lui avrebbe potuto muoversi facendo dimenticare allo spettatore il limite tecnico della proiezione cinematografica per offrirgli emozioni pulsanti, vive, poetiche. [...] Ho scelto la strada del collage di citazioni di immagini fisse e in movimento, modificate e trasfigurate con effetti elettronici, mescolate a grafiche e pitture che guardavano alle grandi esperienze artistiche sovietiche con un intento preciso: commentare il testo di Ovadia seguendo le stesse regole da lui impiegate quando cita versi di poesie, strofe di canzoni, brani di documenti storici, eventi e nozioni: il paradosso, la pietas, l’ironia, la passione, la condanna

moni-ovadia-vi-racconto-la-bella-utopia.html).

19. ovadIa, Moni, “La bella utopia. Note d’autore”, cit.

20. ovadIa, Moni, “Vi racconto la bella utopia del comunismo”, cit.

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etica. Non ho ottenuto immagini neutre come del resto neutrale non è l’intento di Ovadia di riparlare della bella Utopia tradita del Novecento21.

La bella utopia è divisa in tredici capitoli, ciascuno con un proprio titolo. Il primo, “Perché il capitalismo ha vinto e il comunismo ha perso?”, introdotto da una notissima barzelletta che illustra la perfetta disorganizzazione e corruzione dietro le apparenze della struttura del sistema socialista dell’Unione Sovietica, è una premessa emblematica allo spettacolo. Vede come protagonista il solito ebreo, questa volta uno ricco, il Signor Weinstein, che parte da New York e, con mance eccezionali, riesce a scavalcare tutta la burocrazia sovietica fino ad arri- vare al Mausoleo di Lenin, simbolo mitico, la palingenesi dell’Unione Sovietica, dove ci sono

due militi impettiti, stretti nei loro cappottoni con colbacco, stella rossa, falce e martello e kalashnikov. Weinstein si avvicina al più alto dei due, mette una mano in tasca, sfila due banconote da mille dollari e le infila nel taschino del soldato che, riconosciutolo, con un mezzo sorriso gli chiede: “Signor Weinstein, che piacere rivederla! Cosa preferisce fare questa volta? Lo vede dentro o glielo porto fuori?”22.

Con questa barzelletta si entra già nei templi del periodo posteriore ai tempi di Stalin, il Mausoleo di Lenin, tappa obbligata della gente comune e dei turisti che arrivavano a Mosca. Essa coglie aspetti essenziali del sistema: la scarsità delle merci, i particolari della vita come il voucher, la disorganizzazione e la conseguente corruzione, l’umorismo che nasce. Queste sono ormai le barzel- lette degli Anni ’60 e ’70 (dopo il XX Congresso del Partito Comunista dell’URSS

21. “Lavorare con filmati di repertorio e fotografie storiche, spesso talmente noti da rappresentare delle vere e proprie icone del nostro immaginario, è una cosa davvero molto complessa se l’effetto che si vuole ottenere è quello della trasfigurazione poe- tica, del sottotesto drammaturgico; il rischio è quello di ottenere nella migliore delle ipotesi, l’effetto documentario col risultato di astrarre la rappresentazione dal contesto teatrale per ridurla nei limiti di una sorta di conferenza storica supportata da immagini.

Un altro rischio che ho sentito incalzante via via che mi immergevo nell’immenso patrimonio della documentazione del mondo sovietico dalla Rivoluzione di Ottobre al crollo del Muro, è stato quello di non lasciarmi trascinare dal richiamo populistico e demagogico insito nel DNA di questo repertorio perché se parliamo di ‘comunica- zione’ nell’accezione contemporanea, ci accorgiamo che queste bellissime fotografie e questi filmati sono assolutamente perfetti nella loro carica semiotica, niente è lasciato al caso, tutto muove alla glorificazione dell’epicità degli eventi, alla potenza della per- sonalità dei protagonisti, alla denigrazione e alla miseria degli avversari” (SavI, Elisa,

“Le immagini de La bella utopia”, in La bella utopia, cit., pp. 116-117).

22. ovadIa, Moni, La bella utopia, cit., pp. 11-12.

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nel 1956), in momenti di un certo congelamento del sistema. Come contrap- punto alla barzelletta di cui sopra, un metodo spesso adoperato nel corso dello spettacolo, Ovadia recita la poesia di Majakovskij, Versi sul passaporto sovietico, scritta in un periodo di grandi speranze e di grande entusiasmo del poeta (la cui sorte tragica è già di per sé un contrappunto alla poesia), che nell’esibire il pro- prio passaporto dalla pelle rossa esprime la grande fierezza: “Leggete, invidiate, io sono cittadino dell’Unione Sovietica”. “Ed eccolo”, come dice un recensore,

“il grande merito di Moni Ovadia: l’elogio dell’utopia attraverso la sua problematicità”23.

Filo conduttore dello spettacolo sono gli ebrei, per cui dopo Majakovskij viene da porsi la domanda: “E gli ebrei?”. Ci si chiede cioè quale sia la storia parallela riguardante gli ebrei dell’Unione Sovietica, che sono in parte entusiasti, ma più spesso doppiamente vittime del sistema.

L’ebreo comune, che riceve il nome Rabinòvich24 in molte barzellette, in una delle prime non viene ammesso nel Partito Bolscevico perché ha ingenuamente paragonato l’Unione Sovietica a “un grande bordello”25. Rabinòvich è esempio di come una minoranza possa diventare nel corso della storia vittima sia della dittatura, sia dell’antisemitismo e di come cerchi di sopravvivere entro i limiti che gli sono stati posti. Quanto ai personaggi di spicco della politica, agli ebrei partecipi della rivoluzione e ai quadri politici che almeno per un certo periodo storico riuscirono a dominare la storia, di origine ebraica, Ovadia si occupa del capo comunista di grande importanza e della sorte ben nota di Trotzkij.

La carrellata storica punta prima di tutto sul periodo della Rivoluzione e del dopo Rivoluzione e poi sullo stalinismo, e sulle varie tappe del periodo del dopo stalinismo. Nel caso del periodo a partire dalla morte di Lenin, cioè lo stalini- smo – Ovadia dimostra più di una volta di aver condotto studi seri sul suo argomento per lo spettacolo -, la narrazione fa riferimento allo storico di Cam- bridge Carr26. In La bella utopia le luci rosse della nascita parigina del cabaret diventano invece simboliche del socialismo, del movimento operaio – il rosso è uno dei colori principali dello spettacolo, colore frequente anche del vestito di

23. FIore, Enrico, “Moni Ovadia canta l’elogio dell’utopia”, in Il Mattino, 6 marzo 2009 (http://www.sipario.it/recensioniprosab/1653-bella-utopia-la.html).

24. Rabinovich e Popov è il titolo della variante dello spettacolo che Ovadia presenta nel 2009.

25. L’universalità della storia dell’Unione Sovietica si rispecchia anche nel fatto che le barzellette – a volte con leggere alterazioni – erano in gran parte note anche, per esempio, in Ungheria.

26. ovadIa, Moni, La bella utopia, cit., p. 19.

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Lee Colbert. Oltre ai personaggi noti della storia, Ovadia, seguendo le eredità del cabaret, rappresenta i caratteri dei suoi personaggi ispirandosi a dei perso- naggi esistiti, così Rabinòvich, o il Compagno Rabinòvich, figura come se avesse potuto conoscere qualcuno di loro.

I colori alla morte di Lenin diventano scuri, come anche in altri momenti di rappresentazioni di fatti accaduti tristi o tragici. La rievocazione della guerra civile, le morti e poi l’antisemitismo sono elementi essenziali per capire le ori- gini della dittatura, delle radici dell’Unione Sovietica. La canzone popolare Katyusa rispecchia la cultura popolare che venne assorbita dalla cultura del regime. Praticamente due terzi dello spettacolo si svolgono intorno alla ditta- tura staliniana, l’ascesa al potere del dittatore e la dittatura con la Guerra mon- diale. Ovadia parla anche dell’economia, in particolare dell’industrializzazione forzata (con i così detti “sabotaggi” che vennero puniti con le deportazioni) e dell’agricultura. Arriva fino a parlare della nuova costituzione del 1936 (quella in assoluto più democratica secondo Stalin, ma non applicata neanche per un secondo, come dice Moni Ovadia) e di problemi come l’alcoolismo – le condi- zioni di povertà e di una politica irrazionale però fanno parte di una crescita economica eccezionale.

A seguito del periodo appena ricordato arriva la repressione terribile dei Gulag con le cifre di 700.000 persone fucilate a Ljubjanka, con il 45% degli ufficiali fucilati e le terribili perdite anche nel campo della cultura: quella di Mejerhold – Ovadia porta un tributo “al fondatore del teatro moderno” e poi anche ad Isaac Babel. Sullo sfondo si vede un balletto, che testimonia anche l’importanza del balletto russo-sovietico.

Per far capire la dittatura Ovadia dedica più di un capitolo al personaggio di Stalin, alla paranoia che lo porterà al tremendo Regime, e malgrado tutto c’è l’eroismo della povera gente che, al prezzo di 27 milioni di morti, con sacrifici enormi, partecipa alla guerra e contribuirà a fermare i nazisti. Forse questo massacro terrificante è il culmine dello spettacolo ed è in questo momento che Moni Ovadia entra anche con la sua storia personale nella grande storia, per confessare che senza quell’enorme sacrificio neanche lui sarebbe rimasto in vita (tuttavia, egli non si sofferma sulla sua vicenda personale perché il suo interesse è la grande storia). Fra le vittime della guerra spiccano quelle dell’antisemitismo terribile, gli ebrei massacrati. Viene rappresentata anche la preparazione di una campagna antisemita nel momento in cui muore Stalin. Moni Ovadia ci tiene anche a precisare come mai Stalin avesse promosso la fondazione dello stato di Israele in un momento in cui credeva che fosse di suo interesse nella lotta con- tro la Gran Bretagna e come lo trasformò in una campagna “anti-cosmopolita”,

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cioè antisemita, antiebraica, massacrando il fior fiore della cultura e dell’intelli- ghentia ebraica. Il tredicesimo capitolo tratta della morte di Stalin, della perce- zione dell’uccisione che Moni, seguendo altri studiosi, ha della morte del dittatore (morte molto sofferta per la mancata cura medica, fatto che può essere considerato anche come punizione del dittatore per aver fatto uccidere anche il suo medico personale).

Rimane all’incirca un terzo dello spettacolo per gli anni che seguono la morte di Stalin, fino alla fine del mondo bipolare, fino al crollo del Muro di Berlino, alla fine dell’Unione Sovietica (lasciandone fuori Gorbaciov che, come spiega, è un’altra storia, senza tuttavia che accettasse il parere di quelli che trovano in Gorbaciov la causa della fine dell’URSS). Vengono dedicate scene a Kruscev, a Breznev, a Radio Ierevan nella parte 16 (che infatti sono barzellette molto dif- fuse, lo erano anche nel nostro paese). Nella parte 17, Ovadia con grande cono- scenza del suo tema, vede la guerra in Afganistan come causa principale del crollo, la guerra che causò la morte di un milione di persone, lasciò anche segni indelebili della catastrofe nella società sovietica-russa). Ovadia ricorda la grande cantante Visotzkij, personaggio emblematico, grande intellettuale della cultura dell’opposizione sovietica e la sua morte a soli 44 anni. Ovadia arriva attraverso l’era di Eltsin (secondo quanto viene narrato “L’Unione Sovietica è stata fatta fuori da un supercomunista: Boris Eltsin”27), con un accenno a Putin e all’ucci- sione della Politkovskaja.

Ovadia, ammettendo gli errori che fecero giustamente cadere l’Unione Sovie- tica, ma riconoscendo anche le conquiste che la stessa aveva ottenute, conclude lo spettacolo con l’Inno Sovietico e con la poesia Arrivederci Bandiera Rossa, un congedo alla bandiera rossa, simbolo del movimento operaio, metafora di mali terribili, di tragedie e di speranze per milioni di persone, della grande utopia che ha attraversato un secolo.

La poesia di Evghenij Evtushenko del 23 giugno 1992 mette in rilievo le colpe terribili di una dittatura e i fallimenti gravissimi di un sistema, ma tiene anche presente la vita di milioni di persone che la sopportavano o meno, ci credevano o meno, ma che vi hanno passato le loro vite, con una grande uma- nità nei loro confronti (Ovadia aveva già recitato anche un’altra poesia di Evtushenko, Babij Jar, in memoria del massacro di ebrei durante la Seconda

27. Ibid., pp. 116-117.

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guerra mondiale). La poesia finisce così (che è praticamente anche il finale dello spettacolo tra l’ironico, il tragico e anche il giocoso):

la nostra bandiera giace nel gran bazar d’Ismajlovo.

La “smerciano” alla meglio, per dollari.

Non ho assaltato il Palazzo d’Inverno.

Non ho preso il Reichstag.

Non sono un kommunjak.

Ma guardo la bandiera e piango…28

Sullo sfondo del palcoscenico compare una versione della famosa pubblicità della Coca Cola: la bottiglia di Coca Cola con la falce e il martello e con sopra scritto: “Enjoy Capitalism!”

Ilona FrIed

Università Eötvös Loránd, Budapest

28. Ibid., p. 111.

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