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Privacy e rapporto di lavoro

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Academic year: 2021

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SCUOLA DOTTORALE INTERNAZIONALE “TULLIO

ASCARELLI” DIRITTO – ECONOMIA – STORIA, SEZIONE

DIRITTO PRIVATO PER L’EUROPA, AREA DIRITTO DEL

LAVORO

XXV° CICLO

TESI DI DOTTORATO IN DIRITTO DEL LAVORO:

PRIVACY E RAPPORTO DI LAVORO

Dottorando:

Francesco Maria Napolitano

Docente guida:

Chiar.mo Prof. Giampiero Proia

Coordinatore:

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INDICE

CAPITOLO I

Il fondamento della tutela della privacy nel rapporto di lavoro

1.La “riservatezza” dei lavoratori nel sistema costituzionale 4 2.Il sistema introdotto dallo Statuto dei lavoratori 13 3.Segue: il divieto di controlli “ignoti” o personali. I soggetti 19

4.Segue: il divieto di indagini sulle “opinioni” dei lavoratori. L’oggetto 24

5.Segue: il divieto di controlli a distanza. I mezzi 27 6.La legge n. 675 del 1996. Il codice della privacy, integrazione ed ibridazione della disciplina generale con la disciplina settoriale 30

CAPITOLO II

L’applicazione della privacy al rapporto di lavoro nei provvedimenti del Garante

1.Le linee guida dettate dall’Autorità garante per la protezione dei dati personali 39 2.Segue: l’ampliamento delle tutele 44 3.Il controllo “indiretto” sull’attività lavorativa 46 4.L’inutilizzabilità dei dati raccolti in ragione del mancato rispetto della “forma” 57 5.La natura e gli effetti dei provvedimenti adottati dal Garante 61

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CAPITOLO III

Il diritto alla riservatezza nel contesto lavorativo secondo l’interpretazione giurisprudenziale

1.I controlli difensivi. Contenuti e limiti 69

2.I controlli “informatici” e l’ingerenza nella privacy dei lavoratori 82

3.La teoria fondata sulla “proprietà” degli strumenti di lavoro 90

CAPITOLO IV

Il possibile contemperamento dei contrapposti interessi

1.Il principio di correttezza e la “decadenza” dal diritto alla privacy 94

2.L’utilizzabilità delle prove raccolte in violazione della disciplina sulla privacy 101 3.L’incidenza dei provvedimenti adottati dall’Autorità garante nell’ambito del processo civile 108

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CAPITOLO I

Il fondamento della tutela della privacy nel rapporto di lavoro

1. La “riservatezza” dei lavoratori nel sistema costituzionale

Nel nostro ordinamento il più “alto” riconoscimento del diritto alla tutela della privacy, inteso come “diritto soggettivo di costruire

liberamente e difendere la propria sfera privata”1, è rinvenibile nella stessa Carta costituzionale.

Tale riconoscimento non deriva da una espressa ed esplicita norma, ma, in primo luogo, da alcune disposizioni di carattere generale presenti nella nostra Costituzione.

E così, l’art. 2 della Costituzione, riconoscendo e garantendo i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, che nelle formazioni sociali in cui si esplica la sua personalità2, individua e delinea, anzitutto, una “priorità di valore della persona umana nella gerarchia

dei valori giuridici”3. Priorità di valore che costituisce la base delle

1 S.RODOTÀ, Repertorio di fine secolo (la costruzione della sfera privata), Bari, Laterza, 1999, p. 202.

2 E l’impresa costituisce, senza dubbio, “una formazione sociale nel senso indicato

dall’art. 2 della Costituzione”, cfr. U. NATOLI, Diritti fondamentali e categorie generali, Milano, Giuffrè, 1993, p. 439.

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tutele e dei diritti non dettagliatamente ed espressamente richiamati dal testo costituzionale4.

Riconoscendo a questo articolo il carattere di norma “aperta”, idonea a consentire l’adeguamento del diritto alle modifiche ed ai cambiamenti che si verificano nella società e la protezione di interessi “nuovi”5, non oggetto di specifiche tutele, è agevole farne discendere anche un riconoscimento, pur se indiretto, al diritto alla riservatezza.

Ed infatti, la riservatezza “costituisce una necessità addirittura

biologica dell’uomo” ed un “aspetto inalienabile della persona

4 A.BARBERA,Commento all’art. 2 della Costituzione, in G.BRANCA (a cura di),

Commentario alla Costituzione, Bologna-Roma, Zanichelli, 1975

5 R.BIFULCO,A.CELOTTO,M.OLIVETTI, Commentario alla Costituzione, vol. I, Torino, UTET 2006, p. 46 ss., “l’altro aspetto, sul quale invece dottrina e

giurisprudenza (non solo costituzionale) hanno più a lungo dibattuto, è dato dall’estensione della «categoria» diritti inviolabili oltre quelli (esplicitamente o implicitamente) riconosciuti dalla Costituzione: si tratta, in sostanza, di scegliere tra le due tesi contrapposte di chi, da un lato, ritiene che la formula in questione abbia un carattere riassuntivo dei diritti espressamente previsti e riconosciuti, e che quindi la norma in questione si debba configurare come «a fattispecie chiusa»; e chi, all’opposto, sostiene che la portata della disposizione consenta e anzi imponga interpretazioni di tipo estensivo, sì da far rientrare nella garanzia da essa apprestata anche diritti non enumerati nel testo costituzionale”. “Peraltro va segnalato come la giurisprudenza costituzionale abbia da orami qualche anno risolto la disputa, prendendo posizione a favore della teoria della «norma a fattispecie aperta». Ciò è avvenuto a partire dalla sentenza 561/1997, nella quale la Corte ha riconosciuto che essendo la sessualità uno degli essenziali modi di espressione della persona umana, «il diritto di disporne liberamente è senza dubbio un diritto soggettivo assoluto, che va ricompreso tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione e inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana che l’art. 2 Cost. impone di garantire». L’adesione alla impostazione «aperta», seguita ad una giurisprudenza più incline alla concezione opposta, sottolineata dalla stesso Presidente della Corte, è stata in modo costante seguita nella giurisprudenza successiva, che ha riconosciuto natura di diritto inviolabile ex art. 2 al «diritto sociale all’abitazione», al diritto di abbandonare il proprio Paese, al diritto alla propria formazione culturale, al diritto al nome inteso come primo e più immediato segno distintivo che caratterizza l’identità personale”.

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umana”6. Ragion per cui la sua “difesa” risulta necessaria al fine di apprestare una effettiva tutela della persona e delle sue esigenze fondamentali.

Del resto, oltre al rilievo autonomo che ricopre, la “riservatezza” riveste anche un non meno fondamentale ruolo strumentale.

Il pieno e reale godimento dei diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione, infatti, è possibile solo garantendo anche una sfera privata sottratta alle intrusioni di terzi, oltre che la sicurezza che determinate informazioni resteranno, a tutti gli effetti, “private”7.

Pertanto, tale diritto assume una duplice valenza.

Da un lato, infatti, esso rappresenta una libertà negativa, rappresentata dal divieto di illegittime intromissioni nella altrui sfera personale e privata.

Dall’atro lato, rappresenta anche una liberà positiva, costituita dalla possibilità di controllare e vietare l’uso di dati, notizie e, più in generale, informazioni attinenti alla propria sfera personale8.

Allo stesso modo, anche nel dettato dell’art. 3 della Costituzione è possibile rinvenire un altro, indiretto, riferimento alla tutela della riservatezza9.

6A.CATAUDELLA,Scritti giuridici, Padova, Cedam, 1991, p.545.

7 M. PROSPERI, Il diritto alla riservatezza nell’ordinamento costituzionale, in

dirittoproarte.

8 Cfr. A. BALDASSARRE, Diritti della persona e valori costituzionali, Torino, Giappichelli, 1997.

9 In senso contrario S. FOIS, Questioni sul fondamento costituzionale del diritto

all’«identità personale», in AA. VV., L’informazione e i diritti della persona, Napoli, Jovene, 1983, p. 167, secondo il quale “il richiamo al valore della persona

umana rischia di diventare l’invocazione ad una specie di formula magica per dar forma a fantasmi normativi tali da implicare le conclusioni più diverse e più

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Tale norma, infatti, riconoscendo la pari dignità sociale di tutti i cittadini, la loro uguaglianza davanti alla legge senza alcuna distinzione e, soprattutto, perseguendo lo scopo di rimuovere gli ostacoli che possono impedire il pieno sviluppo della persona, pone degli obiettivi che, per essere effettivamente raggiunti, richiedono necessariamente anche una particolare tutela della riservatezza personale.

Ed infatti, solo garantendo l’inviolabilità della sfera privata e personale di tutti i cittadini è possibile ottenere il riconoscimento di una pari dignità sociale e, soprattutto, il pieno e libero sviluppo della persona umana.

Oltre a queste norme, idonee a costituire una matrice generale di tutela del diritto alla privacy, nel dettato costituzionale è possibile rinvenire anche alcune esplicite disposizioni volte alla difesa della riservatezza in singoli e specifici contesti.

E così, in primo luogo, l’art. 13 sancisce la inviolabilità della libertà personale e l’art. 14 l’inviolabilità del domicilio.

L’art. 15, poi, dispone l’inviolabilità e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione. Tutela quanto mai attuale e di primaria importanza alla luce delle nuove e mutate forme di comunicazione e di informazione presenti nella odierna società.

opposte” e F.BRICOLA, Prospettive e limiti della tutela penale della riservatezza, in AA.VV.,Il diritto alla riservatezza e la sua tutela penale. Atti del terzo simposio

di studi di diritto e procedura penali, Milano, Giuffrè, 1970, p. 84, che ritiene non

“provata la correlazione fra violazione della sfera privata e impedimento al pieno

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Ed è in tale quadro che si inserisce e che va letto anche il disposto dell’art. 41 della Costituzione che, riconoscendo e garantendo la libertà dell’iniziativa economica privata ed imponendo all’imprenditore, allo stesso tempo, di non esercitare la sua posizione economicamente dominante in modo da ledere, oltre che la sicurezza, la libertà e la dignità del lavoratore, costituisce il fondamento primario del diritto alla riservatezza nell’ambito del rapporto di lavoro10.

Tale norma, infatti, colloca la tutela della libertà e della dignità dei lavoratori “entro la stessa cornice normativa”11 ove è inserito

anche il riconoscimento costituzionale della libertà d’impresa e, pertanto, nel riconoscere la libertà di iniziativa economica, ne individua subito un preciso ed invalicabile limite di pari rango costituzionale.

Limite costituito anche dal rispetto e dalla tutela della riservatezza dei lavoratori.

E’ stato osservato che tali disposizioni non potrebbero essere poste a fondamento di un riconoscimento costituzionale del diritto alla riservatezza e ciò proprio perché le norme in commento sarebbero riferite e riferibili solamente a specifici e “parziali”12 ambiti della vita di relazione (ovvero, la tutela della libertà personale, del domicilio e della segretezza della corrispondenza) e, pertanto, al fine di assolvere ad un ruolo di “clausole generali”, o, comunque, per poter generare un omnicomprensivo diritto alla riservatezza, dovrebbero essere oggetto

10 Cfr. E.BARRACO, A.SITZIA, La tutela della privacy nei rapporti di lavoro, in

Monografie di diritto del lavoro, dirette daM.MISCIONE,Roma, Ipsoa, 2008. 11 P.CHIECO,Privacy e lavoro. La disciplina del trattamento dei dati personali del

lavoratore, Bari, Cacucci, 2000, p. 14.

12 Cfr. A.BELVEDERE, Riservatezza e strumenti di informazione, in Dizionario del

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di operazioni ermeneutiche “eccessive” ed ingiustificate (in base al significato letterale delle norme stesse)13.

Sembra, in tali considerazioni, di scorgere un raffronto tra le formulazioni adottate, per la tutela di questo diritto, in alcuni trattati internazionali o comunitari e quanto è stato previsto dalla nostra Carta costituzionale.

E’ indubbio che la enunciazione contenuta nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (adottata a Roma il 4 novembre 1950), in cui all’articolo 8 (rubricato: Diritto al rispetto della vita privata e familiare) si afferma che “ogni

persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza” e che “non può esservi ingerenza della pubblica autorità nell’esercizio di tale diritto se non in quanto tale ingerenza sia prevista dalla legge e in quanto costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, l’ordine pubblico, il benessere economico del paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti e delle libertà altrui”, ha una portata

più generale ed organica.

Lo stesso si può affermare per ciò che riguarda il Patto internazione sui diritti civili e politici (adottato a New York il 16 dicembre 1966), in cui all’art. 17 si prevede che “nessuno può essere

sottoposto ad interferenze arbitrarie o illegittime nella sua vita

13 Cfr. G. U. RESCIGNO, Corso di diritto pubblico, Bologna, Zanichelli, 2010, secondo il quale non sembrerebbero esistere, nel dettato costituzionale, un generale diritto alla riservatezza “invocabile come tale davanti ai giudici”. L’autore, tuttavia, riconosce che è “possibile e prevedibile che questo valore venga invocato

come limite interno di altri diritti costituzionali positivamente riconosciuti e quindi come fondamento di eventuali leggi che contengono tali limiti”.

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privata, nella sua famiglia, nella sua casa o nella sua corrispondenza, né a illegittime offese al suo onore e alla sua reputazione” e che “ogni individuo ha diritto a essere tutelato dalla legge contro tali interferenze ed offese”.

Anche nel diritto dell’unione europea la formulazione che si legge nell’art. 7 della c.d. Carta di Strasburgo, che è stata inserita come allegato al Trattato di Lisbona nella versione approvata il 12 dicembre 2007, e cioè che “ogni individuo ha diritto al rispetto della

propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle sue comunicazioni” ha una portata sicuramente più ampia e complessiva.

Ciò non vuol dire, però, che, ai fini della tutela della riservatezza e dei dati personali del dipendente nei rapporti di lavoro, le disposizioni costituzionali innanzi indicate non forniscano un quadro esauriente di tutti gli aspetti che il legislatore e l’interprete debbono tenere presenti.

Da un lato, infatti, il primo comma dell’art. 41 della Costituzione, superando la visione delle Carte di derivazione ottocentesca, in cui la previsione si limitava a tutelare il diritto di proprietà, legittima il potere del datore di lavoro ad adottare, anche nei confronti dei dipendenti, quelle misure che si rendano necessarie per il migliore svolgimento dell’attività imprenditoriale14, dall’altro il secondo comma fissa i limiti di questo potere a salvaguardia della dignità dei lavoratori stessi.

14 A.CERRI, Istituzioni di diritto pubblico, Milano, Giuffrè, 2006, p. 497, afferma che: “rientra nel concetto di iniziativa economica privata, garantita dall’art. 41

Cost., probabilmente, ogni attività volta alla produzione di beni o servizi per il mercato e, cioè, per lo scambio con chiunque vi sia interessato, assuma essa le dimensioni dell’impresa o coincida con il lavoro autonomo (piccolo commercio, artigianato, ad es.)”

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Vi è poi da dire che ad un’interpretazione sempre più dinamica sia del primo comma dell’articolo 41 della Costituzione, relativo alla tutela dell’attività imprenditoriale, sia del secondo comma, che concerne, come si è detto, la salvaguardia della “dignità” dei lavoratori ed i limiti inviolabili che, a sua tutela, non possono essere superati, molto ha contribuito la disciplina comunitaria. Si deve a quest’ultima, infatti, sia l’enfatizzazione, per impedire misure che indirettamente vengano ad ostacolare l’apertura dei mercati e la libertà di stabilimento, della libertà di concorrenza, che ha portato, nella revisione del Titolo V della parte II della Costituzione, a riservare alla competenza esclusiva del legislatore statale la materia “tutela della concorrenza”, sia l’introduzione nell’ordinamento italiano di specifiche normative (quale la legge n. 675 del 1996) a tutela di fondamentali aspetti della vita privata, con importanti ricadute nei rapporti di lavoro.

Occorre, quindi, tracciare un bilanciamento tra questi due diritti. Bilanciamento particolarmente significativo anche per ciò che riguarda le tutele apportate dall’articolo 15 della Costituzione. Non a caso, infatti, numerose controversie riguardano, nei rapporti di lavoro, proprio il confine tra ciò che in materia è lecito, considerando che, ai tempi attuali la comunicazione spesso avviene tramite strumenti informativi che, nei luoghi dove si svolge l’attività lavorativa, sono di proprietà dell’azienda, e ciò che invece non lo è, dato che la segretezza dell’oggetto e del contenuto della comunicazione è coperta addirittura da una norma di tutela costituzionale.

Non può, quindi, ritenersi che il nostro ordinamento costituzionale accordi una più debole tutela a questi diritti.

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Tra l’altro, è agevole rilevare come, a ben vedere, tali norme, volte indubbiamente a tutelare solamente singole e specifiche fattispecie, unitamente alle clausole a carattere “generale” presenti nella nostra Costituzione, dimostrano non solo una evidente rilevanza del diritto alla riservatezza all’interno del dettato costituzionale, ma anche una altrettanto chiara matrice costituzionale di quella che sarebbe stata la futura normativa in tema di privacy.

Matrice che, più su una determinata norma scritta, è rinvenibile in un complesso di norme ed in un “complesso di argomenti

interpretativi”15 idonei a dimostrare l’esistenza del diritto alla riservatezza quale principio non scritto, ma ben presente nella Costituzione italiana.

Del resto, tali conclusioni sono state fatte proprie anche dalla giurisprudenza di legittimità, la quale, anche in tempi risalenti, precedenti alle formali codificazioni (con la legge n. 675 del 1996 e con il d.lgs. n. 196 del 2003) della specifica normativa in materia di

privacy, ha avuto modo di affermare l’esistenza di un “autonomo”

diritto alla riservatezza.

Diritto che, come si è detto, trova un fondamento non solo “implicito” all’interno del sistema, ma che si ancora anche ai numerosi riferimenti “espliciti” presenti nelle norme costituzionali16.

15 Cfr. A.PIZZORUSSO,Sul diritto alla riservatezza nella Costituzione italiana, in

Prassi e teoria, 1976, p. 39.

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2. Il sistema introdotto dallo Statuto dei lavoratori

L’esigenza di offrire una tutela specifica e diretta a tutti i lavoratori subordinati è stata soddisfatta, compiutamente, con la legge n. 300 del 1970 (c.d. Statuto dei lavoratori)17.

Con tale intervento normativo, il legislatore ha perseguito l’obiettivo di riaffermare, in una legge ordinaria, proprio i principi ed i diritti già previsti, in maniera “diffusa”, all’interno della nostra Costituzione18.

In particolare, con il gruppo di norme definite “garantiste” (ovvero, quelle che definiscono i diritti dei lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro)19, il legislatore ha tentato di sviluppare e di attuare i principi espressi proprio nell’art. 41 della Costituzione, con lo scopo di apprestare una effettiva tutela dei diritti individuali costituzionalmente garantiti del lavoratore20. E’ grazie alla legge n. 300 del 1970, infatti, che acquistano efficacia e protezione interessi

17 Si legge nella relazione al disegno di legge presentato al Senato dall’allora Ministro del lavoro Brodolin che il titolo I dello Statuto – che reca l’intestazione «della libertà e dignità dei lavoratori» - intende assicurare ai lavoratori “l’effettivo

godimento di taluni diritti e libertà fondamentali che, pur trovando nella Costituzione una disciplina e una garanzia complete sul piano dei principi, si prestano tuttavia, in carenza di disposizioni precise di attuazione, ad essere compressi nel loro libero esercizio”.

18 E’ stato affermato che lo scopo perseguito dal legislatore non sarebbe stato quello di attribuire al lavoratore dei diritti ulteriori rispetto a quelli a lui già riconosciuti come cittadino, ma di “eliminare ogni ingiustificata disparità tra lo

status di cittadino e quello di lavoratore”, cfr. L.GAETA,La dignità del lavoratore

e i turbamenti dell’innovazione, in Lav. dir., 1990, p. 206.

19 L’altro gruppo di norme presenti nello Statuto, definite “promozionali”, sono, invece, volte a favorire ed a consolidare la presenza del sindacato all’interno dell’azienda.

20 Cfr. L. MENGONI, Diritto e valori, Bologna, Il Mulino, 1985; ma anche L. VENTURA, Lo statuto dei diritti dei lavoratori: appunti per una ricerca, in Riv.

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del lavoratore di carattere non solamente economico, ma volti alla tutela della dignità e della libertà nei luoghi di lavoro, e che si realizza, così, il passaggio da una semplice tutela del “contraente debole”, ad una tutela del lavoratore come “persona”21.

Tuttavia, a ben vedere, l’obiettivo perseguito dallo Statuto non era tanto quello di apprestare una vera e propria tutela della privacy dei lavoratori. Almeno non nell’accezione che oggi assume questo termine.

Il legislatore del 1970, infatti, perseguiva lo scopo, più generale, di introdurre nell’ordinamento dei limiti al potere del datore di lavoro, in modo da proibire condotte che potessero rivelarsi lesive della dignità dei propri dipendenti. L’attenzione del legislatore, in sostanza, più che sulla privacy dei lavoratori, era rivolta, tramite l’utilizzo di una tecnica oggettiva finalizzata alla salvaguardia della sfera privata dei lavoratori da possibili intrusioni “esterne”, ai comportamenti datoriali

La protezione della riservatezza dei lavoratori come aspetto centrale della tutela, costituisce, in realtà, un fenomeno che emerge soprattutto grazie all’interpretazione giurisprudenziale elaborata su determinati aspetti del rapporto di lavoro e che diviene di strettissima attualità e di primaria importanza in ragione del progresso tecnologico e dell’evoluzione registrata nel campo informatico, ove si assiste alla

21 F.LISO,La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, Milano, Franco Angeli, 1982, p. 26, ma anche M. GRANDI, Persona e contratto di lavoro.

Riflessioni storico critiche sul lavoro come oggetto del contratto di lavoro, in Arg. dir. lav., 1999, M. AIMO, Privacy, libertà di espressione e rapporto di lavoro, Napoli, Jovene, 2003, T. TREU, voce Statuto dei lavoratori, in Enc. dir., XLIII,

1990, pp. 1031 ss. e C. ZOLI, Subordinazione e poteri dell’imprenditore tra

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creazione di strumenti capaci di controllare sistematicamente ed analiticamente ogni singola attività svolta dal lavoratore durante lo svolgimento della prestazione lavorativa.

Strumenti, questi, (si pensi ai sistemi di posta elettronica, ai

badge aziendali o, più semplicemente, ai personal computer) creati ed

utilizzati non con lo scopo di controllare l’attività lavorativa, ma dove, comunque, la funzione di controllo può essere esercitata in maniera pressoché continua22.

Ciò, tuttavia, non significa che l’impianto normativo presente nella legge n. 300 del 1970 non sia idoneo a tutelare ed a preservare, adeguatamente, la riservatezza del lavoratore.

Nello Statuto dei lavoratori, infatti, è rinvenibile un nucleo centrale di garanzie rivolte alla persona del lavoratore basato, in primo luogo, proprio sulla “positivizzazione” di una serie di limiti posti al potere del datore di lavoro23.

E, tra tali limiti, vi rientra senza dubbio anche il potere di controllo da questi esercitato nei confronti dei propri dipendenti. Tant’è vero che lo stesso Garante per la protezione di dati personali avrà modo di affermare che, nel nostro ordinamento, “la privacy

arriva con lo Statuto dei lavoratori, si proietta al di là della richiesta

22 Cfr. L. PERINA, L’evoluzione della giurisprudenza e dei provvedimenti del

garante in materia di protezione dei dati personali dei lavoratori subordinati, in Riv. it. dir. lav., 2010, II, p. 306. Come sostiene l’Autore, lo Statuto dei lavoratori,

nel vietare certe condotte datoriali, esaurisce il proprio compito. “Per tutto quanto

non vietato, lo Statuto nulla dice, non occupandosi di altre questioni come, per l’appunto, quella della privacy”.

23 Cfr. A.BELLAVISTA,Sorveglianza, privacy e rapporto di lavoro, in Dir. internet, 2006, pp. 437 ss.

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d’essere lasciato solo e diviene uno strumento per opporsi alle discriminazioni”24.

Quanto detto, pertanto, significa solamente che, nella originaria impostazione voluta con la legge n. 300 del 1970, la privacy dei lavoratori non costituiva il “punto di partenza” delle tutele da apprestare.

E ciò, probabilmente, perché, nel contesto sociale e culturale in cui è maturata quella normativa, lontana anni luce dalla introduzione delle moderne tecnologie, non veniva avvertito il rischio di un continuo ed indiretto “attacco” alla riservatezza dei lavoratori, ora possibile, invece, grazie alla evoluzione degli attuali sistemi informatici presenti in azienda.

Oppure, più semplicemente, perché, come è stato autorevolmente sostenuto, il legislatore del ’70 dava per presupposto che la riservatezza dei lavoratori all’interno dell’azienda sarebbe stata comunque “scarsamente conciliabile” con la necessaria convivenza di una pluralità di persone nel medesimo ambiente lavorativo. Ambiente dove la coabitazione e la interazione non solo sono “naturali”, ma si rendono anche necessari per poter raggiungere gli obiettivi aziendali25.

24 Intervento del Presidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali, prof. Stefano Rodotà, pubblicato sul quotidiano La Repubblica del 13 maggio 1997. Vedi anche S. RODOTÀ, Protezione dei dati e circolazione delle

informazioni, in Riv. crit. dir. priv., 1984, pp.757 ss.

25L.PERINA,L’evoluzione della giurisprudenza e dei provvedimenti del garante in

materia di protezione dei dati personali dei lavoratori subordinati, cit., p. 307, ove

l’Autore, efficacemente, paragona tale situazione con quella, “di comune

esperienza”, della “persona ospitata in casa altrui, ove utilizza i beni (altrui) che ivi si trovano, vedrà in qualche modo «compressa» la propria privacy che non può essere tutelata in modo identico a quello esistente a casa propria: l’ospite è, nella natura delle cose, soggetto all’osservanza ed al controllo altrui ed al rispetto di

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Ad ogni modo, le norme che, “direttamente” o “indirettamente”, si occupano della riservatezza dei lavoratori all’interno dell’azienda, vietano, in primo luogo, l’uso di guardie giurate per scopi diversi da quelli strettamente attinenti alla tutela del patrimonio aziendale26, prescrivendo, inoltre, l’obbligo di comunicare ai lavoratori i nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza dell’attività lavorativa27.

Lo Statuto, poi, vieta l’uso “di impianti audiovisivi e di altre

apparecchiature” per finalità di controllo a distanza dell’attività resa

dai lavoratori28 e di disporre le visite personali di controllo29, con la sola eccezione delle ipotesi in cui, per l’uso delle prime, o per l’effettuazione delle seconde, vi siano effettive esigenze di tutela del patrimonio aziendale e, comunque, queste siano consentite da un accordo sindacale o, in mancanza, da una autorizzazione rilasciata dell’Ispettorato del lavoro.

Infine, la legge n. 300 del 1970 pone il divieto di effettuare, in maniera “diretta”, gli accertamenti sanitari volti ad accertare la idoneità fisica del lavoratore o la veridicità delle assenze per malattia o infortunio30 , nonché di compiere indagini, ai fini dell'assunzione o nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, sulle opinioni regole diverse da quelle di casa propria, di talchè egli non può pretendere di godere dello stesso livello di privacy, né di essere esentato dal rispetto dei beni altrui o delle regole di comune esperienza esistenti e riconosciute in quell’ambiente; d’altro canto, l’ospitante non ha diritto di intromettersi negli affari più riservati e personali dell’ospite”.

26 Art. 2, legge n. 300 del 1970. 27 Art. 3, legge n. 300 del 1970. 28 Art. 4, legge n. 300 del 1970. 29 Art. 6, legge n. 300 del 1970. 30 Art. 5, legge n. 300 del 1970.

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politiche, religiose o sindacali dei lavoratori e su tutti i fatti non rilevanti ai fini della valutazione delle attitudini professionali31.

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3. Segue: il divieto di controlli “ignoti” o personali. I soggetti

Come visto, la legge n. 300 del 1970 si preoccupa, in primo luogo, di individuare i soggetti legittimamente autorizzati a compiere l’attività di vigilanza sulla prestazione lavorativa resa dai dipendenti dell’azienda.

E così, le norme dello Statuto dei lavoratori prevedono che l’attività di vigilanza sull’attività lavorativa possa essere legittimamente eseguita solamente dal personale il cui nominativo sia stato, preventivamente, comunicato ai lavoratori.

Ciò, tuttavia, non significa che il datore di lavoro, o gli altri “superiori gerarchici” del lavoratore, non siano autorizzati ad effettuare attività di controllo in merito alle prestazioni rese dai dipendenti32.

Lo scopo perseguito dalla norma (art. 3 della legge n. 300 del 1970), infatti, è quello di contrastare la pratica volta ad affidare i compiti di vigilanza disciplinare a personale non inserito nel ciclo produttivo aziendale e non conosciuto, come tale, dai lavoratori, ma

32 Come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, la disciplina prevista dagli art. 2 e 3 della legge n. 300 del 1970 delimitano la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei suoi interessi, “ma non escludono il

potere dell’imprenditore, ai sensi degli art. 2086 e 2104 c.c., di controllare direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica l’adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti, già commesse o in corso di esecuzione, e ciò indipendentemente dalle modalità del controllo, che può legittimamente avvenire anche occultamente, senza che vi ostino né il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione dei rapporti, né il divieto di cui all’art. 4 stessa l. n. 300 del 1970, riferito esclusivamente all’uso di apparecchiature per il controllo a distanza (non applicabile analogicamente, siccome penalmente sanzionato)”, cfr. Cass., 3 luglio 2011, n. 8998, in Foro it. rep., 2001, voce Lavoro (rapporto), n. 867. Sugli orientamenti della giurisprudenza

di legittimità sul tema, vedi A.M. D’ANGELO, Vigilanza, direzione e gerarchia

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non quello di abrogare o di modificare il disposto dell’art. 2104 Cod. Civ.33.

Pertanto, la norma contenuta nello Statuto dei lavoratori non ha fatto venir meno i generali poteri di controllo, di direzione e di sorveglianza riconosciuti in capo al datore di lavoro ed ai suoi collaboratori34.

Ne deriva, quindi, che il controllo vietato dalle norme statutarie è solamente quello che può essere definito come “soggettivamente

occulto”35, come tale lesivo della personalità e della dignità del lavoratore, che può essere legittimamente “rifiutato” dal lavoratore36.

Allo stesso modo, l’art. 2 della legge n. 300 del 1970, vieta espressamente la possibilità di effettuare controlli sull’attività lavorativa alle guardie giurate occupate presso l’azienda.

Queste, infatti, possono essere impiegate solamente “per scopi

di tutela del patrimonio aziendale”37 con espresso divieto non solo di poter contestare ai lavoratori fatti diversi da quelli che attengono alla tutela del patrimonio aziendale38, ma anche di poter accedere, se non

33Che impone al lavoratore di osservare le disposizioni impartite, per l’esecuzione della prestazione e per la disciplina del lavoro, dal datore di lavoro e dai suoi collaboratori dai quali gerarchicamente dipende.

34 Cfr. Cass., 17 giugno 1981 n. 3960, in Foro it. rep., 1981, voce Lavoro

(rapporto), n. 1367.

35 A.VALLEBONA,Istituzioni di diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro, Padova, Cedam, 2012.

36 E’ ritenuto, invece, a tutti gli effetti valido e legittimo il controllo “oggettivamente” occulto, ovvero quel tipo di controllo, posto in essere da soggetti a ciò abilitati, posto in essere “a sorpresa” o, comunque, in maniera non conosciuta dal lavoratore, cfr. Cass, 18 settembre 1995 n. 9836, in Foro it. rep., 1996, voce

Lavoro (rapporto), n. 810 e Cass. 2 marzo 2002 n. 3039, in Riv. it. dir. lav., 2002,

II, p. 873.

37 Art. 2, primo comma, della legge n. 300 del 1970.

38 La giurisprudenza ha, tuttavia, osservato che tale divieto non esclude che il datore di lavoro possa utilizzare come “fatti storici”, ai fini delle iniziative, anche

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per esigenze eccezionali connesse alla predetta tutela, nei locali ove si svolge l’attività aziendale (con la conseguente inutilizzabilità, ai fini dell’applicazione di qualsiasi sanzione disciplinare, dell’esito di eventuali indagini svolte da tali guardie in violazione dei limiti predetti)39.

Ne deriva che le uniche contestazioni che possono essere svolte dalle guardie giurate nei confronti dei lavoratori sono quelle attinenti a fatti o ad azioni relativi alla conservazione del patrimonio aziendale. Contestazione che, conseguentemente, non hanno una diretta funzione disciplinare40.

Anche in questo caso, è evidente la ratio della norma. Ciò che il legislatore ha inteso evitare, infatti, è stata la possibilità di compiere controlli che potessero rivelarsi di carattere quasi “poliziesco”, anche in ragione del particolare valore probatorio riconosciuto agli accertamenti effettuati da tali guardie, e, quindi, tali da rivestire un carattere intimidatorio nei confronti dei lavoratori41.

La medesima finalità di tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore è rinvenibile anche nel divieto (contenuto negli artt. 5 e

disciplinari, conseguenti, “situazioni oggettive coinvolgenti un lavoratore (come la

presenza dello stesso nei locali della mensa o negli spogliatoi durante l’orario di lavoro) accertate da tali guardie fuori dei luoghi di svolgimento della prestazione lavorativa, non essendo in tal caso configurabile né una violazione della norma né un’offesa alla dignità del lavoratore

tutelata dalla medesima norma”, cfr. Cass., 27 novembre 1992 n. 12675, in Riv. giur. lav., 1993, II, p. 324.

39 Le eventuali inosservanze di tali divieti sono punite sia in via amministrativa, con la sospensione o con la revoca della licenza da guardia giurata, sia penalmente, cfr. art. 38, legge n. 300 del 1970.

40 Pertanto, per tali “contestazioni”, non è neppure richiesto il rispetto della procedura prevista dall’art. 7 della legge n. 300 del 1970, cfr. Cass., 17 gennaio 1990 n. 205, in Dir. prat. lav., 1990, p. 838.

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6 della legge n. 300 del 1970) di eseguire accertamenti, da parte del datore di lavoro, sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio dei propri dipendenti42 e di disporre delle visite personali di controllo (ovvero, delle perquisizioni).

Con riguardo a queste ultime, la norma non ne prevede un divieto “assoluto”, ma le consente solamente quando rivestono il carattere della indispensabilità ai fini della tutela del patrimonio aziendale in relazione alla qualità degli strumenti di lavoro o delle materie prime o dei prodotti.

In tali ipotesi, le visite personali possono essere effettuate soltanto a condizione che siano eseguite all'uscita dei luoghi di lavoro, che avvengano con l'applicazione di sistemi di selezione automatica riferiti alla collettività o, comunque, a gruppi di lavoratori e, soprattutto, che avvengano in maniera tale da salvaguardare “la

dignità e la riservatezza del lavoratore”43.

In relazione a quest’ultimo aspetto, è stato ritenuto che detti controlli, anche se indispensabili ai fini della tutela del patrimonio aziendale, non possano comunque essere tali da valicare i limiti della riservatezza personale. E, pertanto, sono state considerate inammissibili tutte quelle tipologie di ispezioni che, pur nell’adozione

42 il controllo delle assenze per infermità, può essere effettuato soltanto attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, mentre per ciò che concerne i controlli in merito all’idoneità fisica del lavoratore, il datore di lavoro ha la facoltà di farli eseguire da parte degli enti pubblici e degli istituti specializzati di diritto pubblico, cfr. art. 5, secondo e terzo comma, legge n. 300 del 1970.

43 Anche la violazione di tale disciplina è punita con sanzioni penali, cfr art. 38, legge n. 300 del 1970.

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di determinate cautele oggettive, si risolvono in una ingerenza nell’intimità, anche fisica, del soggetto controllato44.

Ad ogni modo, per apprestare una ulteriore garanzia contro i possibili “abusi” posti in essere dal lato datoriale, la legge stabilisce che la possibilità di effettuare qualsiasi tipo di controllo personale è condizionata alla conclusione di un accordo con le rappresentanze sindacali aziendali che, nel rispetto di tutte le prescrizioni ricordate, individui sia le ipotesi di indispensabilità delle visite stesse, che le relative modalità di svolgimento. In mancanza di accordo, è competente a disporre in materia il servizio ispettivo della direzione territoriale del lavoro.

44 Con la conseguenza che, l’eventuale rifiuto del lavoratore a sottoporsi a tali tipologie di “visite personali”, non legittima l’applicazione di alcuna sanzione disciplinare nei suoi confronti, cfr. Cass., 19 novembre 1984 n. 5902, in Foro it.

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4. Segue: il divieto di indagini sulle “opinioni” dei lavoratori. L’oggetto

Un’altra chiara ed evidente “applicazione” dei principi affermati dall’art. 41 della Costituzione è rinvenibile nel dettato dell’art. 8 dello Statuto dei lavoratori.

Tale norma, come visto, pone il divieto per il datore di lavoro di compiere indagini sia sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, che, più in generale, su qualsiasi fatto “privato” del lavoratore stesso45.

Questa disposizione, pertanto, costituisce la

“norma-principio”46 dell’impianto legislativo posto a tutela della riservatezza del lavoratore, contribuendo in maniera fondamentale a tracciare una zona di rispetto e di garanzia intorno alla sua persona, invalicabile da qualsiasi indagine posta in essere dal datore di lavoro.

Come appare evidente, però, l’esercizio della libertà di opinione, tutelata dalla norma, non può comunque spingersi fino a divenire una valida giustificazione per non adempiere, o adempiere

45 Un altro specifico divieto, introdotto dalla legge n. 135 del 1990, riguarda lo svolgimento di indagini volte ad accertare nei dipendenti, o in persone prese in considerazione per l'instaurazione di un rapporto di lavoro, l'esistenza di uno stato di sieropositività. Rispetto a tele norma, la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 5, terzo e quinto comma, nella parte in cui non prevedeva lo svolgimento di accertamenti sanitari per verificare l’assenza di sieropositività all'infezione da HIV come condizione per l’espletamento di attività che comportano rischi per la salute di terzi, cfr. Corte cost., in Riv. giur. lav., 1995, II, p. 840. Sul tema, M.AIMO, Privacy, libertà di espressione e rapporto di lavoro, cit., pp. 71 ss.

46 P.CHIECO, Il diritto alla riservatezza del lavoratore, in Dir. lav. rel. ind., 1998, p. 22.

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non correttamente, all’obbligazione lavorativa47. Ed è per questo che qualsiasi manifestazione del pensiero deve, in ogni caso, svolgersi salvaguardando e preservando quello che è il normale svolgimento dell’attività aziendale48.

Allo stesso modo, la tutela della vita privata e della riservatezza del lavoratore, in base allo stesso disposto dell’art. 8 della legge n. 300 del 1970, si arresta in presenza di fatti rilevanti ai fini della valutazione dell'attitudine professionale del lavoratore49.

E così, il datore di lavoro non solo può pacificamente acquisire informazioni in merito ad eventuali inadempimenti posti in essere dal lavoratore, nel rispetto, ovviamente, delle tutele e dei “limiti” analizzati in precedenza, ma, in determinate circostanza, può anche acquistare il diritto ad “informarsi” su fatti formalmente estranei allo svolgimento dell’attività lavorativa e, ciononostante, idonei a poter far venir meno l’interesse ad instaurare, od a proseguire, un rapporto di collaborazione lavorativa.

Ciò che può avvenire quando, per la loro “gravità e natura”50, questi siano tali da far ritenere il lavoratore professionalmente

47 Come è stato autorevolmente rilevato, lo scopo perseguito dalla norma, più che di attribuire un significato negativo alla possibile intrusione nella sfera privata altrui, è quello di impedire che il lavoratore possa essere oggetto di pregiudizi, discriminazioni o penalizzazioni di alcun tipo, cfr. P. CHIECO, Il diritto alla

riservatezza del lavoratore, cit.

48 M.PERSIANI,G.PROIA,Contratto e rapporto di lavoro, Padova, Cedam, 2009. 49 In particolari circostanze, quando incidono sul corretto svolgimento della prestazione lavorativa, le indagini svolte dal datore di lavoro possono spingersi fino ad interessare anche le stesse opinioni espresse dal lavoratore in materia sindacale, politica e religiosa.

Ciò che può avvenire, ad esempio, nell’ambito dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle associazioni di tendenza, cfr. M.PERSIANI,G.PROIA,Contratto e rapporto di lavoro, cit.

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inidoneo alla prosecuzione, o alla instaurazione, del rapporto lavorativo.

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5. Segue: il divieto di controlli a distanza. I mezzi

L’altro limite introdotto dalla legge n. 300 del 1970 al potere di controllo esercitabile dal datore di lavoro, riguarda il divieto, assoluto ed inderogabile, di utilizzare impianti audiovisivi, o “altre

apparecchiature”51, per scopi volti al controllo dell’attività lavorativa52.

La norma (sulla quale, in ragione dello sviluppo tecnologico, si è maggiormente sviluppato il dibattito dottrinario e giurisprudenziale) persegue la finalità di preservare e tutelare la riservatezza dei lavoratori che, viceversa, risulterebbe gravemente compromessa e illegittimamente violata a causa della tendenziale continuatività53 dei possibili controlli effettuabili tramite tali apparecchiature54.

Con questa disposizione, pertanto, si è voluto stabilire il principio per cui la vigilanza ed il controllo sul lavoro, pur se necessari nell’ambito della organizzazione produttiva, devono,

51 Sulla nozione di “apparecchiatura di controllo”, vedi E.STENICO,La tutela della

riservatezza del lavoratore nell’esercizio della prestazione, in Quad. dir. lav. rel. ind., 2000, n. 24, pp. 117 ss.

52 Art. 4 della legge n. 300 del 1970.

53 La giurisprudenza ha avuto modo di rilevare che il divieto posto dall’art. 4 dello Statuto dei lavoratori opera anche nel caso in cui le apparecchiature adoperate dal datore di lavoro siano state solamente installate, ma non ancora rese operative, così come nel caso in cui i lavoratori siano stati avvertiti in merito al controllo o, ancora, nell’ipotesi in cui il controllo sia destinato ad essere di tipo discontinuo (perché, ad esempio, esercitato in locali dove i lavoratori possono trovarsi solo saltuariamente), cfr Cass., 16 settembre 1997 n. 9211, in Mass. giur. lav., 1997, p. 804.

54 La vigilanza sull’attività lavorativa, pur se necessaria ai fini dell’organizzazione produttiva, deve essere mantenuta “in una dimensione umana, cioè non esasperata

dall’uso di tecnologie che possono rendere la vigilanza stessa continua e anelastica, eliminando ogni zona di riservatezza e di autonomia nello svolgimento del lavoro”, cfr. Cass., 17 giugno 2000 n. 8250, in Orient. Giur. lav., 2000, p.

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comunque, essere mantenuti in una dimensione “umana” e non essere esasperati dall’utilizzazione di tecnologie idonee a tramutare la vigilanza in una attività di controllo continua ed anelastica, capace di erodere ogni zona di riservatezza e di autonomia nello svolgimento della prestazione lavorativa55.

Per rafforzare ulteriormente questa tutela, il legislatore ha previsto espressamente che gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive, ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali possa derivare anche un controllo a distanza sull'attività dei lavoratori (un tipo di controllo, quindi, non “intenzionale”, ma “preterintenzionale”), possano essere installati solamente previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna e prevedendo che, in mancanza di accordo, sia competente a provvedere il servizio ispettivo della direzione territoriale del lavoro56. In proposito, è bene aggiungere che i controlli a “distanza” a cui si riferisce il legislatore possono essere riferiti non solamente ad una dimensione “spaziale”, ma anche ad un concetto temporale, rilevando, ai fini della disciplina de qua, solamente la possibilità di osservare il comportamento del lavoratore tramite apparecchiature che si sostituiscono alla “contestuale presenza e percezione diretta del

controllore, in sé lecita anche se continua”57.

55 Cfr. M.DEL CONTE, Internet, posta elettronica e oltre: il Garante della privacy

rimodula i poteri del datore di lavoro, in Dir. inf., 2007, pp. 497 ss.

56 Sul tema, vedi G. PERA, in C.ASSANTI, G. PERA, Commento allo statuto dei

diritti dei lavoratori, Padova, Cedam, 1972 e A.CATAUDELLA, Commento all’art.

4, in Commentario dello Statuto dei lavoratori, diretto da U.PROSPERETTI, Milano, Giuffrè, 1975.

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Infine, va aggiunto che non rientrano nel novero dei “controlli vietati”, così come intesi e delineati dall’art. 4 della legge n. 300 del 1970, quelli effettuati mediante apparecchiature idonee a registrare solamente alcuni dati, di tipo “generale”, con esclusione del contenuto effettivo dell’attività e della prestazione lavorativa.

Ciò che può avvenire, ad esempio, in caso di apparecchi idonei a registrare solamente il numero o la durata delle telefonate e delle comunicazioni effettuate tramite le apparecchiature aziendali. In questo caso, infatti, i dati che possono essere tratti da questo tipo di apparecchiature, proprio per la loro genericità, non sono, comunque, in grado di configurare un effettivo (e vietato) controllo sull’attività lavorativa svolta dai dipendenti dell’azienda58.

57 A.VALLEBONA, Istituzioni di diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro, cit., p. 249. Vedi anche, sull’argomento, P.BERNARDO,Vigilanza e controllo sull’attività lavorativa, in C.CESTER (a cura di), Il rapporto di lavoro subordinato: costituzione

e svolgimento, in Diritto del lavoro. Commentario, diretto da F.CARINCI,Torino, Utet, 2007.

58 Non rientrano in questa ipotesi, come è evidente, i controlli, analoghi a quelli descritti, ma eseguiti nei confronti di lavoratori impiegati proprio in attività di mero “contatto” (come, ad esempio, centralinisti o operatori telefonici). In queste ipotesi, infatti, anche un controllo “generico” si risolverebbe, inevitabilmente, in un controllo sull’attività lavorativa. Come tale vitato dalla norma.

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6. La legge n. 675 del 1996. Il codice della privacy, integrazione ed ibridazione della disciplina generale con la disciplina settoriale

L’introduzione in Italia di una specifica normativa che si prefiggesse la finalità di apprestare una tutela ai dati personali è stata tardiva. Si può anzi affermare che si è resa necessaria a seguito dell’entrata in vigore dell’Accordo di Schengen per la progressiva soppressione dei controlli sulle persone alle frontiere degli Stati firmatari, che, all’art. 117 della Convenzione di applicazione di tale accordo, prevedeva “per quanto riguarda il trattamento automatizzato

di dati personali trasmessi in applicazione del presente titolo, ciascuna Parte contraente prenderà, al più tardi al momento dell’entrata in vigore della presente Convenzione, le disposizioni nazionali necessarie per raggiungere un livello di protezione dei dati di natura personale almeno uguale a quello derivante dai principi della Convenzione del Consiglio d’Europa del 28 gennaio 1981 sulla protezione delle persone nei riguardi del trattamento automatizzato dei dati di natura personale”.

E’ stato, quindi, per adempiere a questo impegno, la cui mancata realizzazione avrebbe impedito l’applicazione dell’Accordo sulla libera circolazione, che il Parlamento italiano ha approvato nel 1996 la legge n. 675 relativa alla “tutela della persona e di altri

soggetti rispetto al trattamento dei dati personali”. Tale legge

trasferiva in Italia il contenuto della direttiva n. 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati. Vi è da dire che uno dei principali

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motivi che ha indotto all’adozione di tale direttiva è stato di carattere economico, attuare cioè una normativa unitaria che contemperasse la libertà di circolazione delle informazioni, anche quelle collegate alle libertà economiche contenute dei Trattati della Comunità, con i diritti fondamentali della persona, al fine di porre le migliori condizioni per la realizzazione di un mercato interno comune.

E’, quindi, motivo di riflessione osservare che da una disciplina che, nelle intenzioni di coloro che l’avevano concepita, doveva essere di ancora maggiore stimolo allo sviluppo economico, derivino, soprattutto nell’applicazione che ne viene fatta, rigidità che, quanto meno, non agevolano l’economia italiana a sviluppare un suo spazio nel mercato comune.

Non ci si sofferma oltre sul contenuto della legge del 1996 in quanto quasi tutte le disposizioni legislative che presentano interesse ai fini delle presenti valutazioni sono state riprodotte nel successivo testo legislativo che viene a disciplinare la materia e, quindi, è su di esse ci si soffermerà.

Il primo gennaio 2004, infatti, è entrato in vigore il decreto legislativo n. 196 del 200359 (codice in materia di protezione dei dati personali60), emanato con l’intenzione di ricomporre, in maniera unitaria ed organica, le numerose disposizione relative al tema della

privacy e che riunisce, in un unico testo, sia la legge n. 675 del 1996

59 Cfr. art. 186, legge n. 196 del 2003.

60 Nella relazione diffusa, in data 30 dicembre 2003, dall’Autorità Garante per la protezione dei dati personali viene riferito che “il Testo Unico è ispirato

all’introduzione di nuove garanzie per i cittadini, alla razionalizzazione delle norme esistenti e alla semplificazione degli adempimenti e sostituirà la legge «madre» sulla protezione dei dati, la legge n. 675 del 1996”.

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(abrogata dalla norma del 200361), che gli altri decreti, regolamenti e codici succedutisi negli anni62.

Il testo si apre con una chiara affermazione di principio, che riproduce l’art. II-8, comma primo, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, secondo cui “chiunque ha diritto alla protezione

dei dati personali che lo riguardano”. Concetto ulteriormente

rafforzato dal successivo articolo 2, che afferma, al primo comma, come il codice sulla privacy persegue l’obiettivo di garantire “che il

trattamento dei dati personali si svolga nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità dell’interessato, con particolare riferimento alla riservatezza, all’identità personale e al diritto alla protezione dei dati personali”.

Tuttavia, il testo normativo, imperniato sulla regola della corretta e preventiva informativa63, sulla necessità del consenso dell’interessato, o dell’autorizzazione del Garante per la protezione dei dati personali, e corredato da rigorose disposizioni relative alla elaborazione, custodia e diffusione dei dati acquisiti, non contiene una

61 Cfr. art 183, legge n. 196 del 2003.

62 Per una analisi organica della disciplina del 2003, vedi AA. VV., La nuova

disciplina della privacy, commentario diretto da S.SICA E P.STANZIONE, Bologna, Zanichelli, 2004; P.BORGHI,G.MIELI, Giuda alla privacy nel rapporto di lavoro, Roma, Bancaria editrice, 2005; .BARRACO,A.SITZIA,La tutela della privacy nei rapporti di lavoro, in Monografie di diritto del lavoro, dirette daM. MISCIONE, Roma, Ipsoa, 2008; F.CARDARELLI,S.SICA,V.ZENO-ZENCOVICH, Il codice dei

dati personali - temi e problemi, Milano, Giuffrè, 2004; AA. VV., Il Codice in

materia di protezione dei dati personali, a cura di J. MONDUCCI e G. SARTOR, Padova, Cedam, 2004; G. ELLI, R. ZALLONE, Il nuovo codice della privacy.

Commento del d. lgs. 30 giugno 2003, n. 196, Torino, Giappichelli, 2004.

63 Vedi C.TACCONE, Controlli a distanza e nuove tecnologie informatiche, in Arg. dir. lav., 2004, pp. 299 ss.

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specifica e dettagliata regolamentazione dei trattamenti concernenti i rapporti di lavoro64.

Ed infatti, le norme riguardanti espressamente lo svolgimento del rapporto di lavoro, contenute nel titolo ottavo del testo di legge (“lavoro e previdenza sociale”), hanno ad oggetto, oltre ad i codici di deontologia e di buona condotta, promossi dal Garante per la gestione dei rapporti di lavoro e previdenziali (art. 111), la individuazione dei trattamenti ritenuti di “rilevante interesse pubblico” (art. 112)65, la

64 Sul carattere composito della disciplina posta a tutela della riservatezza dei lavoratori e sulla interazione tra la disciplina di “settore” contenuta nella legge n. 300 del 1970 e la disciplina “generale” in tema di privacy, vedi A.BELLAVISTA, La

disciplina della protezione dei dati personali e i rapporti di lavoro, in Diritto del lavoro, Commentario diretto da F. CARINCI, tomo II, Il rapporto di lavoro

subordinato: costituzione e svolgimento, a cura di C.CESTER, Torino, 2007 e M. AIMO, Privacy, libertà di espressione e rapporto di lavoro, cit.

65 Tale norma afferma che “si considerano di rilevante interesse pubblico, ai sensi

degli articoli 20 e 21, le finalità di instaurazione e gestione da parte di soggetti pubblici di rapporti di lavoro di qualunque tipo, dipendente o autonomo, anche non retribuito o onorario o a tempo parziale o temporaneo, e di altre forme di impiego che non comportano la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato. Tra i trattamenti effettuati per le finalità di cui al comma 1, si intendono ricompresi, in particolare, quelli effettuati al fine di:

a) applicare la normativa in materia di collocamento obbligatorio e assumere personale anche appartenente a categorie protette;

b) garantire le pari opportunità;

c) accertare il possesso di particolari requisiti previsti per l'accesso a specifici impieghi, anche in materia di tutela delle minoranze linguistiche, ovvero la sussistenza dei presupposti per la sospensione o la cessazione dall'impiego o dal servizio, il trasferimento di sede per incompatibilità e il conferimento di speciali abilitazioni;

d) adempiere ad obblighi connessi alla definizione dello stato giuridico ed economico, ivi compreso il riconoscimento della causa di servizio o dell'equo indennizzo, nonché ad obblighi retributivi, fiscali o contabili, relativamente al personale in servizio o in quiescenza, ivi compresa la corresponsione di premi e benefici assistenziali;

e) adempiere a specifici obblighi o svolgere compiti previsti dalla normativa in materia di igiene e sicurezza del lavoro o di sicurezza o salute della popolazione, nonché in materia sindacale;

f) applicare, anche da parte di enti previdenziali ed assistenziali, la normativa in materia di previdenza ed assistenza ivi compresa quella integrativa, anche in

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tutela del rapporto di lavoro domestico e del telelavoro (art. 115)66 e, soprattutto, contengono un espresso rinvio alle norme contenute negli articoli 4 e 8 dello statuto dei lavoratori (gli articoli 113 e 114, intitolati “raccolta di dati e pertinenza” e “controllo a distanza”, si limitano a stabilire che “resta fermo quanto disposto”, rispettivamente, “dall’articolo 8 della legge 20 maggio 1970, n. 300” e “dall’art. 4 della legge 20 maggio 1970, n. 300”)67.

applicazione del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 29 luglio 1947, n. 804, riguardo alla comunicazione di dati, anche mediante reti di comunicazione elettronica, agli istituti di patronato e di assistenza sociale, alle associazioni di categoria e agli ordini professionali che abbiano ottenuto il consenso dell'interessato ai sensi dell'articolo 23 in relazione a tipi di dati individuati specificamente;

g) svolgere attività dirette all'accertamento della responsabilità civile, disciplinare e contabile ed esaminare i ricorsi amministrativi in conformità alle norme che regolano le rispettive materie;

h) comparire in giudizio a mezzo di propri rappresentanti o partecipare alle procedure di arbitrato o di conciliazione nei casi previsti dalla legge o dai contratti collettivi di lavoro;

i) salvaguardare la vita o l'incolumità fisica dell'interessato o di terzi;

l) gestire l'anagrafe dei pubblici dipendenti e applicare la normativa in materia di assunzione di incarichi da parte di dipendenti pubblici, collaboratori e consulenti; m) applicare la normativa in materia di incompatibilità e rapporti di lavoro a tempo parziale;

n) svolgere l'attività di indagine e ispezione presso soggetti pubblici; o) valutare la qualità dei servizi resi e dei risultati conseguiti.

3. La diffusione dei dati di cui alle lettere m), n) ed o) del comma 2 è consentita in forma anonima e, comunque, tale da non consentire l'individuazione dell'interessato”.

66 A norma dell’art. 115 del d. lgs. n. 196 del 2003 il datore di lavoro, nell’ambito del rapporto di lavoro domestico e del telelavoro, “è tenuto a garantire al

lavoratore il rispetto della sua personalità e della sua libertà morale”.

67 L’ultima disposizione contenuta nel titolo VIII, l’art. 116, ha ad oggetto gli istituti di patronato e di assistenza sociale, ai quali riconosce, per lo svolgimento delle loro attività e nell’ambito del mandato conferitogli, l’accesso alle banche dati degli enti eroganti le prestazioni “in relazione a tipi di dati individuati

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In questo modo, se da un lato viene espressamente mantenuto in vigore il sistema previgente68, contenuto nelle norme dello Statuto dei lavoratori, dall’altro si aggiungono, anche per ciò che concerne la regolamentazione del rapporto di lavoro, tutte le disposizioni e tutti gli adempimenti imposti dalla nuova disciplina generale. Disposizioni ed adempimenti che finiscono per estendere, in maniera esponenziale, sia l’oggetto della tutela apprestata, che lo stesso ambito delle condotte ritenute rilevanti.

E che, così facendo, rendono la disciplina inerente la salvaguardia della privacy nell’ambito del rapporto di lavoro eccessivamente composita e, per certi versi, quasi “barocca”69.

A dimostrazione di ciò è sufficiente analizzare i principi cardine introdotti (o ribaditi) dal decreto legislativo n. 196 del 2003 e “tradurli” all’interno delle dinamiche aziendali.

E così, l’art. 3 del codice della privacy, affermando il principio della “necessità” nel trattamento dei dati70, sembrerebbe legittimare solamente quelle attività, coinvolgenti l’utilizzazione di dati personali dei lavoratori, che non solo siano eseguite a fronte di un interesse

68 Il terzo comma dell’art. 184 del d.lgs. n. 196 del 2003, peraltro, stabilisce espressamente

che “restano ferme le disposizioni di legge e di regolamento che stabiliscono divieti o limiti più restrittivi in materia di trattamento di taluni dati personali”.

69 Come è stato autorevolmente rilevato, numerose disposizioni contenute nel d.lgs. n. 196 del 2003 paiono imporre al datore di lavoro “obblighi ispirati ad un vuoto

formalismo, posto che, in molte ipotesi, l’effettivo consenso del lavoratore al trattamento di quei dati è già implicito in altri atti da questi posti in essere”, cfr.

M.PERSIANI,G.PROIA,Contratto e rapporto di lavoro, cit., p. 106.

70 L’art. 3 del d.lgs. n. 196 del 2003 dispone che “i sistemi informativi e i

programmi informatici sono configurati riducendo al minimo l'utilizzazione di dati personali e di dati identificativi, in modo da escluderne il trattamento quando le finalità perseguite nei singoli casi possono essere realizzate mediante, rispettivamente, dati anonimi od opportune modalità che permettano di identificare l'interessato solo in caso di necessità”

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meritevole di apprezzamento (e che siano rispettose dei criteri impartiti dalle norme statutarie), ma che rivestano, allo stesso tempo, anche il carattere della indispensabilità.

L’art. 11, sancendo l’obbligo di “pertinenza”, di “non eccedenza” e, soprattutto, di “correttezza” nel trattamento dei dati, imporrebbe al datore di lavoro non solo di operare il trattamento dei dati in maniera lecita e nei limiti delle effettive necessità aziendali, ma anche di rendere note ai lavoratori le caratteristiche del trattamento stesso. Limiti, questi, tanto più stringenti ove si consideri che le eventuali violazioni di tali disposizioni sono sanzionate dal decreto legislativo n. 196 del 2003 con la inutilizzabilità dei dati acquisiti71.

Gli articoli 13 e 23 del codice, poi, prescrivendo una necessaria e preventiva “informativa”72, nonché il “consenso” dell’interessato, per poter legittimamente effettuare il trattamento dei dati personali, sembrerebbero idonei a vanificare la gran parte delle “attività” poste in essere dal datore di lavoro. Attività che (si pensi alle lecite attività di controllo esercitate dal datore di lavoro), se rispettose dei precetti imposti dal codice, oltre che, ovviamente, dei “divieti” imposti dallo

71 Cfr. art. 11, secondo comma, d.lgs. n. 196 del 2003.

72 I commi 5 e 5 bis dell’art. 13 prevedono che la informativa non è dovuta solamente quando: “i dati sono trattati in base ad un obbligo previsto dalla legge,

da un regolamento o dalla normativa comunitaria”, “i dati sono trattati ai fini dello svolgimento delle investigazioni difensive di cui alla legge 7 dicembre 2000, n. 397, o, comunque, per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento”, “l'informativa all'interessato comporta un impiego di mezzi che il Garante, prescrivendo eventuali misure appropriate, dichiari manifestamente sproporzionati rispetto al diritto tutelato, ovvero si riveli, a giudizio del Garante, impossibile” e “in caso di ricezione di curricula spontaneamente trasmessi dagli interessati ai fini dell’eventuale instaurazione di un rapporto di lavoro”.

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