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FABRIZIO FONDI DIARIO DI UN KILLER

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Academic year: 2022

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FABRIZIO FONDI DIARIO DI UN KILLER

E’ arrivato il momento. Termino in tutta fretta il mio cappuccino e mi alzo dalla sedia.

Tutto sommato anche la stazione di Roma Termini, la mattina alle dieci, risulta un posto gradevole. La gente passeggia, guardando le vetrine dei negozi, c’è molto movimento, soprattutto un sacco di belle ragazze, ma non c’è ancora confusione, non c’è la calca che tra un po' trasformerà questo posto in un ambiente lurido e insopportabile. Mi sono seduto fuori dal bar, presso i tavoli esterni, e ho ordinato un cappuccino e un toast. Ho passato un quarto d’ora di attesa tra il mio giornale e il maxischermo posizionato di fronte a me. Qualche immagine interessante, qualche immagine noiosa, ma tanto serve soltanto a far passare il tempo. L’importante è mantenere la concentrazione e la calma. Ho pagato direttamente al cameriere che mi ha servito la colazione e ho cominciato a mangiare lentamente il mio toast. E’ il cerimoniale che seguo ogni volta per trovare la concentrazione ottimale, prendere confidenza con l’ambiente, calarmici dentro, farne parte integrante fino al momento della missione. Ora mi sento pronto, perfettamente calmo, concentrato, sicuro. Tutto è stato preparato nei minimi dettagli, studiato decine di volte, potrei farlo a occhi chiusi. Conosco addirittura il numero di passi che dovrà fare, conosco a memoria il numero di scalini che porta giù alla metropolitana, linea A e linea B, il numero di passi che separano l’ultimo scalino dal cancelletto di

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ammissione, dove inserirà il biglietto. Quello è l’ultimo possibile controllo, dove talvolta ti imbatti in qualche impiegato dell’Acotral un po’ troppo zelante. Mi perquisisco le tasche un’ultima volta: non manca nulla, è davvero tutto pronto. Guardo l’orologio e chiudo gli occhi in attesa della chiamata.

“Treno da Tivoli delle ore dieci e diciotto è in arrivo sul binario dodici. Treno da Tivoli in arrivo sul binario dodici”. Bene così, l'operazione ha inizio.

Il soggetto varca i cancelli di uscita di gran fretta, come al solito, e si dirige verso la metropolitana. Fa un gran caldo, ma non credo che possa permettersi di rinunciare a giacca e cravatta. E’ già notevolmente sudato alle dieci di mattina e capisco dal suo volto affaticato che riesce a sopportare sempre meno la pressione del suo incarico. Corre goffo, sperando di non perdere troppo tempo in attesa della metropolitana con cui raggiungerà la sede del giornale nel quale lavora. La sua giornata è piena di impegni, di incontri, di appuntamenti, sul treno avrà terminato un articolo e lo avrà inviato alla redazione del giornale. Adesso deve passare dal suo ufficio, prendere alcune cose e ripartire. Quell’inchiesta lo sta assorbendo completamente. Ha scoperto molti elementi nuovi, interessanti anche per i magistrati. Elementi utili per riaprire un caso, per riabilitare un innocente in galera, per fare luce sul vero colpevole di un delitto, per spiegare alcuni lati oscuri di uno dei tanti misteri italiani rimasti irrisolti. Non ha pubblicato ancora nulla, ma la voce si è sparsa tra le redazioni dei giornali e, inevitabilmente, è uscita fuori dall’ambiente degli addetti ai lavori, circolando incontrollata un po’ ovunque. E poiché le cattive notizie viaggiano in fretta, è ben presto arrivata

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anche all’orecchio di qualcuno che quell’inchiesta non la avrebbe gradita molto. Dall’alto del suo idealismo e del suo furore professionale, il mio giornalista non se n'è curato più di tanto. Aveva già messo nel conto che qualcuno si sarebbe mosso per affossare tutto, nel suo mestiere sono cose all’ordine del giorno e la posta in gioco è molto alta. Chissà se è arrivato a pensare che qualcuno avrebbe anche potuto ingaggiare un killer professionista per mettere a tacere quel giornalista impiccione e imprudente. O forse no, magari secondo lui è un’ipotesi esagerata, del resto non ha ricevuto neppure un avvertimento, e quella è gente che, di solito, un avvertimento lo manda sempre prima di passare alle maniere forti. Di solito.

Termino in fretta il mio cappuccino e mi alzo. E’ proprio l’ora di cominciare. Piego il giornale a tubo e mi dirigo verso la metropolitana, lasciando al soggetto qualche metro di vantaggio.

Appena dentro, sento le note di “Knocking on heaven’s door” che un ragazzo sta cantando accompagnandosi con una chitarra acustica mentre il suo compare gira con un piattino in mano torturando i passanti. Il soggetto li ignora entrambi, io, che ormai sono dietro di lui, faccio lo stesso. Una bella canzone, un po’ passata ma sempre piacevole, ce ne sono di peggio da portare con sé nella tomba. Il soggetto ignora la scala mobile, che scende molto lentamente, e imbocca le scale scendendole a due a due di gran corsa. Ho la tentazione di imitarlo, ma non odo il rumore della metropolitana, né sento le folate di vento caldo che la precedono di qualche secondo, perciò decido di non darmi fretta. Se il soggetto dovesse seminarmi rinvierò l’operazione a domani, non è proprio il caso di commettere errori. Nessuno, dopo l’incidente, dovrà ricordarsi di me, perciò

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corrergli dietro scendendo le scale di corsa non è proprio un gesto che passerà inosservato. Calma e pazienza, un professionista sta tutto in queste due parole.

Adesso è il momento di prendere posto e aprire le danze.

Per prima cosa mi posiziono dietro al soggetto, sempre con calma, un centimetro alla volta, arrivando dietro di lui casualmente, senza spingere troppo e senza dare nell’occhio.

Poi mi rilasso e cerco la concentrazione.

Adesso la scenografia è quasi completa, manca solo l’ultimo elemento, e le folate di vento caldo annunciano il suo arrivo imminente. Ecco i suoi fari in lontananza, tra la folla comincia il brulichio, il fermento, l’agitazione. Comincia a maturare quel clima di confusione ideale per un omicidio. Eccola a cento metri, a cinquanta, il rumore dei freni che stridono sui binari, trenta metri, venti, dieci, cinque…

Ecco che si è fermata, meno tre, meno due, meno uno…

Ecco il rumore dell’aria compressa che spalanca le porte. Stringo con forza il mio giornale piegato a tubo nel preciso momento in cui si ode il rumore dell’aria che apre i portelloni. Il suono dell'apertura copre completamente il rumore della pistola che tengo avvolta dentro il giornale. Nessuno potrà ricordare il suono di uno stantuffo schiacciato che fa partire un proiettile. L’importante è schiacciare il comando nell’esatto momento di apertura delle portiere, ma io mi sono esercitato per giorni, ho raggiunto una sintonia perfetta con il mio treno, ormai non posso più sbagliare.

Pazienza e calma, un professionista è tutto qui.

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L’apertura dei portelloni fa il resto. Scatena la folla, trasforma il brulichio in pandemonio. Quelli che escono dalla metro si preparano ad affrontare una folla inferocita che spinge per entrare, quelli che entrano si preparano a fronteggiare i concorrenti per aggiudicarsi i posti a sedere o i migliori posti in piedi. Tutti contro tutti, tutti attenti a quel segnale così importante. A quel rumore si spezzano tutti gli equilibri raggiunti. E’ come lo sparo dello starter a una finale olimpica, tutti lo attendono con ansia e scattano repentinamente non appena arriva. Nessuno guarderà la mia mano che si posiziona dietro la schiena del soggetto e preme con forza sul giornale, sono tutti intenti a fare altro.

Così, di fronte alla scena di un uomo che si accascia al suolo con gli occhi sbarrati e si agita, come in preda a un attacco di convulsioni, nessuno penserà a un omicidio. Almeno, non subito. Il soggetto cade a terra supino. Niente sangue, niente rumore di spari, niente grida.

Tutti pensano a un malore, la confusione diviene ben presto caos.

Urla, le solite urla che chiedono di lasciarlo respirare, di chiamare un medico, di chiamare un ambulanza, di fermare la metropolitana.

Gente sconvolta alla vista di un uomo che muore, che esala l’ultimo respiro nel giro di trenta secondi, pallido, incredulo, impotente mentre la morte lo abbraccia e le gambe continuano per qualche secondo a tremare incontrollate. Mani sul viso, primi attacchi di panico, urla, pianti a dirotto, bestemmie. Veder morire un uomo dal vivo non è come vederlo in televisione. Non ci assomiglia nemmeno lontanamente.

Nessuno ha notato la piccola punta ficcata nella schiena del soggetto, sparata da una cerbottana a pressione che mi sono fabbricato da solo,

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con una impugnatura speciale, modellata sulla mia mano. Leggera, silenziosa, ideale da coprire con un giornale arrotolato a tubo. Al suo interno una punta imbevuta del micidiale veleno del Crotalo Atroce, il serpente più temuto del nord America. Letale per l’uomo in quantità microscopiche e in meno di un minuto e per di più sparato da una cerbottana potente quasi quanto un piccolo revolver.

Finalmente ho avuto la possibilità di provare questo piccolo gioiello del quale vado così orgoglioso. L’idea mi è venuta qualche anno fa quando, pensando alla mia cerbottana, ho sentito le porte della metro aprirsi. Sono rimasto sorpreso dalla coincidenza praticamente assoluta dei due rumori, tuttavia non ho mai avuto occasione di pianificare un omicidio a ridosso della metropolitana. Per questo occorreva il soggetto giusto, ma io so aspettare. Come ho già detto:

calma e pazienza.

Uno dei miei lavori migliori.

Nella confusione che segue la caduta a terra del soggetto, nessuno fa caso al mio dietro front. Mi confondo in mezzo alla fiumana di persone che scende alla fermata e in meno di un minuto sono di nuovo all’esterno. E’ una bellissima giornata, soleggiata, calda, estiva. La mia auto mi attende al parcheggio adiacente alla stazione.

Metto in moto e il climatizzatore e l’autoradio partono contemporaneamente. Mi muovo subito, ansioso di lasciare la città e di fermarmi al primo autogrill: la parrucca, i baffi e la barba cominciano a darmi fastidio e non vedo l’ora di togliermeli di dosso.

Voglio anche cambiarmi i vestiti e gettare in un cassonetto quelli che ho addosso. E poi voglio tornarmene presto a casa. E’ stata una esecuzione fantastica, non riesco a trovarle una minima

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imperfezione. E’ proprio vero, invecchiando sono migliorato al punto da raggiungere la perfezione assoluta. Sono pienamente appagato.

Decido di festeggiare l’operazione passando tutto il pomeriggio al mare.

* * *

Mio padre mi ha sempre detto, fino al giorno della sua morte, che il segreto di questo lavoro sta nella misura. Nel capire ciò che è esagerato, ciò che è imprudente, ciò che è figlio della vanità e non dell’utilità. Per questo, a cinquanta anni, sto seriamente meditando sull’idea di ritirarmi dalla scena. Ho portato a termine più di trecento incarichi in tutto il mondo. Considerando che faccio questo mestiere da venticinque anni, ho una media di un incarico al mese. Una media oltremodo alta. E mio padre mi diceva che la sorte non va sfidata oltre misura. Se ti è stata eccessivamente favorevole non è il caso di tirare troppo la corda, devi anzi mollarla prima che si spezzi. Sono sdraiato su un lettino all’ombra di un pino e guardo mio figlio nuotare nella piscina. E’ un grande nuotatore, un atleta perfetto come lo ero io alla sua età. Ha quindici anni, è un ragazzone, intelligente e sveglio, ne vado fiero. Padroneggia le nuove tecnologie con grande abilità e una apertura mentale che gli fa onore. E poi sta rispondendo splendidamente ai primi test. Ne sono sicuro, diventerà più bravo di me.

* * *

Il ragazzo è snello, atletico, di bella presenza. Lavora per una grande società di elaborazione dati al centro di Milano. E’ un grande sportivo: tennis due volta alla settimana, calcetto il venerdì sera, footing la domenica mattina. La vittima ideale per il lavoro che devo

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portare a termine: non sposato, più o meno trentenne, non più in casa dei genitori. Abita a quaranta chilometri da Milano e percorre da anni lo stesso tragitto per recarsi a lavorare. Il ritorno a casa, soprattutto, è scandito da un cerimoniale sempre identico. Fermata al solito autogrill, cappuccino con brioche, ripresa del viaggio e rientro a casa. Poi, quasi sempre, tennis o calcetto con gli amici. Questa sera però è dedicata al riposo, niente impegni sportivi, niente donne. Gli sto dietro da settimane, ho imparato a conoscere ogni sua abitudine, i suoi tic, le sue manie. Se fosse necessario potrei camminare come lui, parlare come lui, addirittura imitarlo al telefono. Conosco le sue frequentazioni e i suoi appuntamenti, le sue preferenze e le sue diffidenze. Ormai sono pronto, e la giornata è perfetta per terminare il lavoro. Una giornata come questa probabilmente capiterà tra settimane e io non posso più aspettare. Il mio contratto è in scadenza.

Gli sto dietro a un centinaio di metri, senza dare troppo nell’occhio, a volte lasciandomi distanziare anche mezzo chilometro. Tanto l’appuntamento sarà al solito autogrill. L’autostrada non è ancora molto trafficata. Pedinarlo costituisce una specie di preparazione di tutta l’operazione. Mi aiuta a concentrarmi, a trovare le maniere più efficaci per compiere l’operazione velocemente e senza intoppi. Mi sono già calato nella parte, sono pronto e mancano ancora dieci chilometri. Lo sorpasso un’ultima volta per guadagnare tempo e andare a sistemarmi nell’area di servizio in posizione strategica, dove potrò vederlo entrare, parcheggiare e dirigersi verso il bar.

Parcheggio il furgone in posizione defilata, lontano dal bar e dal distributore e attendo pazientemente. Infilo i guanti con cura maniacale. Sono in lattice molto spesso, non voglio correre rischi,

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ma sono anche trasparenti, al punto che nessuno li potrebbe notare se non osservando accuratamente le mie mani. Ho dovuto penare non poco per trovarli, ma ne sono orgoglioso. Efficaci e sicuri, i guanti migliori al mondo. Poi comincio a predisporre il retro del furgone: un lettino, corde, catene, manette, lucchetti. Tutto attorno le pareti sono interamente ricoperte di materiale isolante che assorbe fino a 120 decibel. Chiunque potrebbe gridare a squarciagola dentro quel furgone. Nessuno, neppure con l’orecchio appoggiato lungo la parete, potrebbe sentirlo. Il ragazzo entra nel piazzale dell’area di servizio guardandosi attorno in cerca di un parcheggio. Lo osservo attentamente da lontano e mi dispiace di aver accettato un incarico del genere per soli centomila euro. Quel ragazzo vale almeno il doppio. Ma ormai non c’è troppo da recriminare, adesso è il momento di portare a termine il lavoro alla svelta. Ha avuto fortuna, non c’è molto traffico e trova un posto non molto lontano dal bar, anche se piuttosto defilato, quasi lungo il filare di alberi che contorna l’area. Accanto a lui non c’è nessuno. Scende dall’auto e si stira per qualche istante, poi rientra per prendere il cellulare e spengere l’autoradio. Mentre si dirige verso il bar e sale le scale il mio furgone bianco si avvicina alla sua auto e parcheggia al suo fianco.

La parte più difficile e pericolosa viene adesso: intervenire sull’auto senza che qualcuno mi veda o si insospettisca e avverta la sorveglianza. Ma il mio è un intervento veloce, provato decine di volte e ormai collaudato. Ho in mano una piccola ampolla da posizionare sotto la bocchetta di aspirazione dell’auto. Un’ampollina contenente un formidabile gas paralizzante. Procurarmelo non è stato facile, ma il mio lavoro non è fatto di ovvietà e di pratiche scontate e

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ripetitive. Servono immaginazione, organizzazione e capacità di rendere reali le fantasie. Pensare di poter paralizzare un ragazzo così forte e robusto in piena autostrada e rapirlo sotto gli occhi di mezzo mondo è appunto una fantasia e niente più. Farla diventare realtà è una possibilità alla portata di pochi al mondo, e io sono tra questi. Ho studiato con attenzione le proprietà dei gas e i loro effetti sul corpo umano. Ho studiato le dosi e i tempi di inalazione, ho fatto pratica, li ho manipolati, ci ho preso confidenza finché sono diventati uno dei miei strumenti di morte preferiti. Paralizzano le vittime e poi spariscono nell’aria, senza lasciare traccia. Instillati a piccole dosi vengono rapidamente smaltiti dall’organismo in breve tempo, rendendosi di difficile reperimento anche in una accurata autopsia. E poi veleni di ragno, di serpente, di scorpione. Armi inusuali in un paese come l’Italia. Armi fantasiose, appunto. Mi piace l’idea di essere un giorno definito “un killer fantasioso”.

Ho preparato con grande attenzione la dose di gas. Un millilitro in più farebbe la differenza, potrebbe rovinare un lavoro di settimane.

La inalazione prolungata causerebbe certamente la morte, ma la mia operazione durerà solo qualche minuto. L’effetto paralizzante si ha immediatamente, ancora prima che un individuo possa rendersi conto di cosa sta succedendo. Si estende gradualmente a tutti gli organi fino a colpire, dopo circa quindici minuti, l’apparato respiratorio e il cuore. La morte avviene per soffocamento e per contemporaneo arresto cardiaco. Ho scelto l’area di servizio perché è una metropoli in miniatura, dove tutti sono di passaggio, distratti, disattenti, dove ognuno si fa gli affari suoi e pensa soltanto a rimettersi in viaggio il prima possibile. Un piccolo porto di mare, con gente che va e viene,

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dove, alla fine della giornata, sono transitate migliaia di persone.

Difficile ricordarsi di qualcuno, difficile far caso a qualcosa di strano. Nelle aree di sosta ci sono spacciatori, ricettatori, puttane, viaggiatori, camion, camper, pullman pieni di gitanti, anziani e giovanissimi. Nelle aree di sosta c’è la confusione ideale per fare ciò che ho progettato.

L’ampollina è stata studiata a lungo, modificata, modellata finché la sua forma non ha raggiunto la perfezione. Adesso si incastra perfettamente alla parte dell’auto dalla quale le bocchette aspirano l’aria esterna. Appoggiarla lì e assicurarmi che sia incastrata a dovere richiede non più di dieci secondi. Coperto dal furgone che ho parcheggiato accanto, sono stato rapidissimo. Quando mi rialzo, molto cautamente, sono pronto a scommettere che nessuno ha fatto caso a me. Adesso devo soltanto aspettare.

Lo osservo gettare lo scontrino nel bidone posizionato all’inizio delle scale. Meglio così, una traccia in meno da cancellare, un problema in meno da risolvere. Si toglie la giacca ed entra in auto. Appena la mette in moto il climatizzatore si avvia, cominciando a introdurre il gas all’interno. Non ha nemmeno il tempo di ingranare la retromarcia. Gli arti si bloccano immediatamente e viene colto dal panico. E’ chiaramente una sensazione che non ha mai provato e ne è atterrito, ha gli occhi sbarrati e il respiro corto. Ma è già paralizzato quasi completamente, non riesce più a parlare. Attendo una trentina di secondi seduto al posto di guida del furgone, poi, mentre scendo, apro lateralmente lo sportello posteriore del furgone. Mi do una veloce occhiata attorno, recupero l’ampolla e la richiudo con attenzione. Poi apro lo sportello dell’auto dalla parte del passeggero

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e attendo qualche secondo che il gas si dissolva, entro nell’auto e osservo il ragazzo: perfettamente cosciente ma fermo, pietrificato. Il gas non ha compromesso nessuna funzione vitale. Perfetto. Il terrore gli si legge sul volto, goccioline di sudore gli cadono dalla fronte sulle tempie.

Mi sembra che in qualche modo abbia compreso qche uanto gli sta accadendo attorno non è per nulla casuale. Mi sembra di leggere nei suoi occhi sgranati il terrore della preda che si sente catturata, il terrore della mosca impigliata che vede arrivare il ragno, il terrore dello scarafaggio azzoppato che scorge una lunga fila di formiche affamate che si dirigono verso di lui. Lo vedo spostare le pupille verso destra, il massimo movimento che adesso può permettersi.

Senza dire nulla lo afferro per le ascelle e comincio a trascinarlo dentro il furgone, con movimenti esperti e collaudati, nonostante la sua stazza non faciliti per niente l’operazione. In pochi istanti lo ammanetto e lo imbavaglio, qualche secondo dopo sono di nuovo al mio posto di guida, cercando il canale novantaquattro punto tre, che trasmette musica classica e mi aiuta a rilassarmi.

Adesso devo far sparire l’automobile. L’ideale sarebbe un demolitore che non faccia troppe domande e sia disponibile a ridurla come una scatoletta irriconoscibile. Ma sono solo e non ho troppo tempo a disposizione. Non mi resta che farla sparire nel modo più semplice del mondo. Le chiavi sono ancora nel quadro, l’auto è aperta. Nel giro di qualche ora sarà lontana centinaia di chilometri da questo posto, nel giro di un paio di giorni circolerà sulle strade di qualche città dell’Africa del nord, con nuove targhe e una carrozzeria sofferente e sommersa di cicatrici. E nessuno la troverà mai più.

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* * *

Ho preso due decisioni definitive. La prima riguarda il mio ritiro. Ne sono sicuro, ormai. Comincio a sentire la paura, la paura di sbagliare o di lasciare qualche traccia dietro di me, la sensazione che qualcuno mi stia alle calcagna e prima o poi si presenti alla porta a chiedere il conto. E quando questo accade significa che è l’ora di farla finita. La seconda riguarda mio figlio. Seguirà le mie orme, non ho dubbi. E’

nato per fare il killer, ce l'ha nel sangue, e non solo metaforicamente.

Magari l’amore di padre mi porta a sopravvalutarlo, ma sono convinto che sia una splendida macchina da morte. Glielo leggo negli occhi. Avremmo fatto una coppia formidabile, ma sono felice anche di fargli da precettore. Gli insegnerò una montagna di cose, potrà cominciare anche prima di me e dunque smettere prima di me.

L’unico problema è sua madre, ancora non sa niente e non so come la prenderà. Ho intenzione di imitare mio padre solo se sarà veramente necessario. Mi ricordo la notte in cui, come al solito, si infilò nel mio lettino. Quella notte non mi penetrò, ma si limitò a masturbarsi sotto le coperte, mentre con l’altra mano mi toccava la schiena, le spalle, le natiche. Poi mi disse:

- Un giorno dovremo dire molte cose a tua madre. Ma non so come reagirà…

Quando l’hanno trovata carbonizzata dentro la sua auto in fondo a un fosso ho capito immediatamente come aveva reagito. Mio padre non le diede scampo, io spero di poter evitare una conclusione simile con mia moglie. Ma se sarà necessario non mi tirerò indietro.

* * *

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Quando mi sveglio le braccia mi fanno male e le gambe sono indolenzite. Ho qualcosa sulla bocca che mi dà fastidio, cerco di avvicinare la mano per capire cos’è, ma il braccio è bloccato e sento un forte clangore, un rumore di catene. Sgrano gli occhi e mi accorgo di avere le braccia e le gambe incatenate ai ferri del letto e di essere imbavagliato. Mi dimeno furiosamente, ma le catene sono corte e ben allacciate, capisco subito che non ce la farò mai. Non sono in casa mia, anche se non riesco a scorgere molto di più. Il locale è quasi buio, silenzioso, potrebbe essere la soffitta sul tetto o il magazzino sotto casa. O potrebbe essere chissà cos’altro. Lo sapevo, qualcuno è venuto a chiedere il conto. Proprio quando sei convinto di aver superato l’ostacolo e di averla fatta franca, i nodi arrivano al pettine. Chiunque sia, ancora non mi ha ammazzato e questa è la prima buona notizia della giornata per me mentre potrebbe diventare una pessima notizia per lui. Io al suo posto l’avrei già fatto, dunque forse non mi vuole morto. Nello scarso chiarore della stanza mi accorgo che tra gli arti e gli anelli delle catene ci sono delle strisce di gommapiuma, e non penso che me le abbia applicate per gentilezza.

Probabilmente vuole evitare di lasciare segni sul mio corpo. Se è così, sono vivo ma praticamente già morto.

Vedo una sagoma entrare nella stanza, ma è difficile riconoscerla in questa oscurità. Comunque non mi spaventa, nulla ormai può spaventarmi, mi sono preparato alla morte e ritengo sia questione di minuti, non mi importa chi sia e perché lo fa. Invece sento un rumore simile allo scatto di un bottone e una voce registrata che parte.

Riconosco immediatamente il timbro di mia madre. Ha una cadenza diversa, un po’ spagnoleggiante, ha un tono meno deciso e autoritario

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di come lo ricordavo, ma è lei, mi ci posso giocare quanto ho di più prezioso. Poi ascolto il suo messaggio, che spazza via tutti i dubbi. Si rivolge a mia moglie, dice che ha bisogno di raccontarle alcune cose importanti, che lo fa per evitare che suo nipote faccia la stessa fine di suo figlio. Ogni tanto singhiozza, la sento piangere. Racconta il terrore che le incuteva mio padre, lo descrive come un mostro, spietato, capace di trovarti nei più sperduti posti del mondo per portarti il suo messaggio di morte. Racconta di come ha casualmente scoperto ciò che mi faceva da anni e i progetti che aveva sul mio futuro. Racconta di come ha pianificato la sua sparizione, convinta che tentare di ostacolarlo avrebbe significato la morte sicura. Piange apertamente quando racconta il suo dolore per aver abbandonato suo figlio nelle mani di un animale simile, e piango anch’io. Piango come non ho mai fatto, neppure il giorno in cui mio padre mi raccontò della sua morte. Mi lascio andare sul letto, senza più lottare con quelle maledette catene e sfogo tutto il mio dolore represso.

Sento una madre, mia madre, che racconta di come le hanno strappato il figlio e lo hanno trasformato in una macchina da guerra e immagino il suo dolore, alimentato da anni di pianti, rimorsi, sensazioni di impotenza.

Quando la registrazione termina non me ne accorgo neppure, sono impegnato nella rievocazione di ricordi, sentimenti, sensazioni che credevo perdute. Mi tornano a mente i bellissimi momenti passati con mia madre, le sue braccia a farmi da rifugio e da riparo, la sua voce rassicurante, il suo calore. Ricordo mia madre e il suo amore per me e sento le lacrime che sgorgano dai miei occhi e scendono giù lungo le tempie fino a bagnare i capelli. Mi chiedo, per la prima volta

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nella mia vita, cosa proverei se succedesse a me. La mia forza è sempre stata nella capacità di non farmi quella domanda quando spingevo il grilletto. Invece qualcosa mi spinge a chiedermi cosa deve aver provato mia madre, come si è sentita vivendo tutti questi anni in clandestinità, a migliaia di chilometri da suo figlio, magari seguendone persino le vicende, e con la terribile sensazione che per suo nipote è in cantiere una strada identica. La persona che più ho amato al mondo mi è stata strappata via da un destino contro il quale lei non ha avuto la forza di lottare. Mentre continuo a piangere e a ricordare sento un leggero sibilo sopra la mia testa ma non me ne curo, immerso nel mio dolore. Poi, qualche istante dopo, comincio a percepire un odore dolciastro, inconfondibile per un intenditore come me. Ho usato quel gas molte volte, conosco le suo qualità meglio di qualunque docente di chimica e so bene che lottare non servirebbe a nulla. Sono stato legato molto bene e sui miei polsi e sulle mie caviglie non comparirà alcuna traccia. E quel gas agisce in brevissimo tempo e io, prima di riconoscerlo, ne ho già respirato un bel po’. Ma soprattutto perché mi sento svuotato, annichilito. Quella voce ha riportato in vita quella parte di me che credevo morta per sempre. La mia parte umana, quella gioviale, allegra, quella che amava la vita in tutte le sue forme. E’ l’ultimo grande regalo di mia madre prima di lasciarmi, stavolta per davvero. Poi sento gli occhi farsi pesanti e so bene che mi resta una trentina di secondi.

* * *

Il braccio dell’argano scende lentamente e infila la bara nel sito con grande precisione. Poi due operai sfilano le corde che la cingono e spariscono alla velocità della luce. Mi guardo rapidamente attorno e

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scorgo ancora molta gente. Era un uomo celebre, mio padre.

Conosceva e frequentava molte persone, era un uomo stimato e benvoluto. Molte delle facce davanti a me le vedo per la prima volta, mi stringono la mano, mi abbracciano, mi incoraggiano e si dimostrano disponibili a qualunque richiesta. Ma io non ho bisogno di nessuno di loro. Guardo mia madre contenere il suo dolore così dignitosamente, la ammiro per questo. Dietro i suoi occhiali neri scorgo due occhi consumati dal pianto e dal dolore, so bene che è sfinita per quanto ha dovuto passare negli ultimi tre giorni, ma riesce a mantenere un portamento dignitoso e fiero. Le auguro di poter ricominciare, un giorno, anche se a quarantacinque anni non sarà facile. Il mondo nel quale vivevamo ci è crollato addosso. Ma io ho quindici anni, e tutta la vita davanti, tutto il tempo che voglio per partire e ripartire ogni volta che ne avrò voglia. E poi non avevo un gran rapporto con mio padre. Anzi, pensandoci bene, io non ho un gran rapporto con nessuno. Lo rispettavo, questo sì, gli ero profondamente grato per quanto ci ha dato in questi anni, ma non posso dire di averlo amato. Io non riesco ad amare, io riesco solo a odiare. E lo faccio molto bene. Io odio il genere umano, l’intero genere umano, senza eccezione alcuna. Odio le persone patetiche, le persone false, le persone arroganti, quelle egoiste, quelle antipatiche, quelle stupide, e sono molte, quelle presuntuose. Odio chi ti stringe la mano, senza averti mai visto prima, e ti manifesta una disponibilità di facciata mentre nel suo intimo gli sei del tutto indifferente. Odio chi da dietro ti suona il clacson in una fila di auto perché ha fretta. O chi in ascensore ti rivolge un sorrisetto ipocrita e non vede l’ora che lo sportello si apra, non riuscendo a nascondere il suo disagio

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neppure un po’. Odio quelle stupide delle ragazzine della mia età che ridono alle tue spalle quando passi, con la mano davanti alla bocca, raccontandosi una idiozia dietro l’altra. Odio i miei professori, arroganti, spacconi, noiosi, convinti di avere su di me il potere della vita e della morte. Odio chi mi fuma accanto senza curarsi del fastidio che provo o chi parla degli affari suoi ad alta voce senza capire che non me ne frega niente. Io odio tutti. E sento crescere dentro di me, sempre più potente, un pazzesco desiderio di ammazzarli, uno dietro l’altro, di metterli in fila davanti a un muro e crivellarli di colpi tutti quanti. Una volta era una fantasia e niente più, con la quale sfogavo le mie rabbie nei confronti del mondo. Ma adesso è un impulso, sempre più feroce e non so per quanto ancora riuscirò a contenerlo. Guardo questi maiali davanti alla tomba di mio padre, li vedo fingere un dolore che in realtà non provano e Dio solo sa se avrei voglia di seppellirli tutti con lui. Lui era un uomo gioviale, allegro, un compagnone di vita. Mi dispiace, io non sono come lui, non lo sarò mai.

Io sono una macchina per uccidere.

Questo racconto è opera della fantasia. Nomi, personaggi, luoghi, avvenimenti sono il prodotto dell'immaginazione dell'autore e, se reali, sono utilizzati in modo assolutamente fittizio. Ogni riferimento a fatti e persone viventi o scomparse è del tutto casuale.

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