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Il Cantico dei Cantici. Teologia Sacra Scrittura

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Academic year: 2022

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Il Cantico dei Cantici

Teologia – Sacra Scrittura

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Non un discorso sull’amore è possibile, ma un «discorso amoroso». È esattamente questo il Cantico dei Cantici: in esso, fin dal suo incipit, che, proletticamente, ci permette di intuire le valenze di senso

principali del poema, non si troverà alcuna teoria, per quanto

sofisticata e affascinante, sull’amore, ma due amanti che attraverso

«vampate di linguaggio» parlano e si parlano. Al di là delle varie

possibili traduzioni, da quella letterale che si è maggiormente imposta, Cantico dei cantici, fino a quelle apparentemente più “concettuali”, come Il canto più bello o Il canto sublime, resta il fatto che

l’espressione Shir Hasshirím che fa da titolo al poema è, dal punto di vista della grammatica ebraica, un superlativo. Scelta geniale questa, da parte dell’autore (dell’autrice?), attraverso la quale non solo si fa riferimento alla qualità estetica delle parole che seguiranno, ma

soprattutto si suggerisce come il discorso amoroso costituisca una

“irregolarità” – superlativa appunto, e quindi irriducibile e non schematizzabile – rispetto a ogni altro discorso.

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Collocato nel cuore della Scrittura, eppure il nome di Dio non

compare; inteso e “pudicamente” usato dalla liturgia come canto dell’amore nuziale, eppure di matrimonio non c’è traccia; attribuito dal titolo a Salomone, definito dalla tradizione siriaca «sapienza

delle sapienze», eppure porta impresso il marchio della follia e l’attribuzione a Salomone non è che spuria.

Amore che chiede di imprimersi nella forma di un «sigillo» (Ct 8,6), che ha la pretesa di fare da contraltare alla morte (8,6), eppure un attimo dopo i due amanti sono di nuovo distanti, lontani (8,14). Eros che si dona nella nudità dei corpi, eppure si nasconde dietro muri, grate, veli e finestre; amore che scompare dentro notti difficili da attraversare, per lasciarsi scoprire alla fine lì presente, fermo al punto di partenza.

«Vuoto» e per questo tremendamente pieno di mistero: il Cantico dei Cantici (Shir Hasshirím) ricorda da vicino, nei suoi paradossi, proprio quel santo dei santi a cui la tradizione rabbinica lo ha rassomigliato audacemente.

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Il Cantico e la sua collocazione nel canone dei libri sacri

Benché Flavio Giuseppe, intorno al 100 d.C., enumerando i libri biblici menzioni il Cantico come uno dei tre “libri salomonici”, assieme a Proverbi e Qohelet,

l’accettazione all’interno del canone delle Scritture di un libro così singolare non fu priva di difficoltà. Circa nel 200 d.C., la Mishnah (trattato Yadayim III,5) testimonia la controversia al riguardo; proprio Rabbi Aqiba afferma solennemente: nessuno in Israele ha mai contestato che il Cantico dei Cantici sporchi le mani [cioè che esso sia sacro], perché il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico dei Cantici è stato donato a Israele, perché tutti gli scritti sono santi ma il Cantico dei Cantici (shir hasshirím) è il santo dei santi (qodésh haqqodashím).

Come può tuttavia un testo che parla senza reticenza alcuna dell’amore tra un uomo e una donna, privo del nome di Dio, essere considerato parte della sacra Scrittura e addirittura destinato, in quanto parte dei «cinque rotoli» (megillót), alla lettura liturgica durante le feste? La chiave per risolvere il problema della canonicità del testo viene dalla sua interpretazione.

E ci si guardi bene dal pensare che il Cantico dei Cantici sia una composizione erotica!

Che se la sua interpretazione non fosse sublime non sarebbe stato annoverato tra i libri santi, e la discussione a suo riguardo non avrebbe concluso che rende impure le mani.

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È percepibile da parte delle fonti antiche il tentativo di liberare il Cantico da ogni possibile residuo legame con l’amor profano – un tentativo che riesce solo parzialmente, come testimonia l’esistenza di una sua interpretazione letterale. Una lettura, questa,

evidentemente più antica di quella allegorica, se la tradizione

ebraica raccomanda: «Chi canticchia il Cantico dei Cantici nelle osterie e ne fa un canto profano non ha parte nel mondo a

venire»; e il Talmud addirittura rammenta che «se uno canta come una canzone un verso del Cantico dei Cantici, o se uno ne legge un verso in un’osteria in un tempo non appropriato, costui porta sciagura al mondo». Moniti che hanno senso solo nel caso in cui il Cantico fosse inteso e usato nella sua lettera, come canto

d’amore.

Benché non originaria e non certamente la più antica,

l’interpretazione allegorica fa parte della tradizione giudaica; le sue radici sono da rintracciare nell’uso che l’Antico Testamento fa della figura dell’amore nuziale, assunta a immagine della relazione tra Israele e il suo Dio (cfr. per es. Os 2; Ger 2; Ez 16). Su questo sfondo, l’allegoria legge nel Cantico l’espressione dell’amore tra

l’assemblea di Israele – presentata come la sposa – e il «Santo» che assume le vesti del diletto

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È ancora l’allegoria a consentire la lettura del Cantico

come una sorta di ricapitolazione e compendio di tutta la storia di Israele, dalla creazione fino alla venuta attesa del Messia.

Anche l’interpretazione cristiana antica predilige

l’allegoria, cambiandone logicamente i referenti: così, per esempio, in Ippolito di Roma Cristo e la Chiesa si

sostituiscono a Yhwh e Israele. Accanto al senso

ecclesiologico e mariologico, si sviluppa fin da Origene una lettura mistica, che vede nel Cantico la celebrazione dell’amore nuziale tra l’anima e Cristo. Si tratta di

un’ermeneutica che troverà le sue espressioni più alte e

celebri nella mistica castigliana di Giovanni della Croce e

Teresa d’Avila.

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È merito del romanticismo tedesco, a partire da J.G. Herder, aver riportato l’attenzione sulla lettera di un testo, con ogni possibile significato

aggiuntivo. Ad una tale istanza interpretativa va assegnato l’indiscusso merito di aver liberato l’amore tra un uomo e una donna da letture

motivate da preoccupazioni per lo più di ordine teologico che filologico o letterario.

Di fronte a questo, e ad ogni possibile altro rischio, a cui la lettera dell’amore tra uomo e donna – oramai irrimediabilmente entrata nel

canone delle Scritture – espone l’interprete, l’allegoria ha finito per tornare oggi alla ribalta, corredata dell’apparato dell’analisi esegetica con i suoi metodi e le sue procedure.

In particolare, sarebbero le relazioni intertestuali tra il Cantico dei Cantici e altri testi biblici, specialmente i libri profetici e le Lamentazioni, con il loro impiego della metafora nuziale o con la donna figura di Sion sconsolata e poi consolata nella relazione d’amore con Yhwh, a fornire la prova regina dell’originaria valenza allegorica di Shir Hasshirím. Questo approccio si accompagna al rifiuto di un qualsiasi Sitz im Leben del testo (cioè il suo

contesto originario) che non sia quello della Scrittura, dalla quale il Cantico riceve precisamente il suo senso allegorico.

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Dalla riscoperta della lettera al dibattito attuale

«Chi considera solo il significato esteriore isolandolo dall’insieme è un materialista, chi considera soltanto il significato interiore isolandolo dal

resto è un falso mistico: ma chi unisce i due significati è perfetto». Crediamo che proprio questa sia l’unica strada possibile da percorrere per

un’adeguata ermeneutica del Cantico dei Cantici. Al posto dell’allegoria, che si fonda su una separazione tra il piano della lettera (con i suoi

significanti) e quello del significato (da collocare altrove), si propone il

passaggio a una interpretazione simbolica, capace di evocare un oltre non al di là della lettera, ma attraverso la stessa lettera. In questa prospettiva, la logica interpretativa del Cantico risponde alla logica dell’incarnazione, laddove l’umano, in tutte le sue dimensioni, diventa spazio unico di

rivelazione e attestazione del divino: «Il divino è presente nell’umano e da esso inseparabile, perché l’amore stesso tra uomo e donna è allo stesso tempo sensibile e spirituale, umano e divino».

La lettera del testo, con l’amore tra uomo e donna che essa canta è, in questa prospettiva, capace di dire Dio, svelando qualcosa del suo mistero.

La teologia del testo, dunque, sarebbe da ricercare non altrove, in un significato allegorico, ma nell’amore tra uomo e donna che il Cantico mette in scena.

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Alcuni tratti distintivi di un testo singolare

Precisamente la messa in scena è una delle caratteristiche distintive del Cantico, definito mirabilmente da J.P. Sonnet il «santuario della parola scambiata ». Chi legge si trova fin dall’inizio bruscamente trascinato nel mezzo di un dialogo tra un io e un tu, maschile e femminile, che si alternano: «Mi baci con i baci della sua bocca; più dolci le tue carezze del vino» (Ct 1,2). Non c’è alcuna cornice narrativa, non c’è alcuna didascalia che possa fornire istruzioni riguardo all’alternanza dei locutori; c’è solo una parola d’amore reciprocamente rivolta che nella sua alternanza costruisce e fa il testo, dando vita al suo dinamismo.

Nel suo insieme, il Cantico è strutturato a partire da un’alternanza di presenza e assenza, distanza, ricerca e vicinanza. Tale movimento ha origine ed è sostenuto proprio dalla parola d’amore che l’uno rivolge all’altra: è attraverso quest’ultima che nella distanza i due percepiscono ciascuno la presenza dell’altro (2,8; 5,2), si

chiamano (2,10-14) e si cercano fino a trovarsi. Nella vicinanza è ancora la parola a descrivere la bellezza degli amanti (4,1-15; 5,10-16; 6,4- 10; 7,2-11), ravvivando così il desiderio che condurrà ad una nuova ricerca.

A partire da questo movimento, è possibile individuare una struttura unitaria nel

Cantico, definibile non tanto sul piano narrativo, attraverso la presenza di una trama, quanto piuttosto come unità lirica, articolata in due parti simmetriche (2,8–5,1 e 5,2–

8,4) incorniciate da un prologo (1,2–2,7) e da un epilogo (8,5-14).

Le figure di spicco, un uomo e una donna, rimangono anonime quanto alla loro identificazione. È proprio l’anonimato dei due a collocare sullo sfondo i loro volti e la loro storia singolare, per far avanzare invece in primo piano l’amore condiviso,

assieme ai due cardini di questa esperienza: la parola, già menzionata, e con essa il corpo.

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1Cantico dei Cantici, di Salomone.

2Mi baci con i baci della sua bocca!

Sì, migliore del vino è il tuo amore (carezze).

3Inebrianti sono i tuoi profumi per la fragranza,

(Olio profumato) aroma che si spande è il tuo nome:

per questo le ragazze di te si innamorano.

4Trascinami con te, corriamo!

M’introduca il re nelle sue stanze:

gioiremo e ci rallegreremo di te, ricorderemo il tuo amore

(carezze) più del vino.

A ragione di te ci si innamora!

5Bruna sono ma bella, o figlie di Gerusalemme, come le tende di Kedar,

come le cortine di Salomone.

6Non state a guardare se sono bruna, perché il sole mi ha abbronzato.

I figli di mia madre si sono sdegnati con me:

mi hanno messo a guardia delle vigne;

la mia vigna, la mia, non l’ho custodita.

7Dimmi, o amore dell’anima mia, dove vai a pascolare le greggi, dove le fai riposare al meriggio, perché io non debba vagare

dietro le greggi dei tuoi compagni?

8Se non lo sai tu, bellissima tra le donne,

segui le orme del gregge e pascola le tue caprette

presso gli accampamenti dei pastori.

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Il corpo è prepotentemente presente con tutto il suo carico di suggestioni fin dalle prime battute del Cantico, dove si

rammentano i «baci della bocca» (nishqót; 1,2) dell’amato e le sue «carezze» (dodím; 1,4). I sensi corporei sono coinvolti fin da subito nell’esperienza d’amore: il gusto di un amore più

inebriante del vino, il tatto nel gioco erotico delle carezze, così come l’olfatto, nel momento in cui l’amata respira del profumo dell’amato (1,3). Ancora: sui corpi nudi di lei e di lui indugerà lo sguardo estasiato dei due nell’intimità dell’amore, e la voce a turno ne canterà la bellezza.

La lingua del Cantico è opulenta, densa di figure, metafore e similitudini, intrisa di parole rare o hapax legomena, sonora di

allitterazioni e assonanze. Con i suoi molteplici riferimenti, da una parte strizza l’occhio all’austerità della tradizione biblica, con cui entra creativamente e talvolta polemicamente in dialogo;

dall’altra i paralleli con temi, immagini e generi letterari tipici della poesia greca classica ed ellenistica sono chiaramente percepibili.

Caratteristiche letterarie, queste ultime, che – assieme ad altre indicazioni reperibili nel testo – fanno propendere per la

datazione del Cantico in età ellenistica.

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La parola e il corpo, il desiderio e la distanza

È la donna ad aprire il poema prendendo la parola, in modo estremamente audace, per dire il desiderio verso il suo uomo, un desiderio che la governa determinandone l’andare: «Tirami dietro di te, corriamo!» (1,4). Ma la parola, nell’atto stesso di essere pronunciata, si fa corpo, corpo sensuale, domandando la presenza di un altro corpo che risponda, parlando a sua volta: «Mi baci con i baci della sua bocca! Sì, migliori del vino le tue carezze!» (v. 2).

Il Cantico, dunque, si apre sotto il governo del desiderio dell’altro, della sua presenza. Conviene, su questo, fare alcune considerazioni, perché è proprio la tensione desiderativa a costituire una delle chiavi di comprensione decisive del nostro testo. La manifestazione del desiderio della donna di fare (nuovamente) esperienza dei baci del suo uomo è veicolata grammaticalmente, in ebraico, attraverso una forma verbale – l’imperfetto jussivo – che ha una modulazione volitiva o appunto, in termini meno filologicamente precisi, “desiderativa”: «(Che egli) mi baci…». Questa modulazione verbale implica una distanza in atto tra i due amanti, una lontananza, una mancanza che muove la ricerca, che esige un ancóra dell’ebrezza amorosa. Il desiderio erotico degli amanti (della donna in questo caso), fin dalle primissime parole del Cantico, si rivela come qualcosa di estremamente differente dalla consumazione di un oggetto di godimento, come un qualcosa che è tutt’altro rispetto alla tirannia del possesso dell’altro.

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L’intero poema, di fatto, presenta una dinamica

fondamentale per cui all’unione erotica, sessuale degli amanti segue sempre una separazione: «L’amore vive di questo movimento di diastole-sistole, tra vicinanza e

distanza».

Attraverso questa modalità letteraria il Cantico rivela la verità drammatica del rapporto amoroso, che si configura come l’entrata in relazione erotica con (il corpo del)l’altro senza pretendere di appropriarsi della sua alterità, senza lasciare spazio a qualsiasi idealismo di fusione dell’uno nell’altro, senza possibilità di superare la scabrosità della propria solitudine. Si veda in 5,6: «Il mio amato se n’era

andato, era scomparso. Io sono venuta meno per la sua scomparsa; l’ho cercato, ma non l’ho trovato; l’ho

chiamato, ma non mi ha risposto».

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I sensi e il nome

I primi versetti del Cantico (vv. 2-4), evocano la molteplicità dei sensi: il gusto, attraverso la menzione del vino; l’odorato,

attraverso la menzione degli olii profumati; il tatto, attraverso la menzione delle carezze (cfr. vv. 2-4; la traduzione del 2008 della Conferenza Episcopale Italiana rende il termine ebraico dod con «amore»; in realtà esso qui indica piuttosto le carezze, in senso fortemente erotico). La vista, poi, viene evocata

attraverso il riferimento alla pelle abbronzata della

protagonista, che, nonostante gli sguardi poco benevoli da parte delle «figlie di Gerusalemme» (vv. 5-6) non intacca il suo fascino («ho la pelle scura io, ma sono affascinante») e

soprattutto dal fatto che ci si rivolga a lei con l’appellativo di

«bella tra le donne» (v. 8). E, infine, l’udito, che implica la relazione amorosa come scambio di parole, esplicitamente richiamato attraverso l’impiego del verbo raccontare, al v. 7:

«Raccontami, amore della mia vita…».

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Attraverso l’evocazione dei cinque sensi, la donna afferma la dimensione totalizzante dell’esperienza amorosa di incontro con il corpo del suo partner.

Nel Cantico, infatti, i corpi dei due amanti non vengono mai desemantizzati o anatomicamente smembrati attraverso una fissazione feticistica, ma valorizzati per la loro capacità

evocativa, attraverso un sistema simbolico dalle molteplici modulazioni che introduce, appunto, ad una esperienza sensoriale totalizzante, che non usa (una parte anatomica del)l’altro come oggetto di godimento, ma desidera l’altro in quanto soggetto di relazione. In tal senso indirizza anche il

riferimento al nome dell’uomo amato: «Olio profumato che si spande è il tuo nome» (v. 3). È risaputo come nelle culture

antiche, compresa quella biblica, il nome proprio non sia tanto una convenzione linguistica funzionale all’indicazione di

qualcuno, quanto piuttosto un significante della sua intima essenza e della sua singolarità peculiare, anche questa dal carattere totalizzante.

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Non solo lei e lui

I vv. 5 e 6 fanno irrompere sulla scena della relazione amorosa dei due amanti dei personaggi terzi, indicati come «figlie di

Gerusalemme» (v. 5) e «figli di mia madre» (v. 6).

Le prime erano probabilmente già evocate in conclusione del v. 3 («… le ragazze ti amano») e del v. 4 («A ragione ti amano!») e

ritorneranno diverse volte nello scorrere del poema. Con esse la protagonista entrerà in dialogo, a volte considerandole o

volendole rendere partecipi della bellezza della sua relazione

d’amore (3,10.11; 5,8.16), altre volte riconoscendo invece una sorta di “antagonismo” da parte loro, espresso attraverso la ripetizione di questo ritornello: «Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme […]. Non svegliate, non scuotete da sonno l’amore finché non lo voglia» (2,7;

con piccole differenze 3,5; 8,4). L’amore – questo il senso dello scongiurare della protagonista – non deve e non può essere

disturbato, assoggettato a imposizioni che provengano da altrove che da se stesso.

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La medesima funzione “antagonista” – più violenta – è

associata ai «figli di mia madre» (cfr. anche 8,8-9), i quali, ligi ai doveri sociali del loro tempo, si preoccupano di proteggere l’“onore” della sorella. Ma lei ribadisce tenacemente la propria indipendenza: spetta a lei, non ai fratelli, non alla società,

decidere di ciò che le è più proprio come espressione della sua soggettività: «la mia vigna, quella mia», evidente metafora del corpo. Non si deve tuttavia ritenere che il categorico rifiuto di ingerenze esterne da parte della donna costituisca una sorta di pretesa di assoluta autonomia dell’amore, come se esso

potesse vivere ripiegato su se stesso, indipendente rispetto a qualsiasi debito simbolico con la legge. Piuttosto, il rifiuto

dell’ingerenza richiama la decisività della risposta personale alla legge dell’amore, alla responsabilità, mai delegabile, nei confronti del desiderio che l’evento amoroso, che l’incontro d’amore suscita quando accade.

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Non c’è sacro senza profano.

E viceversa

Un ultimo elemento di senso implicato nei primi otto versetti, che vogliamo mettere in luce – molti altri, naturalmente, potrebbero essere evidenziati – riguarda la “natura” dell’amore che nel Cantico diventa discorso, parole e corpo – corpo di parole. L’esperienza dei due protagonisti del Cantico è,

«amore sacro» o «amor profano»? La questione ha segnato la storia della ricezione del nostro testo: tanto in ambito ebraico quanto in ambito

cristiano, per molto tempo il Cantico è stato letto attraverso il filtro dell’allegoria; una attestazione dell’amore erotico tra un uomo e una donna era ritenuta indegna del Testo sacro, per cui il poema veniva

considerato come trasposizione della relazione amorosa tra Yhwh e Israele, tra Cristo e la Chiesa. In anni più recenti si è fortunatamente tornati a

considerare i due amanti del Cantico per ciò che sono: un uomo e una

donna che fanno esperienza d’amore. Con un rischio, tutt’altro che assente nel panorama esegetico: l’esasperazione feticista di coloro che si spingono fino a vere e proprie interpretazioni “pornografiche” del Cantico. All’origine di queste due ermeneutiche – l’una opposta all’altra – è paradossalmente riconoscibile la medesima scissione di fondo: il considerare, nell’esperienza del vivente umano, che il sacro e il profano siano due ambiti non

intersecabili.

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Ma il Cantico colma l’aporia. Al v. 4 la donna parla di sé e del suo uomo come di una coppia regale – a indicare la nobile dignità dell’esperienza amorosa – che entra nelle stanze dove i loro corpi si guarderanno e si toccheranno (cfr. il riferimento alle

«carezze» alla fine del versetto). Riferendosi a quel momento la donna usa due verbi («gioire» e «fare festa») frequentemente impiegati in contesto liturgico (per esempio in Is 9,2; 25,9; Sal 32,11; 118,24 ecc.) e un ulteriore verbo («ricordare») tipico del

vocabolario dell’alleanza tra Yhwh e il suo popolo (per esempio Dt 5,15; 8,2.18 ecc.).

Non si tratta di una sorta di sacralizzazione estrinseca di una realtà profana; al contrario, attraverso questa oculata selezione lessicale, il Cantico afferma che il carattere sacro è intrinseco all’amore umano fatto di desiderio appassionato.

Possiamo allora concludere con le parole di Dietrich Bonhoeffer:

È però il pericolo di ogni profondo amore erotico che per esso si perda, vorrei dire, la polifonia della vita. Intendo questo: Dio e la sua eternità vogliono essere amati con tutto il cuore; non in modo che ne risulti compromesso o indebolito l’amore terreno, ma in certo senso come cantus firmus, rispetto al quale le altre voci della vita suonano come contrappunto. Uno di questi temi contrappuntistici, che hanno la loro piena autonomia, e che sono tuttavia relazionati al cantus firmus, è l’amore terreno. Anche nella Bibbia c’è infatti il Cantico dei cantici, e non si può veramente pensare amore più caldo, sensuale, ardente, di quello di cui esso parla (cfr. 7,6!); è davvero un bene che faccia parte della Bibbia, come contrasto per tutti coloro per i quali lo specifico cristiano consisterebbe nella

moderazione delle passioni (dove esiste mai una tale moderazione nell’Antico

Testamento?). Dove il cantus firmus è chiaro e distinto, il contrappunto può dispiegarsi con il massimo vigore. (D. Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e altri scritti dal carcere, Queriniana, Brescia 2002, 411).

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