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La parabola del Padre misericordioso. Teologia Sacra Scrittura

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Academic year: 2022

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La parabola del Padre misericordioso

Teologia – Sacra Scrittura

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In Lc 15 incontriamo tre parabole molto famose:

• la pecorella smarrita,

• la dracma perduta,

• il figlio perduto e ritrovato.

Un’adeguata comprensione necessita che tutte e tre siano studiate. Con la premessa di una riflessione sul significato delle parabole, al di là di alcuni luoghi comuni.

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Le parabole sono state spesso paragonate a una «roccia» alla quale può essere ancorata la tradizione storica su Gesù. Esse presentano un tratto del tutto originale della sua predicazione, soprattutto in discontinuità con l’ebraismo del tempo (le parabole presenti negli scritti rabbinici sono tutte posteriori ai Vangeli e inoltre sono spesso a commento di un testo biblico) e con la comunità cristiana primitiva (Paolo non fa uso di parabole, né i primi scritti cristiani). La ricerca ha messo sempre più in luce come il carattere dialogico delle parabole evangeliche abbia una connotazione di interpellazione cioè tenda a coinvolgere l’interlocutore non solo in un convincimento di carattere intellettuale, ma nel dono di uno sguardo diverso sulla realtà di Dio e dell’uomo. La parabola non è dunque un gioco estetico-letterario, essa ha una capacità performativa, cioè una capacità di lavorare all’interno del dialogo che

scaturisce tra il narratore (Gesù, ma anche il testo evangelico, con i suoi susseguenti adattamenti ad opera della prima comunità credente) e il destinatario (gli interlocutori di Gesù, ma anche i primi cristiani e via via fino al lettore attuale). In questo dialogo può accadere una trasformazione che permette all’interlocutore di accedere a un di più che lo interpella e lo trasforma.

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La parola latina «parabola» proviene dal verbo greco parabàlloˉ, che significa

«mettere a confronto». Nel linguaggio classico questa parola indicava propriamente la comparazione per mezzo della quale si chiarisce un argomento difficile avvicinandolo a uno più chiaro. Nel Nuovo Testamento la parabola è una narrazione esemplificativa ma verosimile, che tende a mettere insieme in un confronto, la vita e la dimensione

«nascosta» del regno. Dunque la parabola punta proprio sul confronto, cioè su ciò che c’è di simile, mettendo anche in evidenza ciò che manca. Proprio in questo la parabola si differenzia dall’allegoria (dal greco: «dico altro, invece di…»), la quale intende

rimandare ad altra cosa da ciò che esprimono le sue parole o i suoi segni. In tal senso si vede come l’allegoria sia più «pensata a tavolino», dove i contorni della metafora tra le due realtà devono rigorosamente combaciare, mentre la parabola rimane una

narrazione aperta e suscettibile di approfondimenti.

Spesso l’allegoria fu utilizzata per interpretare le parabole. Questo è pensabile all’interno di una sistema dove si tende a spiegare una realtà «terza», ad esempio il dogma

cristiano, per cui ogni elemento del racconto funge da rimando a un elemento della

dottrina: veste, anello e calzari con cui il padre riveste il figlio potrebbero rimandare ai tre sacramenti dell’iniziazione cristiana. Tuttavia si comprende che questo procedimento, magari valido sotto il profilo didattico, non esaurisce il dinamismo dei testi parabolici che sono aperti al mistero di Dio da contemplare, e come tali rimangono.

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(Lc 15,1-10)

1 Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2 I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 3Ed egli disse loro questa parabola: 4 «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? 5 Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, 6 va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. 7 Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione. 8 Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? 9 E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice:

“Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. 10 Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte»

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Il contesto, in cui Luca inserisce la parabola della pecora e quella della dracma, è molto importante. Ci sono due categorie ben distinte di

personaggi: i pubblicani e i peccatori si accostano a Gesù per ascoltarlo; i farisei e gli scribi mormorano, mugugnano. È partendo dalla loro accusa che Gesù narra queste due parabole, costruite in modo molto simile.

L’accusa degli avversari è molto precisa: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». La parabola della pecora in Luca è più sviluppata sia

rispetto al parallelo di Matteo (cf. Mt 18,1-14), sia rispetto a quella seguente della dracma. L’accento diverso sta nel fatto che il ritrovamento della

pecora è descritto in modo articolato. Il pastore è proprio intenzionato a trovarla: egli «va in cerca di quella perduta, finché non la trova». Il verbo

«trovare» ricorre tre volte.

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Poi, a ritrovamento avvenuto, «pieno di gioia se la carica sulle spalle ». Il fatto che il pastore si metta in spalla una pecora è del tutto normale (una pecora impaurita e spersa fa davvero... la pecora! È molto difficile che si rialzi da sola). Però dobbiamo distinguere il tutto dalle immagini tipiche del

«buon pastore» (esse fanno riferimento a Ezechia e al Vangelo di Giovanni e si tratta di agnellini):

• una pecora in spalla ha un certo peso;

• non è un agnellino;

• si tratta di un animale ferito, sporco, sicuramente irrequieto.

Il pastore se la mette in spalla alla lettera «con grande gioia» e va a casa,

con gli amici, a far festa. L’azione posta al centro della parabola lucana è

questa gioia del pastore che cerca e recuperala pecora. Questa gioia

della ricerca andata a buon segno, questa gioia grande è la gioia di Dio

di poter perdonare l’uomo, ogni uomo singolarmente.

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Ora possiamo dare uno sguardo alla parabola della dracma. In alcuni particolari, essa è ben distinta dalla precedente. Entriamo dentro la casa, una casa normale, nella Palestina di quel tempo. Non ci sono finestre;

dunque c’è una fioca luce che entra dalla porta. Per questo la donna deve accendere la lucerna e poi spazzare il pavimento, che è in pietra. Solo allora la moneta, rimossa con la scopa, può tintinnare e rivelarsi. La donna la

ritrova e chiama le amiche a far festa. Il verbo «trovare» ricorre anche qui

per tre volte. Rende ragione di quanta fatica faccia la donna nel ricercare

questo bene, che per quanto importante, non è mai paragonabile alla perdita

di una pecora. In questo racconto è tutto normale, persino il desiderio, con

tocco femminile, di con-partecipare la gioia alle amiche e vicine (la donna

dice letteralmente con-gioite con me).

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La gioia di ritrovare e ridare vita

Lc 15,11-32 mostra l’incontro di due libertà. L’uomo è libero di andarsene, di perdersi. Dio è libero di farlo ritornare,

corrergli incontro, riabbracciarlo. È un vero e proprio capolavoro. La dinamica della narrazione è scandita da quattro quadri che si susseguono:

• La partenza del figlio,

• la sua caduta in disgrazia per l’atteggiamento dissoluto,

• il ritorno al padre,

• il figlio maggiore.

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11 Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12 Il più giovane dei due disse al padre:

“Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13 Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto» (Lc 15,11-13).

Il testo della parabola è molto intenso. Il lettore viene coinvolto in questa vicenda, attraverso delle frasi brevi, delle scene rapide ed efficaci. Un padre, due figli: una

famiglia ricca. La richiesta del più piccolo di dividere il patrimonio, la partenza, la ricerca di fortuna, di realizzazione. Si vuol fare un’esistenza diversa, avranno pensato gli

ascoltatori di Gesù. Fin qui nulla di male, nulla di scandaloso, almeno a un giudizio superficiale. È normale dunque che quel figlio se ne vada, come del resto è normale la sua richiesta: essa infatti in greco suona con una lieve sfumatura di preghiera, è una richiesta cortese e garbata: «Padre…». Colpisce invece il silenzio del padre. Egli lascia fare. Divide le sostanze e lascia che il figlio parta. Non una protesta, non l’appello

all’obbedienza, neppure un blando rimprovero. Il silenzio del padre mette in rilievo il

pieno rispetto della libertà del figlio. Sarebbe stato del tutto naturale che il padre si fosse opposto ai suoi progetti. Invece il figlio è libero, libero di andarsene, con le sue sostanze, in pace con tutti: con gli uomini e con la legge di Dio! A dir la verità, c’è un altro silenzio che colpisce, quello del fratello maggiore, neppure lui impedisce la partenza: forse era contento di rimanere l’unico, l’erede per eccellenza. Questa prima scena della parabola deve essere letta nella sua sobrietà. Libero è il figlio di andare, di farsi la sua esistenza.

Liberale è il padre nel concedere questo, prontamente. Confrontando questa parte della parabola con le altre due notiamo che qui invece abbiamo due volontà, il figlio che vuol partire, il padre che glielo permette senza battere ciglio. Nessuno finora si è perso.

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14 Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15 Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci.

16 Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla (Lc 15,14-16).

Il resto del racconto svela però le reali intenzioni del figlio: una vita di

trasgressione, lontana dalla casa paterna. Questo aspetto deve aver fatto sobbalzare gli uditori di Gesù: immediatamente il figlio viene ad

assomigliare a quei pubblicani e peccatori che si avvicinavano a Gesù e

di cui brontolavano scribi e farisei.

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17 Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in

abbondanza e io qui muoio di fame! 18 Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò:

Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19 non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». 20 Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli

corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Il figlio gli disse: «Padre, ho

peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio».

22 Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. 23 Prendete il vitello

grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24 perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa (Lc 15,17-24).

Questa terza parte della parabola comincia con un verbo importante: ritornato in sé, o letteralmente «venuto in sé». Il figlio se ne era andato via, ora viene, ritorna.

E con questa azione, inizia una sequenza di verbi che descrivono una situazione in rapida evoluzione: mi alzerò - andrò - si alzò - tornò. Era una situazione statica, fissa, senza più speranza o movimento, una noia profonda e pesante. Mancava qualcosa. Il cibo? Non propriamente, mancava il cibo del padre! Dal momento in cui il figlio «viene in sé», riacquista la sua libertà, la sua capacità di decidere, di tornare, perché riconquista il senso della sua esperienza di figlio, l’esperienza che fonda la sua vita. Riscopre suo padre come colui che può saziare la sua fame, la sua vita.

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«Padre…». E così si ritrova già in cammino, verso la casa. Ma non è più capace di pensarsi figlio. S’immagina come garzone, servo, peccatore. Nella sua identità

depressiva si pensa come trasparente, invisibile a sé e agli altri. Non osa più dirsi figlio.

La verità è che la libertà del figlio gli fa paura, è troppo grande, e gli ha già fatto male una volta. Si può sbagliare ancora. Meglio la libertà vigilata: fa meno male. Eppure anche questo, nella parabola, non è eccezionale!

Quanto segue però ha dell’incredibile. Qui abbiamo lo scarto, l’elemento dirompente della parabola. Da lontano, il padre l’attendeva (quanto tempo era passato? Da dove veniva? Come lo riconosceva? Da dove guardava?). Corre, l’abbraccia, lo bacia. Se il padre abbraccia il figlio, impedisce che questi si getti in ginocchio. Se lo bacia sulla guancia, lo tratta come un suo pari, non da schiavo (che bacia i piedi) né da suddito (che bacia la mano). Il padre riconosce al figlio tutta la libertà e la dignità di un tempo, lo rigenera, lo riveste. Il padre, qui, è padre una seconda volta, dà la vita a chi era morto.

Ritrova chi era perduto. Ed è bellissimo ascoltare il figlio che balbetta le sue scuse mentre il padre lo riveste dell’abito splendido, gli dà l’anello, le scarpe, mentre gli fa festa. «Padre…».

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25 Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26 chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27 Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». 28 Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29 Ma egli rispose a suo padre:

«Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30 Ma ora che è

tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso». 31 Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32 ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato»

(Lc 15,25-32).

La lettura della parabola ci ha permesso di entrare nel suo

dinamismo, cercando di non cadere in facili moralismi e senza

lasciarci distrarre dal fatto che già sapevamo come andava a finire.

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Entriamo più in profondità nella riflessione ponendo a confronto l’agire del figlio minore con quello del figlio maggiore. «Padre…». Abbiamo trovato questa invocazione tre volte sulle labbra del figlio, ed è quell’invocazione che permette al figlio di riconoscersi nella sua libertà. Dire Padre significa implicitamente riconoscersi come figlio. Lo si voglia o no, ci si pone in un rapporto di dipendenza, ma è una dipendenza di amore. Notiamo che il figlio maggiore non pronuncia mai questa parola quando discute con il padre: «Ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando». Così dice il maggiore al padre! È un dato di fatto. Invece di riconoscerlo come l’origine della sua vita, lo

riconosce come il suo datore di lavoro. «Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute…». Neppure è capace di riconoscere il minore come un fratello, non se ne cura, per lui era morto e rimane come tale. Sembra di sentir riecheggiare il dramma di Caino e Abele (Gen 4). E di fronte a questa durezza il Padre non può dare altra giustificazione che quella data ai servi, con una nota in più:

«Bisognava far festa…». La necessità della festa sta nella novità inaudita del Vangelo che annuncia un Dio che perdona, risana, guarisce, salva, dona il suo Figlio per la salvezza del mondo.

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Nella misericordia di Gesù verso i sofferenti e i lontani traspare la stessa misericordia di Dio. È quanto insegnano le tre meravigliose parabole del c. 15 del Vangelo.

L’introduzione dell’evangelista è eloquente:

Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano, dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”.

Allora Gesù disse loro questa parabola…

Con la prima parabola (15,3-7: la pecora smarrita e ritrovata) e con la seconda (15,8-10: la moneta perduta e ritrovata) Gesù mette in risalto il valore che ogni essere umano conserva agli occhi di Dio, anche quando si è allontanato da lui, e – di conseguenza – la gioia di Dio quando il peccatore si converte e si lascia salvare. La terza parabola (15,11-32) rivela pienamente il vero volto di Dio, padre misericordioso, che riabbraccia con affetto immutato il figlio che ritorna a lui pentito.

Attraverso le varie fasi della vicenda il padre conserva il medesimo atteggiamento: un amore generoso, paziente, longanime, che non si lascia vincere né dall’ingratitudine del figlio minore, né dalla gelosia del fratello maggiore.

Quando il primo pretende la sua parte di eredità, non gli oppone resistenza, ma asseconda la sua decisione. Quando è ancora lontano, lo attende, lo vede per primo, gli corre incontro, lo abbraccia e lo bacia. Non appena accenna pronuncia qualche parola di pentimento – in realtà si è pentito non per aver offeso il padre, ma perché ridotto alla miseria – non lo rimprovera, ma gli fa festa. L’unico rimprovero è per il figlio maggiore, che si stupisce per tanta generosità. La conclusione è un invito alla festa, «perché questo mio figlio era morto, ma è ritornato in vita, era perduto ed è stato

ritrovato».

Con la parabola del padre misericordioso Gesù giustifica il proprio comportamento. Ciò equivale a dire che nel suo modo di comportarsi con i peccatori e i lontani, egli manifesta l’amore del Padre celeste. In realtà, allorché dice al paralitico: «Ti sono perdonati i tuoi peccati» (5,20), e alla

peccatrice: «I tuoi peccati sono perdonati» (7,49), Gesù parla a nome di Dio: i presenti lo capiscono perfettamente!

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