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Le prime generazioni dei medici del lavoro in Italia

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Le prime generazioni dei medici del lavoro in Italia

Gli antefatti

Al fenomeno Bernardino Ramazzini (1633-1714), con il suo De Morbis artificum diatriba del 1700-1713, in Italia sulla medicina del lavoro segue un lungo silenzio più che in altri Paesi europei. Scriveva nel 1914 il medico e politico Michele Pietravalle (1858-1923):

«Sì, è ben vero: Bernardo Ramazzini è nato due secoli fa in Italia, e nella lingua dei nostri antenati ha scritto il primo libro di patologia del lavoro, il De morbis artificum diatriba;

come è anche duramente vero che i primi e vitali semi del suo insegnamento si sono bensì moltiplicati e hanno fruttificato generosamente sul suolo anglosassone, ma giacciono ancora in vita latente ed infeconda fra i solchi della saturnia terra».

(Pietravalle, p. 274)

Se si esclude la prima non eccellente traduzione italiana del De Morbis del 1745 a opera dell’abate Chiari da Pisa (1668-1750), in Italia nel Settecento mancano riproposizioni e prove di superamento dell’opera ramazziniana rispettose dei “tempi moderni”; è dunque necessario affacciarsi alla prima metà del secolo successivo. Da ricordare è Giacomo Barzellotti (1768- 1839), autore di un vero e proprio manifesto per la prevenzione della povertà, nel quale prospetta la piena occupazione dei poveri nelle campagne e nei lavori artigianali e, con l’occasione, rivisita la nocività in trasformazione di alcuni mestieri tradizionali: ipotizza l’introduzione di soluzioni di carattere organizzativo e, nei confronti dei materiali di lavoro, auspica un controllo della Magistratura (Barzellotti, 1839). Andrea Bianchi (1811-1841), nella sua breve e operosa esistenza, si propone come traghettatore della cultura preventiva maturata in altri Paesi europei e specialmente in Francia, riconosce il debito preventivo contratto dai “padroni” nei confronti dei propri lavoratori e il ruolo di garanzia che deve essere tenuto dagli Stati e si appresta a compilare una trattazione moderna Sulle malattie conseguenti all’esercizio delle varie professioni e sulla relativa igiene, della quale ci rimane soltanto il progetto, e un’interessante Classificazione delle varie professioni, a fine di studiarle sotto il profilo medico (Bianchi, 1839).

Nei successivi decenni dell’Ottocento, prima e dopo l’Unità d’Italia, l’interesse degli Stati per le manifestamente insopportabili condizioni dei lavoratori appare quasi del tutto assente, pur considerando che sono state avviate grandi opere infrastrutturali, che più intenso è lo sfruttamento di cave e miniere, che l’industria tessile è in fase espansiva

Ediziona padovana, 1713

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Epidemiologia&Prevenzione n. 5; settembre-ottobre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 2  

e che compaiono le prime industrie metallurgiche e chimiche. A testimoniare questa situazione ci sono le voci accorate – ma anche isolate e non coordinate – di economisti,

“sociologi” e medici risorgimentali, di professori e laureandi delle Università del lombardo-veneto, di medici condotti, di pochi igienisti e di qualche ingegnere

“sanitario” che, trattando delle “industrie insalubri”, compiono incursioni all’interno dei luoghi di lavoro proponendo considerazioni piuttosto teoriche di “igiene del lavoro”.

Tra i contributi di carattere sociale e sanitario insieme devono essere ricordati quelli sulla trattura della seta di Lorenzo Valerio (1810-1865) e di Giovanni Melchiori (1811-1880); sul lavoro minorile quelli del conte Ilarione Petitti di Roreto (1790-1850) e di Cesare Correnti (1815-1888), sui lavoratori dell’ardesia quelli di Giovanni Antonio Mongiardini (1760-1841), sui lavoratori dei tabacchi quelli di Secondo Berruti (1796-1879), sui lavoratori delle cartiere e della porcellana quelli di Giuseppe Sacchi (1804-1891).

Negli ultimi anni del secolo e nei primi del successivo, lo scenario, consensualmente con l’apparizione delle prime organizzazioni di massa dei lavoratori, appare notevolmente mutato e prendono le mosse iniziative statali, ma anche organizzazioni nate dagli industriali, in gran parte interessate o “dovute”. Uno stimolo deve essere derivato dalla promulgazione, nel 1891, dall’enciclica Rerum novarum di papa Leone XIII (1813-1903). L’assicurazione obbligatoria degli infortuni dell’industria varata nel 1898 sostanzialmente deresponsabilizza in sede civile e anche penale i datori di lavoro e li obbliga a organizzare nelle aziende più grandi il pronto soccorso, costringendoli a reclutare medici e infermieri. I primi – ma molto deboli e inefficaci – tentativi di istituire un’ispezione del lavoro sono del 1879 e del 1886, in relazione alla legge del lavoro dei fanciulli; del 1893 è, invece, la legge che riordina il Corpo degli Ispettori e Ingegneri di miniere, cave e torbiere. Una più chiara funzione di ispezione del lavoro sarà annunciata in seguito a un accordo bilaterale con la Francia nel 1904, poi attuata con sparute risorse nel 1912. Presso il Ministero di agricoltura, industria e commercio, viene costituito l’Ufficio del lavoro e l’Ufficio del Consiglio superiore del lavoro, dove per alcuni anni opera proficuamente Giovanni Montemartini (1867-1913). È da riconoscere che alcuni industriali milanesi capitanati da Ernesto De Angelis (1848- 1907), aderendo ad iniziative analoghe di altri Paesi europei, costituiscono nel 1894 un’Associazione degli industriali d’Italia per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, arruolando ingegneri che diventeranno preventori “competenti” specialmente in alcuni settori come quello tessile; tra questi, si distinguono Luigi Pontiggia e Francesco Massarelli. Nel 1900, viene fondata la sezione italiana dell’Association internationale pour la protection légale des travailleurs, che nel 1919 si sarebbe sviluppata nell’Organizzazione internazionale del lavoro: a questa impresa, per il governo italiano, si dedicano personaggi come Luigi Luzzatti (1841-1927), Giuseppe Toniolo (1845- 1918), Paolo Boselli (1838-1932). L’associazione, coadiuvata da tecnici riconosciuti, emana documenti e raccomandazioni basilari per la prevenzione nei luoghi di lavoro, sul fosforo, sul lavoro notturno, sul piombo (Baldasseroni, Carnevale, 2015, pp. 275- 431).

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La prima generazione

Si può argomentare che, come era successo qualche decennio prima in altri Paesi, le iniziative italiane avviate tra Otto e Novecento mirano, certo gradualmente e non in maniera impetuosa, alla prevenzione, al miglioramento delle macchine, all’attenzione sui materiali impiegati, sull’ambiente e sulle condizioni di lavoro, quelli capaci di produrre o favorire gli infortuni e i danni alla salute dei lavoratori. Gli strumenti sono quelli considerati più adeguati: la legislazione e l’intervento dello Stato, la responsabilizzazione dei datori di lavoro, la verifica dell’applicazione delle norme, la ricerca sull’impiantistica con la verifica dei risultati delle modifiche adottate, l’igiene del lavoro tecnicamente supportata; non più i consigli medici, come ultima spiaggia, fondati sull’autotutela degli operai elargitici generosamente da Cesare Lombroso (1835- 1909) e da Paolo Mantegazza (1831-1910) nei loro “libricini popolari”.

A fronte di questa tendenza, in maniera indipendente da essa e quasi capace di oscurarla, nasce e si afferma presto in Italia, di più che in altri Paesi, un movimento di medici che privilegia la denuncia, il dibattito e, quindi, la ricerca e l’approfondimento sulle “malattie professionali” e sul loro riconoscimento assicurativo, in primo luogo di quelle ormai classiche ma più evidenti a causa della tumultuosa e anarchica industrializzazione: da metalli come fosforo, piombo e mercurio; da polveri con più o meno contenuto di silice libera; da solventi come il solfuro di carbonio, che effettivamente dominano in molti cicli lavorativi e che, per i loro effetti, colpiscono maggiormente la pubblica opinione. Il movimento è accolto con entusiasmo dai lavoratori e dalle loro organizzazioni, anche perché tutti i protagonisti risultano

“organici” a essi, di loro fiducia e contigui ai primi amministratori pubblici espressi dai partiti popolari.

Cesare Lombroso (1835-1909) Paolo Mantegazza (1831-1910)

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Epidemiologia&Prevenzione n. 5; settembre-ottobre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 4!

I padri nobili del movimento, gli ispiratori, sono medici famosi: Guido Baccelli (1830- 1916) a Roma, Edoardo Maragliano (1849-1940) a Genova e Pietro Grocco (1856- 1916) a Firenze, che, a margine di impegni clinici, ministeriali e archeologici, di imprenditorialità nel campo sanitario e non, incitano, ascoltati, allievi e opinione pubblica con temi di medicina politica, di medicina civile e medicina sociale. Il terreno è quasi vergine, considerando che il primo trattato in lingua italiana riguardante le malattie professionali è tedesco (Erismann e collaboratori, 1892, tradotto da un medico, V. Crapols, per una casa editrice di Napoli), mentre il primo manuale italiano, quasi un instant book, viene pubblicato dal giovane Guido Y. Giglioli (1875-1939) nel 1902, stimolato dalle lezioni di Grocco svolte all’Università popolare di Firenze (Carnevale, 2015).

A dominare da subito il campo, incontrastato, è Luigi Devoto (1864-1936), assistente e poi aiuto di Edoardo Maragliano, che da Genova passa all’Università di Pavia come straordinario di Patologia medica nel 1899. Nell’anno accademico 1901-1902, tiene un primo corso ufficiale di Clinica delle malattie professionali; nel 1901 inaugura la rivista Il lavoro, attiva ancora oggi con il nome La Medicina del lavoro. Si dedica inizialmente alle patologie legate al lavoro rurale, alla pellagra, con ricerche e interventi direttamente sul campo che fanno clamore e ai quali aderiscono studenti entusiasti e giovani medici.

Devoto guarda a Milano e al suo contesto industriale e per questo si adopera febbrilmente usando gli ambienti culturali e politici progressisti e socialisti che in quel momento contano. Sostenuto da Malachia De Cristoforis (1832-1915), influente ostetrico, ex garibaldino e massone, organizza nel 1906 il primo “Congresso internazionale per le malattie del lavoro” dando vita in questa stessa occasione a una Commissione internazionale permanente per lo studio delle malattie professionali, primo nucleo di quella che attualmente è l’International Commission on Occupational Health (ICOH). Viene contrastato inutilmente dall’ala più radicale dei medici socialisti

Guido Baccelli

(1830-1916) Edoardo Maragliano (1849-1940)

Pietro Grocco (1856-1916)

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milanesi che indicano come prioritaria la costituzione di un ispettorato del lavoro funzionante, ma raggiunge il suo obbiettivo ottenendo di trasferire la sua cattedra pavese a quella di Clinica delle malattie professionali degli Istituti clinici di perfezionamento di Milano nel 1908 per dirigere a lungo, sino al 1935, la Clinica del lavoro, inaugurata ufficialmente nel 1910.

La missione che Devoto persegue è di promuovere una “scienza pacificatrice” e facilitare una sorta di mecenatismo aggiornato, cioè la collaborazione tra le diverse forze economiche e sociali e con ciò, anche se gradualmente, correggere alcuni degli effetti più vistosi e insostenibili del lavoro industriale. Lo strumento adottato, nonostante il suo aforisma «Malato è il lavoro», nella sostanza risiede nella clinicizzazione della prevenzione nei luoghi di lavoro, una vera medicalizzazione anche di ricerca e di buona qualità, operata in primo luogo tramite la denuncia delle malattie, tendenza contrastante con quella più tecnica e di igiene industriale invalsa qualche decennio prima in Inghilterra e in Germania e, alcuni anni dopo, negli Stati Uniti d’America. In questo senso, Devoto ha anticipato l’ideologia dei rapporti di lavoro invalsi nell’Italia fascista dove egli ha vissuto e operato tranquillamente sostenendola; è lo stesso maestro che ha tramandato il significato “ramazziniano-carducciano” della medicina del lavoro italiano:

Sopra: Luigi Devoto (1864-1936) A destra: Prima pagina del n. 1

della rivista “Il lavoro”

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Epidemiologia&Prevenzione n. 5; settembre-ottobre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 6!

«È stato detto da un egregio congressista che noi qualche volta usciamo dal nostro recinto per invadere l’altrui campo. No; noi siamo medici e vogliamo restare tali, perché la medicina del lavoro non è, non vuol essere, né il diritto, né la economia, né la filosofia, né la tecnica, né la storia del lavoro e restiamo nel nostro campo anche quando muoviamo dalla previdenza e dalla prevenzione per attenuare la patologia professionale tipica e meno tipica». (Devoto, 1932, p. 152)

Il medico del lavoro Devoto ha svolto sempre proficuamente un’attività privata nel campo della clinica generale e dell’idrologia medica con consulenze delle aziende

“dove si passano le acque”. Devoto si è adoperato all’inizio per la carriera prestigiosa e meritevole di suo figlio Giacomo (1897-1974), massimo glottologo e linguista; i rapporti col mondo industriale e borghese lombardo debbono aver influito sui partiti dei coniugi della figlia Speranza (1899-1973), in seguito grande sostenitrice del movimento cattolico dei Focolarini, che sposa Luigi Folonari esponente della famiglia di viticoltori bresciani imparentata con Papa Paolo V, e del figlio più giovane Giovanni (1903-1944), che sposa Giulia Falck, il quale, dopo una rapida carriera universitaria al politecnico poi abbandonata – anche a causa di un’affezione tubercolare che lo porterà precocemente a morte – diventa dirigente di acciaierie del gruppo Falck prima a Bolzano e poi a Sesto San Giovanni e da antifascista collabora alla lotta di liberazione.

L’abitazione dei Devoto in via della Guastalla viene distrutta nel bombardamento su Milano del 24 ottobre 1942, e così è andato perduto il prezioso archivio personale del medico. Tutti gli allievi della Clinica del lavoro di Milano, faro ma anche prerogativa esclusiva italiana – a eccezione di uno, Giuseppe Aiello (1897- 1954) del quale si parlerà in seguito – disertano la medicina del lavoro per seguire brillanti carriere nell’ambito della clinica, così è per Maurizio Ascoli (1876-1957), Domenico Cesa-Bianchi (1879-1956), Luigi Preti (1881-1941), Guido Izar (1883-1967), Felice Perussia (1885-1959), Mario Aresu (1892- 1963). Escluso da questi successi è Luigi Carozzi (1875-1963), definito il braccio sinistro di Devoto, attivo nei primi anni eroici principalmente nel condurre, spesso in collaborazione con la Società

Umanitaria, importanti inchieste tra i lavoratori milanesi per documentarne le condizioni di salute e di lavoro. Nel 1912, Carozzi partecipa al concorso a cattedra di Medicina sociale bandito dagli Istituti Clinici di perfezionamento, ma, come gli altri candidati Gaetano Pieraccini (1864-1957) e Edoardo Bonardi (1860-1919), viene giudicato non idoneo. Carozzi, che pare sia stato sempre devoto al maestro, fa la sua carriera fuori dall’accademia, prima all’Ispettorato medico del lavoro e poi all’Organizzazione internazionale del lavoro; solo in tarda età gli verrà offerta una cattedra di medicina del lavoro a Ginevra. Chi mostra maggiore affinità culturali e professionali e di carattere con Carozzi è il sardo Giovanni Loriga (1861-1950), medico

Luigi Carozzi (1875-1963)

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di sanità pubblica, che soleva dire di avere «in uggia tutte le forme e le manifestazioni di piaggeria»; questi deve essere considerato il pioniere dell’igiene industriale in Italia, nonostante abbia avuto pochi allievi e per molti decenni quasi nessun seguito. Egli organizza l’Ispettorato Medico del Lavoro, che poi dirigerà a lungo, ispirerà le prime norme italiane sull’igiene del lavoro e collaborerà in più occasioni con Carozzi. Una certa affinità con Carozzi può essere rintracciata in Aristide Ranelletti (1873-1945), che a Roma opera proficuamente, per circa un quarantennio, nel campo della medicina del lavoro distinguendosi quale ispettore medico del lavoro presso l’Ufficio sanitario del comune, ma anche con qualche collegamento con l’Università e nel Policlinico del lavoro costituito dall’Associazione Nazionale Prevenzione Infortuni (ANPI poi ENPI), nata da una costola delle associazioni degli industriali milanesi e poi estesasi a livello nazionale; svolge pregevoli inchieste di tipo medico-sociale sulle condizioni di vita e di lavoro sull’industria tipografica, sull’impiego della biacca, sul lavoro dei fornai, sul lavoro a domicilio, sul lavoro dei tranvieri, sulla morbilità e mortalità delle classi lavoratrici, sulle industrie polverose.

Gaetano Pieraccini, fiorentino e socialista “riformista” militante, ha pensato per poco che il posto di direttore della Clinica del Lavoro di Milano potesse essere suo; ciò risulta dalla risposta a una sua lettera inviata nel 1906, per sondare il terreno, ad Angelo Filippetti (1866-1936), medico, socialista massimalista e politico milanese il quale scrive:

«[…] Gli Istituti clinici di perfezionamento, fatica particolare del sen. Prof. Mangiagalli (a titolo di lode) sono ormai un fatto compiuto e consolidato […], la Clinica del Lavoro la quale, infelice cenerentola non ha ancora l’ubi consistam, l’area. […] Tutto fa dunque credere che almeno fino al 1908 o 1909 non si aprirà il concorso del Direttore: impossibile quindi – Lei vede bene – profetare a tanta distanza né su chi saranno i concorrenti e chi i Commissari. Certo già da tempo si sa che il Devoto vi tiene gli occhi addosso e va facendo in ogni modo opera di accaparramento di simpatie, di voti, di aderenze: si diceva anzi che il Mangiagalli lo avrebbe vigorosamente appoggiato. Ma il ritardo può allentare e sciogliere vincoli: e il Devoto ha anche avversari potenti […]».

Nel 1903, Pieraccini, già medico primario dell’Ospedale di Santa Maria Nuova, ottiene che il suo servizio medico accogliesse «[…] tutto quel materiale clinico che si presentasse all’ospedale avendo contenuto morboso etiologicamente riferibile al lavoro». Sono i dati così raccolti in poco tempo e tanti altri osservati sul campo, nei luoghi di lavoro, che mettono nelle condizioni l’autore di redigere, nel 1906, con il

Gaetano Pieraccini (1864-1957)

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Epidemiologia&Prevenzione n. 5; settembre-ottobre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 8!

Trattato di medicina del lavoro e terapia sociale una vera sistemazione organica di tutta la materia riguardante il rapporto tra malattie e lavoro. Il movimento per la salute dei lavoratori in Toscana raccoglie un certo numero di proseliti – tra questi, in particolare l’attivissimo Guido Y. Giglioli – che praticano e scrivono su una rivista specializzata che si pubblica dal 1907 al 1917 a Firenze Il Ramazzini – Giornale Italiano di Medicina Sociale. Pieraccini è fautore di una soluzione legislativa, unitaria di tutte le istanze riformatrici emerse dall’esperienza del suo movimento di medicina sociale e politica.

Saranno gli squadristi e poi il fascismo a emarginare, perseguitare in ogni modo e costringere al silenzio chi si rifiutava di rinnegare la propria esperienza; alcuni medici abbandoneranno definitivamente la medicina del lavoro e, nel 1924, Gaetano Pieraccini verrà licenziato da Santa Maria Nuova e farà vita grama ma operosa in termini di studi compilativi e di laboratorio, nella sua abitazione, specie nel campo dell’ergologia, ma anche dell’eugenica. Nel 1932, il toscano vuole partecipare al concorso a cattedra di Medicina del lavoro bandito all’Università di Napoli, ma gli mancava un requisito necessario, l’iscrizione al partito fascista. Una cattedra di medicina del lavoro verrà assegnata a Pieraccini, primo sindaco di Firenze dopo la Liberazione, ma simbolicamente, a riparazione dei torti subiti.

A Napoli è Luigi Ferrannini (1874-1951) all’origine della lunga e proficua storia della medicina del lavoro. Gli inizi sono contrastati: nel 1906 ottiene, per primo in Italia, l’incarico dell’insegnamento per le “Malattie mediche professionali” presso la Clinica Medica di Gaetano Rummo (1853-1917); denominazione che esaudisce la gelosia di chirurghi e medici legali.

Dopo una sospensione di alcuni anni, l’incarico viene assegnato con il titolo di “Malattie professionali ed infortuni di spettanza medica”, quindi di “Malattie del lavoro”, per riprendere dal 1918 la denomianzione originaria; è ospitato presso la Patologia medica di Pietro Castellino (1864- 1933). Nel 1926, Ferrannini che da sincero socialista diventa non sfavorevole al fascismo, vince un concorso a cattedra di Clinica medica e abbandona Napoli e anche la medicina del lavoro (ma solo da un punto di vista accademico), del quale rimane riconosciuto cultore. Dal 1927, l’incarico della cattedra delle “Malattie medico- professionali” – divenuta in seguito “Medicina del lavoro” – viene assunto da Nicolò Castellino

(1893-1953), figlio di Pietro.

Luigi Ferrarini (1874-1951)

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Padre Agostino Gemelli (Edoardo Gemelli, 1878-1959) deve essere considerato un (volontariamente) mancato

“maestro” della medicina del lavoro. Sentiamo la sua giustificazione rispetto alla forte sollecitazione dell’autorevole economista cattolico Giuseppe Toniolo di dedicarsi allo studio delle malattie del lavoro:

«[…] la proposta non mi piacque, ma non ardii dirgli di no.

[…] Non mi sentivo di accettare: abituato alla ricerca scientifica metodica, appassionato ad essa e desideroso di svolgere la mia attività in essa, temevo che lo studio delle malattie del lavoro non potesse portare un contributo reale alla soluzione della questione sociale. Intuivo, ma mi sfuggiva il perché, che vi è qualcosa d’altro nel lavoro umano che lo rende ripugnante al lavoratore e che determina il suo atteggiamento di ribellione ad una situazione in cui il suo compito è portare alla società il contributo del suo lavoro per riceverne un compenso commisurato alla sua prestazione d’opera. Intuivo confusamente che il problema era più vasto e complesso e che, se anche si riuscivano a combattere efficacemente l’infortunio sul lavoro e le malattie del lavoratore, questo non apportava un contributo positivo alla soluzione del problema. L’efficacia della parola di Giuseppe Toniolo però era tale che io non mi potevo sottrarre ad essa e finii per accettare. […] Finii per convincermi che il problema delle malattie del lavoro non è che un aspetto di una vasta e complessa situazione che deve essere studiata non con i criteri e con i metodi della medicina, bensì con i metodi delle scienze biologiche i cui risultati dovevano essere trasportati sul piano sociale. […] ritornai ai miei studi che dovevano, per altra via, condurmi al punto di partenza, a esaminare cioè i problemi del lavoro da un altro punto di vista, quello della psicotecnica».

La seconda generazione

Il primo vero concorso a cattedra in Medicina del lavoro si tiene a Napoli nel 1932. Essendo stato escluso Pieraccini, i candidati, sono tre: Giuseppe Aiello, Nicolò Castellino e Gustavo Quarelli (1881-1954). La Commissione è composta da Luigi Devoto; Giunio Salvi (1869-1952), chirurgo e politico; Giovanni Boeri (1867-1946), noto pneumologo; Sabato Visco (1888- 1971), fisiologo e primo firmatario del Manifesto degli scienziati razzisti; Francesco Galdi (1974-1956), autorevole ricercatore clinico. La graduatoria è quella prevista: primo Castellino, secondo Quarelli (all’unanimità), terzo Aiello. Oltre che tre monografie, Il lavoro nei campi, Il lavoro nei porti (con prefazione di Costanzo Ciano, 1876-1939), Il lavoro nei R.

Monopoli di Stato, la commissione ha ben apprezzato di Nicolò Castellino i «non pochi uffici a carattere medico-sociale» occupati dal vincitore, tra i quali: la presidenza della Federazione provinciale napoletana per la protezione della Maternità e dell’infanzia, ottenendo la medaglia d’oro di benemerenza; la consulenza medica

Padre Agostino Gemelli (1878-1959)

Nicolò Castellino (1893-1953)

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Epidemiologia&Prevenzione n. 5; settembre-ottobre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 10!

dell’Opera nazionale del Dopolavoro e della Delegazione nazionale operaia; la Delegazione provinciale della Federazione antitubercolare nazionale di Napoli. Membro della Commissione tecnica dell’Ente nazionale per l’organizzazione scientifica del lavoro, delegato per la campagna della Società italiana di medicina sociale, vice presidente della Società italiana di medicina del lavoro, membro del Consiglio nazionale delle Ricerche”. Castellino, iniziato alla massoneria, nazionalista della prima ora, deputato e accorto imprenditore specie della carta stampata, criticato a un certo punto per il suo moderatismo antirazziale, crea in pochi anni un importante Istituto di medicina del lavoro, con 65 letti e ben attrezzati laboratori di chimica clinica; crea anche una vasta scuola dove spiccano, quasi suoi coetanei, Ezio Coppa (1898-1969) che nell’immediato dopoguerra opterà per la politica, prima nel Fronte dell’Uomo Qualunque e poi nel partito monarchico, e, principalmente, Scipione Caccuri (1899- 1981). Castellino transiterà indenne dal fascismo alla Repubblica mantenendo un ruolo preminente nella Società italiana di medicina del lavoro; in continuità con i sette precedenti congressi nazionali inaugurati come “Congresso per le malattie del lavoro (Malattie professionali)” svolti a partire dal 1907, la società viene costituita a Napoli nel 1929 con uno statuto redatto da Devoto, Ferrannini e Castellino e che richiama la Carta del Lavoro e stabilisce un netto collegamento con il sistema corporativo, inserendola nel

“Sindacato nazionale medico fascista” e prevedendo all’interno del consiglio direttivo due membri designati dallo stesso sindacato (Iavicoli, Tomassini, 2021, pp. 43-44).

Gustavo Quarelli (1881-1954) è allievo del clinico Ferdinando Micheli (1872-1937) a Torino e ai tempi della Prima guerra mondiale ottiene dalla facoltà l’incarico di insegnamento della medicina del lavoro e poi la trasformazione del suo reparto medico dell’Ospedale Maggiore di San Giovanni Battista in Istituto di Clinica delle Malattie Professionali. Quarelli verrà chiamato in cattedra «per chiara fama» nel 1941; a lui sono legate le osservazioni sulle alterazioni neurologiche nell’intossicazione da solfuro di carbone; è autore, tra l’altro, di una Clinica delle Malattie Professionali riccamente illustrata con immagini fornite in prevalenza da musei tedeschi e austriaci di igiene del lavoro e coautore di una molto pregevole monografia sulla silicosi.

Frontespizio dell’opera di Gustavo Quarelli (1881-1954)

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Luigi Preti, già discepolo di Devoto a Pavia e poi diventato suo aiuto a Milano, nel 1926 è professore di Patologia medica prima a Sassari, quindi nel 1927 a Catania e nel 1928 a Parma, dove ricopre anche la carica di rettore. Nel 1934 torna a Milano; nell’ottobre 1935, il maestro abbandona l’insegnamento per limiti di età: «Lasciava a malincuore la Clinica generale, ma ritornava volentieri alla Clinica madre anche perché così voleva il Suo Maestro». Preti, che si occupa in prevalenza della parte clinica, riuscirà a portare a termine il suo Trattato di Patologia medica del lavoro che compendia anche le osservazioni e le ricerche compiute nella negli anni precedenti dalla Scuola.

La terza-quarta generazione

Il secondo concorso di Medicina del lavoro si tiene per una cattedra di professore straordinario all’Università di Siena ed è stato definito un «pelago di uno dei più dibattuti e insidiosi concorsi universitari»; come testimonia uno degli interessati:

«Maugeri [che] fu ternato con Vigliani e Aiello nel 1941; il concorso fu annullato per vizio di forma, e ripetuto nel 1942: risultarono nuovamente vincitori Maugeri e Vigliani, e come terzo Caccuri […] e Aiello, per disposizione del Ministero dell’Istruzione fu riconfermato ed andò a Siena».

Le vicende di questo concorso sono state ricostruite di recente con puntigliosa precisione nell’ambito dello studio dell’opera di Salvatore Maugeri a Padova. Di seguito sono riportate brevi note sui candidati del concorso.

Giuseppe Aiello si muove nell’orbita della Clinica del lavoro di Milano. Laureato a Roma e anche a Pavia, si occupa di medicina sportiva e si fa notare per delle pubblicazioni sulla salute dei lavoratori agricoli. I suoi scritti sono raccolti in una monografia del 1941, in cui compaiono alcune lezioni, perizie medico-legali, specialmente sulla silicosi nell’industria metallurgica (e sulla responsabilità dei datori di lavoro) e qualche conferenza in tema di medicina preventiva dei lavoratori, dove è affrontato l’influsso dell’ambiente sociale, dei fattori esogeni sull’ereditarietà e sulla patologia invalidante. Prima che al concorso di Siena, forse per lui concepito, Aiello aveva partecipato a quello di Napoli e aveva ricevuto un incarico di insegnamento della Medicina del lavoro a Ferrara. Le connessioni di Aiello con figure potenti del fascismo sono denunciate in una lettera inviata da Caccuri a Pieraccini nei primi mesi del 1945:

Luigi Preti (1881-1941)

Frontespizio dell’opera di Giuseppe Aiello (date?)

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Epidemiologia&Prevenzione n. 5; settembre-ottobre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 12  

«[…] Se si fosse dato ascolto da uomini come Lei, l’Italia e l’Europa tutta non sarebbero ora in questo baratro! Purtroppo da noi si continua per la stessa strada, e, malgrado ogni sforzo, i fascisti cercano ancora di mettersi in primo piano. Avrà saputo, per es., che a commissario della Società di Medicina del lavoro è stato nominato il Prof. Aiello, ufficiale della milizia e profittatore del fascismo: l’ultimo concorso per la cattedra di Siena ha messo in chiara evidenza perché detto concorso era stato annullato e quali influenze hanno agito sui commissari per l’Aiello, protetto dal famigerato Bottai. [...]»

Nell’immediato secondo dopoguerra, perde gli appoggi sui quali viveva ed è sostituito alla presidenza della società da un collegio commissariale, che vede come presidente il medico legale veneto Rinaldo Pellegrini (1883-1977) e come membri il piemontese Angelo Viziano, divulgatore scientifico, e il medico e senatore democristiano campano Giovanni Caso (1896-1958), tutti cultori della medicina del lavoro.

Il primo congresso nazionale di medicina del lavoro dell’Italia repubblicana, il XIV, diventa il “Convegno della Rinascita” e si tiene a Torino nel 1948, a distanza di 10 anni dal precedente; ne è presidente coordinatore Viziano. Le brevi introduzioni pubblicate negli atti sono di Nicolò Castellino e del medico e senatore democristiano Giovanni Caso. Il primo, non dimentico del clima corporativo, in pratica lo ripropone:

«Il lavoro assurge pertanto a simbolo di umanesimo: di una convinta cooperazione dell’essere umano con i suoi simili; di un’operante ideale di fraternità, che ha per soggetto tutta la specie, e per oggetto la valorizzazione della sua potenzialità costruttiva: al fine di raggiungere, attraverso un più diffuso benessere, una più alta dignità».

A pronunciare la prima relazione, “Progresso e tendenze attuali della medicina del lavoro”, viene chiamato da Ginevra Luigi Carozzi, che vorrebbe convincere su possibili vie alternative della medicina del lavoro rispetto a quella “italica”. Queste circostanze, assieme a una lettera di Gaetano Pieraccini, ricordato come «pioniere della medicina, lottatore in tutte le aspre contese per il diritto alla salute del lavoratore», il quale tuttavia declina l’invito a presenziare, e a un “Indirizzo di saluto dell’Istituto Nazionale Confederale di Assistenza (INCA-CGL)”, il patronato della rinata “Confederazione generale del lavoro”, pronunciato in maniera molto rituale dal medico del vecchio patronato fascista dei lavoratori, risultano essere le uniche trasformazioni, non certo sostanziali, rispetto ai contenuti e alla pratica della medicina del lavoro del ventennio precedente. Le altre relazioni e le numerose comunicazioni del congresso sviluppano esclusivamente aspetti della clinica del lavoro, ma, tra le molte comunicazioni pronunciate, due in particolare attirano fortemente l’attenzione del lettore di oggi:

“L’opera del medico nella determinazione di supplementi di paga oraria per speciali categorie di lavoratori” e “La profilassi medicamentosa delle malattie da lavoro”;

evidentemente temi come la monetizzazione della salute potevano passare, senza destare sospetti, attraverso la “funzione arbitrale e pacificatrice della scienza nelle lotte fra gli uomini”, mentre alla prevenzione farmacologica delle malattie da lavoro, all’epoca e per qualche decennio ancora, potevano dedicarsi anche degli autorevoli ricercatori.

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Scipione Caccuri (1899-1981), calabrese di Rossano, è allievo fedele di Castellino, al quale succederà, dopo un lungo tirocinio, alla cattedra napoletana nel 1953.

Risulta molto attivo nei congressi di medicina del lavoro a partire dal 1929 e, sino alla sua morte, con contributi che spaziano praticamente in tutti i campi.

Sono tanti i collaboratori del suo istituto, alcuni si dedicano a fini ricerche di laboratorio, altri a un’intensa attività privata, alcuni sono impegnati a valutare le condizioni fisiche dei migranti del Sud che partono da Napoli per mare. Il nome di Caccuri è legato al suo trattato pubblicato nel 1947 e poi più volte riedito, ma principalmente ai due volumi del 1963 e 1965, La medicina del lavoro nella pratica medica, testo per un ventennio quasi ufficiale che coinvolge nella sua redazione tutte le scuole universitarie italiane di

medicina del lavoro.

Enrico C. Vigliani (1907-1992) assume per la medicina del lavoro, tra anteguerra e di più nel dopoguerra, lo stesso rilievo, mutatis mutandis, che Luigi Devoto aveva avuto in Italia e all’estero nei primi 35 anni del secolo, sedendo sulla stessa cattedra, quella della Clinica del lavoro di Milano. L’ambiente dal quale emerge è quello torinese del patologo Benedetto Morpurgo (1861-1944), ebreo poi perseguitato, e dei clinici Ferdinando Micheli e Carlo Gamna (1866- 1950). Negli anni Trenta, ha una frenetica attività di ricerca e di pubblicistica sul saturnismo, sul berillio, sulla patologia correlata col benzene, l’amianto, la silice e poi in ogni campo, il tutto riconosciuto universalmente come di buona qualità; le ricerche fondamentali sull’asbestosi e la silicosi vengono condotte in sodalizio con il patologo torinese Giacomo Mottura (1906-1990). Contemporaneamente, Vigliani svolge il ruolo di direttore degli Istituti di Medicina Industriale dell’Ente nazionale propaganda infortuni (ENPI) di Torino e di Milano, importante creatura del padre, Giovanni Antonio Vigliani (1877-1958). Nell’anno accademico 1939-1940, Enrico copre l’incarico dell’insegnamento di Medicina preventiva dei lavoratori e psicotecnica all’Università di Cagliari. Moderna, non contingente, appare, a posteriori, la prolusione di Vigliani tenuta all’apertura del corso di medicina del lavoro il 26 febbraio 1943 con una palese critica a certa medicina del lavoro:

Scipione Caccuri (1899-1981)

Enrico Vigliani (1907-1992)

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Epidemiologia&Prevenzione n. 5; settembre-ottobre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 14!

«[…] Gli operai sono costretti a sperimentare su loro stessi, a guisa di cavie, la natura e l’intensità dei pericoli che li sovrastano, e noi apprendiamo la tossicità di una sostanza o la pericolosità di un determinato procedimento soltanto attraverso i casi di malattia o di morte che essi hanno provocato» e, con un vero inno all’igiene del lavoro, «figlia della patologia professionale», comprensiva delle «concentrazioni massime del veleno nell’aria ancora compatibili con la salute dell’operaio».

«Una parte delle misure di igiene industriale è codificata […] Ma queste misure, imposte per legge, non possono rappresentare che il minimo di quello che il datore di lavoro avveduto e animato da un sincero spirito di comprensione sociale può attuare per la salute e il benessere dei suoi dipendenti: di qui lo sforzo della medicina del lavoro per far comprendere agli industriali la necessità e anche la convenienza, sia sociale sia economica, della applicazione più vasta possibile di tutte le misure di igiene atte non solo a scongiurare il pericolo delle malattie professionali e a diminuire quello delle malattie comuni, ma anche a creare nello stabilimento un’atmosfera di benessere e di gioia, ciò che costituisce un potente fattore di salute e insieme di rendimento».

Il nuovo «clima di democrazia e di giuste rivendicazioni sociali» si fa sentire anche nella redazione de La Medicina del lavoro della quale Vigliani è direttore e anche proprietario. Il primo numero del volume XXXVI del 1945, già composto da alcuni mesi, esce con uno speciale editoriale del direttore dove si legge:

«[ ...] La Medicina del lavoro che da 35 anni propugna la necessità di una più completa assistenza medica agli operai, di una lotta a fondo contro gli infortuni e le malattie del lavoro, di una assicurazione obbligatoria estesa a tutte le malattie professionali, di radicali miglioramenti nelle condizioni igieniche di molte industrie pericolose e di maggiore benessere e sicurezza di lavoro per tutti i lavoratori, può oggi affermare liberamente quale ostacolo alla realizzazione di questo programma

sia stato il regime fascista, specialmente nel campo della tutela degli operai contro le malattie del lavoro [...]».

Il successo di Vigliani e della sua medicina del lavoro sarà irresistibile; intensa è l’attività di ricerca nel campo medico e igienistico, ma anche sul terreno più precisamente redditizio, con l’offerta di check up indiscriminati. Le aziende che si rivolgono alla Clinica ricevono, oltre che il medico di fabbrica “di fiducia”, un qualificato servizio di consulenza e a chiederla sono tante, le più importanti, in primis la Montecatini, oltre che l’istituto assicuratore Inail. In istituto vengono eseguite indagini, anche di igiene industriale, alle quali seguono relazioni dove si valuta l’entità dei rischi e si danno consigli su come si dovrebbe fare per ridurli o per abolirli. Una volta dati i consigli, non ci si interessa più del seguito, l’azienda è

perfettamente libera di seguirli o meno. L’ipotesi consulenziale interessa alle aziende, ma spesso non convince i lavoratori, tenuti quasi sempre a margine delle indagini.

La Clinica del Lavoro di Milano – Padiglione Vigliani

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Nicola Zurlo (1916-1990) è il chimico che ha animato per tanto tempo nella Clinica del lavoro l’attività di igiene industriale; nella clinica ha anche operato Luigi Parmeggiani (1918-1989) che, tra gli anni Sessanta e Settanta, ha ricoperto ruoli di grande importanza presso l’Organizzazione internazionale del lavoro a Ginevra.

Al concorso senese del 1940-1941, i veri competitor sono Vigliani e Salvatore Maugeri (1905-1985), siciliano di Aci Catena, entrambi aspiranti alla cattedra di Devoto.

Maugeri è allievo di Preti dai tempi di Catania e con questi si laurea a Parma e insieme a lui, nonostante la sua preparazione e vocazione clinica, si trasferisce come assistente e poi come aiuto alla Clinica del Lavoro di Milano, dove viene incaricato dell’insegnamento di Medicina preventiva e psicotecnica.

Nel 1937, partecipa al concorso a cattedra di Patologia medica dell’Università di Pisa ottenendo la maturità didattica e scientifica. In questi anni, la sua attività di ricerca si rivolge, specialmente in laboratorio, sulla

intossicazione da piombo; pubblica più contributi, uno dei quali, comunicato nel congresso della Società italiana di medicina del lavoro del 1936, susciterà le critiche di Vigliani; redigerà il capitolo sulla patologia da piombo inorganico del trattato di Preti.

Ancora prima della prematura morte del suo maestro Maugeri, si rende conto che Milano è irraggiungibile e ottiene di essere compensato con una soluzione ben costruita alla Clinica di Medicina del lavoro della R. Università di Padova su una cattedra, «sorta per la munificenza» dell’ENPI del quale Vigliani senior è il dominus e dove, sempre abitando a Milano, siederà sino al 1955. La cattedra originariamente doveva essere locata in qualche modo nell’entroterra veneziana, sede del complesso industriale. A Padova, come hanno mirabilmente documentato Giora e Bobbio, Maugeri affronta difficoltà di vario genere, ma è capace di un’apprezzata opera scientifica e didattica e supera, dopo qualche dubbio, con un “non luogo a procedere”, il giudizio della Commissione per l’epurazione. Tra le pubblicazioni di questo periodo richiama l’attenzione quella di un suo assistente volontario, Raffaele Cerbone, Le alterazioni organiche consecutive a prolungata respirazione di Liquigas (Ricerche sperimentali).

Ciò può significare che si erano già stabiliti nel periodo padovano buoni rapporti tra Maugeri, definito benevolmente un Re Mida per la capacità di seguire e ottenere finanziamenti, con l’allora proprietario della Società Liquigas, Michelangelo Virgillito (1901-1977), l’industriale finanziere originario di Paternò noto come “il commendatore più pio d’Italia”. Proprio quest’ultimo assieme ad altri finanziatori, quando nel 1956 Maugeri sarà chiamato a Pavia, consentirà la costruzione di una nuova Clinica del lavoro, arricchendola con importanti attrezzature e laboratori oltre che di validi ricercatori. Emanuele Capodaglio (1926-2002), che con Michele Salvini (1917-2012) aveva seguito il maestro da Padova, ricorda i primi anni di Pavia con queste parole:

Salvatore Maugeri (1905-1985)

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Epidemiologia&Prevenzione n. 5; settembre-ottobre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 16!

«Erano i tempi dei grandi rischi occupazionali monofattoriali, costituiti da macrodosi (silice, piombo, solfuro di carbonio, cloruro di vinile, amianto, benzolo) generati da uno sviluppo industriale postbellico violento, irriguardoso del rischio per il lavoratore e per l’ambiente, in assenza di condotta preventiva. La patologia che negli anni ‘50-’60 arrivava agli Istituti universitari era il più delle volte irreversibile, senza spazio per prognosi favorevoli, e l’impegno del medico era per questo frustrante ma insieme stimolante per le ampie possibilità di ricerca tesa a chiarire la patogenesi e la fisiopatologia di malattie professionali (ora presenti solo nei paesi in via di sviluppo), ed a fornire criteri valutativi del danno, la cui riparazione monetaria costituiva il perno del sistema previdenziale- assicurativo, mentre il sistema sanitario era completamente assente e il rischio veniva apertamente mercanteggiato nei contratti di lavoro. Maugeri, clinico, capì che occorreva correggere il tiro e differenziare la ricerca dalla clinica. Volle quindi uno strumento per contrastare all’origine il rischio, identificando e misurando l’agente responsabile, come premessa al suo contenimento. Nacque a Pavia il Laboratorio per l’Igiene Industriale e per il monitoraggio delle esposizioni a rischio. Volle anche una struttura sanitaria, in grado di agire almeno sulla funzione, compromessa da processi patologici di per sé poco sensibili alla terapia. E nacquero (per necessità logistiche fuori Pavia) i Centri di Riabilitazione».

I contributi di Maugeri e quelli, in alcuni periodi veramente notevoli, dei numerosi collaboratori hanno interessato tutti gli scenari della medicina del lavoro, da quello tradizionale a quello più aggiornato, innovando le metodiche di monitoraggio biologico e ambientale. Salvatore Maugeri, fortunato manager della medicina del lavoro e poi della sanità, a differenza di Vigliani, non si è fatto travolgere dalla contestazione anche sanitaria dei primi anni Settanta; anzi, si può dire che ne abbia preso spunto per continuare il cammino già intrapreso. Attento agli avvenimenti, non ha evitato confronti e ha cercato di comprendere i significati e gli effetti a breve e più lungo termine di quel fenomeno. Chi scrive può testimoniare di un approccio operato dal cattedratico al modesto ma noto come contestatore assistente dell’Istituto di medicina del lavoro di Verona; l’occasione era il vivace Congresso della Società nazionale di medicina del lavoro che si tiene a Pugnochiuso nel 1973 e il messaggio veniva trasmesso senza perifrasi: «Vieni a lavorare con me a Pavia». L’offerta di un meridionale a un meridionale entrambi evoluti, in modi diversi, nell’arena del Nord Italia è apparsa, più che formale, interessata, fattiva, finalizzata al completamento dei colori del proprio caleidoscopio, per non escludere nessuna opportunità.

Istituto di Medicina del Lavoro di Pavia

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L’erede più noto alla cattedra della medicina pavese è Francesco Candura (1929- 2019), di indole molto diversa da quella del maestro, conservatore, con tendenze letterarie, che deve essere ricordato per la redazione di testi di tecnologia industriale più volte aggiornati e utilizzato più all’esterno che all’interno della medicina del lavoro accademica.

Maugeri a Padova viene sostituito da Massimo Crepet (1911-1994), anch’egli di estrazione internistica, allievo di Pio Bastai (1888-1975) a Firenze, a Padova e poi a Torino. Fondamentale è il suo studio presentato col maestro al congresso mondiale di cardiologia di Parigi nel 1950, col quale si sancisce che la silicosi determina prevalentemente una sofferenza cardiaca sinistra. Con i suoi collaboratori, ha svolto attività di ricerca rimarchevoli nel campo della nefrologia, del saturnismo e del piombo organico, della fisiologia, della fisiopatologia respiratoria, dell’asma professionale, della tossicologia dei solventi organici, della cancerologia professionale e dell’ergonomia. A differenza di quello che accade in altri Istituti, in quello padovano la cesura tra prima e dopo il

fenomeno studentesco e operaio degli anni 1968-1969 è meno netta grazie al direttore colto e progressista e alla presenza di alcuni assistenti notoriamente vicini ai partiti della sinistra e del sindacato;

ciò non impediva, tuttavia, a Crepet e ad altri medici di effettuare consulenze esterne privatamente o tramite convenzioni con l’università.

Il 1969 non passa invano neppure a Padova: una contestazione prende corpo con l’occupazione di alcuni locali dell’Istituto di Medicina del lavoro da parte di un collettivo studenti-assistenti che lavora per redigere un documento che ha come punti qualificanti: • patologia di fabbrica, • nocività, • medico di fabbrica, • progetti di legge,

• psicologia del lavoro, • controanamnesi, • denuncia convenzione Montedison- Università di Padova. Il documento viene pubblicato con una copertina verde (come dirà qualcuno «come un cocomero: verde fuori e rosso dentro»), ha una certa diffusione e produce risultati apprezzabili. La famosa convenzione viene disdetta e Crepet, direttore dell’Istituto, assume da quel momento posizioni decisamente progressiste e di maggior attenzione alle istanze di salute poste direttamente dai lavoratori e così faranno la quasi totalità dei suoi collaboratori. Nel documento viene riportata anche la mozione approvata all’unanimità dall’assemblea degli assistenti dell’Istituto di Medicina del lavoro dell’Università di Padova il 22 marzo 1969:

«Si raccomandano rapporti tra Istituti di Medicina del lavoro e aziende per quanto riguarda la ricerca scientifica. Ricerche singole e programmate di volta in volta su richiesta delle aziende o dei lavoratori saranno svolte dagli Istituti, preventivamente esaminate e progettate da una commissione composta dai medici dell’Istituto, dai rappresentanti dei lavoratori e

Massimo Crepet (1911-1994)

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Epidemiologia&Prevenzione n. 5; settembre-ottobre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 18! delle aziende. Nelle attuali condizioni non è giustificabile un servizio di medicina di fabbrica gestito da Istituti di Medicina del lavoro; si può solo ammettere un rapporto privato sul piano individuale. Pertanto la convenzione fra Università di Padova e Società Montedison va interrotta».

(Gruppo di studio, 1969)

La contestazione padovana è risultata efficace, costruttiva, diversa da quella valutata come generica svolta a Bologna in occasione della inaugurazione del 31° Congresso della società di medicina del lavoro, il 2 ottobre 1968, quando i medici del lavoro erano accusati di essere “al servizio dei padroni”. È vero, tuttavia, che quel congresso discuteva della clinica e dell’eziopatogenesi della patologia da collanti e dei calzaturieri che le relazioni ufficiali chiamavano ancora “patologia da cresilfosfati” e dove, secondo alcuni, si dimostrava scarso interesse per la prevenzione di quella piaga, anche dal punto di vista tecnico, trascurando il ruolo dell’esano delle colle e della precarietà dei luoghi di lavoro dove queste venivano impiegate. Tomassini, ricostruendo con molti particolari la vicenda, riporta anche la versione dei fatti del prefetto di Bologna in un telegramma inviato al Ministero dell’interno:

«Pomeriggio odierno mezz’ora prima che avesse luogo aula Magna università cerimonia inaugurale 31° congresso nazionale “Società italiana medicina lavoro” (SIML): circa duecento giovani appartenenti movimento studentesco e federazione giovanile comunista dopo aver sospeso assemblea in corso vicino collegio Irnerio si sono recati dinanzi ateneo scopo disturbare manifestazione. Magnifico rettore informato da autorità di P.S. dichiarava non volere opporsi ingresso studenti. Quando poi giovani inneggiando Ho ci Min e Mao Tse Tung bloccavano da interno università rettore non habet voluto richiedere intervento forza pubblica invitando congressisti trasferirsi Salone Podestà di Palazzo re Enzo».

(Tomassini, 2012, pag. 110)

Contestazione avvenuta a Bologna il 2 ottobre 1968 in occasione del XXXI Congresso della Società Italiana di Medicina del Lavoro

(dal volume di Tomassini, 2012)

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Con la contestazione deve fare i conti anche Vigliani, il simbolo della medicina del lavoro italiana sin dal dopoguerra, il quale così ricorderà i fatti in questo modo:

«L’ondata di contestazione del ‘68 coinvolse la Clinica del Lavoro e in genere la Facoltà di medicina di Milano solo agli inizi del 1971. La visione politica e sociale perseguita fino allora con successo dalla Clinica fu completamente rovesciata, non più ricerche di base e medici della Clinica nelle Industrie, ma aiuto della Clinica ai sindacati nella loro lotta contro gli industriali».

(Vigliani, 1992, pag. 47)

I “sindacati” di cui parla Vigliani, in realtà, è un termine riduttivo di un fenomeno più complesso che ha fatto registrare in quell’occasione l’attivazione di uomini (anche dall’interno della sua stessa Clinica) e di una varietà di iniziative sociali e culturali, e anche di un “Comitato operaio di controllo per la ristrutturazione della Clinica del Lavoro e per un rinnovamento della sua politica sanitaria”. Quest’ultimo in un documento dell’11 novembre 1972 redatto a conclusione di una visita alla Clinica del Lavoro, sulla base di alcune osservazioni e denunce, formula delle richieste al fine di

«...fornire efficienti strumenti di prevenzione nelle fabbriche in collegamento con i servizi di medicina preventiva già esistenti o in via di istituzione presso gli Enti Locali: a) Strutturazione della Clinica del Lavoro su base dipartimentale ... b) Limitazione delle attività di cura non specialistiche nei reparti di degenza ... c) Unificazione di tutti gli ambulatori in un unico poliambulatorio elettivamente orientato verso consulenze specialistiche nel campo delle malattie da lavoro richieste da fabbriche, Enti Locali, Patronati, lavoratori. Di particolare importanza a questo scopo è la conoscenza da parte del personale sanitario delle condizioni ambientali e dei rischi dei luoghi di lavoro da cui provengono gli operai da esaminare, eventualmente sulla base dei libretti sanitario e di rischio individuali. d) Assunzione da parte degli Istituti Clinici di Perfezionamento delle attività di igiene industriale in quanto indispensabili per la medicina preventiva nelle fabbriche ... e) Adeguamento degli organici e delle attrezzature dei laboratori e dei servizi ...

f) Elaborazione ad opera del personale docente della Clinica del Lavoro di un programma didattico operativo per l’insegnamento della medicina del lavoro ... A questo riguardo, il Comitato Operaio di Controllo offre la sua disponibilità a collegare docenti e studenti con i consigli di fabbrica del territorio per far affluire al corso la preziosa esperienza dei lavoratori nel campo della organizzazione e dell’ambiente di lavoro. g) Accoglimento ufficiale attraverso delibera del Istituti Clinici di Perfezionamento del ‘Centro di Consultazione per i Lavoratori sui problemi della salute nei luoghi di lavoro’ (CCL) che dalla data della sua istituzione (1971) ha svolto finora gratuitamente un’opera altamente meritoria si socializzazione della cultura medica attraverso riunioni e colloqui diretti con le rappresentanze dei lavoratori di numerose fabbriche».

(Comitato operaio, 1973)

Gustavo Quarelli, in certo qual modo, conclude una fase di medicina del lavoro accademica pubblica a Torino e primeggia quella privata per conto principalmente della FIAT e quella diffusamente offerta dall’ENPI.

Gustavo Quarelli (1881-1954)

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Epidemiologia&Prevenzione n. 5; settembre-ottobre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 20!

Una nuova fase è inaugurata da Giovanni Francesco Rubino (1918-1997), di solida formazione clinica acquisita con Gamna, Giulio Cesare Dogliotti (1906-1976), Bastai. È docente di medicina del lavoro dal 1951, ma solo nel 1968 può dirigere l’Istituto di medicina del lavoro di Torino adeguatamente collocato nell’ultimo Centro Traumatologico Ortopedico (CTO) costruito in Italia dall’Inail. Rubino esordisce come laboratorista clinico e quindi si impegna con Crepet ancora a Torino nello studio delle porfirine e poi dell’intossicazione cronica da trielina.

Ha svolto in prima persona indagini sulla pneumoconiosi da talco e quindi studi di coorte su talcatori e minatori della Val Chisone. Altri importanti argomenti di ricerca curati con i primi suoi collaboratori sono stati: • gli effetti

dell’amianto, prima con studi clinici e quindi con studi epidemiologici sulla diffusione del mesotelioma in Piemonte e poi sulla coorte dei minatori di Balangero anche nell’ambito di un Centro Prevenzione Asbestosi finanziato per alcuni anni dalla Provincia di Torino; • la cancerogenicità delle amine aromatiche e in particolare della o- toluidina nei lavoratori dell’industria della gomma. In ossequio ai suoi interessi professionali, in un’industria telefonica si è interessato al lavoro d’ufficio. Rubino ha favorito nel suo istituto lo sviluppo sia dell’epidemiologia occupazionale sia dell’igiene industriale. È autore di un agile e fortunato manuale di Medicina del lavoro dedicato agli studenti che ha avuto più edizioni. Rubino viene ricordato anche per la sua attività nel vivace milieu culturale e politico torinese, divenendo amico e frequentatore di personaggi come Cesare Pavese, Giulio Einaudi, Felice Casorati, Raf Vallone. Viene ricordato anche per i suoi atteggiamenti anticonformisti, di bon viveur, di “eterno monello”; sposa Alda “Dada” Grimaldi, attrice e poi regista televisiva, nota per il programma Il teatro dei ragazzi.

A Genova, una vera scuola di medicina del lavoro si insedierà nei primi anni Cinquanta del Novecento grazie all’operosità di Francesco Molfino (1905-1964), ben supportato agli inizi dal clinico Giuseppe Sabatini (1889- 1952) con il quale ha anche firmato un importante trattato di medicina del lavoro stampato in più edizioni e molto usato. Molfino è anche autore di studi originali sui sabbiatori, sui riparatori navali, sui saldatori, sulle malattie dei cassoni.

Giovanni Francesco Rubino (1918-1997)

Frontespizio dell’opera di Francesco Molfino (1905-1964)

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Alla morte di Molfino avvenuta a Firenze nel corso del 27°

Congresso nazionale della disciplina viene chiamato alla direzione dell’Istituto universitario, scisso da quello ospedaliero, Benvenuto Pernis (1923-2011) un raffinato ricercatore proveniente dalla Clinica del lavoro di Milano e che ha come prezioso collaboratore Mario Governa (1930- 2021), che in seguito verrà chiamato all’Università di Ancona. Pernis completerà la sua brillante carriera negli Stati Uniti. Nel 1976, dopo un incarico al bravo e laborioso Damiano Zannini (1926-2021), poi un riconosciuto esperto della medicina subacquea e iperbarica, viene spinto a

ricoprire la cattedra di Medicina del lavoro per trasferimento Alfredo Dino Bonsignore, già titolare della cattedra di tossicologia industriale presso l’Università di Urbino.

A Cagliari, lo studio e la pratica clinica universitaria della medicina del lavoro esercitati dal 1928 grazie alla presenza di Mario Aresu, allievo diretto di Devoto; ma è nel secondo dopoguerra che viene creato un reparto per le malattie professionali la cui direzione viene affidata a Duilio Casula (1916-2013) che la manterrà per molti anni. Casula, formatosi in quell’istituto, ha effettuato con i suoi collaboratori – tra i quali Plinio Carta (1944-2021) – in particolare studi sugli effetti delle vibrazioni, sui lavoratori delle miniere sarde e nella petrolchimica. Casula è autore di un trattato moderno di medicina del lavoro. Un ruolo

veramente importante, grazie alla sua autorevolezza e alla sua dirittura morale e politica, ha avuto nella definizione della medicina del lavoro, in particolare di quella territoriale nella riforma sanitaria del 1978. All’epoca, Casula è presidente della SIML e riesce a trascinare sulla sua posizione tanti altri suoi colleghi oppositori o increduli della risoluzione poi accolta dalla legge. Al 36°

congresso della SIML di Pugnochiuso del 1973, promuove un’emblematica mozione che riconosce il valore scientifico dell’esperienza operaia e il valore di un sistema partecipato di registrazione dei dati ambientali e biostatistici, quella scaturita dalla pratica sindacale sulla difesa della salute nei primi anni Settanta abbracciata da entusiasti giovani operatori della prevenzione nei luoghi di lavoro.

A Perugia, la Cattedra di Medicina del lavoro viene affidata, nell’anno accademico 1958-1959, a Diogene Furbetta (1916-2001), che in seguito riesce a costituire un istituto con posti letto, ambulatori e laboratori specialistici con un accordo tra Università di Perugia e Regione dell’Umbria; lo sostituirà più proficuamente Giuseppe Abritti.

Benvenuto Pernis (1923-2011)

Duilio Casula (1916-2013)

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Epidemiologia&Prevenzione n. 5; settembre-ottobre 2021; Rubrica/Libri e storie, p. 22  

A Bologna, l’insegnamento ufficiale viene istituito nell’anno accademico 1954-55 ed è affidato ad Arrigo Poppi (1911-1982) fino al 1957, poi ad Ugo Butturini (1915-1998) e quindi a Giuseppe D’Antuono (1920-1997), il quale, grazie al finanziamento di Attilio Monti (1906-1994), allora presidente di SAROM, riesce a creare un istituto di medicina del lavoro autonomo.

Per completezza bisogna menzionare che nel 1954 a Palermo viene istituita la Cattedra di Medicina del lavoro in seguito a convenzione fra l’Università e gli enti locali e affidata a Giovanni Fradà (1913-1984). Con la cattedra sorge un istituto clinico e successivamente un Centro regionale siciliano di gerontologia e geriatria per i lavoratori e un centro regionale siciliano per la riabilitazione al lavoro dei cardiopatici. Del 1955, è la cattedra di Firenze coperta da Antonio Morelli che in precedenza, per un breve periodo, aveva tenuto la cattedra di Siena. Collaboratore di Morelli a Firenze è Angelo Iannaccone (1925-1982), che svolgerà la sua opera anche di igiene industriale all’università cattolica di Roma, e Giovanni Giuliano (1930-2003) che lo sostituirà per più lungo tempo. Nel 1957, viene istituita una cattedra anche a Messina, dove si insedia Nunziante Cesaro. A Catania, Alfio Alberto Inserra (1942-2001), forse l’unico medico del lavoro di questa generazione proveniente da un ambiente igienistico e non clinico.

A Roma, l’insegnamento di Medicina del lavoro dal 1951 viene affidato a Ludovico Paterni.

Considerazioni conclusive

La medicina del lavoro, o meglio, delle malattie professionali nasce tra Otto e Novecento e si sviluppa grazie a pochi motivati pionieri che in un certo senso denunciano, non senza il favore dei lavoratori e delle loro organizzazioni, la poca attenzione che stato, istituzioni, datori di lavoro, medici e igienisti porgono alle malattie vecchie e nuove che tipicamente interessano la stragrande maggioranza delle attività produttive sia prima sia dopo la peculiare rivoluzione industriale italiana. Si creano anche alcuni sparuti centri dedicati dove viene svolta, su una data malattia e sui lavoratori che ne sono interessati, una ricerca clinica e di laboratorio che indubbiamente apporta conoscenze che potrebbero tornare utili per un loro miglior controllo; ma ciò avviene in tempi lunghi, lasciati sostanzialmente in balia di alcuni datori di lavoro e principalmente, in maniera passiva, fidandosi della modernizzazione dei mezzi di produzione. Pochi sono in questa fase coloro che avvertono l’insufficienza del progresso dedicato alle malattie professionali e conducono inchieste che danno corpo a una più sostanziale analisi delle condizioni sociosanitarie della popolazione operaia. Risulta tuttavia preclusa la possibilità a tecnici altrettanto motivati di accedere ai luoghi di lavoro, valutare con indipendenza e competenza pericoli e rischi avendo la capacità di disporre o prescrivere il loro abbattimento.

Questo stato di cose perdura, anzi, appare esacerbato nel periodo tra le due guerre, quando prende il sopravvento una speciale “medicina del lavoro senza prevenzione”: la quasi totalità medici del lavoro, ormai in numero maggiore di prima, si dedica alla ricerca clinica, sempre florida, congiuntamente all’attività che in qualche modo è funzionale al meccanismo previsto dall’assicurazione delle malattie professionali. Si afferma così una cultura trasmessa anche ai lavoratori direttamente interessati che,

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mancando la prevenzione, richiedono e viene offerto loro il “ristoro”, l’indennizzo monetario della malattia. Risulta vanificato anche il beneficio della pur prevista (a un certo punto) “sorveglianza medica” dei lavoratori, scissa dalla “sorveglianza ambientale” dei luoghi di lavoro. La pratica della medicina del lavoro di fabbrica risulta quasi sempre rituale, svolta anche da medici poco competenti e poco interessati a guardare ai problemi veri dei rischi per la salute e alla loro soluzione. Anche l’ispezione del lavoro, a parte qualche eccezione, si trasforma in un’arma spuntata per motivi derivati dalla concezione corporativa della società, che da una parte tende a rispettare la libertà degli industriali, dall’altra ammette, anzi, sollecita i sacrifici dovuti da parte dei lavoratori.

Il passaggio dal fascismo alla repubblica è piuttosto di continuità, almeno per un ventennio: il ruolo dell’ente assicuratore nei congressi e nelle attività dei medici della SIML, specie dei cattedratici, è di tipo egemonico. L’INAIL è sponsor primario dei congressi della società, costruisce le sedi degli Istituti di medicina del lavoro, dei quali è il maggior committente, perché vi invia i malati per gli accertamenti di malattia professionale e per le cure dei malati più gravi che in quei luoghi vanno a morire. I risultati delle visite mediche periodiche, anche quelle svolte dall’ENPI – e sono la maggioranza – non hanno alcun riscontro con le condizioni di lavoro: spesso servono per giudicare i lavoratori non più adatti al proprio lavoro. D’altra parte, sono vigenti le

“paghe di posto”, quindi la monetizzazione del rischio, alla quale anche i sindacati tardano a porre rimedio. Le tanto attese riforme strutturali dell’organizzazione della prevenzione annunciate all’atto della liberazione vanno a vuoto. Le nuove norme sull’igiene e la sicurezza degli anni 1955-1956 arrivano in ritardo e devono fare i conti con il primato assegnato alla ricostruzione e al boom economico, mentre mancano le risorse e le strategie necessarie per indurre e controllare la loro applicazione da parte dei datori di lavoro.

Per vedere colmare il ritardo accumulato rispetto a tutti gli altri Paesi europei, nel campo della salute e della sicurezza in Italia occorre compiere atti eroici e fratture traumatiche: precostituire con risolutezza cambiamenti da recepire poi, almeno in parte, in una legge di riforma per tenderne a generalizzare l’applicazione. Ciò è successo grazie al formidabile movimento che si può sinteticamente denominare “linea sindacale per la salute in fabbrica”. Si tratta, in realtà, di un movimento molto ampio, capace di coinvolgere tante forze della società organizzate e non, dagli studenti agli intellettuali, sino a reclutare anche operatori “parcheggiati” per tanto tempo in istituti dediti alla pratica della medicina del lavoro senza prevenzione o a quella di consulenza, spesso sterile dal punto di vista realmente preventivo, per le aziende e mai per i lavoratori e le loro organizzazioni. Un buon reclutamento, non certo passivo, al nuovo movimento viene fatto in maniera particolare a Milano e a Padova. Dalla clinica del lavoro milanese, diventa fondamentale la partecipazione di valenti tecnici come Antonio Grieco (1931-2003), Vito Foà (1934-2020) e Franca Merluzzi (mancata nel 2017), i quali affiancano con ottimi risultati medici e tecnici ragazzini che iniziano a lavorare con intento preventivo nelle prime strutture territoriali lombardi; Emilio Sartorelli (1927-2015) svolgerà un ruolo analogo una volta arrivato a Siena.

Dall’istituto di medicina del padovano provengono Edoardo Gaffuri, Ferdinando Gobbato (1926-2017), Edoardo De Rosa (1940-2017) che opereranno utilmente e faranno proseliti rispettivamente a Verona, a Trieste e a Ferrara, mentre Bruno Saia

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