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REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

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REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D’ APPELLO DI GENOVA

SEZIONE PER LE CONTROVERSIE IN MATERIA DI LAVORO Nelle persone dei magistrati:

Luigi de Angelis Presidente Paola Ponassi Consigliere Roberto Belle’ Consigliere rel.

alla pubblica udienza del 8 gennaio 2014 ha pronunciato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la seguente

SENTENZA nella causa in grado d’appello N.R.G. 695/2013 promossa da:

A.C.A.M. S.P.A. (C.F.: 00213810112) – rappresentata e difesa dagli avv.ti Luciano Giorgio Petronio (C.F.: PTRLNG41L12H742Q: PEC: lucianopetronio@pec.giuffre.it) del foro di Parma e Antonio Pugliese (C.F.: PGLNTN37S28G482Y; PEC: antoniopugliese@pec.studiopugliese.com) del foro di Genova e presso lo studio di quest’ultimo in Genova, via XX Settembre 8/16 elettivamente domiciliata giusta delega posta a margine del ricorso in appello

APPELLANTE CONTRO

GIUFFRIDA CONCETTA (C.F.: GFFCCT50T52H281M) e ROSSI SEBASTIANO DOMENICO (C.F.: RSSSST78M02D969E) – quali eredi di Rossi Emiliano, rappresentati e difesi dall’avv. Carlo Ciminelli (C.F.: CMNCRL56H27D969I; PEC: carlo.ciminelli@ordineavvgenova.it) e presso il di lui studio in Genova, Via SS. Giacomo e Filippo 15/5 elettivamente domiciliati giusta delega posta a margine della memoria di costituzione in appello

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OGGETTO: LICENZIAMENTO

CONCLUSIONI PER L’APPELLANTE:

“in riforma dell’impugnata sentenza, respingere tutte le domande del sig. Emiliano Rossi con essa accolte (in subordine: accoglierle solo nei limiti e con gli effetti che siano di legge”). Con vittoria delle spese di lite, oltre accessori, per tutte la fasi del giudizio”

CONCLUSIONI PER GLI APPELLATI:

“rigettare l’appello formulato da Acam spa confermando la sentenza parziale del Tribunale della Spezia (…..) In via subordinata accogliere comunque le conclusioni già rassegnate in primo grado: accertare e dichiarare l’illegittimità e\o l’annullabilità e\o la nullità e\o comunque l’inefficacia del licenziamento per cui è causa e, conseguentemente,

condannare Acam spa (…) a reintegrare il sig. Rossi nel posto di lavoro precedentemente occupato e a risarcire il danno dallo stesso subito nella misura delle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento a quella dell’effettiva ripresa lavorativa e comunque in misura non inferiore a 5 mensilità, sulla base delle retribuzione da ultimo percepita ammontante a euro 4.069,49 ovvero a quella diversa somma ritenuta di giustizia, ai sensi dell’art. 18 l. 300/70. In via subordinata, accertata e dichiarata l’illegittimità e\o l’annullabilità e\o nullità e\o comunque l’inefficacia del licenziamento per cui è causa, condannare Acam spa (…) a riassumere il ricorrente ovvero a corrispondergli un’indennità risarcitoria nella misura compresa tra 2,5 e 6 mensilità. Vinte le spese di entrambi i gradi del giudizio”

*****

IN FATTO E DIRITTO 1.

A.C.A.M. s.p.a. ha licenziato Emiliano Rossi sul presupposto che il lavoratore avrebbe raggiunto, alla data indicata nell’atto di recesso del 1.2.2012, i requisiti per l’effettivo godimento della pensione di vecchiaia.

Il Tribunale della Spezia, con sentenza parziale n.119/2013, ha accolto l’impugnativa del lavoratore. Ha ritenuto in particolare il primo giudice che la scelta datoriale così impostata, oltre a porsi in contrato con la giurisprudenza secondo cui era illegittimo il licenziamento per pensionamento intimato prima dell’effettivo raggiungimento della pensione di vecchiaia, fosse in realtà priva di una qualche diversa giustificazione e dovesse dunque considerarsi discriminatoria per età, così integrandosi i presupposti di nullità di cui all’art. 15 L. 300/1970. Difatti, osservava in sintesi il Tribunale, la Carta di Nizza imponeva la necessaria giustificatezza del licenziamento, mentre la giurisprudenza europea consentiva il recesso per ragioni di età solo ove motivato da obiettive finalità di politica o mercato del lavoro, non certo ricorrenti a fronte di un licenziamento individuale come quello di specie. Ha quindi dichiarato nullo il licenziamento e disposto la reintegrazione, accogliendo peraltro anche la domanda riconvenzionale di restituzione del t.f.r., per la disposta continuità del rapporto, e provvedendo per il prosieguo in relazione alla non definita domanda di risarcimento del danno per demansionamento.

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Con un primo motivo, l’appellante ha lamentato che il primo giudice avesse del tutto trascurato la propria impostazione fattuale, con riferimento alla circostanza, dedotta e non contestata, che in realtà il licenziamento era da aversi per intimato prima della data formalmente riportata nel recesso poi comunicato in raccomandazione. Infatti era accaduto che al ricorrente, verso la metà di dicembre del 2011 (il 15.12.2011 o in altro giorno a questo vicino), fosse stata rammostrata una lettera di licenziamento, senza data e non protocollata, che però il Rossi, pur prendendone visione, aveva chiesto gli fosse consegnata il successivo 31.12, assicurando di passare a ritirarla e ciò per consentirgli non meglio precisate verifiche. A fine anno egli però non si era presentato a ritirare l’atto, che era stato quindi datato il 31.12.2011 e spedito via posta subito dopo. Il licenziamento doveva quindi reputarsi intimato per iscritto fin dalla metà di dicembre 2011, in quanto il Rossi aveva chiesto la dilazione della consegna ma aveva acconsentito a che l’intimazione così già attuate restasse “ferma”, e quindi la controversia doveva essere definita sulla base della disciplina sostanziale in quel momento applicabile.

Con un secondo articolato motivo, l’appellante rilevava in prima battuta come il ricorso introduttivo fosse del tutto insufficiente, sotto il profilo delle deduzioni, per devolvere alla cognizione giudiziale l’impugnativa del licenziamento per ragioni di discriminazione.

Soggiungeva poi A.C.A.M. che l’asserita illegittimità del licenziamento perché intimato prima e non dopo il maturare dei requisiti pensionistici era stata rilevata d’ufficio, mentre non poteva esserlo, trattandosi di profilo impugnatorio da dedursi ad opera della parte. In ogni caso sosteneva che non fosse neppure vero che, nel dicembre 2011, non fossero maturati i requisiti pensionistici, in quanto ai sensi dell’art. 6, co. 2 bis d.l. 248/2007 era stata solo spostata di dodici mesi la decorrenza del corrispondente trattamento. D’altra parte – proseguiva l’appellante - l’art. 4, co. 2, L. 108/1990, per l’insorgenza del diritto al recesso ad nutum faceva riferimento ai “requisiti pensionistici” e non alla percezione della pensione, laddove poi l’art. 6, co. 2 bis del d.l. 248/2007, nel disporre che l’art. 18 S.L. continuasse ad applicarsi per i lavoratori ricadenti nella disciplina del citato art. 4 fino al momento della decorrenza del trattamento pensionistico, andava riferito alla sola area della tutela reale, con dissociazione tra licenziamenti basati sull’esistenza dei requisiti pensionistici (che erano ammessi pur dopo il d.l. 248/2007, al solo maturare di tali requisiti, ma solo in ambito diverso da quello della tutela reale) e licenziamenti basati sull’erogazione effettiva della pensione (che erano ammessi anche in area di tutela reale ma solo dopo la data di decorrenza del trattamento pensionistico) che aveva ragion d’essere almeno in una ratio di favore per le piccole imprese. Ciò, nel caso di specie, consentiva di concludere – a dire dell’appellante - che nel dicembre 2011 il Rossi, essendo già in possesso dei requisiti pensionistici, pur non potendo ancora godere della pensione, poteva essere oggetto di un atto di licenziamento, peraltro in concreto calibrato, quanto ad efficacia, al momento della maturazione del diritto all’erogazione della pensione.

Errate erano comunque anche le conclusioni del primo giudice rispetto alla natura discriminatoria del licenziamento. Intanto perché non era vero che esso si fondasse solo sull’età del lavoratore,

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essendo risultata rilevante anche la questione sulla pensionabilità di esso. Non poteva poi affermarsi un intento discriminatorio in quanto esso, per essere tale, avrebbe dovuto costituire la ragione unica e determinante del recesso datoriale. Con ampie argomentazioni l’appellante contestava poi comunque che l’impianto complessivo del ragionamento del Tribunale potesse essere condiviso. Osservava infatti che, per affermare che il licenziamento al raggiungimento del requisiti pensionistici si riconnettesse una discriminazione per età, avrebbe dovuto concludersi che l’art. 4 co. 2, L. 108/1990 fosse stato implicitamente abrogato dalla formulazione dell’art. 15 S.L., come conseguente alle modifiche apportate dal d. lgs. 216/2003. Ma ciò non era detto dal Tribunale e non poteva essere affermato, anche perché il disposto del citato art. 4 co. 2 corrispondeva ad un legittimo esercizio di discrezionalità legislativa, finalizzato a sviluppare una non irragionevole politica del lavoro, di svecchiamento della manodopera, e dunque una di quelle condizioni che sia le direttive comunitarie, sia alcune recenti pronunce della Corte Costituzionale e della Corte di Giustizia riconoscevano poter presiedere ad una disciplina in tal senso del recesso datoriale.

Con un terzo motivo di gravame l’appellante censurava un passaggio della sentenza impugnata, pur ritenuto non munito di portata decisionale, in cui si era ritenuta irrilevante la questione sulla mancata previsione, in relazione alla novella di cui al d.l. 201/2011, con cui si era prorogata l’applicazione dell’art. 18 S.L. fino al settantesimo anno di età, di un obbligo di comunicazione in capo al lavoratore rispetto all’intento di proseguire nel rapporto di lavoro. Pur ribadendo l’inapplicabilità della norma al caso di specie, perché tale da operare – come scritto anche dal ricorrente – “a decorrere dal 1.1.2012”, A.C.A.M. sosteneva l’illegittimità costituzionale della predetta mancata previsione, perché tale da incidere irragionevolmente sulle esigenze organizzative datoriali; così come incomprensibile era il fatto che non fosse previsto il venire meno della tutela ove poi, come il Rossi aveva fatto, fosse stata effettivamente chiesta la pensione. Infine A.C.A.M. reiterava le questioni già avanzate in primo grado ed ivi in sostanza assorbite con riferimento all’insussistenza dei requisiti dimensionali per l’applicabilità dell’art. 18 L. 300/1970, nonché al maturare dei requisiti per la pensione di vecchiaia fin dal 1.2.2012, laddove la questione sulla totalizzazione con la contribuzione commercianti, che a dire del Rossi avrebbe spostato la decorrenza al settembre 2012, non era rilevante, in quanto per esserlo si sarebbe dovuto dimostrare che una tale richiesta vi fosse stata prima del compimento del 65mo anno e che di essa fosse stato edotto il datore di lavoro, come non era avvenuto. In ogni più deteriore ipotesi, affermava l’appellante, il licenziamento avrebbe dovuto ritenersi legittimo ed operante quanto meno alla (successiva) data di effettivo accesso al pensionamento.

Gli eredi del Rossi si costituivano per resistere al gravame.

Essi pur contestando la veridicità dei fatti, ritenevano che nessuna rilevanza potesse avere un licenziamento verbale, di data incerta, allorquando l’atto di recesso era stato poi datato al 31.12.2011 e comunicato successivamente. Ne derivava l’applicazione dell’art. 24 d.l. 214/2011,

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normativa rispetto alla quale infondate erano altresì ritenuto le doglianze sollevate con il terzo motivo di gravame.

Con riferimento al secondo motivo di gravame gli appellati contestavano di non avere dedotto la natura discriminatoria del recesso, così come di non avere sostenuto che solo dopo il maturare del periodo di dilazione del pensionamento e dunque con l’effettiva liquidabilità della pensione avrebbe potuto essere intimato il licenziamento. In ogni caso, rispetto alla questione sulla decorrenza del diritto al licenziamento in relazione alla vecchiaia, incideva il disposto dell’art. 6 co. 2 bis d.l. 247/2007, che prorogava l’efficacia dell’art. 18 l. 300/1970 fino al momento della decorrenza del trattamento pensionistico, rendendo non legittima l’intimazione del licenziamento ad nutum nel corso della finestra di 12 mesi o di 18 mesi di cui al d.l. 78/2010.

Negavano poi gli appellati che non si potesse parlare di licenziamento discriminatorio, richiamando in sostanza argomenti analoghi a quelli del Tribunale ed osservando come le argomentazioni di A.C.A.M. confondessero la legittimità dell’art. 4 L. 108/1990 con quella del singolo licenziamento, laddove la disposizione aveva portata generale ed andava proiettata sui limiti temporali del licenziamento causale definiti nel corso del tempo dal legislatore; inoltre, osservavano ancora gli appellanti, le giurisprudenza comunitaria consentiva certamente deroghe generali ed astratte al divieto di licenziamento per ragioni di età, in relazione al perseguimento di politiche del lavoro e ad automatismi così previsti dai diritti nazionali, ma non ammetteva certamente comportamenti discriminatori discrezionalmente decisi dal singolo datore di lavoro.

Essi riproponevano poi tutte le ragioni di invalidità già prospettate in primo grado. con riferimento: all’erronea previsione del pensionamento del Rossi al 1.2.2012, quando semmai il pensionamento avrebbe potuto essere previsto per il successivo mese di settembre, ai sensi dell’art. 12, co. 1, lett. b) d.l. 78/2010 conv. in l. 122/2010 e per il fatto che il trattamento pensionistico veniva conseguito anche in relazione a contribuzione della gestione commercianti; ribadivano inoltre, come già in precedenti difese della medesima memoria, che l’estensione, ad opera dell’art. 24, co. 4, d.l. 201/2011, del divieto di licenziamento ad nutum fino al settantesimo anno di età, rendeva comunque illegittimo il licenziamento in questione in quanto fondato su una ragione, la pensionabilità del Rossi, che non poteva causalmente sorreggere il recesso.

Gli appellati contestavano infine di non avere allegato l’elemento dimensionale di Acam, la cui consistenza quanto a personale era ben superiore al limite di 60 dipendenti, trattandosi di impresa con centinaia di dipendenti in tutta Italia.

2.

La decisione delle questioni oggetto di causa non può prescindere dalla reimpostazione dei termini del contendere, anche rispetto alla normativa applicabile.

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E’ pacifico che il Rossi avesse maturato i requisiti anagrafici e contributivi utili al suo pensionamento di vecchiaia prima del 31.12.2011 (la rilevanza di questa data la si vedrà in prosieguo).

Tra le parti è contestato se il suo accesso a pensione potesse avvenire al 1.2.2012, come sostiene A.C.A.M. o nel settembre 2012, come sostiene la difesa degli appellati, in ragione dell’art. 12, co. 1, lett. b) d.l. 78/2010 conv. in l. 122/2010.

Di fatto poi il Rossi è andato in pensione dal 2.10.2012.

2.2

Non è però solo sul profilo sopra indicato che si è incentrata l’impugnativa del licenziamento intimato da A.C.A.M. in vista della data del 1.2.2012, in quanto è stato addotto fin dal primo grado e anche in risposta al primo motivo di gravame e comunque poi ex art. 346 c.p.c., il fatto che il licenziamento in previsione del pensionamento sarebbe invalido perché posto in essere in violazione dell’art. 24, co. 4, d.l. 201/2011, conv., con modificazioni, in l. 214/2011, secondo cui “nei confronti dei lavoratori dipendenti, l'efficacia delle disposizioni di cui all'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni opera fino al conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità”. Limite di flessibilità rispetto all’accesso a pensione che, poco prima, lo stesso comma, prevedendo anche incentivazioni per chi maturasse il diritto a pensione dopo il 1.1.2012, indicava in riferimento “all'età di settant'anni”.

Ciò significa che, fino ai settant’anni, se anche siano maturati i requisiti pensionistici, il licenziamento può avvenire solo per giusta causa o giustificato motivo e non per il solo fatto che siano maturati i requisiti pensionistici, applicandosi, in mancanza e nel ricorrere dei requisiti dimensionali, i rimedi dell’art. 18 L. 300/1970.

2.3

Il d.l. 201/2011, che già conteneva le disposizioni in esame, senza che le stesse siano state poi modificate dalla legge di conversione, è, come tipico della forma normativa, atto immediatamente efficace con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.

Né risultano (come è invece per l’art. 4 del medesimo d.l.) previsioni dilatorie in proposito.

La data del 1.1.2012, indicata da parte ricorrente fin dal primo grado come dirimente, non riguarda dunque il vigore della norma, ma ha un diverso significato e rilievo.

Essa è infatti considerata dal d.l. 201 cit. come discrimine tra diverse regole di accesso a pensione: nel senso che chi avesse maturato i requisiti anagrafici e di età fino al 31.12.2011 e secondo la normativa preesistente a quella data, poteva accedere al pensionamento sulla base di essi (art. 24, cit., co. 3 prima parte); chi invece a quella data non avesse maturato i requisiti pensionistici predetti, restava assoggettato alla nuova disciplina previdenziale in quella sede introdotta (art. 24, co. cit., ultima parte).

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2.4

Nulla peraltro autorizza a ritenere che la norma che consente il recesso ad nutum solo dopo il settantesimo anno di età si applichi solo a chi maturi i requisiti pensionistici dopo il 31.12.2011. E’ vero che si tratta di previsione collocata a chiusura del comma (il n. 4) destinato nella sua prima parte alla disciplina dell’accesso a pensione per chi maturi i requisiti dopo il 31.12.2011, mentre il mantenimento dei diritti di chi abbia maturato i requisiti prima è regolato dal co. 3, prima parte. Tuttavia il co. 14, sempre dell’art. 24 d.l. 201/2011, precisa che “ai soggetti che maturano i requisiti entro il 31 dicembre 2011” “continuano ad applicarsi” “ le disposizioni in materia di requisiti di accesso e di regime delle decorrenze vigenti prima della data di entrata in vigore” del medesimo d.l.: sicché, se ne desume, la disciplina che riguarda anche l’ambito più prettamente lavoristico e dunque la protrazione al settantesimo anno dell’applicazione del recesso ad nutum, ivi non menzionate, hanno viceversa applicazione generalizzata.

Ma sono in realtà anche altre le considerazioni che convincono della generalizzata, e peraltro mai messa in dubbio in causa, applicazione erga omnes del co. 4 ultima parte in esame.

E’ infatti certamente possibile, anche in relazione all’art. 6, n. 1, direttiva 2000/78, che, per ragioni di politica del lavoro, il legislatore preveda discipline speciali per i lavoratori anziani, sotto il profilo delle minori tutele sul piano del rapporto di lavoro ed in correlazione ai diritti pensionistici maturati, sicché una qualificazione tout court, come quella operata dal primo giudice, in termini discriminatori (per età), di un licenziamento fondato sul ricorrere del diritto a pensione nei termini previsti dal sistema previdenziale non può essere condivisa: anche perché, come osservato dalla difesa dell’appellante, appunto il licenziamento non era dovuto solo all’età, ma proprio alla possibilità del Rossi di andare in pensione, sicché, se le norme (v. l’art. 4 co. 2 l. 108/2000) lo avessero consentito, difficilmente si potrebbe disconoscere una reale finalità discriminatoria e tutto si ricondurrebbe, nella sostanza, ad una disciplina di legge, inerente anche la politica del lavoro e come tale comunitariamente compatibile.

E’ al contrario parimenti possibile che, per analoghe ragioni come anche per motivi generali di ordine previdenziale, quelle tutele lavoristiche vengano invece ampliate, come è nel caso in esame.

Non sarebbe però ammissibile, in quest’ultima prospettiva, che lavoratori in identiche condizioni (avvenuta maturazione del diritto a pensione) possano essere, sul piano del rapporto di lavoro e con normativa generale, trattati diversamente sotto il profilo del regime del licenziamento, pur se appartengano a tipologie (dimensionali) identiche di imprese, in dipendenza solo del diverso momento di maturazione dei requisiti pensionistici.

Anche perché una politica del lavoro selettiva in tal senso non sarebbe neppure comprensibile, né si può pensare a ragioni di ordine previdenziale: infatti lo scopo, da questo punto di vista, è l’allontanamento dell’accesso a pensione, sicché una maggiore estensione della tutela contro i

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licenziamenti, anche in favore di chi avesse maturato i requisiti di accesso a pensione anteriormente vigenti, opererebbe esattamente nella medesima direzione.

Pertanto, l’unica interpretazione che evita le disparità e le contraddizioni di sistema appena dette è quella, peraltro del tutto in linea con il tenore letterale della norma, per cui la protrazione al settantesimo anno del divieto di licenziamento ad nutum opera in favore di tutti i lavoratori di imprese rientranti all’interno della disciplina (quanto a dimensioni aziendali) dell’art. 18 L. 300/1970.

In sostanza, se per qualunque ragione il lavoratore, pur avendo maturato i requisiti prima del 1.1.2012, ritenga di non andare in pensione nel primo momento utile, ma di posticipare il pensionamento ad altra data, non per questo, fino al settantesimo anno, egli resta soggetto al licenziamento ad nutum.

Il licenziamento oggetto di causa, intimato prima del settantesimo anno e per sole ragioni di età e pensionabilità, risulta quindi privo di un diverso e necessario giustificato motivo o giusta causa legittimanti ed è pertanto, ricorrendo come si vedrà nel caso di specie anche necessari i requisiti dimensionali, invalido.

2.5

Va da sé che restano così superate tutte le questioni sulla datazione del licenziamento che, anche nella prospettazione di A.C.A.M., risalirebbe al più al “15.12.2011” od ad “altro” non meglio indicato “giorno a questo vicino”, che nulla autorizza a ritenere, né è affermato (anzi in appello si parla soprattutto del 15 o data successiva: v. pag. 30), possa essere addirittura anteriore al 6 dicembre 2011, data di entrata in vigore della normativa contenente le nuove regole.

3.

L’appellante, con il terzo motivo di gravame, sostiene peraltro che la disciplina sarebbe costituzionalmente illegittima per il fatto di non prevedere una previa comunicazione di opzione per la prosecuzione del rapporto da parte del lavoratore, come previsto ad esempio dall’art. 1 d. lgs. 503/1992 (o, può aggiungersi, più in generale, già dall’art. 6 L. 407/1990), nonché per il fatto di non prevedere che, “se il lavoratore chieda, poi, la pensione (come il sig. Rossi ha fatto)” la tutela venga meno.

Si tratta tuttavia di dubbi manifestamente infondati.

3.1

Il fatto che la disciplina di nuova introduzione non preveda, per il raggiungimento del settantesimo anno in superamento delle possibilità pensionistiche, l’esercizio di un’opzione, non può dirsi motivo di irragionevolezza.

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Il legislatore ha regolato l’ipotesi in modo diverso dal passato, il che comporta l’impossibilità per il datore di lavoro di confidare sul pensionamento del lavoratore, ma ciò non può dirsi scelta irragionevole, semplicemente non potendosi a questo punto, il datore di lavoro, aspettare nulla fino a che il lavoratore non compia i settant’anni. Il che appartiene chiaramente all’ambito della discrezionalità normativa.

3.2

Né vi è irragionevolezza per la mancata previsione del venir meno della tutela se il lavoratore poi decida di accedere alla pensione.

Se infatti ciò accade perché egli rinuncia alle ragioni di impugnativa del licenziamento, nulla quaestio, ma non vi sono ragioni per ritenere che sia questo il caso di specie.

In caso contrario, vuol dire che il lavoratore insiste per la prosecuzione del rapporto (rectius si oppone ad un licenziamento fondato solo sulla sua pensionabilità), come a quel punto è suo diritto, sancito discrezionalmente ed insindacabilmente dal legislatore, ai sensi della novellata normativa di cui si è detto. E ciò esclude che possa trovare applicazione l’ipotesi subordinata formulata dall’appellante con riferimento al far decorrere gli effetti del licenziamento dalla (successiva) data dell’accesso a pensione.

Semmai la questione è di aliunde perceptum. Ma questo problema, come tale, è stato già risolto dal primo giudice, il quale ha affermato che gli emolumenti pensionistici riscossi, perdendo di titolo in ragione della perseguita e disposta prosecuzione giuridica del rapporto di lavoro e sottoponendo il percipiente al rischio di ripetizione, non devono essere detratti. Tale valutazione, che prescinde dalle ragioni di invalidità del licenziamento, non è stata fatta oggetto in sé di gravame e dunque non vi è luogo a riesaminarla.

4.

Infondata è altresì la riproposizione in sede di gravame della questione sul requisito dimensionale per l’applicazione dell’art. 18 L. 300/1970, nel testo vigente ratione temporis, sotto il profilo dimensionale.

Il ricorrente ha affermato fin dal primo grado in modo chiaro, ripetendo il disposto dell’art. 18 cit., co. 1, ultima parte, che “la convenuta occupa più di 15 dipendenti nel Comune di La Spezia e, comunque, più di sessanta sul territorio nazionale”.

L’allegazione è stata dunque netta e tale da consentire pienamente una difesa contraria, in concreto articolata da A.C.A.M. solo con riferimento alla sede della Spezia, sotto il profilo del fatto che viceversa la sede di lavoro fosse in Genova.

Rispetto alla dimensione complessiva del personale sul territorio nazionale A.C.A.M. si è invece limitata a denegare.

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A fronte di ciò ed anche a prescindere dagli elementi indiziari, nel senso di un numero elevato di dipendenti, che derivano dalla sussistenza di un ufficio del personale (il cui responsabile avrebbe offerto in prima battuta la consegna della lettera di licenziamento al Rossi), spettava comunque ad A.C.A.M. fornire prova dell’insussistenza dei requisiti dimensionali (Cass. SS.U. 10 gennaio 2006, n. 141): ma tale prova, con riferimento ad esempio al personale complessivamente occupato sul territorio nazionale, tra l’altro semplice da fornire, è mancata.

5.

In definitiva il gravame va respinto, sulla base della reiezione del terzo motivo di gravame, laddove la condivisione delle critiche alla sentenza di primo grado in merito alla discriminatorietà resta superata dall’accoglimento di un’altra delle ragioni reiterate dall’appellato ex art. 346 c.p.c.. Il primo motivo di gravame resta invece assorbito. Ne deriva la conferma, pur se su altra base sostanziale, della pronuncia di invalidità del licenziamento, così come di ogni conseguenza di essa.

6.

Nulla vi è da disporre rispetto alla questione sulla restituzione del t.f.r., il cui capo non è stato raggiunto da motivi di gravame, né è coinvolto dalla presente pronuncia. Certamente la sopravvenuta morte del lavoratore crea ex novo il titolo per gli eredi rispetto alla percezione del t.f.r. stesso ma ciò, come rilevato dagli appellati, dovrà semmai essere oggetto di regolazione tra le parti.

7.

Le spese del grado seguono la soccombenza.

P.Q.M. respinge l’appello;

condanna Acam Spa a rifondere agli appellati le spese del grado, che liquida in euro 3.300,00 per spese defensionali, oltre iva e cpa.

sussistono a carico di Acam i presupposti per il raddoppio del contributo unificato, ex art.1, comma 17, L. n. 228/2012.

Genova, 8.1.2014

Il Consigliere rel. ed est. Il Presidente Roberto Belle’ Luigi de Angelis

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