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Il mestiere di “processualista” tra G.O.T., “nomofilachia” e suicidio legislativo assistito. Che fine ha fatto il “diritto” processuale? - Judicium

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B

RUNO

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ASSANI

Il mestiere di “processualista” tra G.O.T., “nomofilachia” e suicidio legislativo assistito. Che fine ha fatto il “diritto” processuale?*

*Intervento al Convegno Nazionale delle Camere civili, Roma 1 marzo 2013

Vengo invitato a parlare come “professore ordinario” ma – mi si consenta –

“ordinario” di che? Esiste ancora un vero diritto processuale civile? O almeno esiste un

“diritto processuale sostenibile”?1 È infatti il caso di domandarsi: che tipo di “diritto”

possiamo ancora insegnare ai nostri studenti quando ci riferiamo alle vicende processuali? La sequenza di riforme folli degli ultimi anni sta letteralmente distruggendo quello che una volta chiamavamo enfaticamente “diritto processuale civile”, per distinguerci, per un senso di (forse malintesa) nobiltà tramandatoci dai nostri padri, dalla più “modesta” procedura penale (sto considerando di prendere una amara decisione: sufficienza per tutti i candidati … chi ritiene di meritare di più si sottoporrà all’esame: mi sembra sempre più ingiusto, rebus sic stanti bus, bocciare i nostri ragazzi perché non hanno studiato o ben compreso regole e principi a cui la furia riformatrice – o “nomofilattica” – attenta continuamente da un quarto di secolo e che vedranno comunque regolarmente disattesi nelle aule di giustizia).

Credo di potermi ormai permettere di parlare di autopsia del processo civile. Pratico sufficientemente la professione di avvocato (non la professione dell’elegante avvocato d’affari che programma altrettanto eleganti meccanismi di trasferimento o moltiplicazione della ricchezza, ma il mestiere di quella sorta di paria professionale che – indipendentemente dal valore della controversia – “batte i marciapiedi della giustizia”, per usare una espressione di Virgilio Andrioli), quindi le cose le vedo spesso

1 “Il diritto processuale civile «non sostenibile» ha già fatto un ingresso prepotente nel nostro sistema, inquinando la considerazione che della materia hanno i normali destinatari delle norme processuali; il rischio è che si produca una reazione di rigetto indiscriminata, imputando all’intero sistema la perdita di qualsiasi razionalità e utilità”: CAPPONI B., Il diritto processuale civile «non sostenibile», in www.judicium.it

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dal basso e provo un senso di sgomento quando poi mi ritornano dall’alto nobilitate dai miei colleghi che non si rassegnano alla realtà. Colleghi che continuano a vedere una realtà conforme ai sommi principi, pur vivendo tutti i giorni impantanati nell’attuale processo (di qui la necessità impellente di capire chi si trova dall’altra parte della cattedra quando in occasione degli esami).

Faccio un esempio. Nell’ultimo periodo stanno arrivando al mio studio sempre più sentenze di primo grado redatte da cosiddetti G.O.T. E’ una stranezza: le sentenze redatte da questo tipo di giudice sono aumentate vertiginosamente rispetto al passato; si tratta spesso sentenze strampalate, incomprensibili, che rendono difficile impostare anche uno straccio di appello. Chiedo informazioni su questo curioso fenomeno e vengo invitato a considerare una circolare del CSM del 2011, rielaborata nel 2012 che invita i Presidenti degli uffici a fare largo uso di questi giudici ausiliari (sorta di: “se non ce la fate a smaltire il contenzioso, passate la mano ai GOT”). Ebbene le ultime tre sentenze di GOT che ho dovuto leggere sono decisioni di cause iniziate da giudici togati che, a un certo momento, per problemi organizzativi, sono state scaricate su tre ausiliari che hanno letteralmente o “rottamato” la trattazione precedente, o intentato una personalissima e (per così dire) “creativa” istruttoria. Così, a fronte di un capitolo di prova testimoniale del seguente tenore “dica il teste che la struttura non presentava lesioni prima di quella data”, il GOT non ammette la prova con la motivazione

“negativa non sunt probanda”, confondendo la forma logica dell’enunciato con la sua forma sintattica (una volta magari lo studente veniva bocciato su questa confusione:

oggi sarebbe da spudorati farlo). Un altro caso: la prova testimoniale richiesta per provare il furto di un documento, in presenza del ladro reo confesso, non viene ammessa, ai sensi dell’art. 2744 c.c., perché secondo il GOT la vittima avrebbe potuto meglio custodire il documento. Possibile, ma come contestare, in appello, questa mancata ammissione? Il nuovo art. 345 terzo comma c.p.c. recita, con molta chiarezza, che non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti. Giustizia è fatta! E’ comunque possibile tentare l’ appello cercando di trovare la strada per far ammettere prove non ammesse in primo grado, ma è una via crucis in ogni caso, un cammino penitenziale per chi ha la spudoratezza di non accontentarsi della sentenza di primo grado. La via è aperta alla luminosa lettura in prospettiva dell’art. 24 cost. che (si comincia a mormorare) va considerato garanzia di

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accesso e di giusto grado di giudizio, i gradi successivi essendo sostanzialmente octroyés (e quindi sensibili alla legge della c.d. scarcity, espressione che fa da inevitabile preludio a destini di trasformazione dei diritti in aspettative condizionate).2 Il rigetto dell’appello preclude poi il controllo della motivazione in Cassazione. Cosa deve fare oggi l’avvocato per avere un minimo di giustizia se è questa la situazione che gli si presenta?

La verità è che siamo al cospetto di processo di primo grado che – con la lodevole eccezione di qualche Tribunale (del Tribunale di Rovereto parlava stamane con molta chiarezza il dott. Perilli, per non citare il solito Tribunale di Torino) è letteralmente

“scollato”, con cause che durano dai quattro ai sei anni, un processo divenuto orfano della collegialità, accusata ingiustamente di allungare i tempi e divenuta oramai fenomeno del tutto marginale anche per la levata di scudi di noi processualisti che negli anni Novanta abbiamo scelto di puntare sulla centralità del giudizio di primo grado, gestito in toto da un giudice monocratico del tutto incontrollabile, anche per la sciagurata eliminazione del reclamo sui provvedimenti istruttori in tema di prove. Il risultato e che oggi ci ritroviamo ad avere sempre di più sentenze come quelle che ho indicato, con un appello “chiuso” a nuove prove anche solo documentali e, da ultimo, senza un più alcun controllo della motivazione in cassazione!

Su quest’ultimo profilo vorrei soffermarmi.3 Si ama oggi dire che funzione preminente della Corte di cassazione è la c.d. nomofilachia, ma la nomofilachia non si esercita tanto sull’interpretazione astratta della norma di legge, quanto piuttosto sull’applicazione della norma ai fatti. Spostando il focus sulle massime (le si chiama talvolta “precedenti” ma il precedente in senso proprio è ben altro) ma tralasciando il

2 Resta sempre il problema dell’art. 111 c. 7 cost., ma il tarlo della c.d. nomofilachia mostra sempre di più di essere in grado di mangiare il “legno duro” del preteso diritto al ricorso per cassazione. Lo zelo mostrato dalla Corte verso l’ampliamento delle prospettive di inammissibilità (v. l’impagabile uso dell’istituto del quesito di diritto da parte della Corte: B.

SASSANI - Corte Suprema e quesito di diritto: alla ricerca del senno perduto in www.judicium.it ) è significativo.

3 Maggiori delucidazioni nei miei brevi saggi (in www.judicium.it) Legittimità, “nomofilachia”

e motivazione della sentenza: l’incontrollabilità in cassazione del ragionamento del giudice e La logica del giudice e il suo controllo in cassazione, in corso di stampa anche in Riv. trim. dir.

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ruolo fondamentale dei fatti nella ratio decidendi si distrugge invece la base della stessa funzione nomofilattica della Corte di cassazione.

Domanda di fondo: come si controlla il ragionamento presuntivo oggi in cassazione? Il più incredibile ed assurdo di essi (per es. “i siciliani sono falsi e bugiardi”, e mi scuso con il collega Bongiorno per l’ardire), in quale modo può essere sottoposto al controllo della Corte? Qualche bello spirito va dicendo che la massima d’esperienza è controllabile come giudizio di diritto: lascio a voi il commento. E’ certo vero che buona parte dei giudizi che si potevano controllare in via indiretta attraverso la censura di cui al n. 5 del comma 1 dell’art. 360 c.p.c. si possono sottoporre alla Corte ai sensi del n. 3 dell’art. 360 c.p.c., sotto il profilo cioè della falsa applicazione della norma di diritto (come è vero che in generale si farà un grande uso di violazione e falsa applicazione di articoli come il 115, il 116 e il 112 del codice di rito, invocando il n. 4 dell’art. 360 c.p.c.), ma “questa” Corte di cassazione che da anni si dichiara rammaricata di non riuscire a gestire più l’enorme mole di contenzioso che per varie cause oggi la sovrasta (“l’assedio” ricordava prima il presidente Lupo), e che perciò mira da anni ormai a restringere il suo sindacato (costi quel che costi), avrà la voglia e il coraggio di accettare questo mascheramento obbligato del vecchio motivo del n. 5?

Vorrà ascoltare una classe forense oggi suo malgrado costretta a rinunciare ad una serie di garanzie che la Corte stessa, in altri (e lontanissimi) tempi, ha creato ex novo dalle pieghe dell’ordinamento? Non credo. Credo che – salve le crisi di coscienza di una minoranza di magistrati troppo scrupolosi ed intelligenti per accettare lo scempio che si profila – buona parte dei tentativi di ottenere giustizia aggirando la scomparsa del controllo della motivazione troverà fin-de-non-recevoir: che diamine, la Corte Suprema fa nomofilachia, mica giustizia!

Ma ritorno al punto davvero cruciale ed alla domanda di fondo: come si controllerà in Cassazione se due negozi sono collegati o meno, o se una condizione è bilaterale o unilaterale, o se un mandato è in rem propriam, o se un brevetto è dotato di originalità ecc. ecc.? E’ stata la Cassazione stessa a scegliere per questi giudizi – che a rigore sono giudizi di diritto – la via del controllo indiretto “come-se-fossero-fatti”– attraverso l’esame di congruità della motivazione ai sensi del n. 5 del comma 1 dell’art. 360 cpc.

Altrettanto nel campo del diritto processuale: come si controlla, ad esempio, se si è in presenza di una “comunanza di causa”? Di un “raggiungimento dello scopo”? Come si

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controllerà l’interpretazione della domanda (e del giudicato) compiuta dal giudice?

Anche qui tutto era assicurato dal controllo operato ex n. 5 del comma 1 dell’art. 360 c.p.c.

Ad oggi, al cospetto di un dato normativo decisamente ostile al controllo cui siamo stati abituati, l’unica via d’uscita razionale sarebbe quella di ricondurre gli esempi che ho appena fatto ed i tanti altri che potrebbero ancora farsi nell’ambito delle disposizioni di cui ai nn. 3 e 4 del comma 1 dell’art. 360 cpc.Ma, e qui mi ripeto perché il punto è cruciale, sarà disposta la Corte di Cassazione ad assecondare questa manovra difensiva della classe forense, cioè a rinunciare alla ghiotta possibilità oggi offerta dall’ordinamento di ridurre i suoi carichi di lavoro attraverso tagli di chiusura formalistica? L’indecorosa vicenda dei quesiti (dell’interpretazione cioè del defunto art.

366-bis c.p.c.) fa presagire il peggio. Se la risposta fosse invece positiva potrei azzardare la conclusione che il danno è relativo. Sono però pessimista.

E lo sono perché oggi assistiamo ad un fenomeno che si è già verificato nel nostro ordinamento. Prima del 1942, cioè nel testo originario del Codice del 1940 non esisteva infatti il controllo della motivazione, ma vi era una formula normativa nella sostanza identica a quella (re)introdotta nel 2012, e spazzata via dopo pochi anni. I giganti dell’epoca, Virgilio Andrioli e Gian Antonio Micheli attaccarono (nella Relazione Andrioli – Micheli, sulla riforma del processo civile) frontalmente la

“eliminazione del difetto di motivazione quale motivo di ricorso e la sostituzione con l’omesso esame di un fatto decisivo”, ricordando che l’esperienza pregressa (codice di rito del 1865) aveva insegnato che la censura circa la motivazione difettosa e contraddittoria non era “un perditempo, inflitto alla Corte Suprema” perché ingiustizia si commette “non solo nell’applicazione di norme di diritto, ma anche nell’accertamento dei fatti”. Viceversa l’esperienza successiva al 21 aprile 1942

“dimostra che l’omesso esame del fatto decisivo finisce con l’attribuire alla Cassazione un ben più penetrante esame del fatto, in quanto la valutazione della decisorietà implica o può implicare il riesame di tutto il materiale istruttorio acquisito alla causa”.

Meglio, quindi (a loro parere) “mantenere fermo il controllo sulla logica congruenza della motivazione, purché lo si limiti ai vizi causali, incidenti, cioè, sul dispositivo”. Insomma, al controllo della motivazione consacrato dalla felice formula

“omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione” (solo di striscio modificata dal d.

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lgs. n. 40/2006 che aveva trasposto ‘fatto’ a ‘punto’), si perviene perché la si reputa meno pervasiva e più congrua di un’indagine sul procedere e sull’incedere del processo che, come è noto, è indagine condotta direttamente in punto di fatto. L’unica soluzione sensata è un ragionevole e circoscritto controllo della motivazione, cioè la conservazione del potere di verificare (in negativo) che la ricostruzione operata in sentenza non presenti lacune e sviste tali da rendere insostenibile la conclusione in punto di diritto. Quel che accade dove è in gioco la naturale (ed ineliminabile) discrezionalità delle opzioni che va sotto il nome di ‘convincimento’ del giudice, quel convincimento che, nonostante la corrente qualificazione di “libero”, realmente libero non è, né può esserlo per le ragioni che ognuno conosce e che sarebbe qui ozioso riepilogare. Verificare la tenuta in fatto della decisione fondandosi su elementi esterni alla motivazione, significa invece imporre un compito ingrato alla Corte, riportandola ad un passato già sperimentato e travolto dalla sua infelice riuscita.

E’ dunque, il nostro, il ritorno ad un infelice passato: rischiamo la chiusura cieca – mi dispiace dire queste cose davanti al Presidente Lupo e alla Presidente Luccioli che sono persone estremamente ragionevoli – quantomeno da parte di quella porzione della Corte che non sembra governata da un sufficiente grado di ragionevolezza come è dimostrato, solo per limitarsi a qualche esempio, prima dal totale fraintendimento e poi dalla distruzione vera e propria del (sacrosanto!!) quesito di diritto (olim consacrato nell’art. 366 bis, abrogato dalla L. n. 69/2009); o dalla mole di ricorsi piovuti su Strasburgo in tema di “autosufficienza del ricorso in cassazione”, o di mancato contradditorio nelle ipotesi di decisione nel merito di cui all’art. 384 cpc. Questa è purtroppo la nostra Corte di Cassazione, c’è uno iato tra un’etica della responsabilità e un’etica della irresponsabilità a cui nessuno è riuscito a porre rimedio adesso.

La nuova (ma purtroppo antica!!) formulazione del n. 5 del comma 1 dell’art. 360 c.p.c. è, per concludere, uno dei grossi problemi che ci troveremo ad affrontare, triste coronamento di un sistema generale che non funziona e che trovava però, proprio nel controllo della motivazione, quella minima valvola di sfogo che probabilmente abbiamo già perduto.

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