Aristofane
LISISTRATA
A cura di Giovanni Greco
Feltrinelli
Titolo dell’opera originale Λυσιστράτη
Traduzione dal greco antico di GIOVANNI GRECO
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione digitale 2016 da prima edizione
nell’“Universale Economica” – I CLASSICI settembre 2016 ISBN ebook: 9788858826126
In copertina: elaborazione dell’ufficio grafico Feltrinelli.
Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Lisistrata ovvero della “sfortuna” di Aristofane di Giovanni Greco
La disgrazia di Don Chisciotte non è la sua fantasia, è Sancho Panza.
F. KAFKA
Ne Il nome della rosa Umberto Eco immagina che
l’ultima copia del leggendario secondo libro della Poetica di Aristotele (quello sulla commedia e sul riso, a tutt’oggi un fantasma) sia custodita in un’abbazia del XIV secolo
dell’Italia settentrionale da un monaco vecchio e cieco: si tratta di un manoscritto avvelenato, e chiunque tenti di sfogliarlo, leccandosi le dita per staccare le pagine l’una dall’altra, muore in poco tempo. Prescindendo
dall’ambientazione romanzesca e dalla questione
lungamente dibattuta dell’esistenza di un secondo libro della Poetica (la maggioranza dei critici oggi tende a
escluderlo), la vicenda che Eco mette in scena testimonia di una millenaria rimozione che la storia della cultura ha
operato nei confronti del comico e del riso, visti come portatori di sovversione demoniaca, destabilizzatori dell’ordine costituito, sinonimi di ogni bassezza, di ogni profanazione, di ogni stile e genere minore. Lo stesso Dante intitola la sua opera fondamentale, che pure compare nel romanzo di Eco, Comedìa (“divina” è
qualificazione successiva) nel momento in cui si dedica al racconto dell’inferno più profondo e di ogni dissacrazione
linguistica, politica, religiosa. Certo, quando si dice commedia in quanto genere letterario, quando si dice comico in quanto codificazione del riso e quando si dice riso in quanto espressione, più o meno spontanea, di una scarica catartica ovvero di un impulso energetico
dirompente sul piano delle relazioni interumane, in realtà si stanno affermando punti di vista diversi nello spazio e nel tempo e si sta razionalizzando quel che a fatica trova
un’oggettiva, inequivoca modalità di interpretazione. Il
riso, come il corpo, ha rappresentato, soprattutto nel secolo scorso, un campo di indagine ricorrente, dopo essere stato per millenni un buco nero, un vero e proprio tabù con tutte le implicazioni e le contraddizioni di attrazione e di
repulsione, di censura e di revival che il “perturbante”
(Unheimlich), per dirla con Freud, produce nel singolo e nella collettività. Questo ha inciso profondamente sulla fortuna del genere comico oltre che sulla dignità del suo statuto teorico. E la fortuna, il Nachleben di un’opera, di un genere letterario, di un personaggio di fantasia, di una
versione di un mito oltre che dell’autore che gli ha dato quella forma non sono mai accidentali. Corrispondono sempre all’orizzonte d’attesa di un pubblico che non è
tematico, non si attesta cioè sul piano della scelta di alcuni contenuti rispetto ad altri, al piano del plot o della fabula, intesa come un’invariante, punto di incontro di tensioni universali ed eterne, metastoriche. Il riuso, la riscrittura, l’intertestualità, nel caso specifico della risata come
struttura comunicativa, si danno invece nella modalità contingente con cui si configurano alcune domande, nella forma unica e necessaria che prendono quelle domande, quelle poche domande che alludono ad altre, molteplici
domande, che trovano, così poste, una formulazione unica e che restano, così formulate, un’esperienza irresistibile,
un’emozione inesauribile nel suo ribadirsi come insopprimibile frustrazione.
Si dice genericamente che il teatro di Aristofane, la
comicità irriverente delle sue commedie, l’aggressività e il sarcasmo ad personam dei suoi personaggi paradossali, il più delle volte storicamente riconoscibili, abbiano avuto poco o nessun seguito diretto nel corso della storia
letteraria.1 La raffigurazione del cosiddetto polisistema letterario come di una continua struggle for life di generi e opere, sistema nel quale per motivi politici, economici e sociali si canonizzano come central texts le opere e le
versioni di alcuni autori e si marginalizzano quelle di certi altri, s’intreccia con le vicissitudini della traduzione, il
riconoscimento del suo statuto teorico fondativo nel dialogo tra lingue e culture, l’idea che la traduzione non sia
sempre, necessariamente “tradimento”, ma spesso, anche se non necessariamente, costituzione di una “tradizione” da intendersi in senso dinamico. E se è vero che Aristofane è stato oggetto di traduzione fin dai primordi della riscoperta umanistica dei testi antichi,2 è altrettanto innegabile che il genere comico, come la critica lo desume dalle commedie di Aristofane, intrattiene rapporti molto indiretti con una certa idea e una certa prassi di commedia a tutti noi molto familiari. Voglio dire che fin da tempi molto antichi e di poco successivi a quelli di Aristofane, cioè fin dai tempi della Commedia di Mezzo (IV secolo a.C. circa) e poi della Commedia Nuova (III secolo a.C. circa), la parola
commedia, e la tipologia di riso da questa veicolata, si è configurata molto diversamente dall’invenzione aristofanea, presentandosi con forme e contenuti costanti e ripetitivi, come una vera e propria variazione sul tema della dialettica inesausta tra matrimonio e patrimonio. Ma quali sono il comico e la comicità che la critica mette in luce come tratto saliente delle commedie di Aristofane e forse più in
generale della Commedia Antica del V secolo a.C., ovvero che cosa significano comicità e riso per Aristofane e cosa significano invece per Menandro e poi per Plauto e
Terenzio, per Rosvita, per Shakespeare, per Molière, per
Goldoni, per Čechov, per Eduardo De Filippo, per istituire una lignée indubitabilmente arbitraria eppure, pur con tutte le cautele e le distinzioni, paradigmatica di una certa tendenza? La risposta non è univoca e attiene al piano della ricezione dei testi, che interseca il piano della storia del costume, delle prassi editoriali, delle scelte censorie che si presentano di volta in volta come contingenti e che possono essere completamente ribaltate con il trascorrere di
un’epoca o riviste e persino ignorate dal punto di vista
etico, politico, economico. Facciamo un esempio. Uno degli elementi strutturali e identitari della Commedia Antica del V secolo a.C. era la parabasi, cioè la sospensione
dell’azione scenica e l’appello diretto al pubblico da parte del corifeo che si toglieva la maschera e si faceva portavoce dell’autore, delle sue rivendicazioni estetico-politiche e
talora di una smaccata captatio benevolentiae nei confronti dei giudici che potevano fare la differenza nella
competizione tra commedie. Ora la parabasi, che si colloca su per giù al centro della commedia stessa, suddivisa
canonicamente in sette parti e così caratteristica del modus operandi dei commediografi antichi, non trova nessuna
continuazione diretta nella storia successiva del genere comico. Ma esistono altri elementi, anch’essi caratteristici, come l’onomasti komodein (lo “sbeffeggiare per nome” i personaggi importanti della polis), la parresia (la “libertà di parola”) o la iambike idea (la “forma giambica” dell’insulto, quasi sempre osceno, che pervade ogni episodio), così
peculiari di quella facies teatrale, che, pur non
configurandosi con la virulenza sagace che avevano in Aristofane (o in Eupoli e in Cratino, esponenti di spicco della Commedia Antica), si ripresentano trasfigurati nelle epoche successive nelle forme molteplici della caricatura, dell’allusione, magari del gioco di parole, seppure slegati da un impegno politico diretto.
Tuttavia, per arrivare a inquadrare meglio la portata
della comicità di Aristofane è possibile partire proprio dalla
Lisistrata, che più di altre commedie presenta tratti
paradigmatici e permette un discorso che dal particolare si apra sul generale. La trama della Lisistrata come viene riassunta nell’ipotesi, cioè nella premessa al testo che i codici ci tramandano e che risale ai grammatici
alessandrini (Aristofane di Bisanzio) e in ultima analisi alle Didascalie di Aristotele, si svolge su due piani
sapientemente intrecciati dall’autore: il primo è quello dello sciopero del sesso che le donne dell’intera Grecia
decidono, non senza esitazioni, perché i mariti mettano fine alla guerra; il secondo è quello dell’occupazione, della
presa dell’Acropoli di Atene da parte delle donne stesse e del tesoro in essa custodito con il quale la guerra si
alimenta all’infinito. Lisistrata, protagonista assoluta, è per così dire regista della duplice peripezia e drammaturga in scena che tiene insieme i due livelli, quello dell’astinenza sessuale e quello dell’astinenza economica che investono profondamente l’universo maschile fino alla capitolazione.
L’azione prende avvio all’alba ad Atene: Lisistrata ha convocato le donne di Atene, ma anche alcune
rappresentanti di Spartane, Corinzie e Beote, per
comunicare il suo piano di portata panellenica, quello di non concedersi più ai mariti fino alla cessazione delle
ostilità, che durano ormai da troppo tempo. Le donne fanno resistenza, piangono e tremano al pensiero, ma infine
cedono e giurano di astenersi dal sesso con i mariti. Nel frattempo le più anziane hanno preso l’Acropoli e vi si sono asserragliate. Mentre Lampitò, la Spartana, e le altre
donne provenienti da tutta la Grecia tornano alle loro case per mettere in atto il piano, Lisistrata e le Ateniesi più
giovani si uniscono alle anziane sull’Acropoli. Qui, dopo un primo tentativo fallimentare di reduci e veterani ateniesi di riprendersi il cuore della vita politica, economica e sociale di Atene, arriva un Probulo (che la traduzione familiarizza in “Prefetto”), una sorta di commissario del popolo,
rappresentante del potere “oligarchico” in quel momento
dominante, circondato da scherani e guardaspalle, che ingaggia un corpo a corpo prima simbolico e poi fisico con Lisistrata stessa e le sue compagne, nel quale soccomberà miseramente. Nella finzione scenica trascorrono alcuni giorni, circa sei da quell’evento, e l’intreccio fra astinenza sessuale e occupazione dell’Acropoli comincia a produrre effetti visibili, innanzitutto sulle donne, che con scuse
fantasiose cercano, bloccate dall’incorruttibile Lisistrata, di fuggire dall’Acropoli che stanno presidiando; ma
soprattutto, in maniera macroscopica, l’astinenza fa breccia negli uomini. Memorabile la scena tra Mirrine, una delle
“congiurate” più vicine a Lisistrata, e il marito Cinesia (vv.
829-958), che è venuto fino all’Acropoli, accompagnato dal figlio piccolo e in preda a un’eccitazione irrefrenabile, che supplica prima Lisistrata e poi la moglie di concedere
refrigerio al suo fallo, implacabilmente eretto da giorni.
Mirrine, su suggerimento di Lisistrata, si mostra a più riprese sul punto di concedersi per poi ritrarsi all’ultimo momento, esasperando il marito, finché, al culmine
dell’esilarante incontro, strappa a Cinesia il giuramento di por fine alla guerra. Questo giuramento è propedeutico all’arrivo di un araldo da Sparta, che versa nelle stesse condizioni di visibile eccitazione di Cinesia, come tutti i suoi concittadini maschi e al pari di tutti i maschi di Atene.
I due intuiscono che c’è un patto tra le donne greche, concordano sul fatto di mettere fine alla guerra, di
chiamare da Sparta e da Atene i massimi ambasciatori con pieni poteri. Una volta convenuti ad Atene, ascolteranno le sagge parole della protagonista, chiamata a gran voce in scena, che rivendicherà il primato della sophrosyne
femminile su quella maschile nel condurre le cose del
mondo, ricorderà l’antica amicizia antipersiana fra Ateniesi e Spartani e farà scoppiare la pace che coinciderà con la riconciliazione tra uomini e donne e con una grande festa finale che suggelli la ritrovata armonia pubblica e privata.
C’è un elemento che più di tutti spicca anche a un primo, sommario racconto della vicenda: quello del rovesciamento dei ruoli, della messa in scena di un’utopia che vede le
donne prevalere e determinare il corso delle cose, secondo la migliore tradizione carnevalesca. La Lisistrata mostra molti punti di contatto con la configurazione potente e insuperata del carnevale come l’ha ricostruita Michail
Bachtin secondo alcune invarianti,3 tra cui il contatto libero tra le persone, l’eccentricità (l’inversione tra centro e
periferia), la mescolanza (tra alto e basso, tra dentro e fuori, tra pubblico e privato), la profanazione (sacrilegi, oscenità, parodie sacre), in una prospettiva materialistica, realistica e corporale contro ogni idealismo e scala
valoriale riconosciuti. Ma solo fino a un certo punto: cioè se è vero che la messa in scena è espressione di questo
relativismo valoriale e di questo ribaltamento sistematico, l’operazione di Aristofane resta pur sempre un’operazione di secondo grado, mediata da codici consolidati che sono il portato di una cultura popolare ma che allo stesso tempo s’inseriscono all’interno di forme rituali e ritualizzate del riso e del comico, del gesto apotropaico e dell’esorcismo catartico ovvero della funzione sociale del riso. In questo senso, per sgomberare subito il campo da uno degli
equivoci più lungamente dibattuti nella vicenda
ermeneutica della Lisistrata, proprio a partire da quanto detto e anzi estendendone i confini, si può molto
nettamente affermare che con quest’opera non ci troviamo davanti a un testo (proto-)femminista o a un autore che si fa carico di istanze a dir poco anacronistiche. Il finale della commedia s’incarica precipuamente di negare un certo tipo di rivendicazioni e di riaffermare anzi il valore del
matrimonio e della monogamia, coerente con i valori della pace, dell’abbondanza, dell’armonia delle relazioni
interumane nella dimensione della festa. Anzi, proprio il finale introduce, nella sua ampia costruzione senza colpi di scena, alla constatazione che molte delle commedie
conservate di Aristofane finiscono nello stesso modo: con una grande festa, con un banchetto, con un komos, ovvero con una processione festosa all’insegna del vino, della danza e del canto che fanno il paio con altre scene altrove ricorrenti come quella del travestimento o del gamos, cioè proprio del matrimonio. Scene che si ritrovano in altre commedie con sfumature differenti in momenti diversi dal finale e che inducono a declinare in maniera meno
spontanea e irriflessiva la drammaturgia aristofanea:
l’incoronazione e lo scoronamento, il corpo grottesco, il riferimento scatologico che permea l’eros nella sua
versione più prettamente materiale e quindi l’affermazione del linguaggio della piazza, l’apoteosi della dimensione ludica, nella quale i ciarlatani sono i padroni e il realismo è il registro di ogni relazione dove tutto vive e si consuma nel presente del cibo, del vino e del sesso, risultano sempre come filtrati, mediati, inverati dalla sapienza e dalla
competenza letteraria di Aristofane. Questa competenza, che si esplica ripetutamente nelle forme sofisticate della paratragedia, cioè della parodia della tragedia e degli autori tragici, così pervasiva nel tessuto della scrittura di Aristofane (e di tutta la Commedia Antica), colloca la critica e l’invenzione drammaturgica nel contesto di una forma strutturale del dibattito politico e culturale della città quale era il teatro nella sua versione comica.
Ma soprattutto fa giustizia di un altro idolum di cui la critica ha investito la produzione teatrale di Aristofane, che viene generalmente suddivisa in tre fasi eterogenee: una prima che va dall’esordio nel 427 a.C. con i Banchettanti (opera pervenutaci frammentaria, in cui Aristofane non
figura come autore) alla Pace del 421 a.C., che coincide con l’epocale tregua nella Guerra del Peloponneso fra Ateniesi e Spartani, cominciata nel 431 a.C.; una seconda che va dalla Pace alle Rane del 405 a.C., che coincide con la disfatta di Atene nella Guerra del Peloponneso e con l’abbattimento delle Lunghe Mura; e una terza che data
dalle Rane e si conclude con il Pluto del 388 a.C., epoca che vede il tramonto dell’Impero ateniese e l’instaurazione di nuove egemonie, spartana prima e tebana poi.
Questa tripartizione, che presenta una comodità storiografica indubbia, non corrisponde al concreto sviluppo della vicenda compositiva delle commedie di Aristofane e riduce la complessità di un percorso che si nutre in ogni caso dell’occasione agonale, delle questioni politiche e giudiziarie della più cogente attualità, del dibattito e delle polemiche letterarie coeve che non sono mai avulse da ricadute politiche in una face-to-face society, una “società calda” come quella ateniese della seconda metà del V secolo a.C. che prospera nel contatto aspro e diretto di ogni dibattito e di ogni decisione, in una forma che è sempre o quasi quella dell’oralità/auralità e
pochissimo quella del libro e della circolazione libraria. Si dice che la prima fase della drammaturgia aristofanea, di cui ci restano integre Acarnesi (425 a.C.), Cavalieri (424 a.C.), Nuvole (423 a.C.), Vespe (422 a.C.) e Pace (421 a.C.), sia quella più implicata politicamente, con attacchi diretti a personaggi illustri, su tutti Cleone, il leader della
cosiddetta democrazia radicale, che gli intenterà un’azione legale per gli insulti ricevuti nei Babilonesi (del 426 a.C. e di cui possediamo solo frammenti), dalla quale Aristofane uscirà indenne. A questa fase ne seguirebbe una seconda meno “politicizzata”, più legata a temi di evasione e alla costruzione di utopie, di cui fanno parte, tra le commedie integre, Uccelli (414 a.C.), Lisistrata (411 a.C.),
Tesmoforiazuse (411 a.C.), Rane (405 a.C.): in realtà
proprio a considerare la Lisistrata, che si cala fino in fondo nell’agone politico e prende, a detta di molti, una posizione critica nei confronti dei fatti contingenti dell’Atene
contemporanea, si fa fatica a decretare il piglio evasivo e utopico di questa seconda fase. L’ultima fase è quella di cui conserviamo Ecclesiazuse (391 a.C.) e Pluto (388 a.C.), che vengono di solito ascritte, soprattutto la seconda, alla
Commedia di Mezzo e addirittura ritenute prodromi della Commedia Nuova per la prevalenza di temi moraleggianti e la lontananza dalla lotta politica. A dire il vero, anche
l’ultima fase della produzione comica aristofanea risente ineluttabilmente del mutato contesto politico e sociale, ma più che preannunciare sviluppi successivi, secondo una prospettiva evoluzionistica e progressiva dell’arco creativo di un autore e di un’epoca, registra una differente relazione con la polis, assume l’idea che il riso e il comico siano
sempre storicamente determinati e che la forma della commedia subisca, proprio in questo passaggio epocale, una ristrutturazione che la rende, per così dire,
inattaccabile, definitiva, vincente: quella che in qualche modo è arrivata fino a noi.4
E qual è, pur con tutte le sfumature e le cautele, questa forma della commedia che è arrivata fino a noi? Quali sono le costanti e le varianti, se ce ne sono, che ha subito nel tempo e nello spazio? Molto poche le varianti, molte le costanti. In un certo senso si potrebbe dire che la
commedia suddivisa in atti e scene, con trama claustrofobicamente familistica e più o meno
esplicitamente edipica, interpreta il riso e il comico come la liberazione della scarica energetica che l’inibizione sociale tiene costretta e, freudianamente, vive il conflitto tra
principio di piacere e principio di realtà in direzione di un piacere catastematico, cioè statico, che annulla per un momento, il momento della risata, del Witz (motto di
spirito), la censura e ricongiunge lo spettatore all’infanzia, alle sue più profonde e antiche pulsioni di vita e di morte, quando le preoccupazioni inibitorie erano poche o quasi nulle. Questo processo generale di riduzione, di
normalizzazione della molteplicità formale e contenutistica del comico (e del tragico) che data dal IV secolo a.C., nel quale la famiglia diventa il solo e imprescindibile luogo della riflessione e della produzione di senso, il plot unico, l’eterna tragicommedia degli equivoci assume a paradigma
drammatico il triangolo amoroso, il conflitto generazionale, la contesa per l’eredità, fino all’estenuazione di tutte le varianti possibili. Il percorso che si determina non è neutro né tantomeno naturale, ma corrisponde, oltre che a un
mutamento politico e sociale rilevante (la fine
dell’esperienza democratica ad Atene nel 404 a.C.), a quello che Pasolini avrebbe chiamato un “mutamento antropologico”, un vero e proprio spostamento secolare dell’obbiettivo, della focalizzazione simbolica all’interno delle mura domestiche che si impongono come il refugium infallibile per l’indagine delle motivazioni dell’agire umano, la cornice irrinunciabile dello scavo psicologico e della sua proiezione drammatica. Si dovrà aspettare fino agli anni settanta del Novecento perché Deleuze e Guattari mostrino la perversione di questa prospettiva edipica prima di (e nonostante) Freud, cioè il fatto che nell’uomo, macchina desiderante a tutto tondo, il desiderio incommensurabile (che è politico e sociale, oltre che erotico-sessuale) sia stato pervertito in desiderio solo endogeno, familistico,
incestuoso: sia stato dunque manipolato e trasformato, in forme talora molto latenti, in tabù.5 Così non era per
Aristofane, così, per spostarsi sul piano del tragico, non era per Sofocle nonostante Edipo,6 per il Sofocle delle
Trachinie o del Filottete, quello che mette in scena il dolore del corpo e non dell’anima come si sarebbero incaricati di fare millenni di teatro, di poesia, di letteratura in seguito.7 Ma in che senso? Come si realizza questa tendenziale
reductio ad unum che mortifica il riso come spreco, s-
progetto e non-senso (Bataille) e ne fa uno strumento o una maschera del controllo sociale (Bergson)? Come vengono canonizzati certi aspetti che divengono centrali e
marginalizzati altri che vengono sommersi in periferia?
Fino al Novecento nessuno metterà più in scena la rivolta delle donne che sovvertono l’ordine costituito come accade nella Lisistrata, che Aristofane ci abbia creduto o meno, che l’abbia fatto per convenzione o per parlare d’altro.
Nessuno, se non eccezionalmente, metterà più in scena il corpo come apertura originaria sul mondo, con la sua ambivalenza simbolica che nega la mortificazione del
simulacro biologico e l’alienazione che discende dalla sua riduzione a merce metafisica e a feticcio materico ed
esprime l’infinita magmaticità delle sue potenzialità innumeri: il corpo che pensa, agisce, parla, gode, soffre, muore in maniera antiunitaria, arcaica, pre-platonica prima degli equivoci dualistici sull’anima.8 Le eccezioni che si possono contrapporre a un’affermazione così perentoria e imprudente attengono tutte a un piano che riconosce, a fronte di un pensiero (e quindi di una comunicazione letteraria, teatrale, musicale, coreografica) ufficiale, un pensiero “ufficioso”, “marginale”, “periferico”,
“clandestino” che non viene mai meno nei secoli, che talora emerge all’improvviso per poi all’improvviso scomparire, veicolato nel tempo dagli uomini come dalle donne nelle forme più differenti, consapevoli o meno, popolari e
sotterranee, rimosse e insopprimibili. La marginalizzazione del diverso (perverso/criminale), del mostruoso, del
corporeo, del femminile, del malato, del folle (il fool di shakespeariana memoria) tipica delle società “fredde”, disciplinari e disciplinate, comporta la genesi di un comico e di un riso amari, solidali, composti (e parallelamente di un tragico e di un pianto convenienti, che troveranno il loro inveramento ultimo nel pianto di Maria sotto la croce).9 Lo sviluppo di tecniche di controllo, di una capacità sempre più affinata di far corrispondere le parole alle cose,10 di disciplinare, classificare il diverso (perverso/criminale), il mostruoso ecc. e di sistemarli nella casella corrispondente è il risultato di un enorme sforzo razionalizzante che dai sofisti del V secolo a.C. arriva fino al cogito cartesiano che ne fa sistema. Un sistema pervasivo, totalitario, che
organizza in modo capillare l’esistente, materiale e simbolico, naturalizzando un artificio. Che in tempi relativamente recenti entra in crisi, viene contestato
radicalmente, pur non venendo mai davvero meno. Le prime avvisaglie della crisi, i primi scricchiolii di questa sistemazione poderosa si avvertiranno intorno alla metà del XIX secolo, quando l’idea stessa di mimesis, quindi, per
rimanere nell’ambito dell’estetica, di intenzione dell’autore, nella quale le parole corrispondono alle cose quindi alle idee, viene progressivamente smontata. Si ridefinirà il
campo di azione dell’arte intesa come rappresentazione e le relazioni pericolose tra etica ed estetica: è del 1855, per quel che concerne il nostro tema, De l’essence du rire di Charles Baudelaire, che rivaluta il riso, tradizionale
espressione di Satana, come momento di liberazione e come vertigine che abita il gioco del bambino che rompe il giocattolo e ne libera l’anima più profonda (in questo
preconizzando il rinnovato rapporto con il riso “satanico”
dei poeti maledetti, tipo il Lautréamont dei Canti di Maldoror). Già del 1824 è, exempli gratia, l’Elogio degli uccelli, operetta morale di Leopardi, che inventa il mito del canto degli uccelli come forma poetica del riso. Ma
torniamo ad Aristofane, se mai ce ne siamo allontanati, e alla Lisistrata.
La Lisistrata, che realizza molte delle peculiarità di un comico non irreggimentato, fornisce spunti per un’analisi specifica, soprattutto per quel che concerne un tema molto caro al dibattito storiografico antico e moderno, quello del rapporto o della sovrapposizione tra pubblico e privato, cioè di una versione contraddittoria del familismo. Fin dal principio, le donne capeggiate da Lisistrata sovvertono
l’ordine consolidato e atteso portando nella contesa politica le istanze della sfera privata e anzi proponendole come la chiave di volta per la risoluzione di problemi incancreniti come quello della guerra. Poco dopo l’inizio della
commedia, una volta che tutte le donne sono convenute all’appuntamento panellenico orchestrato da Lisistrata, quest’ultima, non senza solleticare la curiosità delle
interlocutrici e la suspense del pubblico, spiega il suo piano (vv. 119-128):
LISISTRATA
Lo dico: non devo nascondervi il piano.
Noi, donne, se mai volessimo costringere gli uomini a fare la pace, dovremmo rinunciare…
CALONICE
A che? Parla.
LISISTRATA
Ma lo farete?
CALONICE
Lo faremo, son pronta a tutto, m’ammazzo!
LISISTRATA
S’ha da rinunciare senza indugi al cazzo.
Perché vi girate? Dove ve ne andate?
Perché quelle smorfie? Quei no con la testa?
Perché mi sbiancate? Perché buttar lacrime?
Lo farete oppure no? Che v’aspettate?
La reazione delle donne, disvelata dalle domande di
Lisistrata che restano in un primo momento senza risposta, è di sconcerto, non solo e non tanto per le conseguenze nefaste che immaginano possano discendere dall’astinenza sessuale coatta e prolungata, ma anche e più
profondamente perché loro per prime ragionano in termini di separazione tra pubblico e privato, tra dentro e fuori, tra maschile e femminile, tra Estia ed Ermes.11 Hanno
interiorizzato un patrimonio ideologico antichissimo e che pure viene continuamente fatto oggetto di discussioni e di critiche, soprattutto in teatro. Tanto è vero che nella scena centrale della commedia, quella dell’agone tra Lisistrata e il Probulo/Prefetto (vv. 476-613) che cerca di riportare l’ordine e di sgomberare l’Acropoli, luogo per eccellenza del potere politico ed economico maschile, Lisistrata
ribatte alle argomentazioni dell’uomo, contrapponendo le virtù “casalinghe” della sapienza femminile come l’unica e forse ultima possibilità di riportare la pace. Così, quando il Probulo/Prefetto la sfida perché gli dispieghi la soluzione
che ha in mente, Lisistrata risponde come una nuova Penelope (vv. 567-588):
LISISTRATA
Come matassa, quando s’ingarbuglia, si prende e si dipana da una parte e dall’altra parte, così districheremo questa guerra, se concesso, sceverando una parte dall’altra con diplomazie.
PREFETTO
Con lane, con matasse e fusi credete metter fine all’orrore? Immondo.
LISISTRATA
Se aveste cervello, grazie alle nostre lane governereste il mondo.
PREFETTO
Come? Forza.
LISISTRATA
S’ha prima, come lana, in un bagno da togliere il sudicio della città, e su un letto mazzolare i perfidi, sostituire i cialtroni, e chi trama in segreto per ottener le cariche cardarlo bene bene e spennargli quei testoni;
pettinare in un paniere l’accordo generale
mischiando tutti: i meteci, gli stranieri a voi amici, e pure i debitori, frullarli tale e quale;
e le città, mio dio, che vi sono colonie, capire come sono per noi quali fili di lana separati: da tutti questi bisogna prendere, riunirli in uno solo e farne un grosso gomitolo e con questo poi tessere un mantello per il popolo.
PREFETTO
Non è assurdo che questa dica mazze e gomitoli, che non c’entrano in guerra?
Il Probulo/Prefetto non capisce, cioè non riesce a
sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda metaforica di Lisistrata che rivendica la pazienza, la cura, l’attenzione pragmatica alle faccende dell’universo femminile e non intende
l’eventualità che l’esperienza dell’oikos (la casa) possa risolvere le controversie della polis (città). Lo stesso era capitato in un altro agone famosissimo, quello tra Antigone e Creonte nell’Antigone di Sofocle (vv. 441-525), cui si
allude qui nitidamente e ripetutamente, nel quale le ragioni del privato e degli affetti, cioè della necessità della
sepoltura di Polinice, assumono valenza politica pubblica, confliggendo con il decreto pronunciato da Creonte, tutore dell’ordine costituito, contro la sepoltura stessa.12 Nell’un caso come nell’altro il potere “legittimo e maschile” ha la peggio: Creonte sarà il tragico responsabile della morte di Antigone, di suo figlio Emone e della moglie Euridice; nella Lisistrata gli uomini saranno comicamente sbaragliati, una volta prima dell’arrivo del Probulo/Prefetto, secondo il classico copione della “torta in faccia” (in questo caso brocche d’acqua, vv. 352-386); in seguito, sopraffatti da tutte le risorse messe in campo dalle donne, comprese quelle della lingua, con neologismi e paronomasie, oltre che quelle della superiorità fisica (vv. 456-462):
LISISTRATA
Compagne, venite fuori da là dentro, seminazizzaniainpiazzaeortaggivendole, mangiapaneallaglioelalitosivendole, tirate, colpite, fateli a pezzetti, sputate parolacce, non siate timide.
Smettete, tornate, non fatene straccetti.
PREFETTO
Oh che brutta fine han fatto i miei galletti!
Lisistrata induce le compagne, che erano chiuse con lei all’interno dell’Acropoli “occupata”, a uscire per affrontare i malcapitati uomini che soccombono e se la danno a
gambe. L’occupazione femminile dell’Acropoli, con la chiusura delle porte di accesso, proietta sul luogo del potere politico ed economico pubblico (nell’Acropoli si custodisce il tesoro dell’Impero e si trovano le sedi delle più importanti istituzioni politiche e religiose) la decisione che le donne hanno preso di chiudere le porte di accesso al proprio corpo, al piacere che ne può derivare, al tesoro erotico che esse custodiscono. L’inversione tra pubblico e privato ovvero la coincidenza conflittuale fra porte
pubbliche e porte (pubiche) private presenta un ulteriore inveramento, moltiplicando i piani e la complessità
dell’azione scenica: la Lisistrata esemplarmente mette in scena l’Acropoli di Atene come spazio dell’azione. Ogni testo teatrale porta inscritto uno spazio fisico nel quale l’autore ha immaginato l’azione scenica: questo vale per Eschilo, per Aristofane, per Shakespeare, per Goldoni, per Pirandello ecc., e significa fondamentalmente che ogni testo teatrale stabilisce un rapporto frontale oppure
avvolgente, dall’alto o dal basso, con il pubblico, prevede secondi piani, entrate e uscite a seconda di una
conformazione spaziale data, che nel tempo può essere riadattata, ma che condiziona inevitabilmente la scrittura drammaturgica e la scrittura scenica. Il luogo teatrale, che non si sovrappone né s’identifica con la scenografia, si
definisce sempre come altro, ritagliato dalla città all’esterno, ma allo stesso tempo diviso tra spazio dell’azione scenica e spazio della contemplazione
all’interno, con una separazione concreta di attitudini e passioni tra guardanti e guardati, anche quando
deliberatamente violata (cavea/skene, palcoscenico/platea ecc.). Lo spazio scenico riveste la funzione di principio unificante che organizza tutti i segni della scena.
Quest’organizzazione può avvenire schematicamente in due modi: in forma mimetica, cioè con lo spazio scenico che si costituisce come la traduzione concreta dello spazio
immaginario, della porzione di mondo allusa, più o meno dettagliatamente, dal testo drammatico; oppure in forma ludica, cioè con lo spazio scenico che si organizza in
relazione al corpo di uno o più attori che lo agiscono, lo attraversano, lo costruiscono e lo decostruiscono. Le due modalità non sono e non sono mai state esclusive nella prassi teatrale, ma solo prevalenti: lo spazio naturalistico, anche nella ricerca più ossessiva della riproduzione e
dell’illusione, è sempre uno spazio ideologico, connotato non come imago mundi, ma come immagine di una
immagine del mondo; così lo spazio antinaturalistico o simbolico o psichico o (meta)teatrale non è mai totalmente
alieno dall’illusione, dall’Einfühlung (immedesimazione), non foss’altro che per la presenza reale dei corpi degli
attori in azione, che di per sé sono ostensione della vita hic et nunc, pur evocandone un’altra immaginaria. Il teatro antico, povero tecnicamente, open air e dunque ludico per necessità, opera “a vista”, dichiara la sua natura artificiosa e mette in atto in questo senso la possibilità peculiare della scenografia verbale: sono le parole pronunciate dai
personaggi che forniscono fin da subito le coordinate spazio-temporali dell’azione scenica e modificano o
sublimano le caratteristiche fisiche concrete dell’edificio teatrale.13 Ora, chi scrive ritiene che la Lisistrata sia andata in scena alle Dionisie del 411 a.C. (intorno alla metà di
marzo), dunque nel teatro di Dioniso che si collocava a quell’epoca alle pendici dell’Acropoli. Lo spettatore antico di questa commedia di Aristofane, portato di solito a
immaginare, cioè a supplire attivamente con
l’immaginazione, ludicamente, a quel che il testo dice ma che la scena non mostra, nel caso in questione si trovava a raddoppiare mentalmente quello che vedeva
concretamente sulla scena – l’Acropoli vera e propria, alle sue spalle e sopra la sua testa, che si rifletteva dall’alto sulla scena in basso in una sorta di specchio deformante. Il rapporto tra realtà e finzione, nonché quello tra opsis
(visione) e lexis (linguaggio), per usare una terminologia aristotelica, viene sapientemente alterato se non ribaltato:
l’Acropoli da immaginare è fisicamente presente, l’Acropoli che sta in alto si ritrova nella proiezione deformante
dell’Acropoli che sta in basso sulla scena (con il pubblico significativamente a metà strada) secondo la logica
paradossale del carnevale, in una declinazione del binomio pubblico-privato che diviene quello tra reale e finzionale, straordinaria mise en abyme ovvero teatralizzazione del dilemma irrisolto sul piano della scena. Ricorda Nicole Loraux che alla statua di Atena custodita sull’Acropoli faceva da contraltare quella di Afrodite ai piedi
dell’Acropoli: ulteriore traduzione della dialettica tra eros e sophrosyne messa in scena grottescamente dalla Lisistrata di Aristofane.
In questa cornice allora deve essere inquadrata una delle scene clou della comicità aristofanea, quella già citata tra Mirrine e il marito Cinesia, la scena della frustrazione erotica per eccellenza, che è frustrazione del corpo e non del pensiero, dissacrazione del logos e dell’eros
tradizionali, vero e proprio coitus infinitamente interruptus, lamento che sale dai genitali del capro espiatorio per
diventare riso sublime, crudele, forastico: non l’ironia che scende dall’alto verso il basso di un riso compassionevole e aristocratico, ma la risata che è pianto e ululato che tutto e tutti travolge dal basso (ventre) e dalla feccia. Secondo lo schema della comicità che distingue, pur ribadendo la
compresenza dei fattori, tra geloios (soggetto che suscita il riso o il comico), gelon (soggetto che ride, spettatore) e
geloion (l’oggetto di cui si ride),14 nella scena in questione il soggetto e l’oggetto del comico combaciano, producendo l’effetto tragicomico della vittima sacrificale che non arriva mai al sacrificio liberatorio, alla morte catartica che poi sarebbe l’orgasmo perpetrato, ma del quale si può solo morire dal ridere. Fin dalla prima apparizione, Cinesia è in preda a fitte ineffabili, risultato della foia costretta, che lo spingono a forzare i posti di guardia pur di arrivare
all’Acropoli dove da troppi giorni si trova la moglie Mirrine.
Lo accoglie Lisistrata, prima di passarlo alle cure
irresistibili e frustranti di Mirrine, in precedenza istruita adeguatamente (vv. 847-869):
LISISTRATA
Chi è che supera i posti di guardia?
CINESIA
Io.
LISISTRATA
Uomo?
CINESIA
Uomo, certo.
LISISTRATA
Levati di torno.
CINESIA
Chi sei che mi cacci?
LISISTRATA
Il piantone di giorno.
CINESIA
In nome dei cieli, chiama fuori Mirrine.
LISISTRATA
Chiamartela fuori? Ma tu chi mai sei?
CINESIA
Cinesia Pisellonide, marito di lei.
LISISTRATA
’Giorno bellezza, il tuo nome ha un gran futuro dalle parti nostre e non rimane oscuro.
Tua moglie ti tiene sempre nella bocca.
E se brinda con uovo o con mela schiocca
“Cin cin per Cinesia”.
CINESIA
Ma in nome dei cieli!
LISISTRATA
E per carità di dio: che se finisce il discorso sui maschi tua moglie dice che il mondo davanti a Cinesia svanisce.
CINESIA
E su allora, chiamamela.
LISISTRATA
E che mi dai?
CINESIA
Io stesso, quant’è vero Iddio, se ce la fai.
Ho questo: e quel che ho, te lo do con il cuore.
LISISTRATA
Scendo e te la chiamo.
CINESIA
Ma di corsa allora:
che non ho più per la vita alcun amore, da che se n’è andata lei dalla dimora, mi prende un male a rientrare e tutto pare un tale deserto che pure a mangiare
mi viene il magone. Che sto in erezione.
Gli ultimi versi sono una vera e propria parodia tragica, dal momento che riecheggiano l’Alcesti euripidea (vv. 861 sgg. e 940 sgg.),15 la vicenda della moglie che muore al posto del marito, il quale poi la rimpiange in preda al
rimorso: ma in questo caso l’atmosfera tragica che aleggia dal principio della battuta di Cinesia al v. 864 deve fare i conti con l’aprosdoketon, il colpo di scena che chiude a sorpresa il verso 869 e che emmerde tutto quanto – quel
fallo gigantesco che occupa visibilmente lo spazio scenico fin dall’entrata e che solo un attimo prima Cinesia ha
offerto addirittura a Lisistrata la quale, dopo aver rinfocolato il germe dell’eccitazione, si sottrae alla profferta esplicita e verosimilmente invasiva.
Lisistrata è in questo coerente. L’eroina della commedia è, fin dalle prime battute scambiate con Calonice,
irreprensibile, portatrice di un registro epico-eroico, tutta concentrata sul piano che l’ha lasciata insonne per molte notti, insensibile alle sirene della corporeità. Ad esempio, quando le donne che resistono ormai da molti giorni
rinchiuse nell’Acropoli, stremate finiscono per escogitare una serie di stratagemmi esilaranti per sfuggire alla rigida sorveglianza di Lisistrata, votata a una castità che non le pesa e immune dal fuoco che brucia le altre, quest’ultima le bacchetta e le rincuora, profetizzando loro infine la vittoria prossima (vv. 706-780). Come una sacerdotessa o come una divinità. E infatti più di un critico ha accostato il
personaggio di Lisistrata a una figura storica realmente vivente in quegli anni, la sacerdotessa di Atena di nome Lisimaca (il cui nome al plurale, cioè riferito a tutte le
donne, compare nella commedia al v. 554 come sinonimo di Lisistrata, “colei che scioglie gli eserciti”), e alla stessa Atena, dea vergine nata dalla testa di Zeus e guerriera senza madre, nume tutelare di Atene, che ha dato
indirettamente i natali a Erittonio, primo re della città.16 Lisistrata porta avanti la sua battaglia con esito positivo fino al v. 1187 (la commedia continuerà per oltre 130 versi in sua assenza o in muta presenza): nell’ultima fase, a
partire dal v. 1112, richiamata in scena a furor di popolo, rivendica la sua femminilità dotata di raziocinio,17 la sua discendenza paterna e l’ascolto degli anziani (vv. 1124- 1127), doti grazie a cui le “canta” sia agli Spartani che agli Ateniesi prima di indurli alla pace sul comune
denominatore dell’appartenenza panellenica. Dopo aver chiuso le donne con la cintura di castità costituita dal
recinto dell’Acropoli, restituendo loro una nuova purezza e una nuova verginità al contatto con Atena e con il suo
tempio, le riconsegna ai rispettivi mariti in un rinnovato patto matrimoniale che riconcilia Atena con Afrodite, a
seguito del quale la sua presenza eroica non ha più ragione di essere.18 La grande festa finale, che doveva consumarsi tra canti, balli e bevute, viene solo allusa nei versi a noi giunti, che danno indicazioni molto indirette sulla musica e sulla coreografia che li accompagnava: il congedo definitivo avviene con un Inno a Sparta (vv. 1296-1321), che suggella la riconquistata armonia (alcuni sostengono, con poco
credito, che si sia perduto un parallelo, conclusivo Inno ad Atene). In questo senso c’è chi ha parlato del filolaconismo di Aristofane19 e degli ambienti a lui vicini e della Lisistrata come della commedia che adombra il vero e proprio colpo di stato in senso “oligarchico” dei Quattrocento che si
verificò ad Atene nel 411 a.C. Così come accade per quanti pretendono di interpretare la Lisistrata in senso
femminista, l’idea di ricercarvi la storia coeva e di collocare dunque l’autore in una temperie politico-culturale precisa, come parte militante di un processo e di un’epoca, è da un lato un’idea inevitabile e teoricamente produttiva: è
evidente che l’opera di un poeta e a maggior ragione di un commediografo della Commedia Antica intrattenga
relazioni strette con il suo tempo, specie se questo tempo è gravido di rivolgimenti.20 Ma quest’idea non si può mai applicare in senso meccanico, deterministico, secondo nessi di causalità puntuali.
Gli antichi amavano stabilire coincidenze, talora
stupefacenti, tra la vicenda biografica di un autore e la sua opera in un senso e nell’altro, cioè dall’opera verso la vita e dalla vita verso l’opera. Questa predilezione reiterata è
tuttavia molto pericolosa, perché non solo rintraccia,
assolve o depreca passioni, gusti, lacune dietro una parola, una scena, un personaggio, ma attribuisce, deduce o induce responsabilità, faziosità, eventi là dove non c’è altro che la
somma capacità di un poeta di dare voce all’universo contraddittorio delle sofferenze, delle paure e delle gioie umane. L’identificazione che troppo spesso s’istituisce tra un autore e la sua opera, persino ai nostri giorni, vale ancora meno quando si tratta di un autore di teatro,21 il quale letteralmente scompare dietro i suoi personaggi, ai quali presta di volta in volta tutto lo spettro delle possibilità espressive e delle corde emotive senza per questo
riconoscersi direttamente nell’uno o nell’altro e senza che si possano davvero stabilire a posteriori dei nessi
incontrovertibili (Shakespeare viene interpretato, di volta in volta, come misogino, antisemita, neogotico,
repubblicano e il suo contrario). L’interpretazione, fenomeno sempre postumo, è necessariamente
fraintendimento e, solo nel fraintendimento verace, il
revival aristofaneo della seconda metà del secolo scorso, ad esempio, ha intersecato i movimenti di liberazione politica e sessuale, l’antipsicanalisi e l’antimetafisica, le
rivendicazioni pacifiste, antinucleariste e femministe,22 il pensiero della differenza e la critica francofortese ai
modelli unidimensionali e autoritari della società
tardocapitalistica e disciplinare: quel fraintendimento che è l’equivoco su cui si fonda l’ermeneutica, la scienza
scivolosa e inesauribile del dio dei ladri, Ermes, al quale ogni interprete, compreso il sottoscritto, tributa
furtivamente omaggio.
1 Sulla “sfortuna” ovvero sulla damnatio già antica di Aristofane e della sua vis comica, cfr. Funaioli 2009, pp. XXVII-XLV. Un’eccezione significativa è Quintiliano, Inst. or. X, 1, 65.
2 L’editio princeps di nove delle undici commedie conservate per intero dai codici bizantini (Pluto, Nuvole, Rane, Cavalieri, Acarnesi, Vespe, Uccelli, Pace, Ecclesiazuse) fu stampata da Aldo Manuzio a Venezia nel 1498; Lisistrata e Tesmoforiazuse furono edite per la prima volta dai Giunti, a Firenze, nel 1516.
La prima traduzione completa di Aristofane è quella in latino pubblicata, sempre a Venezia, nel 1538 da Andrea Divus; a Venezia fu anche pubblicata la
prima traduzione in lingua moderna (italiana) ad opera dei fratelli Bartolomeo e Pietro Rositini.
3 Bachtin 20012.
4 Sulla crisi dell’onomasti komodein, cfr. Canfora 2014, pp. 384-389.
5 Deleuze-Guattari 1975. E, come controcanto, Paduano 1994.
6 Vernant 1996, ma già Vernant-Vidal-Naquet 1976, pp. 64-87.
7 Greco 2009a, pp. 103-120.
8 Rohde 1914-1916. Sulla percezione omerica e antiunitaria del corpo, cfr. il classico Snell 1963, pp. 19-47. Sul corpo ambivalente e molteplice di
ascendenza omerica, antecedente agli equivoci dell’anima, Galimberti 200514 e Galimberti 20076.
9 De Martino 1958.
10 Il nome di Foucault torna spontaneo. I suoi Nascita della clinica (1969), Storia della follia nell’età classica (1972), Sorvegliare e punire (1976),
Microfisica del potere (1977), Storia della sessualità (1984) restano il punto di non ritorno di una critica radicale di quel sistema di potere biopolitico nel quale è immersa la società occidentale a partire dal Seicento. La prigione, l’ospedale, il manicomio, la scuola, l’università, costruiti sul modello della ripartizione in celle dei conventi, incarnano altrettante strutture “panoptiche” di controllo disciplinare che agiscono direttamente e capillarmente sulle menti e sui corpi di tutti: sono i luoghi fisici e simbolici in cui si esplica un biopotere
incontrollabile e incontrollato proprio nella sua ansia raziocinante e tassonomica.
11 Vernant 1978, pp. 147-200.
12 Greco 2013a, pp. 7-22.
13 Dale 1969, pp. 119-129; Taplin 1977, pp. 1-60 e Taplin 1978, pp. 1-55. Più di recente, Mastromarco 20034, pp. 105-140.
14 Per lo schema, cfr. il sempre utile Ferroni 1971, pp. 13-14.
15 Che Aristofane abbia tratto costantemente sostanza per la sua scrittura comica da Euripide lo stigmatizza con un conio formidabile il suo rivale Cratino che, a proposito dell’operare drammatico di Aristofane, parla di
euripidaristophanizein, “euripidaristofanizzare” (PCG, fr. 342). Sul debito in senso parodico che Aristofane contrae persino con la metrica e con la musica di Euripide, cfr. Zimmermann 1984-1987, pp. 3-35. Da ultima, Belardinelli 2013 illumina i rapporti tra la Medea di Euripide e le Nuvole di Aristofane.
16 Loraux 1990, pp. 157-196.
17 Sulla “virilità” di Lisistrata e sulla sua identificazione con la sacerdotessa di Atena, Lisimaca, cfr. Mastromarco 2006, pp. 308-310.
18 Whitman 1964.
19 Si veda, tra gli altri, il riferimento a Cimone e alla sua impresa
fallimentare in soccorso agli Spartani nel 462 a.C. (vv. 1143 sgg.): Cimone è l’unico leader ateniese che non verrebbe sbeffeggiato da Aristofane, in quanto modello di una democrazia moderata che cerca la convivenza proficua se non l’alleanza compiuta con Sparta.
20 Un aneddoto racconta che a Dionigi, tiranno di Siracusa, desideroso di conoscere il sistema politico ateniese, Platone consigli le commedie di Aristofane (PCG, III.2, t. 1, rr. 42-45).
21 Russo 1984.
22 Harrison 1992.
Nota alla traduzione
Take care of the sense and the sounds will take care of themselves.1
LEWIS CARROLL
La scena della traduzione2 è come la scena del crimine:
porta con sé una teatralità ricorrente e ancestrale, nella quale si distinguono attori, personaggi, costumi, luci e fondali che interagiscono ambiguamente davanti a uno
spettatore/lettore, e che di volta in volta configurano quella messa in scena come unica e irripetibile, come necessaria e impossibile, come viva eppure morta e, soprattutto, con l’urgenza di una decodifica, cioè del disvelamento del
colpevole e delle colpe. In questa scaena criminis si verifica sempre un omicidio o più di un omicidio, c’è sempre un
assassino (traditore) o più di un assassino: l’assassinio può essere più o meno premeditato, l’omicida può essere
recidivo o ignaro, talora il detective e l’omicida possono coincidere, come nella migliore tradizione edipica. Ma l’atto interpretativo, l’intenzione ermeneutica che viene messa in opera prima, durante e dopo la traduzione, è
concretamente un atto della semiosi teatrale con mittenti e destinatari, presenti e assenti, che devono essere
interrogati, arrestati, rilasciati o condannati a morte, alla tortura, al rogo o all’esilio, a seconda delle condizioni
storiche e geografiche, cioè del tempo e dello spazio in cui si manifesta lo scelus vertendi. La complessità è dunque il
portato di ogni atto traduttivo e la risoluzione dell’enigma e degli enigmi passa necessariamente per una serie di
approssimazioni, di tentativi, di fallimenti o di parziali conquiste che fanno del processo della traduzione uno dei processi fondanti della comunicazione umana e nello
specifico il modus operandi di quella figura, lungamente vilipesa e deliberatamente messa da parte, che è il
traduttore, oggi sempre più riabilitato e addirittura assurto al rango di autore, di voce originale, di veicolo principale della tradizione culturale intesa in senso dinamico e non di traditore di un’origine, data una volta per sempre, e intesa in senso statico.
C’è un altro aspetto che connette la scena ovvero le scene della traduzione con la teatralità, e di nuovo con la scena di un crimine, ed è quello del travestimento: si può affermare, senza timore di esser smentiti, che, alle
differenti latitudini spazio-temporali nelle quali la teatralità ha trovato una forma espressiva all’interno di una serie di convenzioni e di codici, uno dei segni della riconoscibilità della finzione scenica passi per il camuffamento, il
mascheramento, il travestimento, che proiettano
immediatamente la quotidianità e la normalità della vita sul piano della metamorfosi, del mutamento d’identità,
dell’assunzione dell’altro da sé all’interno di sé per un pubblico. Ogni volta che si attende a una traduzione, la voce che parla nel nuovo orizzonte linguistico e culturale è sempre, inevitabilmente, en travesti, parla come se fosse un’altra voce, di un altro mondo, ma echeggia parvenze e movenze di voci ed espressioni di questo mondo, si
configura in realtà come una Zwischenwelt o
Zwischenstimme, un intermondo o un’intervoce, un tertium che non è più quello e che non è ancora questo. Non solo:
quella voce che si camuffa delle vesti(gia) di un’altra è insieme idioletto e socioletto e dunque allude
nostalgicamente a quello che non c’è più e prospetta utopisticamente quello che potrebbe essere,
soggettivamente e intersoggettivamente. È perciò la voce di un fantasma, di uno spettro, di un’impossibile
metempsicosi che non si dà mai concretamente, ma a cui non si può non tendere idealmente. È la voce di un morto travestita da quella di un vivo, di un trucidato che ritorna a dire la sua battuta di sempre, la sua frase incancellabile che non si vuole più sentire e che non si può fare a meno di risentire: come quella del fantasma dell’Amleto di
Shakespeare o come le parole del Padre nei Sei personaggi di Pirandello, che lo inchiodano per sempre al suo crimine sfiorato, al suo incesto mancato. C’è sempre una
maschera(ta) dietro e davanti a un traduttore, c’è sempre una maschera(ta) dietro e davanti a un delitto.
E quando si dice travestimento si dice gioco: non si dà teatro fuori da una dimensione ludica che viva come
autentico e addirittura emozionante il paradosso del come se. Ma che vuol dire come se? Il gioco della traduzione come quello del teatro si propone a tutti gli effetti come gioco in quanto è soggetto a regole e a codici e solo in quanto esistono e sono date, queste regole del gioco,
possono essere trasgredite, mitigate, riaggiustate in corso d’opera (we make up the rules as we go along, diceva
Wittgenstein) e determinare il divertimento, la verità del divertimento di ogni gesto ludico, sia esso teatrale o
traduttivo. Con divertimento intendo, ovviamente, non solo la risata catartica, ma la possibilità di di-vergere dalla
quotidianità per accedere a uno spazio e a un tempo altri, che sono quelli della re-cita, della re-citazione, dell’azione- parola che ne cita un’altra per inverarsi. La traduzione è re-cita ovvero re-citazione come lo è il teatro, in un’ottica eminentemente ludica, cioè di spassionata gratuità e di urgenza comunicativa che cerchi l’uscita dal sé e il viaggio verso l’Altro come abbandono faticoso e inesausto della solitudine e del narcisismo. L’attitudine al gioco si presenta dunque come la possibilità del confronto con regole e
codici anche quando il gioco è solitario, anche quando
all’apparenza non c’è fisicamente nessuno a condividere in praesentia le avversità e le soluzioni dell’avventura ludica:
se la scena della traduzione sembra un monologo, in realtà non è mai meno di un dialogo e molto spesso questo
dialogo moltiplica i suoi interlocutori sottoponendosi non solo all’intenzione dell’autore, ma alle attenzioni
interiorizzate del fruitore, del suo tempo e delle sue
abitudini, delle sue fisime e dei suoi tic, spesso coincidenti con quelle del traduttore e irriducibili a quelle dell’autore, quindi target-oriented e non source-oriented, come amano dire le teorie della ricezione oltre che della traduzione.
Un caso particolare e paradigmatico in questa cornice è rappresentato proprio dalla traduzione del teatro, vera e propria mise en abyme del processo sopra descritto, cioè germinazione infinita e complicazione molteplice della re- cita, data la natura orale/aurale della comunicazione
teatrale che non conclude la sua vicenda sulla pagina
scritta, ma che dalla pagina scritta prende le mosse per un viaggio ulteriore e definitivo nel campo della performance:
from page to stage.
“Ogni traduzione è testimone di un’occasione e dei
meccanismi che l’hanno suscitata; il suo destino raggiunge quello della messa in scena. Tutte e due sono datate,
contingenti, gettabili a breve termine. A ogni epoca la sua rappresentazione, a ogni rappresentazione la sua
traduzione”3. Le traduzioni sono, tra i beni letterari, i più deperibili per definizione: le traduzioni teatrali, nate per l’occasione dell’andata in scena, lo sono ancora di più. La traduzione di un testo comico del V secolo a.C. come la Lisistrata, con le innumerevoli implicazioni di tipo storico, filologico e politico che presenta, non solo e non tanto invecchia con grande precocità come ogni traduzione, ma fuori dalla contingenza scenica si strugge della nostalgia della semiosi teatrale, la quale supplisce, in molti casi, alle lacune storiche e filologiche grazie ai codici della messa in scena e nello specifico della comicità dal vivo. Inoltre nel
fissarsi sulla pagina scritta i versi tradotti di Aristofane devono confrontarsi con l’ulteriore necessità della lettura, della comprensibilità dei moltissimi riferimenti opachi ai più, della possibilità che è data allo sguardo sulla pagina di tornare indietro come non è dato allo sguardo e all’ascolto del palcoscenico. L’impresa di trascrivere questa traduzione della Lisistrata, andata in scena, appare talmente
complessa ed effimera da configurarsi come improba.
Dal punto di vista della Skopostheorie (Vermeer), settore specifico dei Translation Studies, che afferma la priorità da riservare al target ovvero allo scopo concreto nella
produzione di un atto traduttivo, questa traduzione della Lisistrata nasce come una performance-oriented translation piuttosto che come una reader-oriented translation, una traduzione rivolta alla rappresentazione, allo spettatore, e non al lettore. Si tratta di una traduzione in versi, che
privilegia tutti gli aspetti di sottolineatura del significante, intendendo la speakability (dicibilità) e la performability (recitabilità), di cui molto ragionano i teorici della
traduzione teatrale, nel senso di una certa “cantabilità” che finisce spesso in una propensione domesticating
(familiarizzante) dal punto di vista lessicale e sintattico, parzialmente riequilibrata da una tensione foreignizing (straniante) nella polimetria (dodecasillabi per il dialogato;
endecasillabi, novenari, settenari, quinari, martelliani altrove) e nelle rime, disseminate nell’arco dell’intera traduzione. Detto altrimenti: se il testo di Aristofane presenta innumerevoli allusioni di tipo storico, politico, religioso, il più delle volte inattingibili alla sensibilità e alla competenza del lettore/spettatore moderno, queste
vengono “avvicinate” al lettore/spettatore; al contrario, la varietà e la molteplicità metrico-ritmica del testo di
partenza, del quale si è perduta la partitura musicale e coreografica, vengono restituite in una varietà e
molteplicità di metri italiani e di rime che riallestiscono una distanza con il lettore/spettatore di oggi. Le rime in
traduzione, in questo senso, sono dei veri e propri shot-gun marriages, matrimoni riparatori (ma letteralmente
“matrimoni con il colpo di pistola”), espressione che segnala perfettamente “l’effetto di arma puntata alla tempia di lessici che non gradiscono affatto di essere
imparentati”.4 Mentre un pun, un doppio senso, obbliga due omofoni a occupare lo stesso significante, la rima fa da pun esteso e obbliga due significanti col rispettivo significato a misurarsi l’un con l’altro, creando trasfusioni che vanno dal comico all’ideologico, cioè dalla dissacrazione alla
variazione dello stereotipo: la rima è l’impronta digitale della poesia, la grana della voce del traduttore “visibile”
che genera cortocircuiti nel passaggio dalla lingua e dal ritmo di partenza alla lingua e al ritmo di arrivo. L’effetto di cantabilità, che complessivamente ne risulta, vuole alludere a quello del teatro in musica e più nello specifico dell’opera buffa, di cui per alcuni aspetti la Lisistrata può dirsi
un’antesignana.
Il testo su cui è condotta la traduzione è quello di
Henderson 1987: quando me ne distacco, soprattutto nel caso di attribuzione di battute a un personaggio o a un altro, lo segnalo in nota.
Questa traduzione nasce con l’apporto rigoroso e
appassionato degli studenti di Theatron – Teatro antico alla Sapienza, con i quali ho avuto la fortuna di confrontarmi e di mettere in scena le peripezie di Lisistrata e delle sue compagne, seppure in una forma diversa da questa. A loro, a Laura Polimeno e a Daniela Troilo che ne hanno musicate e cantate molte parti, oltre che ad Anna Maria Belardinelli, con la quale abbiamo dato vita a quel progetto, va il mio pensiero riconoscente.
1 Il pun di Lewis Carroll (“Curati del senso e i suoni si cureranno da sé”), versione moderna del ciceroniano Rem tene verba sequentur, è rifatto in realtà sul proverbio inglese Take care of the pence and the pounds will take care of themselves (“Curati del centesimo e le sterline si cureranno da sé”).
2 Cfr. Greco 2013b. Per un quadro aggiornato, teorico e pratico, nel campo della traduzione teatrale si vedano almeno le miscellanee Baines-Marinetti- Perteghella 2011 e Bigliazzi-Kofler-Ambrosi 2013.
3 Lassalle 1991, p. 87.
4 Weston 2013.
LISISTRATA
testo originale >>
Maschere dell’azione
LISISTRATA CALONICE MIRRINE LAMPITÒ
CORO DEI VECCHI CORO DELLE DONNE PREFETTO
TRE DONNE ANZIANE QUATTRO DONNE
CINESIA
ARALDO SPARTANO
AMBASCIATORE SPARTANO AMBASCIATORE ATENIESE ATENIESE
Maschere mute DONNE DI ATENE
DONNA BEOTA DONNA CORINZIA BANDITRICE
SCHIAVI PUBBLICI ARCIERI
DONNE ANZIANE SERVO DI CINESIA FIGLIO DI CINESIA PACE
PORTIERE SPARTANI ATENIESI1
5
10
15
testo originale >>
LISISTRATA2
Ma se una le avesse invitate ad un’orgia,
a un fidanzamento, a nozze, a un compleanno,3 non sarebbe entrata per il gran baccano.
Invece ora non c’è qui neanche una donna:
a parte la mia paesana che arriva.4
’Giorno, Calonice.
CALONICE
’Giorno a te, Lisistrata.
Perché sei stranita? Non grugnire, figlia.
Non ti dona quel ciglione sulla fronte.5 LISISTRATA
Ma Calonice, è che mi friggo nel fegato, e molto mi guasto per le nostre donne, come dai mariti siamo ritenute
delle tutto-fottere…6 CALONICE
Quant’è vero Iddio!7 LISISTRATA
Gli era stato detto di venire qui
ché si decidesse un affare8 non piccolo, dormono e non vengono.
CALONICE
Tesoro mio,
verranno: sai che è dura uscire alle donne.
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testo originale >>
C’è quella che se la sciupa sul marito,9 e sveglia lo schiavo e metti a letto il pupo, dagli una lavata e fagli da mangiare.
LISISTRATA
Ben altro ci sarebbe di preferibile a questo.
CALONICE
Che c’è, Lisistrata tesoro,
perché mai ci chiami a raccolta noi donne?
Che è ’sto affare? Di che stazza?
LISISTRATA
Grande.
CALONICE
E grosso?
LISISTRATA
E grazie a dio grosso.
CALONICE
E vuoi che non veniamo?
LISISTRATA
Non in questo senso: verremmo a più non posso.
Si tratta d’affare che m’ha aggrovigliato
e che m’ha sbattuto non so in quante insonnie.
CALONICE
A furia di sbatterlo si fa affilato?
LISISTRATA
Talmente affilato che tutta la Grecia si mette al sicuro tra mani di donne.
CALONICE
Tra mani di donne? Si mette su poco.
LISISTRATA
Gli affari di stato sarebbero nostri e non ci sarebbero più gli Spartani…
CALONICE
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Sarebbe di un bello, quant’è vero Iddio…
LISISTRATA
E in malora andrebbero tutti i Beoti.
CALONICE
Tutti tutti no, risparmiaci le anguille.10 LISISTRATA
Mi mangio la lingua11 riguardo ad Atene che così non vada, ma tu fai a capirmi.
Che se le mettiamo qui insieme le donne,
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vuoi dalla Beozia e dal Peloponneso, vuoi noi, metteremo al sicuro la Grecia.
CALONICE
E che si farebbe noi donne di geniale o di “illuminante”, da spaparanzate,
truccate, agghindate a lustrini e infioccate con strascico etnico e tacchi da sballo?12 LISISTRATA
E proprio da questo m’aspetto salvezza, i lustrini e le essenze e i tacchi da sballo e rossetti e vesti che fan trasparire…
CALONICE
E in che modo?
LISISTRATA
In modo che nessun marito sollevi la lancia contro un altro.
CALONICE
E allora,
quant’è vero Iddio, mi immergo nei lustrini!
LISISTRATA
E prenda lo scudo…
CALONICE
M’infilo l’etnico…
LISISTRATA O il pugnale.
CALONICE
E compro quei tacchi da sballo.13 LISISTRATA
Non dovrebbero essere già qui le donne?
CALONICE
Quant’è vero Iddio, volando, già da un pezzo.
LISISTRATA
Ma quelle, mia cara, sono Attiche vere:
fanno tutto più tardi del necessario.
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E non c’è nessuna che sia della costa o di Salamina.14
CALONICE
Ma quelle, lo so,
che stanno trottando da prima dell’alba.