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195, sul testo del Decreto legge 23 febbraio 2009, n

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Parere, ai sensi dell'art. 10 della legge 24 marzo 1958, n. 195, sul testo del Decreto legge 23 febbraio 2009, n. 11 recante: “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori.”.

(Delibera del 2 aprile 2009)

Il Consiglio superiore della magistratura, nella seduta del 2 aprile 2009, ha adottato il seguente parere:

«Il Decreto Legge 23 febbraio 2009 n. 11 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 24 febbraio 2009 n. 45) recante “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori” interviene - riprendendo alcune disposizioni già contenute nel DDL n. 773 del 3 giugno 2008 comprendente “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”- con diverse disposizioni di natura sostanziale e processuale in diverse aree tematiche connesse “alla maggiore tutela della sicurezza della collettività (cfr.relazione di accompagnamento) ” che possono così essere individuate: a) contrasto ai reati di violenza sessuale; b) introduzione del reato di atti persecutori (“stalking”); c) trattenimento degli stranieri irregolari nei centri per l’identificazione e l’espulsione (CIE); d) piano di controllo del territorio anche attraverso i volontari della sicurezza.

A) Contrasto ai reati di violenza sessuale.

L’intervento legislativo – che si inserisce peraltro in un tessuto normativo costituito principalmente dalla legge 15 febbraio 1996 n. 66 già efficace - mira positivamente a rafforzare gli strumenti sostanziali e processuali per contrastare tutte le forme di aggressione sessuale che, notoriamente, vengono realizzate nei confronti di soggetti deboli, offrendo agli operatori giudiziari, soprattutto sul piano del processo penale, degli strumenti che consentono una maggiore protezione della vittima nella stessa vicenda giudiziaria.

1. In tale ottica si condivide la scelta di ammettere l’incidente probatorio, in assenza dei requisiti ordinariamente previsti, anche nei casi di violenza sessuale e di maltrattamenti in famiglia e a prescindere dalla minore età della vittima (art. 9 co. 1 lettera b) del D.L. che sostituisce il comma 1 – bis dell’articolo 392 c.p.p. indicativo della possibilità di procedere all’assunzione della testimonianza della vittima di reati a sfondo sessuale minore degli anni sedici). Si tratta di una scelta conforme alle direttive sancite dalla Grande Camera della Corte di Giustizia con la sentenza 15 giugno 2005 Pupino laddove si auspicava l’estensione dei casi di incidente probatorio all’assunzione della testimonianza di vittime di delitti la cui rievocazione rischi di aggravare i pregiudizi psichici recati alla persona offesa del reato. Nei reati a sfondo sessuale o di violenza abituale è infatti frequente riscontrare quella che viene definita “vittimizzazione secondaria” della parte lesa la quale, attraverso tempi e modalità di assunzione della testimonianza non protetta e condotta con una capacità professionale non adeguata, rischia di subire dal processo penale un danno ulteriore rispetto al trauma psicologico sofferto con l’aggressione delittuosa primaria.

2. L’articolo 1 del decreto interviene, con scelta squisitamente politica (e dunque insuscettibile di valutazioni da parte del Consiglio Superiore della Magistratura) poi sulle circostanze aggravanti (art. 576 c.p.) – che determinano la previsione dell’applicazione dell’ergastolo - connesse all’omicidio, prevedendo l’applicazione della massima pena in caso uccisione della vittima in occasione della commissione dei reati di violenza sessuale (art. 609 bis c.p.), atti sessuali con minorenne (art. 609 quater c.p.), violenza sessuale di gruppo (609 octies c.p.). Si prevede altresì l’estensione del regime di massimo rigore anche quando si verifichi la morte a seguito di condotte persecutorie di cui alla nuova norma ex art. 612 bis c.p. (Atti persecutori) introdotta con l’articolo 7 del decreto legge.

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3. Con l’articolo 2 si introduce inoltre l’obbligatorietà sia dell’arresto in flagranza per i delitti di violenza sessuale, monosoggettiva e di gruppo (salvi i casi di minore gravità ex art. 609 bis u.c.c.p.) sia della custodia cautelare in carcere per le stesse fattispecie sempre con la riserva della minore gravità del fatto, nonché per i reati di pornografia e prostituzione minorili, iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile (il c.d. turismo sessuale) e atti sessuali con minore ultrasedicenne. Tali disposizioni, pur muovendo da un condivisibile giudizio di particolare gravità dei delitti in questione, suscitano perplessità per due ordini di motivi. In primo luogo l’ipotesi di minore gravità di cui all’art. 609 bis c.p. – l’unica che esclude l’automatismo dell’arresto obbligatorio in flagranza e della misura coercitiva carceraria - è, secondo l’orientamento della giurisprudenza, una circostanza attenuante speciale che, in quanto tale, può essere oggetto di applicazione solo dal giudice all’esito di una valutazione processuale complessiva di tutti gli elementi soggettivi ed oggettivi della vicenda. La costruzione normativa, al contrario, demanda una eccentrica valutazione del fatto-reato, al momento della notitia criminis, a soggetti - la polizia giudiziaria nella fase dell’arresto e il pubblico ministero nella fase della contestazione iniziale del reato per la richiesta di misura coercitiva - non in grado, anche per limitatezza del materiale probatorio ancora in fase di formazione, di effettuarla. Tale forzatura pur se determinata dall’intento di evitare che, per ogni condotta sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 609 bis c.p. (si pensi per esempio al contatto voluto su mezzi di trasporto), si avvii un automatismo limitativo della libertà personale (arresto obbligatorio e custodia carceraria) è, sotto il profilo tecnico, irrazionale e irragionevole. Assai più opportuno appare lasciare immutato, per la sola ipotesi di cui all’art. 609 bis c.p., l’attuale sistema processuale.

La seconda perplessità nasce dalla disposizione che estende ai reati a sfondo sessuale sopra richiamati la presunzione di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere (sempre che ovviamente sussistano le esigenze cautelari) oggi prevista esclusivamente per i delitti di associazione di tipo mafioso. Occorre al riguardo ricordare che tale disposizione (art. 275 co. 3 c.p.p.), nata per sollevare il giudice dall’onere di motivare la scelta della misura carceraria in particolari situazioni di pressione ambientale determinate dalla presenza dell’associazione a matrice mafiosa, ha superato il vaglio di costituzionalità della Corte (sotto il profilo della irragionevolezza della presunzione in essa insita) soltanto con riferimento all’area dei delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso, e ciò in relazione al coefficiente di pericolosità per le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva che agli illeciti di quel genere è connaturato 1.

4. Alcune riflessioni critiche merita anche l’art. 3 del decreto legge in esame che estende ai reati a sfondo sessuale la disciplina più rigorosa prevista in materia di benefici penitenziari relativamente al crimine organizzato (art. 4 bis legge 26 luglio 1975 n. 354). Nel combinato disposto delle norme si ottiene un quadro per cui i delitti di fruizione della prostituzione minorile, divulgazione di materiale pedopornografico, turismo sessuale, violenza sessuale nelle ipotesi di minore gravità e di atti sessuali con minore ultrasedicenne vengono ricompresi tra quelli per i quali i benefici penitenziari sono concessi solo in assenza di elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva (art. 4 bis comma 1 quarto periodo), collegamenti davvero improbabili per la genesi e lo sviluppo di tali situazioni delittuose. Per altro verso i delitti di sfruttamento di minori nella prostituzione o nella produzione di materiale pedopornografico, nonché quelli di violenza sessuale (con eccezione dei casi di minore gravità) anche aggravata e di gruppo e di atti sessuali con minorenni, vengono assoggettati alla disciplina dei reati per i quali i benefici penitenziari sono ammessi solo in caso di collaborazione ( requisito possibile esclusivamente nelle ipotesi di condotte strutturate o ramificate sì da creare un irrazionale trattamento di disfavore proprio per i casi meno gravi).

1 Ordinanza Corte Costituzionale n. 450 del 1995

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5. L’articolo 4 introduce la previsione secondo cui, anche in deroga ai limiti reddituali previsti in materia, le vittime di violenza sessuale, monosoggettiva e di gruppo, e atti sessuali con minorenne possono accedere al gratuito patrocinio. Si tratta di un primo intervento da condividere (e di cui è auspicabile una congrua estensione) che tenta di offrire alle vittime di aggressioni sessuali, particolarmente traumatiche per l’invasività del gesto che crea profondi scompensi di ordine psicologico, quell’aiuto di cui normalmente hanno bisogno e che si diversifica su diversi piani di intervento (legale, psicologico, economico, sociale) che lo Stato dovrebbe sempre offrire.

B) Introduzione del reato di atti persecutori (“stalking”).

1. L’art. 7 del decreto legge introduce una nuova forma di reato –“Atti persecutori”, 612 bis c.p.- colmando una profonda lacuna normativa che ha visto quasi sempre le forze di polizia e la magistratura assenti sul piano dell’intervento in tutte quelle gravi situazioni conosciute con il termine di “stalking” e già oggetto di osservazione e di studio in numerosi Stati esteri. Si tratta infatti di quei comportamenti molesti o minacciosi che, turbando le normali condizioni di vita, pongono la vittima in un grave stato di disagio fisico e psichico, di vera e propria soggezione e che sono capaci di determinare un giustificato timore per la propria sicurezza ovvero per la sicurezza di persona particolarmente vicina alla vittima e che possono essere prodromici a gravi atti di aggressione anche mortale.

L’assenza di una adeguata previsione normativa imponeva il ricorso alla contestazione di reati (art.

660 c.p. “Molestia o disturbo alle persone”, contravvenzione concernente l’ordine pubblico e la tranquillità pubblica, art. 610 c.p. “Violenza privata”) inadeguati alla copertura dei fatti accertati e non in grado di offrire tutela processuale – attraverso un intervento cautelare nei confronti dell’agente - alla vittima del reato. L’intervento normativo è perciò particolarmente apprezzabile anche perché idoneo a produrre l’affinamento delle conoscenze e delle tecniche di intervento negli operatori giudiziari (polizia giudiziaria e magistratura).

Il legislatore introduce il reato all’interno della sezione codicistica dedicata ai delitti contro la libertà morale e struttura la fattispecie secondo una condotta a forma libera (“minaccia o molestia”) di natura abituale (“con condotte reiterate”) che deve cagionare un danno (“stato d’ansia…di paura….fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto”). Si tratta di un reato di danno e di evento la cui sussistenza richiede non solo una condotta molesta o minacciosa ma anche il verificarsi di una alterazione dell’equilibrio della vittima. I problemi relativi all’accertamento della situazione soggettiva della parte lesa – che spettano alla fisiologia del processo e al giudice nell’ambito della sua discrezionalità - non incidono sulla determinatezza della fattispecie che sembra rispondere ai canoni richiesti dall’art. 25 della Costituzione. Esistono infatti altri reati (si pensi alla circonvenzione di persone incapaci) per l’accertamento dei quali occorre realizzare una indagine che comporta valutazioni su profili psicologici del soggetto passivo.

Qualche perplessità, sotto il profilo della coerenza sistematica, suscita la previsione di procedibilità a querela del reato laddove non si disciplina una ipotesi di irrevocabilità della stessa per una fattispecie che consente l’adozione di misure coercitive a carico del querelato. In sostanza si potrebbe verificare una situazione processuale nella quale, pur dopo che l’indagato abbia sofferto un periodo di custodia cautelare, il giudice non possa ulteriormente procedere per intervenuta remissione di querela, con ciò attribuendosi alla parte lesa del reato un potere che non trova riscontro nell’ordinamento penale (le fattispecie in tema di violenza sessuale non procedibili d’ufficio prevedono sempre una querela irrevocabile) salvo il caso della violazione dell’art. 570 c.p.

rapportata alla possibilità di applicare la misura coercitiva dell’allontanamento dalla casa familiare ai sensi dell’art. 282 bis c.p.p. .

Peraltro proprio la particolarità della fattispecie, che tende a tutelare una vittima sempre più debole a fronte di una sorta di progressione criminosa realizzata dall’agente persecutore, evidenzia come sarebbe inopportuno lasciare esposta la parte lesa a possibili pressioni e/o ritorsioni finalizzate alla remissione della querela e quindi alla sostanziale impunità processuale del reo. L’esperienza

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giudiziaria –maturata nella trattazione di reati procedibili d’ufficio quali i maltrattamenti in famiglia o a querela irrevocabile come la violenza sessuale- insegna proprio come la donna, normalmente vittima di tali situazioni, sia spesso soggetta a tentativi, più o meno diretti, finalizzati alla ritrattazione della denuncia malgrado la protezione della procedibilità irreversibile. Nel caso dello

“stalking” è facile prevedere come, proprio in assenza di tale protezione processuale, la vittima può essere oggetto di attività ancora più invasive aventi come fine ultimo la rinuncia all’istanza punitiva.

2. L’articolo 8 introduce una inedita ipotesi di diffida (“Ammonimento”) ante causam: si tratta di una misura monitoria, demandata all’autorità di pubblica sicurezza, su richiesta della vittima, prima della presentazione della querela. Tale fase presenta degli aspetti di delicatezza che devono essere sottolineati proprio per le caratteristiche dello “stalking”. E’ infatti conoscenza comune che in taluni casi un semplice intervento dell’autorità (come veniva fatto in passato con l’attivazione dello strumento ex art. 1 TULPS) possa essere sufficiente per interrompere l’attività persecutoria soprattutto laddove l’agente si dimostra sensibile e timoroso rispetto alle conseguenze dell’inosservanza della diffida. I casi più complessi, tuttavia, possono trovare in tale intervento dei fattori di aggravamento posto che un molestatore resistente e recidivante può leggere la richiesta di aiuto della vittima come una ulteriore insofferenza verso la sua condotta di progressiva oppressione e quindi come una sfida da superare aumentando la soglia di aggressività. Non sono pochi infatti i casi in cui a fronte di interventi parziali la reazione violenta dell’autore è stata particolarmente importante. Si tratterà, allora, di investire risorse per creare una conoscenza e una capacità di affrontare il fenomeno da parte degli operatori in maniera professionale e non superficiale.

3. Condivisibile è la scelta del legislatore di consentire l’incidente probatorio in relazione al delitto per l’assunzione della testimonianza di tutte le persone offese, siano esse minorenni o maggiorenni, nonché di introdurre, con evidenti finalità simboliche e di prevenzione speciale, all’interno della categoria delle misure coercitive, il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 282 ter c.p.p. Divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa) perfezionando un intervento già iniziato in tal senso con la legge 4 aprile 2001 n.

154 in tema di violenza nelle relazioni familiari. Si tratta di una misura che meglio inquadra e definisce una serie di divieti che già potevano essere applicati con lo strumento del divieto di dimora ex art. 283 c.p.p..

4. L’art. 10 estende da sei mesi ad un anno l’efficacia del decreto giudiziale di natura cautelare con cui si ordinano, in sede civile, la cessazione della condotta violenta, l’allontanamento dalla casa familiare e il divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla vittima. Il legislatore interviene positivamente su uno strumento che meriterebbe un congruo potenziamento anche perchè, a differenza dell’ambito penale, offre cautela alla vittima di violenza domestica nell’ambito di un preciso progetto riparatorio e di superamento del momento di crisi relazionale.

C) Trattenimento degli stranieri irregolari nei centri per l’identificazione e l’espulsione (CIE)

L’articolo 5 del decreto – che risulta applicabile anche agli stranieri già trattenuti al momento dell’entrata in vigore dell’atto normativo- estende da 2 a 6 mesi il termine massimo di durata del trattenimento nei Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE) degli stranieri irregolari, in caso di mancata cooperazione al rimpatrio, ovvero di mero ritardo nell’acquisizione dei documenti necessari all’espulsione. Le proroghe del trattenimento (previste per periodi di sessanta giorni fino al termine massimo di 180 giorni) sono autorizzate dal giudice di pace su richiesta del questore. Nella relazione illustrativa al decreto di legge vengono espressamente richiamati i princìpi contenuti nella direttiva 2008/115/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2008 “recante norme e

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procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare”.

Con riferimento alla citata direttiva occorre evidenziare che in essa (art. 15) il trattenimento del cittadino di un paese terzo – finalizzato alla preparazione del rimpatrio o dell’allontanamento - è consentito quando sussista un rischio di fuga o quando vi sia, da parte dello straniero, resistenza al rimpatrio o all’allontanamento (attraverso, per esempio, la mancata collaborazione in ordine alla identificazione) è riesaminato ad intervalli ragionevoli; non può comunque superare i sei mesi salvo che, oltre alla mancata cooperazione da parte dello straniero, intervengano dei ritardi nell’ottenimento della necessaria documentazione dai paesi terzi, condizioni queste che consentirebbero un trattenimento per un ulteriore periodo di 12 mesi.

La norma del decreto legge che in altri punti appare conforme alla direttiva, suscita perplessità laddove pone in alternativa le condizioni della “mancata cooperazione al rimpatrio del cittadino del Paese terzo interessato” o dei “ritardi nell’ottenimento della necessaria documentazione dei Paesi terzi” che, invece, nella direttiva CE costituiscono presupposti diversi dell’intervento: la resistenza all’identificazione legittima il trattenimento, i ritardi nell’ottenimento della documentazione legittimano solo il prolungamento della permanenza. La conseguenza è che potrebbe verificarsi una vera e propria detenzione amministrativa basata su una semplice difficoltà nell’accertamento dell’identità legale del soggetto o nell’acquisizione della documentazione di corredo malgrado la sua piena disponibilità alla preparazione del rimpatrio.

La privazione della libertà personale, che è bene di primaria rilevanza costituzionale, impone poi che si attui un procedimento di controllo del titolo che legittima la detenzione amministrativa assolutamente rigoroso, con un contraddittorio pieno, dove l’amministrazione dovrebbe anche dimostrare di essersi diligentemente attivata presso il paese terzo per ottenere i dati necessari al rimpatrio o all’allontanamento del cittadino. Quanto alla competenza relativa alla proroga del trattenimento attribuita al giudice di pace si rileva (come già osservato nel parere sul disegno di legge di conversione del decreto legge 29 dicembre 2007 n. 249 recante “Misure urgenti in materia di espulsioni e di allontanamenti per terrorismo e motivi imperativi di pubblica sicurezza”:Delibera del 20 febbraio 2008) che, vertendosi in materia di privazione della libertà personale, meglio sarebbe investire il tribunale ordinario in composizione monocratica anche se ciò comporterebbe in termini organizzativi un impegno particolarmente gravoso. Si è infatti già osservato, che mentre “le garanzie costituzionali di indipendenza e di autonomia trovano la loro più completa attuazione nello status ordinamentale del magistrato professionale, caratterizzato dalla non temporaneità e dalla esclusività dell’appartenenza dell’Ordine giudiziario, per il giudice di pace, il carattere “onorario” ne caratterizza il profilo ordinamentale e, pur senza accreditarne la figura di “giudice minore” ne evidenzia tuttavia gli aspetti differenziali rispetto alla disciplina ordinamentale del giudice professionale”.

Inoltre, proprio in ragione della possibile dilatazione temporale del trattenimento presso i CIE occorrerebbe instaurare un controllo sulle modalità e condizioni della detenzione amministrativa del cittadino straniero.

D) Piano di controllo del territorio anche attraverso i volontari della sicurezza

L’articolo 6 ha per oggetto la predisposizione di un “piano straordinario di controllo del territorio”.

Il comma 1 riguarda le forze dell’ordine e anticipa dal 30 aprile al 31 marzo 2009 l’emanazione del d.P.R. relativo della ripartizione delle risorse destinate dall’art. 61 comma 22 del decreto-legge n.

112/2008, convertito con legge 6 agosto 2008 n. 133, all’assunzione di personale delle Forze di polizia e del Corpo dei vigili del fuoco entro il limite di spesa di 100 milioni di euro annui. La disposizione merita un apprezzamento favorevole, anche se ne va sottolineato il carattere circoscritto.

Il comma 2 prevede l’immediata riassegnazione al Ministero dell’interno di risorse oggetto di confisca versate nel bilancio dello Stato successivamente alla data di entrata in vigore del decreto- legge, in attesa del decreto del Ministro dell’economia e delle finanze che darà attuazione al

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cosiddetto Fondo unico giustizia. Va sottolineato che ai sensi del comma 24 dell’articolo 41 del decreto legge n.112/2008 (convertito con legge n.133/2008) le risorse di cui al precedente comma 23 dovrebbero essere destinate per una quota alla tutela della sicurezza pubblica, per altra al potenziamento dei servizi istituzionali del Ministero della giustizia, per altra ancora all’entrata del bilancio dello Stato. Trattandosi di fondi provenienti in gran parte dell’attività giurisdizionale, sarebbe auspicabile che una quota più consistente fosse rapidamente assegnata alle spese relative alla giustizia.

Abbastanza oscura resta la concreta utilizzazione della quota di dette somme anticipata per la tutela della sicurezza pubblica. Essendo i commi successivi dell’art. 6 relativi alle associazioni di volontari e all’impianto di sistemi di video sorveglianza nel territorio dei Comuni, si dovrebbe ritenere che a tali incombenze potrebbe essere destinata tutta o gran parte della somma anticipata al Ministero dell’interno.

Questa possibilità accentua una perplessità di ordine generale sulla possibilità di derogare al principio che assegna all’autorità pubblica l’esercizio delle competenze in materia di tutela della sicurezza, escludendo che questa possa essere affidata ai privati. Né può costituire argomento giustificativo la previsione di arresto da parte di privati ex art. 383 c.p.p. (limitata ai delitti perseguibili di ufficio di cui all’art. 380 nei casi di flagranza) la quale è ipotesi eccezionale che richiede comunque l’immediato intervento della polizia e poi dell’autorità giudiziaria. La perplessità di ordine generale è accentuata dalla finalità che viene attribuita alle associazioni volontarie, che è quella di “segnalare alle Forze di polizia dello Stato o locali, eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale”. L’elevato tasso di discrezionalità, già insito nella segnalazione di un danno solo potenziale alla sicurezza urbana, diventa ancora più ampio con riferimento alle situazioni di disagio sociale, espressione talmente generica da poter giustificare le segnalazioni più disparate su questioni che non rientrano nella tutela della sicurezza e non sono di competenza delle forze dell’ordine.

Il comma 4 prevede l’iscrizione delle associazioni in questione in un apposito elenco tenuto a cura del prefetto, previa verifica da parte di questi, sentito il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, dei requisiti necessari stabiliti dal decreto del Ministro dell’interno. La suddetta iscrizione non si configura come un’autorizzazione amministrativa, ma come una mera verifica della corrispondenza tra i requisiti stabiliti nel decreto ministeriale e quelli posseduti dall’associazione. Si tratta, quindi, non di un effettivo controllo sull’attività realmente svolta dalle associazioni, ma di un accertamento della corrispondenza dei fini dichiarati dalle associazioni ai requisiti che verranno indicati nel decreto ministeriale. Il rinvio al decreto ministeriale suscita ulteriori perplessità, in considerazione della genericità e delle lacune contenute nel testo del decreto-legge. Basti pensare alla mancata previsione, che non può che essere contenuta in un atto legislativo, che le associazioni non debbano avere né natura né finalità di ordine politico, in considerazione del divieto, posto dall’art. 18 comma 2 Cost., di costituire associazioni che, anche indirettamente, perseguano scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare (per la sussistenza delle quali in base al D.Lgs. 14 febbraio 1948 n. 43, non è richiesto il possesso di armi, ma sono sufficienti un’organizzazione di tipo gerarchico analoga a quella militare e la dotazione di uniformi). Altrettanto si dica per l’assenza nel decreto-legge di ogni requisito negativo, preclusivo della partecipazione alle associazioni, come quelli di essere stati condannati per reati di violenza o per il compimento di atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Infine la doverosa precisazione che i cittadini debbano essere “non armati” non è tale da fugare ogni dubbio sull’utilizzazione di strumenti, non definibili armi in senso proprio, ma comunque atti ad offendere e a compiere atti di coercizione fisica. In definitiva la genericità delle previsioni contenute nel decreto-legge può determinare il rischio del determinarsi di incidenti, e nei casi più gravi della commissione di reati, che possono determinare un aggravio sia per le forze dell’ordine, distogliendole dal perseguimento del fine di garantire un efficace controllo del territorio, sia per l’esercizio della funzione giurisdizionale da parte della magistratura.

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Perplessità suscita infine il comma 8, che limita la conservazione dei dati raccolti dai Comuni mediante sistemi di video-sorveglianza ai sette giorni successivi alla rilevazione, “fatte salve speciali esigenze di ulteriore conservazione”. Le perplessità derivano dall’assenza di un termine massimo, giustificata dal richiamo ad esigenze non meglio specificate, che pare contrastare con i principi di riserva di legge e di tassatività che regolano le misure limitative della libertà personale, e lasciare troppo ampia discrezionalità agli enti locali nell’individuazione dei presupposti che giustificano la deroga. Mancano inoltre sia il richiamo dei requisiti e delle limitazioni all’acquisizione di dati relativi alla privacy stabiliti dal d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196 sia la disciplina delle modalità di acquisizione dei dati da parte dell’autorità giudiziaria.».

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