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Capitolo 4 VERSO UNO SVILUPPO DI COMUNIONE

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Capitolo 4

VERSO UNO SVILUPPO DI COMUNIONE

4.1 Introduzione

Abbiamo preso in considerazione, nelle precedenti sezioni, come l’umanità sia arrivata a confrontarsi col problema della sua sopravvivenza sul pianeta e della “qualità” della sua permanenza su di esso, lette in relazione ai suoi comportamenti e alle sue attività. Abbiamo preso in considerazione le teorie dello sviluppo che ci hanno portato sino alla situazione attuale, con le contraddizioni, le critiche, il dibattito che le ha viste coinvolte. Si è arrivati a comprendere che l’attuale modello di sviluppo e gli stili di vita che lo accompagnano non sono sostenibili né su larga scala (l’umanità per intero), né sul lungo periodo (per questa generazione o per quelle, ancor più numerose, che verranno).

Gli studi ed il dibattito derivati hanno portato a considerare sterile il cercare di delineare uno sviluppo sostenibile se esso viene pensato solo come una sorta di “minimizzazione del danno”, sia perché al momento attuale la situazione ambientale sembra già necessitare di un brusco cambiamento di attività da parte dell’uomo (si

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rimanda a tal proposito alla trattazione nel Capitolo 2), sia perché tale impostazione sembra incapace di generare un reale ed efficace cambiamento (si rimanda al Paragrafo 3.4 per la trattazione dettagliata a riguardo).

Dal dibattito sulla sostenibilità, dunque, risulta la forte critica all’attuale modello di sviluppo, col suo sistema culturale, con la necessità invocata di cambiarli, ripensarli, ridando centralità di ruolo alla società civile.

Quello che abbiamo cercato di fare, a questo punto della trattazione, è di raccogliere l’eredità di questi studi e voci, mantenendo l’approccio di una visione d’insieme della problematica e cercando di orientarci verso quel cambiamento intuito e tanto invocato dai più.

4.2 Le premesse al concetto di sviluppo

Per pensare, o ripensare, il concetto di sviluppo è necessario collocarsi nell’adeguato contesto. Questo significa non solo pensare alle modalità di sviluppo, ma ancor prima pensare a chi debba svilupparsi e verso cosa.

I due grandi interrogativi sembrano ancora essere: quale sviluppo e per quale uomo? Ed anche: svilupparsi per che cosa, per quale fine? (Coda, 1992).

Abbiamo già visto precedentemente che progressivamente si sta riaffermando la centralità dell’uomo nel processo di sviluppo, seppur si riscontrino nuovi interrogativi su ciò che possa indicare il raggiungimento dell’obiettivo e in qualche modo fare da

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riferimento nell’orientamento dello sviluppo (si veda anche in 3.3.3 per indicatori di crescita e di benessere e in 3.2.3 per il concetto di sviluppo umano, etc.). Difatti, abbiamo visto una sostanziale identificazione dello sviluppo in una visione unicamente economica di esso, strettamente legata all’identificazione del benessere individuale con la ricchezza economica di quello stesso, ovvero col suo reddito.

Rifacendoci a quanto già emerso nel Capitolo 1, si può ben comprendere l’importanza del contesto culturale in cui queste visioni si sono sviluppate, e ancor meglio come quelle stesse abbiano generato le categorie concettuali di riferimento per una tale visione di benessere (si veda in 1.2.3). Sinteticamente, si è visto che il fenomeno della sovrapproduzione ha esercitato una pressione notevole proprio a livello culturale per spingere al consumo di quei beni prodotti in sovrannumero1, finendo per creare nuovi bisogni e con essi una cultura del consumo (il consumismo in cui, di fatto, siamo immersi: si veda in 1.2.3). A questo proposito vogliamo sottolineare due aspetti: la conseguenza che si è avuta (nelle società “avanzate”, nelle società occidentali) sulla percezione dei beni e quella avuta sulla percezione del proprio benessere, del soddisfacimento della propria esistenza.

1 Nell’economia liberista i bisogni sono rappresentati come illimitati, mentre in realtà ad

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4.2.1 Ricchezza e felicità

È un tema molto studiato negli ultimi anni1 (Zamagni, 2004). Ciò che emerge dagli studi a riguardo è che una prima necessaria argomentazione è quella di mettere un individuo (ogni individuo: equità intragenerazionale e intergenerazionale in 3.3.2.3) nella condizione di poter soddisfare i suoi bisogni di base, tali da poterne garantire la sopravvivenza ed una vita dignitosa2, mentre successivamente si tratterà di interrogarsi sulla felicità dell’individuo.

In tale ottica nascono e si sviluppano le teorie welfariste, dalle quali si dovrebbe prendere una certa distanza per la ragione che queste hanno trascurato nella quasi totalità dei casi la condizione fisica degli individui (Sen, 1999), prendendo in considerazione che l’individuo nella propria esistenza raggiunge una serie di risultati che si trovano su piani precedentemente mai considerati come la nutrizione, la longevità, la salute (se ne parla in termini di “funzionamenti”; Sen, 1998 e 1999; Russo, 2003).

Un’argomentazione a parte riguarda invece la realizzazione per un individuo della propria felicità, la percezione soddisfacente della propria esistenza.

Ed è proprio quanto emerge dagli studi di Sen sulla felicità (non unici in tale direzione) che ci arrivano ulteriori importantissime annotazioni.

1 Come si vede dalle attenzioni sempre crescenti che prestigiose riviste scientifiche

internazionali, primarie case editrici, società scientifiche come l’American Economic Association vanno dedicando al tema (Zamagni, 2004).

2 Si apre a tal proposito un tema ampio per le diverse interpretazioni che vengono date

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In definitiva si riscontra che la felicità non cresce sempre proporzionalmente con la crescita del reddito (Sen, 1998, 1999 e 2001; Norberg-Hodge, 2000; Bruni, 2002b e 2004; Bruni et al., 2004; Russo, 2003; Pignagnoli, 2004; e altri); esistono molti fattori soggettivi che fanno sì che anche un clochard possa essere felice quanto e più di un individuo dal reddito nettamente superiore (in un esempio tanto caro a Sen; da Russo, 2003).

Nelle teorie welfariste c’è l’identificazione del reddito (inteso come capacità di consumo) con il benessere. Questo è erroneo, perché anche a parità di condizioni di reddito fra due individui esistono fattori che possono far variare il grado di benessere di ciascuno (Sen, 1999): il reddito rappresenta un semplice mezzo per il raggiungimento di alcuni obiettivi che possono realizzare il benessere e non il metro di misura dello stesso. L’individuo con la sua libertà diventa il fulcro della discussione economica in cui privilegiare l’idea di accrescimento delle libertà reali degli individui, intese quali capacità di vivere effettivamente e compiutamente il tipo di esistenza che garantisce loro la maggiore realizzazione personale (Russo, 2003).

Si afferma che:

Una società a misura d’uomo non può limitarsi ad assicurare il rispetto delle sole condizioni di efficienza nel disegno delle proprie istituzioni economiche. (…). Quello che più si deve esigere è che il concreto operare del sistema economico non rappresenti un ostacolo alla realizzazione, da parte della persona, delle altre sue dimensioni fondamentali: da quella interiore a quella relazionale (Zamagni, 2002).

Si riconduce la povertà all’incapacità di agire e decidere, piuttosto che semplicemente ad un reddito inferiore (Sen, 2001); l’idea di benessere che ne scaturisce rimanda non alla sola disponibilità di beni e di servizi attraverso i quali raggiungere un certo status, piuttosto alla capacità dei beni di “funzionare” per espandere le opportunità

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di sviluppo della persona (Sen, 2001; Pignagnoli, 2004). Come vedremo, è una concezione che rimette al centro l’uomo con la sua specifica identità e non un individuo impersonale.

L’altro aspetto degno di particolare considerazione che emerge dagli studi condotti cui ci siamo riferiti è la dissociazione dell’identificazione benessere-ricchezza non solo per chi, secondo le teorie di crescita economica, dovrebbe svilupparsi, ma anche per chi sembra godere di una condizione privilegiata.

Si è già affermato molto spesso che l’evidenza mostra fin troppo chiaramente che non c’è un legame automatico tra crescita economica e sviluppo umano e che anche quando siano costituiti alcuni legami, essi possono essere gradualmente erosi, salvo rafforzarli regolarmente attraverso un’abile e intelligente politica (UNDP, 1996; Pignagnoli, 2004).

L’elemento di novità, che si rifà alla riflessione fortemente presente in economia in autori come Genovesi, Galiani, ed anche Smith e Sen (Pignagnoli, 2004), è rappresentato principalmente dall’emergere di un fatto nuovo: nelle società a reddito elevato avere più reddito non ci fa più felici, o meno di quanto ci aspetteremmo (Bruni, 2001 e 2002b), addirittura scoprendo che all’aumentare del reddito nei Paesi occidentali si verifica “un’inversione” diventando, paradossalmente, meno felici (Bruni, 2002b e 2004; Bruni et al., 2004).

È elemento di novità proprio il fatto che la ricchezza è sempre stata considerata un fattore essenziale per raggiungere la felicità, mentre da tali risultati emerge che non sempre si realizza nella realtà (Bruni, 2001 e 2002b; Pignagnoli, 2004).

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Questo tema viene definito come il paradosso della felicità1 ed ha portato ad un acceso dibattito tra economisti e psicologi sociali per individuare quali siano i legami e le determinanti in grado di dare risposte convincenti. Sono emerse varie spiegazioni ed in generale si è riconosciuto che l’effetto complessivo del reddito sulla felicità è positivo per bassi livelli di reddito, ma dopo una certa soglia diventa negativo (Bruni, 2001 e 2002b; Pignagnoli, 2004).

Non vi è una definizione unica e oggettiva per il termine felicità, neanche in economia, ragione per la quale viene utilizzato con sfumature diverse, per indicare una valutazione soggettiva data dagli individui alle proprie condizioni di vita, dipendente quindi dalle percezioni di ognuno. Per questo le spiegazioni al paradosso vengono ricercate sotto un’ipotesi comparativa (variazioni nella percezione di felicità in base ai confronti tra redditi o capacità di consumo differenti tra individui). Ci si rifarà, dunque al senso aristotelico dell’eudamonia (Zamagni, 2004).

Come si vedrà, secondo molti autori studiosi della problematica, la spiegazione è da ricercarsi in una delle impostazioni di base: implicitamente è presupposta la ricerca da parte degli individui dell’interesse personale che porterebbe ad un conflitto tra ricerca del benessere individuale e realizzazione del benessere sociale, considerando anche tutti gli studi che vedono irrealizzabile il benessere personale se si prescinde da quello sociale, comunitario (Sen, 1998, 1999 e 2001; Bruni, 2002a e 2002b; Russo, 2003; Bruni et al., 2004; Morasso, 2004; Pignagnoli, 2004; e altri).

1 All’Università Bicocca di Milano si è svolto un Convengo internazionale dal titolo

“The paradoxes of happiness in economics” nel marzo 2003, che ha visto la partecipazione di quasi duecento studiosi di varia provenienza, sia culturale che geografica, che si sono confrontati in una stimolante concordia discors (Zamagni, 2004).

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Se l’economia è nata con lo scopo di promuovere la “ricchezza delle nazioni”, ma tale ricchezza porta non benessere bensì malessere, allora la crisi non investe aspetti marginali, ma la visione dell’uomo su cui poggiano la struttura epistemologica e la gestione pratica dell’economia (Morasso, 2004).

La separazione dei beni dalle persone che li producono, scambiano e consumano fa sì che ad essere valorizzato non sia il rapporto fra le persone impegnate nel processo di produzione-scambio-distribuzione delle cose, ma le cose stesse. La povertà è, sì, mancanza di beni, ma anche mancanza di rapporti entro i quali la persona si realizza (Morasso, 2004).

4.2.2 Beni posizionali e beni relazionali

Abbiamo visto come l’aumento di produttività abbia portato come conseguenza il necessario aumento di “consumatività” (Pignagnoli, 2004), ovvero l’esigenza che i beni vengano consumati sempre più in fretta per lasciare spazio ad altri beni (da cui la spinta all’utilizzo dei beni usa e getta). Perché tutto ciò avvenga al meglio è necessario che la cultura del consumo (si veda anche in 1.2.3) che permea le nostre società induca a non concentrare troppo a lungo l’attenzione verso uno specifico oggetto, ma a valutare le nostre scelte in base all’appagamento dei nostri desideri, che sono facilmente manipolabili (Packard, 1965, 1985 e 1996; Mc Luhan, 1968; Barman, 2001; Pignagnoli, 2004; e altri); è la creazione di bisogni indotti, già affrontata in precedenza in 1.2.3.

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Tutto ciò trova appoggio su di una società regolata dal principio che muove il mercato stesso, ovvero il principio dello scambio di equivalenti, per il quale si tenderà ad assegnare un prezzo ad ogni cosa1.

Questo determina il fenomeno della mercificazione che caratterizza le nostre società, che via via ha coinvolto, per un più ottimale funzionamento del mercato così concepito, i rapporti uomo-uomo, uomo-natura, il lavoro stesso, etc.. Inoltre, si è presentata ai consumatori una sempre maggior quantità di merci a disposizione della propria scelta sempre più, però, distaccati dalla loro funzione originaria; il mercato tende a promuovere i beni associandoli ad uno status, ad un immagine: i beni diventano simboli e acquistano il valore di beni posizionali (tra gli altri si veda in Packard, 1965 e 1996; Pignagnoli, 2004).

In realtà già nel Settecento la questione del consumo veniva trattata in termini di lusso, considerato come un incentivo per lo sviluppo e la ricchezza delle nazioni: secondo Genovesi il lusso rappresenta la ricerca di una distinzione dagli altri che è sempre esistita nella varie forme di organizzazione sociale, ma che solo se inserita in una vita civile può diventare la forza motrice di cambiamenti utili per la società (Pignagnoli, 2004).

1 Questo ha una conseguenza di enorme importanza in quel fenomeno ritenuto tipico

della cultura occidentale di aver introdotto la categoria ambiente in luogo di quella di natura, permettendo in certo modo un ulteriore distacco concettuale dalla natura stessa e aprendo la strada alla mercificazione della natura e alla possibilità di valutarla entro parametri unicamente economici, attuando un vero e proprio riduzionismo economico sulla natura, per il quale anche in natura vale solo ciò che è monetizzabile (Shiva, 2001b e 2002; Benton, 2002; Banerjee, 2003; Agazzi, 2004a; Bordeau, 2004 ; e altri). Si comprendono le critiche mosse da molti autori alla concezione che ne emerge e le loro affermazioni sulla necessità di ritrovare un nuovo rapporto con la natura e una diversa concezione della stessa da parte dell’uomo per potersi muovere verso il concepimento di uno sviluppo che sia davvero sostenibile (oltre agli autori citati si veda a riguardo in 1.2.4 e 1.2.4.1).

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Così avviene nelle nostre società moderne, per i quali i beni posizionali sono ricercati come tentativo di distinzione. Accade, però, che a tali simboli venga “delegata” in qualche modo la ricerca di affermazione della propria identità (in un mondo ed in una società, quelle occidentali, sempre più massificate e massificanti; si veda in 1.2.3), che viene così apparentemente espressa da una “competizione” sempre maggiore con gli altri componenti della società. Va rilevato, inoltre, che un bene posizionale svolge al meglio il suo compito in quanto tale per chi lo consuma se tale bene è “scarso”, ovvero con una distribuzione ineguale tra gli individui componenti la società, pena in caso contrario il mancare alla funzione di distinzione.

Tale dinamica è vista da molti autori come una concausa della frammentazione sempre maggiore che si verifica all’interno delle nostre società, in cui si ritiene necessario quanto difficile realizzare la dimensione sociale dell’individuo1: la ricerca del benessere individuale, inteso secondo tale visione come l’assunzione di una data posizione nella società, difficilmente può portare alla creazione di un benessere sociale, in quanto chi rimarrà fuori da tale competizione diminuirà il proprio benessere.

Questo “benessere” appare contraddistinto dalle caratteristiche di possesso, competizione ed esclusività; un esempio significativo si riscontra nel lavoro di Norberg-Hodge (Norberg-Hodge, 2000), in cui l’autrice evidenzia tramite la sua esperienza diretta i cambiamenti radicali riscontrati nella società dell’altopiano tibetano del Ladakh. Finché si era verificato un contatto modesto con l’occidente e gli occidentali la

1 Si vedano a riguardo autori come Rosseau, Ricoer, Levinas, ed altri, che non

presentiamo qui per sintesi; si rimanda piuttosto alla trattazione fatta anche su di essi da Morasso (Morasso, 2004) o da Morandini (Morandini, 2003).

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società ladakhese mostrava un proprio equilibrio, in cui era l’aiuto reciproco e non la competizione a regolarne l’economia, vivendo sostanzialmente in armonia e soddisfatta della propria esistenza, per poi conoscere la divisione al suo interno e l’insoddisfazione delle proprie vite dopo che il governo indiano cercò di condurre anche nella regione del Ladakh la politica di sviluppo importata dagli occidentali. È significativo anche annotare quanto espresso dal Commissario per lo Sviluppo in Ladakh nel 1981:

Se vogliamo riuscire a sviluppare il Ladakh, dobbiamo scoprire come rendere queste persone più avide. Non c’è altro modo di motivarle (da Norberg-Hodge, 2000).

Vennero creati nuovi bisogni, ma non si può dire che sia stato creato un maggior benessere per nessuno degli abitanti della regione (Norberg-Hodge, 2000).

È essenziale a questo punto comprendere il ruolo dei beni relazionali, la cui esistenza è legata alla modalità di interazione con gli altri, in quanto è la relazione in sé a costituire il bene (Gui, 1992; Bruni, 2002; Zamagni, 2002; Bruni et al., 2004; Pignagnoli, 2004; e altri).

Questo tipo di beni sembrano essere sempre più scarsi, ma anche più richiesti nelle nostre società (Gui, 1992; Bruni, 2002; Pignagnoli, 2004), che appaiono spersonalizzate e per questo più legate al consumo di beni anche come tentativo di comunicazione (il “distinguersi” come “affermazione dell’io”; Cicchese, 1997; Bruni, 2001; Pignagnoli, 2004; e altri).

I beni relazionali hanno la caratteristica di nascere dal rapporto fra i soggetti, nei quali l’identità e le motivazioni dell’altro con cui si interagisce sono elementi essenziali nella creazione e nel valore del bene, essendo espressione del principio di reciprocità (Pignagnoli, 2004).

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4.2.2.1

Il principio di reciprocità

Il legame stretto che ha col rapporto interpersonale fra individui è evidente considerando anche che:

La relazione di reciprocità postula un qualche bilanciamento tra ciò che si dà e ciò che ci si aspetta di ottenere in cambio. (…). Mentre nello scambio di mercato la determinazione del rapporto di scambio precede, sia logicamente sia temporalmente il trasferimento dell’oggetto di scambio, (…) nella relazione di reciprocità il trasferimento precede, sia logicamente sia temporalmente, l’oggetto contraccambiato (Zamagni, 1998).

Questo principio si basa sulla particolarità della natura della relazione occorrente tra più soggetti legati da motivazioni “non egoistiche”, ovvero in cui emerga il principio di gratuità (Bruni, 2003; Morasso, 2004; Pignagnoli, 2004; Zamagni, 2004; e altri). La natura di tale relazione sarebbe configurabile nella logica del dono reciproco, laddove: 1) se anche le attese reciproche fossero precise, esse non esaurirebbero le motivazioni del dono; 2) la realizzazione delle attese è incerta; 3) la valutazione quantitativa delle prestazioni è impossibile; 4) il rapporto non è saldato con la produzione della contropartita (Latouche, 1997).

Il dono reciproco, in tal modo, non verrebbe a configurarsi semplicemente come uno scambio economico mascherato in maniera più o meno ipocrita (Osti, 1997). Da ciò deriva il suo potenziale disporsi secondo una catena di eventi tendenzialmente senza fine (Osti, 1997), nella quale non necessariamente debbono essere assenti

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considerazioni di opportunità, di convenienza o di potere, bensì esse non esauriscono i termini della relazione (Cella 1997; Osti, 1997).

Viene introdotta così l’idea di un homo reciprocus (Bruni, 2003; Morasso, 2004; e altri) che è il soggetto del dono e che è disposto e teso all’attuazione di quei beni relazionali che costituirebbero espressione e realizzazione dell’individuo nella sua dimensione sociale, abbandonando quella dinamica tipica dell’homo oeconomicus1 (Zamagni, 2004; o dell’homo consumans (Pignagnoli, 2004), figlio della cultura di consumo che limita l’uomo moderno nella sua realizzazione.

Emergerebbe così nelle categorie del dono e della reciprocità un primo aspetto chiave necessario per passare da una cultura dell’avere ad una cultura dell’essere.

Questo significa passare ad una cultura in cui non ha più ruolo centrale o finalità il possedere, l’avere che caratterizza il capitalismo in cui l’uomo è visto essenzialmente come produttore-consumatore: è se ha2 (Zappalà, 1992). Da ciò deriva in vario modo

l’odierna cultura del consumo (si veda la trattazione anche in 1.2.3) in cui tutto, persino le relazioni sono strumentalizzate, mercificate, svuotate di ogni loro senso (proprio perché il consumismo si propone di ri-significare, o de-significare, tutta l’esistenza

1 Il “Chicago man”, come Daniel McFadden ha recentemente chiamato la versione più

aggiornata dell’ homo oeconomicus, è un isolato, un solitario e dunque un infelice, tanto più così quanto più egli si preoccupa degli altri, dal momento che questa sollecitudine altro non è che una idiosincrasia delle sue preferenze. (…). L’ homo oeconomicus è l’identikit perfetto dell’idiota sociale: un soggetto la cui sfera di razionalità economica viene ridotta alla sfera della scelta razionale come se l’unica teoria valida dell’azione umana fosse la teoria dell’azione intenzionale. Ora, come gli economisti sanno dai tempi almeno di Adam Smith, buona parte delle azioni umane traggono origine non solo da intenzioni, ma anche da disposizioni e da sentimenti morali (Zamagni, 2004).

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umana per aumentare la domanda dei prodotti; ne deriva una vera e propria logica usa e getta; Zappalà, 1992).

In questo modo lo sviluppo stesso ha condotto la persona solo ad un bene-avere, piuttosto che ad un bene-essere (Rondinara, 1996; Bruni, 2004; Bruni et al., 2004; Zamagni, 2004), riproponendo la necessità di riaffermare il primato della persona sullo sviluppo e sulla scienza e tecnologia (Rondinara, 1996).

Come vedremo più avanti (in 4.3) la centralità del processo di sviluppo torna a concentrarsi sull’uomo, che deve essere messo in condizione di realizzarsi pienamente come intero, in tutti i suoi aspetti, per quanto si tratti ora di “riparametrare” le categorie proprie del benessere dell’uomo:

Le teorie in uso si basano su una visione distorta dell’azione umana, dato che appare non in grado di far presa sui nuovi problemi che affliggono le nostre società (dalla protezione ambientale alle ineguaglianze sociali in aumento; dal senso di insicurezza che colpisce i cittadini nonostante l’aumento della loro ricchezza, alla perdita di senso delle relazioni interpersonali, dall’eccessiva produzione di beni posizionali all’incapacità di risolvere i conflitti di identità in numero crescente nelle nostre società; Zamagni, 2004).

Sempre riguardo al principio di reciprocità riportiamo un’ulteriore considerazione che emerge ancora dal lavoro di Osti (Osti, 1997), in cui si rintraccia una notevole conclusione, la quale sintetizza le convergenze tra il principio di reciprocità e quello di equità intergenerazionale e intragenerazionale emerso nello studio sulla sostenibilità e sullo sviluppo sostenibile (si veda in 3.3.2.3).

Si evidenzia come il principio di reciprocità sia particolarmente rispondente alle necessarie premesse per la realizzazione di un qualsivoglia sviluppo che voglia essere sostenibile:

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Le principali motivazioni a promuovere uno sviluppo sostenibile, in base al criterio della reciprocità, possono essere le seguenti:

Scambio reciproco intergenerazionale di tipo fisico (la

discendenza): la necessità di lasciare un mondo migliore è in

funzione della donazione di eredità ai figli1; od anche, il gruppo vuole che la propria stirpe continui: per garantire questa continuità è necessario lasciare un ambiente adatto.

Scambio reciproco intergenerazionale di tipo simbolico (la

missione): un soggetto o un gruppo ha un credo di tipo

escatologico, sia esso di natura religiosa o no.

Scambio reciproco di tipo generale (la solidarietà): il soggetto dà alla società senza alcuna immediata contropartita, ma lo fa con la speranza, la fiducia, l’attesa che questa gli garantirà una risposta positiva2; è il classico atteggiamento di fiducia

generalizzato.

Scambio reciproco fra le parti e il tutto (l’unità): il soggetto è parte di un organismo più ampio, dotato di una propria armonia e coerenza e per integrarsi in questo è spinto a proteggerlo e a preservarlo per il futuro. Il suo equilibrio in quanto individuo è direttamente legato all’equilibrio generale. Sarebbe l’unico caso in cui vi è reciprocità piena tra uomo e ambiente. La concezione di Gaia non sembra lontana da questa prospettiva3.

Scambio reciproco diretto (l’amicizia): il soggetto difende l’ambiente perché vincolato da una relazione di reciprocità con un altro.

Si comincia a delineare così il forte nesso tra il principio di reciprocità e il principio di equità (intergenerazionale e intragenerazionale).

1 Ad esempio, Stern, Dietz e Kalof (1993, p. 331) sostengono che le madri rispetto ai

padri manifestino una maggior sensibilità per le questioni ambientali in quanto le percepiscono come una minaccia più grave per i figli (da Osti, 1997).

2 C’è una similarità all’atteggiamento che spinge gli individui a donare il sangue: non vi

è contropartita immediata, bensì un senso di fiducia per ricevere la medesima sorte (Titmuss in Osti, 1997); spiegato altrimenti da Hollis (in Morasso, 2004) come un comportamento che rappresenta e a sua volta dà origine ad una reciprocità generalizzata che gran ruolo avrebbe anche nel superare localismi geografici e ideologici o culturali verso la realizzazione di una

cittadinanza globale (si veda più avanti in 4.3.1).

3 Si veda a questo proposito le interessanti considerazioni rileggendo il legame che Osti

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4.2.3 Quale uomo per lo sviluppo?

La persona e la categoria comunione

Torna la necessità di uno sviluppo che veda l’uomo al centro, ma si ripropone l’interrogativo di quale uomo sia da rimettere al centro dello sviluppo, dunque quali siano gli aspetti da considerare per riparametrare un modello di sviluppo.

Da quanto già affrontato, si rileva quello che si presenta come il grande insuccesso dell’attuale modello di sviluppo: la ricchezza, vista all’interno di tale modello come garanzia del raggiungimento del benessere per l’uomo, non ha raggiunto le persone e le società cui il modello guardava, generando piuttosto disuguaglianze e divario fra ricchi e poveri ancora maggiori (per la trattazione si veda in 3.2 e successivi, 3.3.3 e 3.4); inoltre, la ricchezza si presenta come non decisiva o addirittura contraddittoria col raggiungimento del benessere laddove il reddito non è scarso (per la trattazione si rimanda a 4.2.1).

Emerge così la necessità di comprendere a fondo l’uomo e la sua natura (Coda, 1990; Zanghì, 1990; Zappalà, 1992; Morandini, 2003; e altri); al contempo, si manifestano alcuni primi tratti essenziali, quali l’impossibilità per l’uomo di realizzarsi senza che sia espressa, realizzata, la sua dimensione sociale (Coda, 1990; Arendt, 1993; Sen, 2001; Lanza, 2002; Morandini, 2003; Russo, 2003; Pignagnoli, 2004; e altri). L’uomo, difatti, è un essere a più dimensioni, tutte necessarie di realizzazione, contrariamente all’idea che siano campi diversi fra loro con il conseguente approccio isolato alle singole peculiarità e con poca capacità di comunicazione e visione d’insieme

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(Coda, 1990; Arendt, 1993; Bruni, 1999; Sen, 2001; Lanza, 2002; Morandini, 2003; e altri): si presenta così un uomo a più dimensioni, in cui anche l’etica rappresenta una dimensione e non un campo isolato che non deve invadere gli altri (economia, tecnologia, etc.), per paura di perdita di autonomia.

Proprio la necessità di recuperare la dimensione etica dell’uomo è vista come decisiva per affrontare le questioni della convivenza dell’uomo sulla Terra e della sua sopravvivenza su di essa (Rondinara, 1996; Shiva, 2001b; Lanza, 2002; Banerjee, 2003; De Lorenzi et al., 2003; Franceschi, 2003; e altri); dimensione senza la quale la visione strumentale della natura prevarrà senza possibilità di alternativa (Vismara, 1992; Shiva, 2001a, 2001b e 2002; Lanza, 2002; Banerjee, 2003; Bordeau, 2004; e altri; si veda anche in 1.2.4), così come quella dell’economia e dei rapporti interumani stessi; emerge in tale argomentazione l’importanza di un etica della responsabilità (Lanza, 2002; Morandini, 2003; Russo, 2003; Galleni, 2004a e 2004b; Morasso, 2004; Rondinara, 2004), introdotta da Hans Jonas (Jonas, 1990) e successivamente ripresa e attualizzata nella sua importanza da molti, assieme all’idea che è necessaria un’etica globale che permetta la realizzazione dell’umanità nel suo complesso (che è, appunto, globale; Lanza, 2002; Morandini, 2003; Rondinara, 2004).

Tra i primi tratti distintivi, dunque, sembra emergere anche la necessità di conseguire relazioni vere (dunque soddisfacenti), da cui il principio di reciprocità (trattato in 4.2.2.1).

La categoria comunione (intesa dalla sua derivazione dal Greco koinonea) sembra comprendere quanto già emerso, aprendo nuove prospettive.

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Si deve intendere, con tale espressione e concetto, quella condivisione, compartecipazione, che deriva da un processo dinamico di relazione in cui il singolo ricerca l’altro svuotandosi di sé, accogliendo l’altro con la sua diversità, instaurando una dimensione in cui è privilegiato il dono inteso come il donare sé (Zappalà, 1990; Zanghì, 2001 e 2004).

La comunione, perciò, è darsi a qualcuno; e se tale darsi raggiunge la reciprocità (ovvero, se il donatore a sua volta incontra la stessa attitudine nell’altro, verificandosi così un vero e proprio rapporto dinamico), nel libero ritorno del dono (Zappalà, 1992; Osti, 1999; Bruni, 2003; Zanghì, 2004), allora, prendendo le parole al grande pensatore del nostro tempo, Giuseppe Maria Zanghì:

In quest’ottica l’economia stessa potrebbe diventare – lasciatemi osare –

scienza dell’arte-del-dono: quel dono che, (…), è tutto e solo gratuità.

Una gratuità che nella reciprocità diventa, appunto, economia. (…). Non, allora, la privatezza dura del possesso, che ricade sull’io e ne dilata, oggi, la solitudine infelice e l’angoscia; né l’investimento come soggetto del possesso di un collettivo che è sempre meno reale dei soggetti che lo compongono; ma la comunione personale del dare-ricevendo e del ricever-dando (…) (Zanghì, 2004).

Dobbiamo passare, inoltre, da una cultura frammentata (si rimanda a 1.2.1), che ha privilegiato la sostanza, il che cosa?, ad una cultura che ponga al centro la persona nel suo essere comunione che supera l’individualità, il chi?, senza precipitare, però, nell’abisso del nulla che è stato ed è la grande risposta conclusiva della modernità alla metafisica della sostanza (Zanghì, 2004; si veda anche, per il recupero del concetto di persona come centrale per lo sviluppo, in Coda, 1990; Sen, 1998 e 2001; Banerjee, 2003; Morandini, 2003; e altri).

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4.3 Verso uno Sviluppo di Comunione

Comincia a delinearsi un nuovo orizzonte di riferimento per l’uomo, per ciò che caratterizza la persona; vista la necessità che proprio la persona torni al centro dello sviluppo, si possono indicare i primi tratti verso cui lo sviluppo, così rivisto, si va a riorientare.

Abbiamo visto un modello di sviluppo ottimista, lineare, procedente in un’unica direzione, discriminante, etnocentrico e “monoculturale”, basato sulle ipotesi di modernizzazione, crescita continua ed inesauribilità del suo processo e delle risorse1, che si è confrontato, invece, con la finitezza delle risorse, con le conseguenze nefaste verificatesi sull’ambiente2 e sulle società, con amplificate le disuguaglianze che voleva risolvere3, in definitiva incapace di dimostrarsi sostenibile sul lungo periodo per questa e le future generazioni4, e proponente una visione ridotta e riduttiva dell’uomo5, che ha perso la sua dimensione di rapporto con la natura6 e quella sociale7 (mercificate anch’esse), relegandolo ad un ruolo di produttore-consumatore che non lo esprime nella sua pienezza e totalità.

Si fa chiara l’esigenza di un vero e proprio nuovo umanesimo che abbracciando la persona in tutti i suoi aspetti ne colga le reali caratteristiche ed esigenze, dando così

1 Ci rifacciamo alla trattazione presentata in 3.2, 3.2.1.1 e 3.2.1.2. 2 Ci rifacciamo alla trattazione presentata in 2.2.1.3, 2.2.2.3 e 2.4. 3 Ci rifacciamo alla trattazione presentata in 3.2.3 e 3.3.2.3. 4 Ci rifacciamo alla trattazione presentata in 3.3.2.

5 Ci rifacciamo alla trattazione presentata in 1.6 e 4.2.2. 6 Ci rifacciamo alla trattazione presentata in 1.2.4. 7 Ci rifacciamo alla trattazione presentata in 4.2.2.

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maggior chiarezza e definizione della direzione, del tendere verso dell’umanità (Pasolini, 1966; Coda, 1990; Bordeau, 2004; Zanghì, 2004). Un’umanità che non può che realizzarsi in equilibrio con l’ambiente circostante, con la Biosfera di cui fa parte1, recuperando la visione della natura ed il proprio rapporto con essa2, approfondendo lo studio degli equilibri di Gaia e promovendo pratiche produttive, di consumo e quant’altro maggiormente rispettose dell’ambiente, recuperando il principio di responsabilità e quello di precauzione. Gli Stati si presenterebbero così, assieme agli organismi internazionali, come promotori o quantomeno garanti di esaudire i desideri di realizzazione delle proprie società, ripensando inevitabilmente i propri modelli di sviluppo; ma anche come interlocutori d’eccezione sul piano internazionale per il ripensamento dello sviluppo e le politiche collegate, comprese le politiche per l’ambiente che hanno fin’ora presentato forse più problemi che successi3. Le premesse di necessaria equità all’interno della generazione e di destino comune danno a loro volta le premesse al superamento del dumping ecologico, motivato dal muoversi verso l’applicazione di quelle categorie di reciprocità già viste, verso una comunione reale tra popoli e Stati; inoltre, l’idea di ricchezza derivante dall’altro pone gli Stati stessi in un’ottica di ricerca attiva del proprio benessere questa volta misurato sul soddisfacimento del benessere dell’altro, non più limitati alla sola impostazione di

1 Ci rifacciamo a quanto già presentato in 1.2.4 per la Crisi ecologica e del rapporto

uomo-natura, in 2.3.1 e 2.4 per il rapporto tra l’uomo e Gaia coi suoi equilibri, in 1.2.4.1 per le implicazioni di approccio alla natura derivanti dall’impostazione.

2 Si veda in 1.2.4.1 per le diverse prospettive.

3 Compresa l’interpretazione delle stesse della “ripartizione delle colpe” o di una

valutazione unicamente in termini di danni o prelievo, difficilmente in termini di reale miglioramento ambientale; si veda anche in 3.3.4 per ecoimperialismo e dumping ecologico.

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perseguimento di profitto e accumulo di ricchezza materiale, ottenibili solo a discapito dell’altro1 (impostazioni che verrebbero a cadere, appartenenti ad un vecchio modello).

Siamo naturalmente consapevoli delle numerose difficoltà che nel corso della storia lontana e attuale si sono presentate, ma riteniamo che queste nuove categorie possano aiutare la necessaria rilettura dei rapporti internazionali e della loro costruzione, gettando nuove basi e percorsi; riteniamo anche che il bivio cui l’umanità si trova di fronte sia reale e necessiti di cambiamenti reali e rapidi, per i quali è necessario cambiare interessi e priorità anche a livello nazionale e internazionale2; processo che risulterebbe favorito da un cambiamento di prospettive. A ciò si potrebbe aggiungere il superamento dell’impostazione etnocentrica: decadrebbe inevitabilmente, infatti, l’impostazione che vede contrapposti fra loro “The West and The Rest” (Benton, 2002; Lanza 2002; e altri; inoltre in 3.3.4), in nome della legittimità e importanza di ogni Paese e popolazione con la propria cultura, tradizioni, etc., ora viste come un bagaglio di diversità, di ricchezza per tutta l’umanità; inoltre, tutti i Paesi, come espressione di tutte le società e tutti i popoli, sono in via di sviluppo verso la piena realizzazione degli individui, delle società e dell’umanità intera strettamente legata alla biosfera di cui fa parte: si potrebbe parlare così con proprietà di Paesi in Via di Sviluppo per tutti i Paesi, indipendentemente da condizione economica o culturale, dato che tutta l’umanità ancora è in via di sviluppo nel suo complesso e nelle sue singole unicità (chiaramente con le rispettive diverse strade di sviluppo, ora inteso in una veste nuova;

1 Si veda in 3.3.4 per l’aspetto ambientale della questione, in 3.2 e successivi per

l’aumento del divario tra ricchi e poveri e in 4.2.2 per approfondimento.

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non necessariamente si dovrebbe tendere ad un unico modello di sviluppo da applicare indiscriminatamente, o ad un medesimo “risultato” da raggiungere per tutti; più presumibilmente, piuttosto, in nome delle rispettive diversità e autonomie di autosviluppo, si dovrebbero percorrere, dunque, diverse vie di sviluppo per le diverse situazioni, storie, necessità, ma comune destino, legame, aspirazione, etc.).

Altra importante prospettiva è la difficile, ma necessaria, revisione dei propri consumi, riletta dalle nuove categorie e dal necessario abbandono della cultura del consumo (con le sue conseguenze). Ciò non determina un rifiuto assoluto di tutto ciò che è connesso con il mercato e i suoi meccanismi e coi consumi; in primo luogo perché il mercato ha in sé l’accezione di “luogo di incontro e scambio”, dunque ha la potenzialità di mettere in contatto persone, imprese e Stati che potrebbero realizzare rapporti di relazione e beni relazionali, a patto che si tratti di un’economia rinnovata per quella visione rinnovata di uomo e umanità (Rondinara, 2004; Zamagni, 2004; Zanghì, 2004; e altri) alla quale permettere tale ruolo. In secondo luogo, però, è da annotare che “il consumo è anche un modo per partecipare alla vita di una comunità, dove i beni rappresentano le parole di un linguaggio sociale” (UNDP, 1998), e per questo andrebbe favorito, secondo le modalità a ciò necessario.

Si prospetta così un ribaltamento anche per quello che è il ruolo del produttore-consumatore. La concezione attuale, nella realtà dei fatti, è limitata per lo sviluppo della persona. Si vedranno, per questo, le considerazioni per l’individuo e il suo particolare sviluppo, come cambia la prospettiva per le interazioni (e relazioni) con gli altri individui, ma anche quale nuovo fondamentale ruolo assume il consumatore.

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4.3.1 Da “costo di produzione” e consumatore

a cittadino del mondo

Per quel che riguarda il ruolo dell’individuo all’interno del sistema di mercato attuale (con alcune delle relative conseguenze) abbiamo già visto l’inadeguatezza dello stesso e della mercificazione di beni, natura, relazioni e del consumatore stesso, che non è più attore nel sistema di mercato, ma strumento del processo, oggetto al suo interno.

Discorso analogo, con conseguenze ancor più gravi per le immediate condizioni di vita, va fatto per gli individui appartenenti alla fase produttiva del sistema. Accade, infatti, che gli individui siano considerati dei “mezzi di produzione” (Sen, 1999), o addirittura troppo spesso dei “costi di produzione” da cercare di limitare o ridurre, secondo i dettami del sistema economico che tende alla realizzazione del massimo profitto (CNMS, 2001; Russo, 2003; Pignagnoli, 2004; e altri), anziché essere il fine di tutto il processo produttivo, così come anche Amartya Sen si augura (1999 e 2001; non l’unico) e come ci sembra ragionevole presumere. Alla luce delle nuove impostazioni, inoltre, è condizione del tutto irrinunciabile.

Nell’odierno sistema economico si verifica spesso, soprattutto per i lavoratori del Sud del mondo, che le condizioni di lavoro e la corresponsione economica siano pessime, anche quando i prodotti trovano destinazione nei mercati del ricco Nord (CNMS, 2001; Pignagnoli, 2004; e altri). Si verifica piuttosto una tendenza, sempre maggiore negli ultimi anni e perfetta espressione delle leggi della massimizzazione del

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profitto (aldilà del come ciò venga raggiunto), a delocalizzare il processo produttivo da aree ad economia sviluppata in cui il lavoro ha un determinato costo e dove molto spesso esistono vincoli ambientali (o sociali, per le condizioni di lavoro) più “restrittivi” rispetto ad aree “tecnologicamente ed economicamente arretrate” in cui si vanno ad insediare stabilimenti e in cui si trasferisce il processo produttivo al solo scopo di abbattere i costi di produzione. Troppo spesso questo fenomeno non si accompagna ad un miglioramento delle conoscenze tecnologiche per quella determinata area, a ricadute economiche positive, con un sostanziale trasferimento di ricchezza economica in quella determinata area, sembrando piuttosto un nuovo modello di colonizzazione e sfruttamento di manodopera a basso costo (CNMS, 2001; Latouche, 2003; Russo, 2003; Pignagnoli, 2004; e altri).

Sono ormai sempre più numerosi gli esempi noti di discriminazione a danno dei lavoratori (soprattutto del Sud), di condizioni di lavoro non dignitose, di sfruttamento di bambini come manodopera, di spostamento del processo produttivo da un’area o da un Paese allorché in quella zona i lavoratori siano riusciti (col passare del tempo) ad acquisire organizzazione e “potere contrattuale” sufficiente a rivendicare i loro diritti o aumenti di salario, o dove comunque siano cambiate le dinamiche economiche in tale zona di modo tale da risultare come un “aumento del costo del processo produttivo” (Russo, 2003; Pignagnoli, 2004). La produzione, dicevamo, viene trasferita in aree dove il costo sia minore ed il parallelo con lo sfruttamento coloniale, con lo sfruttamento distruttivo di risorse naturali per poi colonizzare nuove aree sembra evidente (Russo, 2003).

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La problematica è molto complessa e non la approfondiremo ulteriormente per brevità rispetto agli scopi di questo lavoro. Sottolineiamo, piuttosto, come per i produttori in questione la situazione sia lontana dalle premesse per l’autosviluppo, l’emancipazione, sia secondo le categorie viste già con Sen e altri, sia secondo la nuova visione di sviluppo che abbiamo cominciato a delineare.

Come abbiamo detto, si fa chiara l’esigenza di un modello culturale che dia origine ad un nuovo modello di sviluppo che non strumentalizzi né chi produce, né chi consuma.

Si deve verificare quella piena realizzazione della persona1 tanto per l’uomo-produttore (o costo di produzione) che per l’uomo-consumatore, verso l’essere cittadini di questa Terra a tutti gli effetti, non più mercificati da questo mercato globale, sempre meno rispondente a quell’idea di comunità sparsa per i quattro angoli del globo, ma comunicante al suo interno, già anticipata come “villaggio globale” da Mc Luhan (Mc Luhan, 1968). L’idea di cittadinanza della Terra comprende in sé tanto l’idea di interdipendenza (fra gli abitanti della polis globale e con la biosfera nel suo complesso) quanto l’attuazione del principio di responsabilità, realizzando il principio di equità (pena il fallimento del progetto di città con abitanti di pari dignità).

Come, però, liberarsi dalla struttura di mero consumatore asservito ai bisogni di smaltimento di merci prodotte in eccesso diventando cittadino? E come liberarsi dai panni di sfruttamento per il produttore-costo di produzione, movendosi con la stessa dignità verso la propria libertà di cittadino?

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Un ruolo essenziale è deputato proprio al consumatore, visto non più come elemento isolato all’interno del sistema-mercato, ma come persona tesa alla costruzione di relazioni, che si muove avendo cura dell’altro, coi suoi bisogni, coi suoi diritti, che si pone all’interno del sistema con un diverso punto di vista, quello dell’edificazione di una città globale.

Nasce nel 1969 la Council on Economic Priorities (CEP, associazione di consumatori fondata da Alice Topper Marly) che presenta la necessità dei consumatori di confrontarsi con un’offerta di beni più rispettosa dei valori morali piuttosto che puramente economici (Russo, 2003). Da quel momento in poi l’associazionismo da parte dei consumatori con la loro richiesta di trasparenza per i prodotti con la loro qualità, la loro storia, ovvero la storia di chi produce quel prodotto, le sue condizioni di lavoro, le conseguenze sull’ambiente del processo di produzione di quel bene, diventa sempre crescente e sempre più sotto l’osservazione delle aziende che finiscono sotto l’occhio sempre più attento dei consumatori. Difatti, il consumatore in quanto tale è sempre più sotto l’occhio attento degli agenti dei grossi gruppi (e non solo) che spendono somme sempre più rilevanti per campagne di marketing del prodotto e, come vedremo, di “immagine” (CNMS, 1998 e 2000; Russo, 2003, e altri).

Quello che accade è che i consumatori, da impotenti quali si sentivano di fronte a tali colossi industriali e ad un sistema di mercato che appariva inarrestabile, mettendosi insieme scoprono di avere uno straordinario potere nei confronti di quei colossi aziendali che di fatto dipendono dalle scelte dei consumatori.

Si moltiplicano le scoperte di situazioni di sfruttamento di lavoratori e di lavoro minorile, alle quali fanno seguito episodi di denuncia, seguiti sempre più spesso da

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campagne di informazione (lanciate da cittadini, consumatori del Nord che cercano di collegarsi) a cui in alcuni casi fanno seguito vere e proprie campagne di pressione sulle aziende coinvolte negli episodi segnalati.

Queste campagne vedono lettere di protesta dirette alle aziende, richieste di cambiamenti nel loro operato o nelle loro politiche per le quali si verificavano episodi di sfruttamento, ingiustizie o gravi danni ambientali, alle quali troppo spesso le grandi aziende non danno realmente peso fino a che non si verificano episodi di boicottaggio coordinato, o anche solo se ne prospetta la minaccia: il timore di perdere consumatori, dunque quote di mercato, spinge quelle aziende motivate dal proprio immediato interesse (il massimo profitto), a fare retromarcia e cambiare direzione.

Naturalmente non sono mancati episodi di promesse non mantenute, o di richieste inascoltate; né i consumatori si sono dimostrati in tutti gli episodi occorsi capaci di collegarsi con successo e portare avanti campagne efficaci in termini di informazione e azione, ma i centri di studio specifici nati1, le pubblicazioni sempre più numerose e sempre più dettagliate a disposizione dei consumatori, testimoniano l’importanza che tali informazioni hanno per i cittadini, la loro sempre maggior diffusione e il crescere di questa cultura di consumo diversa, o critica (CNMS, 1998 e 2000; Russo, 2003, e altri).

Il consumatore,

1 Riportiamo a questo proposito il Centro Nuovo Modello di Sviluppo, nato nel 1985 a

Vecchiano, partito dalla necessità di chiedersi perché un mondo tanto ricco generasse tanta miseria e degrado nel mondo, in breve ha puntato la sua attenzione su come la complicità del consumatore involontaria (perché all’oscuro dei fatti) o tacita (perché acquisendo le informazioni non produce cambiamento nel suo agire) permette soprattutto ai grandi gruppi multinazionali di far danni nei tessuti sociali, nelle economie e negli ecosistemi soprattutto nel Sud del mondo.

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(…) con le sue decisioni di acquisto e, più in generale, con i suoi comportamenti, (…) intende contribuire a “costruire” l’offerta di quei beni e servizi di cui fa domanda sul mercato. Non gli basta più il celebrato rapporto qualità-prezzo; vuole sapere come quel certo bene è stato prodotto e se nel corso della sua produzione l’impresa ha violato, in tutto o in parte, i diritti fondamentali della persona che lavora (Zamagni1).

Allora, pur di fronte ad un cammino impegnativo, il consumatore del Nord (o occidentale) ha un doppio ruolo del tutto particolare: da un lato la rottura con la cultura consumistica rappresenta una necessità per la propria libertà e realizzazione individuale, a cui fa seguito l’instaurarsi di una forma di comunicazione attiva verso le imprese, con le quali può avere funzione di stimolo, di sollecitazione, di leva per un cambiamento del punto di vista, tornando alle categorie di relazione e dei beni relazionali; difatti, anche con le imprese e le persone che ne decidono le politiche il singolo (consumatore) deve costruire una dimensione della propria cittadinanza. A tutto questo si aggiunge il fatto che, se per un produttore del Sud del mondo sembra maggiormente difficile riuscire a svincolarsi dal giogo dello sfruttamento (per le forti pressioni che subiscono, per le loro diverse condizioni, per le diverse informazioni che sono spesso a loro disposizione, per il rischio di perdere anche quella bassissima entrata a cui sono stati legati, ad esempio per il trasferimento del processo produttivo), il consumatore del Nord che vuole “evolvere” a cittadino modificando i propri comportamenti e agendo sui comportamenti delle aziende può determinare il cambiamento necessario a quei lavoratori sfruttati dall’altra parte del globo, concorrendo così a realizzare una cittadinanza globale a tutti gli effetti: vi è il recupero, la ricerca della propria responsabilità anche nei confronti di

1 Zamagni, Stefano. Della Responsabilità sociale d’impresa.

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chi “non si vede” davanti a noi, vivendo il principio di gratuità (non ci si aspetta nulla come controparte immediata) e realizzando l’equità intragenerazionale, almeno in un suo primo aspetto.

Così facendo si potranno realizzare anche le condizioni necessarie e sufficienti al recupero del proprio ruolo di cittadini globali da parte dei lavoratori, che continueranno ad averne parte attiva (ma riconosciuta!), potendo inoltre portare un contributo di ricchezza di cultura, tradizioni, specificità che oggi non può essere colto né valorizzato a causa delle condizioni di povertà, sfruttamento, ingiustizia in cui versano.

Un’altra considerazione a riguardo va fatta proprio per le conseguenze sull’ambiente: come affrontato in precedenza parlando del dumping ecologico, il recupero della propria dignità e il raggiungimento di una equità all’interno della generazione, eliminando povertà e squilibri, potrebbe concorrere al mantenimento di alcune risorse naturali e di biodiversità messe in serio pericolo di distruzione dalle pratiche legate alle politiche energetiche, etc., con sicuro giovamento per la biosfera e l’umanità intera (come presentato in 3.3.4).

Ancora una volta sottolineiamo l’importanza delle conclusioni della gran parte degli autori che affrontano la tematica della sostenibilità e dello sviluppo sostenibile: è necessario un cambiamento culturale (per il quale abbiamo delineato una direzione), con conseguente cambiamento del punto di vista; i cittadini hanno un ruolo e un’importanza fondamentale (come indicato sopra).

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