Diritto delle
Relazioni
Industriali
Rivista trimestrale già diretta daMARCO BIAGI
Pubblicazione T
rimestrale - Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in L. 27/02/2004 n° 46) arti
colo 1, comma 1, DCB (V
ARESE)
RiceRche
La solidarietà intergenerazionale nella tutela pensionistica
inteRventi
La “soggettivazione regolativa” nel diritto del lavoro
RelazioniindustRialieRisoRseumane
Contratto di rete e disciplina dei rapporti di lavoro Democrazia e libertà endosindacale
OSSERVATORIO DI GIURISPRUDENZA ITALIANA
Opinioni a confronto sulla sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018 Licenziamento illegittimo e trasformazione volontaria del rapporto a termine Prime pronunce sul nuovo art. 4 della l. n. 300/1970 Malattia derivante da vessazioni sul lavoro ed indennizzabilità Discriminazioni di genere, inquadramento giuridico e tutela sostanziale
Licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo Sul principio di buon andamento nei rapporti di lavoro nelle PA La violazione dei termini contrattuali del procedimento disciplinare
legislazione, pRassiamministRativeecontRattazionecollettiva
Il diritto alle ferie nel lavoro a domicilio penitenziario Il “decreto dignità” e la nuova disciplina del contratto a termine Contrattazione e collaborazioni ex art. 2, comma 2, d.lgs. n. 81/2015
giuRispRudenzaepolitichecomunitaRiedellavoRo
Sull’abuso del contratto a termine nella PA
N. 1/XXIX - 2019
In questo numero
Diritto delle Relazioni Industriali
1
2019
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Le tutele avverso il licenziamento ingiustificato
e la sentenza n. 94/2018 della Corte costituzionale:
dopo le scosse, l’assestamento?
Andrea Bollani
Sommario: 1. La disciplina del licenziamento in transizione, tra legislatore e Corte
costituzionale. – 2. La tutela indennitaria ed il problema della sua adeguatezza:
misura dell’indennità, criteri di liquidazione, discrezionalità del legislatore. – 3. Ratio del decreto legislativo n. 23/2015, differenziazione di trattamento
normati-vo in ragione della data di assunzione e ragionenormati-volezza del sistema di tutele cre-scenti. – 4. Riparazione del danno e personalizzazione della tutela. – 5. La
fun-zione deterrente o dissuasiva dell’apparato rimediale. – 6. Violazione
dell’articolo 117 Cost. e norme interposte. – 7. Il ruolo del giudice e la sua
di-screzionalità. – 8. I riflessi della sentenza sulle altre norme del decreto legislativo
n. 23/2015. – 9. Verso un approdo (più o meno) stabile.
1. Due sentenze della Corte costituzionale potrebbero idealmente racchiudere
una stagione, importante, del diritto del lavoro italiano: la stagione, cioè, in cui si è messo dapprima in discussione, si è successivamente novellato e si è infine disattivato, nei confronti di una platea di lavoratori destinata a divenire nel tempo via via più ampia, l’articolo 18 Stat. lav.
Dalla pronuncia di ammissibilità del referendum abrogativo del 2000 (1) – che
ribadì il carattere costituzionalmente non necessitato della tutela reale – l’ordinamento ricevette il definitivo lasciapassare ad inserire nella cornice
del-la discussione politico-sindacale anche «l’ultimo tabù» (2); cosicché, dietro il
velo dell’eufemistica formula lessicale della “flessibilità in uscita”, dopo
an-nunci e tentativi rintuzzati già all’inizio degli anni Duemila (3), si pervenne
infine alle riforme del 2012 e del 2015.
* Professore ordinario di Diritto del lavoro, Università degli Studi di Pavia. Il con-tributo è destinato agli Scritti in onore di Carlo Cester.
(1) C. cost. 2 marzo 2000, n. 46.
(2) Secondo la formula coniata da A.ACCORNERO, L’ultimo tabù, Laterza, 1999.
(3) Si ricorderà il disegno di legge delega sul mercato del lavoro del 2001,
Le sezioni unite della Corte di cassazione, nella nota pronuncia del 2006
rela-tiva al riparto degli oneri probatori circa la dimensione dell’impresa (4),
ave-vano sì affermato, condivisibilmente (sulla base della legislazione allora vi-gente), che l’onere va posto in capo al datore di lavoro, non solo alla luce dell’argomento processualistico della vicinanza alla prova, ma anche in consi-derazione dell’essere la tutela reintegratoria la regola (con la conseguenza che sottrarsi ad essa per carenza del requisito dimensionale implicava l’eccezione di un fatto impeditivo); ma i successivi svolgimenti della legislazione hanno finito per travolgere la centralità della tutela reale.
Ora, con la sentenza n. 194/2018 il percorso giunge ad una tappa di particola-re momento, focalizzandosi il tema delle tutele in materia di licenziamento
non più sulla tradizionale coppia oppositiva tutela obbligatoria versus tutela
reale – tutele, queste, che oggi convivono all’interno del novellato articolo 18 ed in relazione alle quali il decreto legislativo n. 23/2015 sancisce una sempre più marcata marginalizzazione della reintegrazione – quanto, semmai, intorno alla questione dell’adeguatezza della tutela economica.
È persino inutile sottolineare che un complessivo ripensamento dell’apparato rimediale in caso di licenziamento illegittimo equivale ad intervenire sul cuore del diritto del lavoro. E che, pertanto, la sentenza n. 194/2018, oltre a porre non trascurabili quesiti relativi ai suoi effetti pratici, finisce per interrogarci più in generale sulle linee di tendenza del sistema e sul grado di assestamento di tali processi evolutivi.
2. Una volta introiettato il passaggio – malgrado una giurisprudenza
compren-sibilmente attenta ad evitare rotture troppo traumatiche con la tradizione (5) –
verso un modello di tutela indennitaria, in cui la tutela ripristinatoria resta confinata al rango di eccezione ancorata al verificarsi di specifici presupposti, i problemi posti dal rinnovato apparato rimediale, ed in particolar modo da quello congegnato dal decreto legislativo n. 23/2015, sono divenuti, per lo
più, problemi di quantum.
Ed è piuttosto chiaro che già nell’ordinanza di rimessione del Tribunale di
Roma, sebbene poi non frontalmente affrontato dalla Corte (6), il problema
(4) Cass. sez. un., 10 gennaio 2006, n. 141, in RIDL, 2006, n. 2, II, 440, con nota di
Vallebona.
(5) Si pensi ad es. alle pronunce che dispongono la reintegrazione, valorizzando come
insussistente il fatto obiettivamente avvenuto, ma disciplinarmente irrilevante: Cass. 26 maggio 2017, n. 13383; Cass. 20 settembre 2016, n. 18418.
(6) Tanto che nella sentenza si precisa come «il cuore delle doglianze» del rimettente
della misura dell’indennità ha influenzato, più o meno esplicitamente, la posi-zione di quello inerente ai criteri che debbono presiedere alla sua liquidaposi-zione (7).
Del resto, la percezione di insufficienza della misura, specie nella sua esten-sione minima, aleggia ovviamente sulla discusesten-sione pubblica, tanto da avere
chiaramente animato l’intervento del legislatore del 2018, allorché il range
compreso tra 4 e 24 mensilità è stato innalzato, ora fissandolo tra 6 e 36 men-silità.
Sennonché, in questi termini, discutere delle mere previsioni legali astratte che stabiliscono un importo minimo e massimo dell’indennità equivale a
por-re una questione di consistenza essenzialmente politica (8), tale da riguardare
appieno la discrezionalità del legislatore e da poter essere difficilmente trattata
persino sotto il profilo della ragionevolezza ex articolo 3 Cost.; in certo senso,
è la stessa natura della riparazione indennitaria, assentita in quanto tale dalla
Corte costituzionale (9), e già adottata dall’ordinamento nell’archetipo
dell’articolo 8 della legge n. 604/1966, a connotarsi per la sua tendenziale inadeguatezza a risarcire il danno patito dal lavoratore.
È anche per questo che la Corte, conscia di muoversi a ridosso del confine con l’ambito riservato alla discrezionalità politica del legislatore, ha focalizzato i suoi rilievi sui criteri di liquidazione, non potendo direttamente censurare la misura dei valori-soglia. Nondimeno, essa è in tal modo pervenuta a pronun-ziare una delle sentenze maggiormente invasive tra quelle rese in materia di licenziamento, utilizzando il profilo della censurata rigidità del criterio di
li-quidazione come medium per determinare, di riflesso, un aggiustamento al
rialzo delle indennità che presumibilmente saranno in concreto liquidate in
giurisprudenza (10).
(7) In un ordine di idee non dissimile, cfr. G.ZILIO GRANDI, Prime riflessioni a caldo
sulla sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018 (quello che le donne non dico-no), in Lavoro Diritti Europa, 2018, n. 2, 5, nonché O.MAZZOTTA, Cosa ci insegna la
Corte costituzionale sul contratto a tutele crescenti (nota a C. cost. 8 novembre 2018,
n. 194), in www.rivistalabor.it, 1° dicembre 2018, il quale evidenzia come il sospetto
di costituzionalità investisse fondamentalmente, oltre alla «esclusione di qualsivoglia discrezionalità giudiziale», anche la «modestia dell’indennità».
(8) Prima della sentenza della Corte, era stato condivisibilmente sottolineato da C.C
E-STER, Le tutele, in E.GRAGNOLI (a cura di), L’estinzione del rapporto di lavoro
su-bordinato, Cedam, 2017, 1027, come non fosse «facilmente ipotizzabile una
dichiara-zione di incostituzionalità basata sull’apprezzamento di parametri meramente quanti-tativi nel quadro di scelte tipicamente discrezionali».
(9) C. cost. n. 46/2000, cit.; C. cost. 11 novembre 2011, n. 303.
(10) Prevede un verosimile incremento delle somme liquidate dai giudici, rispetto a
quelle previste dalla norma censurata, M.T. CARINCI, La Corte costituzionale n.
ingiustifica-In fondo, la connessione tra la misura del valore-parametro (i due mesi di in-dennità per anno di servizio) e dei valori-soglia (la forbice 6/36 mensilità), da un lato, con la questione dei criteri della liquidazione e della loro denunciata rigidità, dall’altro, è intuitiva e non può non implicare interferenza di fatto dell’una sull’altra. Sembra insomma di poter dire che il problema posto dall’automaticità dell’indennizzo avrebbe probabilmente assunto diverse sem-bianze ove, in ipotesi, il valore-parametro fosse stato fissato dalla legge in mi-sura ancora più esigua ovvero, al contrario, in mimi-sura sensibilmente più eleva-ta.
E la valorizzazione di tale nesso, tra la misura dell’indennità ed i criteri che presiedono alla sua liquidazione, avrebbe forse potuto indurre una diversa scelta della Corte in ordine all’incidenza, sul giudizio di costituzionalità, del diritto sopravvenuto, materializzatosi sotto forma di novella dell’articolo 3, comma 1, operata dal decreto-legge n. 87/2018.
3. Dopo avere affermato che il meccanismo riparatorio previsto dall’articolo
3, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015 non viola il principio di egua-glianza, là dove riserva ai neo-assunti un trattamento normativo diverso ri-spetto a coloro cui continua ad applicarsi l’articolo 18 Stat. lav., la Corte col-pisce d’incostituzionalità la medesima disposizione siccome irragionevole per la sua rigidità, essendo essa, per un verso, tale da impedire al giudice di liqui-dare un risarcimento adeguato al pregiudizio patito dal lavoratore e, per altro verso, incapace di fungere da efficace deterrente o dissuasore rispetto
all’intimazione di licenziamenti illegittimi (11).
Il che si traduce altresì, secondo la Corte, in una lesione del principio di egua-glianza, consistente in un’indebita omologazione della misura della tutela, in-sensibile alle distinte peculiarità dei vari casi concreti.
Non è in verità del tutto chiaro per quale ragione la Corte abbia ritenuto che la sottolineatura delle finalità di politica del diritto fatte proprie dal legislatore del 2015, consistenti nell’incentivazione e promozione di rafforzate opportu-nità occupazionali (non importa, osserva la Corte, se efficacemente perseguite oppure no), per il tramite, «coerente con tale scopo», della «introduzione di
tutele certe e più attenuate in caso di licenziamento illegittimo» (12), consenta
di escludere solamente la dedotta lesione del principio di eguaglianza, in
to nel “Jobs Act”, e oltre, Working Paper CSDLE “Massimo D’Antona” – IT, 2018,
n. 378, 7.
(11) Nella più recente e completa sistemazione concettuale dell’apparato rimediale del
licenziamento individuale, viene ampiamente evidenziato come il rimedio indennita-rio allestito dall’art. 3, comma 1, al pari dell’indennità risarcitoria di cui all’art. 18, quinto e sesto comma, Stat. lav., presenti una natura polifunzionale, intrisa sia di ca-ratteri riparatori sia di una funzione in senso lato sanzionatoria (cfr. C.CESTER, op.
cit., 1125).
zione al differenziato trattamento normativo riservato ai lavoratori assunti a
far data dal fatidico 7 marzo 2015, rispetto ai “vecchi” assunti (13), ma non
anche di avallare, sotto il profilo della ragionevolezza costituzionale, il mec-canismo della liquidazione automatica dell’indennità, ragguagliata alla sola anzianità.
In fin dei conti, l’adozione del parametro automatico dell’anzianità è a sua volta funzionale al perseguimento di quello stesso disegno pro-occupazionale, avallato dalla Corte ed imperniato proprio sulla predeterminazione certa dei costi del licenziamento. Il che, come è stato efficacemente rilevato, non può non implicare una necessaria comprensione del contesto storico in cui
l’intervento legislativo si colloca (14).
Sennonché, dalla motivazione della sentenza si ricava che questo disegno en-trerebbe poi in rotta di collisione con la Carta costituzionale nella parte in cui “appiattisce” indistintamente la commisurazione dell’indennità sul solo dato oggettivo dell’anzianità di servizio. Il che, al di là della percezione di una cer-ta tensione interna alla medesima sentenza – la quale, come detto, ad un fine
valorizza e ad altro fine svaluta la ratio legis posta a base della norma
scruti-nata – pone più specifici problemi di coerenza argomentativa riferiti alle fun-zioni, su cui tra breve si tornerà, che la Corte assegna all’indennità.
(13) L’eccezione di incostituzionalità riferita alla carenza di ragioni idonee a
giustifi-care il divaricato trattamento normativo, in conseguenza del solo dato “accidentale” (come definito nell’ordinanza di rimessione) della data di assunzione, era stata ritenu-ta fondaritenu-ta in dottrina, nell’attesa della sentenza della Corte, da E.GRAGNOLI, La que-stione di legittimità costituzionale del decreto legislativo n. 23/2015 e il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in q. Rivista, 2017, n. 4, 1195 ss.; si vedano tuttavia
le osservazioni di G.PROIA, Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato
a tutele crescenti, in R.PESSI, C.PISANI, G.PROIA, A.VALLEBONA (a cura di), Jobs Act e licenziamento, Giappichelli, 2015, 71, il quale rilevava, escludendo la
sussisten-za di contrasti con gli artt. 3 e 35 Cost., come la misura dell’indennità fosse stata de-terminata «tenendo conto delle finalità di promozione dell’occupazione mediante una riduzione della rigidità del sistema sanzionatorio»; in analoga direzione, nella dottrina costituzionalista, M.CAVINO, La questione di legittimità costituzionale sul contratto
di lavoro a tutele crescenti, in Federalismi.it, 2018, n. 14, spec. 10, ove l’A. sottopone
a serrata critica l’ordinanza di rimessione in relazione alla lettura «parziale e inade-guata» che essa fornisce della democrazia costituzionale, trascurando il Tribunale di considerare che l’art. 3, secondo comma, Cost. delinea un programma di promozione dell’effettiva partecipazione dei lavoratori tale da includere doverosamente anche quelli in attesa di occupazione.
(14) B.CARUSO, Il contratto a tutele crescenti tra politica e diritto: variazioni sul
te-ma, Working Paper CSDLE “Massimo D’Antona” – IT, 2015, n. 265, 6, non manca
Certo, concentrare la discussione attorno alla questione della disparità di
trat-tamento tra vecchi e nuovi assunti (15) avrebbe anche potenzialmente
implica-to – una volta ritenuta, in ipotesi, la necessità di adottare un regime di tutela uniforme – di affrontare un ulteriore considerevole problema: vale a dire quel-lo di rimettere al legislatore il compito di stabilire quale apparato rimediale prescegliere per tutti, con esiti non scontati atteso che la Costituzione non esi-ge né potrebbe esiesi-gere l’ossificazione della legislazione anteriore.
4. Il primo profilo di ravvisata irragionevolezza dell’articolo 3, comma 1, del
decreto legislativo n. 23/2015 viene rinvenuto dalla Corte nell’incapacità della norma di adattarsi al caso concreto, posto che la liquidazione dell’indennità in misura fissa, forfetizzata e standardizzata, parametrata alla sola anzianità, fini-sce per assoggettare al medesimo trattamento normativo situazioni connotate da differente intensità del pregiudizio subito dal lavoratore.
Il criterio dell’anzianità di servizio è considerato dalla Corte solo «uno dei tanti» fattori da cui dipende l’entità del danno subito dal lavoratore; un fattore che, se isolatamente e rigidamente considerato, risulta in definitiva irragione-vole e confliggente con gli articoli 3, 4 e 35 Cost.
Peraltro, la Corte si avvede della necessità di evitare che, in tal modo, l’invocata esigenza di adeguare «la misura del risarcimento», personalizzan-dola e ragguaglianpersonalizzan-dola al caso concreto, apra le porte all’adozione di criteri arbitrari ovvero finisca per dilatare a dismisura la discrezionalità del giudice;
con la conseguenza che a fronte di tale horror vacui la Corte, prudentemente,
decide al contempo di additare criteri già presenti nell’ordinamento (quelli dell’articolo 8 della legge n. 604/1966 e quelli dell’articolo 18, quinto comma, Stat. lav.) quali strumenti valutativi di integrazione per l’intervento del giudi-ce.
Si tornerà tra breve sulla questione se, per effetto di tali indicazioni contenute
in motivazione, la sentenza della Corte possa essere ascritta al genus delle
sentenze additive (ciò che, come meglio si dirà, parrebbe doversi escludere). Quel che da subito può però evidenziarsi è che l’apprezzamento manifestato in alcuni primi commenti alla sentenza – in ragione della circostanza che la Corte abbia scelto l’opzione interpretativa «maggiormente in armonia con il
sistema complessivo» (16), invitando il giudice ad applicare criteri, da
aggiun-gere a quello della anzianità, «desumibili in chiave sistematica dalla
evoluzio-ne della disciplina limitativa dei licenziamenti» (17) – finisce per disvelare
(15) Vi si sofferma, in particolare, criticando la decisione della Corte sul punto, G.
FONTANA, La Corte costituzionale e il decreto n. 23/2015: one step forward and two
steps back, Working Paper CSDLE “Massimo D’Antona” – IT, 2018, n. 382.
(16) O.MAZZOTTA, op. cit.
vieppiù il tendenziale approssimarsi dell’intervento della Corte al terreno del-la discrezionalità politica.
Un’impressione, questa, che per certi aspetti risulta corroborata una volta che si ponga mente al fatto che l’entità del pregiudizio derivante dal licenziamento non è affatto influenzata, a ben vedere, dai fattori descritti nell’articolo 8 della legge n. 604/1966, ovvero nell’articolo 18, quinto comma, Stat. lav., che pure consentono al giudice di modulare la liquidazione dell’indennità.
Il danno patito dal lavoratore si lega, piuttosto, nella sua componente di danno patrimoniale, ai tempi di reperimento di una nuova occupazione ed al livello retributivo di quest’ultima, essendo quindi influenzato, semmai, dalle condi-zioni del mercato del lavoro (cui rinvia l’articolo 30, comma 3, della legge n. 183/2010, singolarmente sottaciuto dalla Corte); ha a che fare con il livello di professionalità del lavoratore, con le sue qualità soggettive e la sua età, quanto elementi capaci di attutire il pregiudizio in tempi brevi; è segnato persino dal-lo spessore delle tutele previdenziali cui il lavoratore possa accedere ovvero dall’intensità dello sforzo profuso nella ricerca di un nuovo impiego (delle «iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione», e del loro rilievo ai fini della graduazione dell’indennità nel caso di licenzia-mento intimato per giustificato motivo oggettivo, parla semmai l’articolo 18, settimo comma, Stat. lav., ignorato tuttavia dalla Corte); si lega ad elementi esterni alla fattispecie ma che possono incidere sulla consistenza degli effetti dannosi, quali i carichi familiari e le condizioni patrimoniali complessive del lavoratore.
Alcuni soltanto tra questi fattori possono ragionevolmente essere ricondotti «al comportamento e alle condizioni delle parti» di cui all’articolo 8 della leg-ge n. 604/1966; ma di certo il numero dei dipendenti occupati o le dimensioni dell’impresa, menzionati nella norma appena citata, ovvero le dimensioni dell’attività economica di cui all’articolo 18, quinto comma, Stat. lav., ap-paiono ontologicamente estranei alla sfera di circostanze capaci di influenzare la consistenza del pregiudizio.
In altre parole, il criterio legato all’anzianità non appare certo, in sé e per sé considerato, meno ragionevole rispetto ad alcuni tra quelli invocati dalla Corte a suo completamento.
Il che evidenzia una certa distonia tra la ravvisata ragione dell’incostituzionalità (l’incapacità di adeguarsi alla misura del pregiudizio) ed i mezzi di integrazione che, secondo la Corte, dovranno d’ora innanzi gui-dare il giudice nella quantificazione dell’indennità all’interno dell’intervallo (invero amplissimo) di legge.
misura minima di cinque mensilità, a mo’ di penale, del risarcimento ex
arti-colo 18, secondo comma, secondo periodo, Stat. lav. ovvero forfetizzano nella misura di 15 mensilità l’importo dell’indennità sostitutiva della reintegrazio-ne. Ma analogo rilievo può essere mosso a partire dalle previsioni di carattere rimediale capaci di sfuggire, in una logica meramente indennitaria, alla
de-traibilità di aliunde perceptum ed aliunde percipiendum. Proprio gli articoli 8
della legge n. 604/1966 e 18, quinto comma, Stat. lav. non contemplano il
ri-corso, in via correttiva del quantum spettante al lavoratore, né alla
compensa-tio lucri cum damno né alla rilevanza del concorso colposo del creditore, a
meno di non ritenere che la personalizzazione del danno, invocata dalla Corte
quale elemento capace di rendere ragionevole la tutela (18), non finisca per
giustificare, a questo punto, in presenza delle evenienze appena richiamate, adattamenti anche al ribasso dell’indennità rigidamente fissata dall’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015, onde adeguarla al pregiudizio effettivamente subito.
5. Oltre che per la sua inidoneità a fornire una riparazione aderente al
pregiu-dizio del caso concreto, l’articolo 3, comma 1, viene censurato dalla Corte in ragione della sua incapacità di fungere da adeguato strumento di dissuasione del licenziamento illegittimo.
Risulta ovviamente pressoché istintivo porre mente al disposto dell’articolo 8 della legge n. 604/1966, indulgendo ad una comparazione con le previsioni contenute nell’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015, ed av-vedendosi che, riguardato in questa prospettiva, l’articolo 8 pare anch’esso senz’altro inidoneo a fungere da minaccioso deterrente, sebbene la sua
legit-timità costituzionale sia stata a più riprese ribadita dalla stessa Corte (19).
Ma quel che più si può notare è che, in maniera ancor più evidente se riferita a detto profilo di ravvisata incostituzionalità, ossia quello della capacità dissua-siva delle tutele, la Corte finisce per riportare inevitabilmente l’attenzione – pur non frontalmente, bensì per il tramite della denunziata rigidità del mecca-nismo legale – su un problema che è, sostanzialmente, di misura della tutela economica.
Tanto che, dopo avere ricordato come, secondo la propria giurisprudenza, l’integralità della riparazione patrimoniale non abbia copertura costituzionale (sì da ammettersi predeterminazioni legali forfetizzate della tutela), la Corte puntualizza, condivisibilmente, che alla luce del canone di ragionevolezza il legislatore è tenuto a realizzare un contemperamento equilibrato degli interes-si delle parti, giungendo poi a ritenere, forse più opinabilmente, che «la rigida dipendenza dell’aumento dell’indennità dalla sola crescita dell’anzianità di servizio mostra la sua incongruenza soprattutto nei casi di anzianità di
(18) Adesiva, sul punto, l’opinione di M.T.CARINCI, op. cit., 17.
zio non elevata […]. In tali casi, appare ancor più inadeguato il ristoro del pregiudizio causato dal licenziamento illegittimo, senza che a ciò possa sem-pre ovviare la sem-previsione della misura minima dell’indennità di quattro (e, ora,
di sei) mensilità» (20).
Invero, discutere di adeguatezza della tutele, in ragione della loro deterrenza, forse più ancora che in ragione della congruità dell’indennizzo rispetto allo scopo di fornire riparazione adeguata del pregiudizio, implica fatalmente di scivolare verso il problema consistente nello stabilire quale sia, dove si rin-venga e come si misuri la consistenza appropriata della sanzione; un terreno, questo, assai contiguo a quello riservato al legislatore ed alla sua azione poli-tica.
6. Il riconoscimento del conflitto sussistente, secondo la Corte, con gli articoli
76 e 117, primo comma, Cost. non sembra aggiungere molto, dal punto di vi-sta concettuale, all’accoglimento dell’eccezione di incostituzionalità derivante dalla lesione dell’articolo 3 Cost. e, di riflesso, degli articoli 4 e 35 Cost. Una volta chiarita l’irrilevanza di altre norme interposte, di carattere interna-zionale o sovranainterna-zionale, evocate nell’ordinanza di rimessione (la Conven-zione OIL n. 158/1982, inutilmente richiamata in quanto mai ratificata dal no-stro Paese, nonché l’articolo 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la quale non può rilevare ai fini del giudizio di costitu-zionalità in carenza di norme di diritto derivato dell’Unione in materia di li-cenziamento individuale), la Corte rimarca la sussistenza di un conflitto con il principio sancito dall’articolo 24 della Carta sociale europea (questa, sì, dive-nuta vincolante nell’ordinamento interno tramite la legge di ratifica n. 30/1999) in punto di necessaria previsione di un congruo indennizzo o di altra adeguata riparazione in favore dei lavoratori licenziati senza un valido moti-vo.
Qui sembra in effetti di poter dire che la valutazione di inadeguatezza effet-tuata nel prisma dell’articolo 24 della Carta sociale europea (che già aveva fatto capolino nella sentenza n. 46/2000, ove la Corte sottolineò la necessarie-tà costituzionale del principio di giustificazione del licenziamento, ferma la libertà del legislatore di adottare rimedi anche meramente obbligatori) non si fondi su elementi o profili differenti da quelli che hanno condotto la Corte a ritenere fondata la questione di costituzionalità già nel cono dell’articolo 3 Cost.
Anche il richiamo alle prese di posizioni espresse dal Comitato europeo dei diritti sociali, i cui pareri non hanno natura giurisdizionale e sono privi di
rattere vincolante (21), appare in certo senso esornativo rispetto ai contenuti
della decisione adottata dalla Corte.
7. La notevole ampiezza del range legale indicato dall’articolo 3, comma 1,
del decreto legislativo n. 23/2015 chiaramente esaspera e drammatizza l’esercizio di discrezionalità valutativa a cui il giudice è ora chiamato per ef-fetto della sentenza della Corte.
Non può infatti sfuggire che la fissazione ex lege di un limite massimo
dell’indennità di misura addirittura sestupla rispetto al minimo – con forbice quindi grandemente ampia, se solo la si compara con l’intervallo compreso tra 2,5 e 6 mensilità di cui all’articolo 8 della legge n. 604/1966 ovvero con quel-lo racchiuso tra 12 e 24 mensilità di cui all’articoquel-lo 18, quinto comma, Stat. lav., ove il massimo non eccede il doppio del minimo – finisce per gravare il giudice di una responsabilità, e di un corrispondente onere di motivazione, as-sai considerevole.
È ben noto che la prassi applicativa dell’articolo 8 della legge n. 604/1966 (ma, in misura non significativamente difforme, lo stesso può dirsi in relazio-ne a quella dell’articolo 18, quinto comma, Stat. lav.) ci consegna pronunce ellitticamente o succintamente motivate in ordine alla quantificazione dell’indennità all’interno dei valori-soglia; pronunce, queste, comunque fon-date, per lo più, sulla prioritaria valorizzazione del parametro dell’anzianità di servizio. Come pure di comune dominio è, nell’esperienza forense, la circo-stanza che il criterio dell’anzianità ha sempre saputo funzionare da parametro-guida, oltre che per la decisione giudiziale, anche per le valutazioni prognosti-che delle parti in ordine al rischio di causa, in funzione dell’eventuale
conci-liazione della lite, non di rado propiziata dal giudice (22) proprio
rappresen-tando alle parti la consistenza della posta in palio, ragguagliandola all’anzianità di servizio. O, ancora, che persino nelle valutazioni delle parti sociali, sebbene in relazione ad un’ipotesi peculiare di licenziamento quale quella dei dirigenti, l’anzianità di servizio è parametro primario per la
deter-minazione della misura dell’indennità supplementare (23).
Se dunque, come appena detto, il criterio dell’anzianità, censurato dalla Corte per la sua anelasticità, è stato tradizionalmente maneggiato dalla
(21) La Corte richiama peraltro un proprio recentissimo precedente: C. cost. 13 giugno
2018, n. 120, ove si argomenta a partire dalla carenza di una norma, all’interno della Carta sociale europea, che attribuisca al Comitato un ruolo equiparabile alla Corte EDU in relazione all’interpretazione ed applicazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
(22) Ma altrettanto potrebbe dirsi dell’operato delle commissioni di conciliazione nella
procedura prevista dal novellato art. 7 della l. n. 604/1966 in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
(23) Cfr. l’art. 19 CCNL Dirigenti di aziende industriali, come emendato dall’accordo
denza come criterio di importanza prioritaria e prevalente, pare lecito atten-dersi che esso – anche considerando che la Corte non ha inteso affatto espun-gerlo, ma ha soltanto raccomandato di temperarlo ed integrarlo – continuerà comunque a rappresentare il primo strumento di determinazione (quanto me-no) dell’ordine di grandezza dell’indennità. Ciò, almeno, a voler immaginare, in termini anzitutto culturali, un magistrato di indole prudente, che avverta saggiamente il peso della responsabilità di cui è gravato – particolarmente
acuita dall’ampiezza del range legale –, sì da dover ricercare indicatori il più
possibile obiettivi cui ancorare il suo potere di liquidazione, anziché sentirsi inebriato dall’ampliamento della sua discrezionalità ed invogliato a soluzioni creative.
D’altronde, l’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015 contem-pla una tutela indennitaria che, nella sua estensione massima, può determinare conseguenze patrimoniali persino superiori a quelle derivanti da un’applicazione dell’articolo 18, quarto comma, Stat. lav., cui faccia seguito (come normalmente accade) l’opzione del lavoratore per l’indennità
sostituti-va della reintegrazione. Il che, tenuto conto della ratio legis che sorregge
l’intervento legislativo del 2015 – che la Corte ritiene idonea a determinare il rigetto della questione della dedotta diseguaglianza di trattamento normativo rispetto ai destinatari dell’articolo 18 Stat. lav., anche se non sufficiente ad as-severare una valutazione di ragionevolezza della tutela rigida legata alla sola anzianità –, dovrebbe indurre il giudice a non omologare il trattamento norma-tivo dei neo-assunti a quello riservato ai lavoratori cui si applica l’articolo 18 e, meno ancora, a dispensare in favore dei primi una tutela di spessore più elevato.
Peraltro, il grado di vincolatività della sentenza, nella parte in cui invoca i cri-teri di cui agli articoli 8 della legge n. 604/1966 e 18, quinto comma, Stat. lav., non sembra così stringente. Contrariamente a quanto si sarebbe potuto ipotizzare all’indomani del comunicato stampa del 26 settembre 2018, si deve infatti escludere di essere al cospetto di una pronuncia di tipo additivo. E ciò per la ragione che nel dispositivo della sentenza non compare alcun
riferimen-to ai sopra richiamati dati normativi, utili all’integrazione del giudizio (24);
(24) Contra, M.T.CARINCI, op. cit., 15, sottolineando come la motivazione integri il
sicché deve ritenersi che si tratti di mere indicazioni interpretative, per quanto autorevoli, che accedono alla pronuncia di accoglimento, la quale ha inciso la sola porzione di testo dell’articolo 3, comma 1, circoscritta alle parole «di im-porto pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio».
8. Proprio perché l’articolo 3, comma 1, inciso dalla sentenza della Corte
co-stituzionale, si nutre della logica indennitaria che pervade l’intero decreto le-gislativo n. 23/2015 ed è legato da nessi evidenti con altre porzioni del dettato legislativo, diviene inevitabile interrogarsi sulla sussistenza di eventuali rica-dute della sentenza su altre disposizioni.
Sul punto, occorre tuttavia porre attenzione a non lasciarsi fuorviare dalla me-ra previsione, in sé, di meccanismi di calcolo legati all’anzianità, non necessa-riamente travolti dalla sentenza.
Ad esempio, nel caso dell’articolo 6, in materia di offerta di conciliazione, la rigida commisurazione legale all’anzianità – rispondendo a scopi regolativi
prettamente tributari, giacché la norma esprime il suo proprium nell’esenzione
da prelievo fiscale, entro quei limiti di legge, delle somme corrisposte in sede transattiva – non pone affatto i problemi rilevati dalla Corte, non avendo a che fare con la riparazione del pregiudizio patito dal lavoratore né con l’adeguatezza della tutela. L’articolo 6, in altre parole, è semplicemente una norma incentivante di carattere fiscale funzionale alla facilitazione della con-ciliazione; obiettivo, questo, rispetto al quale lo Stato delimita rigorosamente la soglia oltre la quale esso non è disponibile a rinunciare alla pretesa imposi-tiva, ferma in ogni caso la libertà delle parti di accordarsi nei termini che le stesse intendono liberamente scegliere.
Dal che deve escludersi che la sentenza n. 194/2018 possa incidere sulla sua piana persistente applicabilità, non trascurandosi ovviamente che gli effetti della sentenza comunque influenzeranno (ma si tratta di rilievo di mero fatto) l’andamento delle trattative che conducono alla transazione e, quindi, il con-tenuto di quest’ultima.
Quanto poi alla disciplina delle conseguenze derivanti dai vizi di forma e di procedura, di cui all’articolo 4, non investito direttamente dalla sentenza, sembra di poter affermare che proiettare anche su tali fattispecie i problemi di costituzionalità rilevati dalla Corte, per il caso di licenziamento ingiustificato, rischia di risultare frettoloso.
Nel dipanarsi della giurisprudenza costituzionale, infatti, la questione dell’adeguatezza delle tutele in materia di licenziamento discende da, e si po-ne in un po-nesso non scindibile con, il principio di po-necessaria giustificaziopo-ne del recesso.
Solo il principio di necessaria giustificazione è sancito (con la formula del “valido motivo”) nell’articolo 24 della Carta sociale europea, assumendo ri-lievo costituzionale sul piano del diritto interno. Ed è la stessa giurisprudenza della Corte costituzionale a connettere la ragionevolezza della tutela al princi-pio, avente sicura copertura costituzionale, della giustificatezza del licenzia-mento.
Così, i temi dell’adeguatezza della riparazione e della dissuasività o deterren-za della sanzione non possono non essere valutati, anche nel prisma del
giudi-zio di ragionevolezza ex articolo 3 Cost., tenendo conto di una graduazione
riferita al tipo di vizio ed alla sua gravità; sicché, una volta garantito per il tramite della sentenza n. 194/2018 che il licenziamento ingiustificato sia pre-sidiato da tutele adeguate (sia perché idonee ad un’appropriata riparazione sia perché capaci di sprigionare un effetto deterrente), non sembra più sussistere un’ulteriore esigenza di incidere anche sui rimedi riferiti ai vizi di cui all’articolo 4.
Analoghe, pur dubitative, osservazioni possono valere con riferimento alle previsioni contenute nell’articolo 10 del decreto legislativo n. 23/2015, in ma-teria di licenziamento collettivo.
Da un lato, non v’è dubbio che l’articolo 10 operi un testuale ed esplicito rvio all’articolo 3, comma 1, e che quest’ultimo, siccome norma dichiarata in-costituzionale, abbia cessato di avere efficacia e non possa più essere applica-ta.
D’altro lato, tuttavia, non può negarsi che i vizi descritti dall’articolo 10 non tocchino, al pari di quelli regolati dall’articolo 4, il terreno del difetto di giu-stificazione; sicché è il venir meno del nesso tra rilevanza costituzionale del vizio (l’assenza di valida motivazione del licenziamento) ed esigenza (costitu-zionale) di adeguatezza della tutela a generare dubbi sulla razionalità della let-tura (che, formalmente, appare più immediata e probabilmente più corretta) secondo cui anche l’articolo 10 deve considerarsi direttamente inciso dalla sentenza della Corte.
Nessun dubbio, invece, può esservi intorno alla circostanza che la sentenza riverberi i propri effetti sull’articolo 9, comma 1, nella parte in cui per i licen-ziamenti ingiustificati intimati dalle piccole imprese recepisce, dimidiandolo, il criterio di calcolo dettato dall’articolo 3, comma 1, dichiarato incostituzio-nale.
9. Resta a questo punto da chiedersi se l’epoca dei movimenti tellurici – che si
Diversamente da quanto pure si è iniziato ad opinare in dottrina (25), il
giudi-zio di (in)costitugiudi-zionalità dell’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015, da questo punto di vista, non pare avere prodotto un risultato di tra-volgimento dell’intero impianto della riforma del 2015. Né parrebbe necessa-rio, e nemmeno auspicabile, un nuovo intervento legislativo sul punto.
La Corte, piuttosto, appone al c.d. Jobs Act un temperamento, che investe un
topos ricorrente negli studi giuslavoristici recenti: quello della relazione tra la
predeterminazione legale delle regole, in funzione del perseguimento di esi-genze di certezza, ed il ruolo della giurisprudenza e le prerogative discrezio-nali di quest’ultima.
La sentenza finisce su questo terreno per affidare al giudice il compito di mo-dulare sul caso concreto la misura della tutela, non ripudiando tuttavia per
in-tero l’idea, ritenuta in sé non irragionevole, di tenere conto innanzi tutto (26)
dell’anzianità di servizio (27); e ciò anche alla luce delle finalità
pro-occupazionali che, coonestate dalla stessa Corte ai sensi dell’articolo 3 Cost.,
giustificano un’attenuazione delle tutele rispetto all’elemento di comparazione rappresentato dall’articolo 18 Stat. lav.
Se il lascito più significativo della sentenza risiede nell’avere riconsegnato al giudice un ruolo baricentrico nell’applicazione delle tutele, è proprio su que-sto piano che gli ammonimenti della stessa Corte ad un esercizio non arbitra-rio della discrezionalità valutativa giudiziale – avvalendosi di parametri ausi-liari rispetto a quello dell’anzianità, ma tali da non obliterarlo – lasciano pre-sagire un assestamento non traumatico del sistema, attraverso il progressivo sedimentarsi di precedenti giudiziari idonei a generare possibili irrobustimenti di misura, ma non anche veri e propri stravolgimenti, dei meccanismi indenni-tari divisati dal decreto legislativo n. 23/2015.
(25) M.T.CARINCI, op. cit., spec. 25 ss.
(26) Punto 15 della sentenza.
(27) Che si tratti di criterio prioritario, «base di partenza della quantificazione
dell’indennità risarcitoria», è ritenuto anche da S.GIUBBONI, Il licenziamento del