Gli oceani rappresentano la più importante fonte di produzione di materia organica e costituiscono un’immensa ricchezza per l’uomo, soprattutto come fonte di cibo. L’economia di intere nazioni è basata sulla pesca, che fornisce ogni anno da 70 a 80 milioni di tonnellate di prodotti ittici.
L’alimentazione di molte nazioni dipende strettamente dalla pesca, con una netta prevalenza nei paesi più poveri del globo: ciò significa che in molti paesi la produzione ittica è essenziale per l'apporto di proteine per l’alimentazione umana (FAO, 2005).
In considerazione dell’importanza delle risorse ittiche come risorsa alimentare, emerge la necessità di una loro corretta gestione, al fine di garantire la sostenibilità del loro sfruttamento. In effetti, un’attività di pesca indiscriminata e senza controlli, può portare a conseguenze difficilmente prevedibili per le risorse marine; si rende quindi necessario un utilizzo delle risorse biologiche più razionale, attraverso la programmazione delle catture e l’uso di attrezzi che non danneggino gli habitat marini più importanti.
Numerosi sono infatti i casi di sovrasfruttamento (overfishing) delle
risorse biologiche riportati in letteratura. A solo titolo d’esempio basta
citare il caso dell’halibut Hippoglossus hippoglossus nell’Atlantico e nel
Pacifico, tra il 1920 e il 1940; l’aringa Clupea harengus, nel Mare del Nord
intorno al 1930 e la sardina Sardinops caerulea, nel Pacifico intorno al
1960; altri casi, più vicini a noi, sono quelli individuati nel Golfo del Leone
a carico della spigola, Dicentrarchus labrax, e della sogliola, Solea
vulgaris (Farrugio et al., 1994).
In Italia è emblematico il caso delle vongole veraci di Goro. In quest’area deltizia del Po, fino ad alcuni decenni fa lo stock
1di vongola verace, Tapes (Ruditapes) decussatus, risultava uno dei più produttivi dell’Adriatico. Il suo sfruttamento iniziò nel 1969 e nell’arco di pochi anni determinò una drastica riduzione della consistenza dello stock. Lo sfruttamento portò alla riduzione degli esemplari adulti, causando un eccessivo ringiovanimento della popolazione, per cui essa non poteva sostenere una intensa attività di pesca.
Anche nel caso del nasello, Merluccius merluccius, le catture sono costituite per quasi il 90% da esemplari nello stadio giovanile, che non hanno ancora raggiunto la taglia di maturità sessuale. In questo modo le rese in biomassa ed economiche non vengono ottimizzate (De Ranieri et al., 1993).
Una popolazione ittica sfruttata dalla pesca è soggetta quindi oltre alla mortalità naturale, anche ad una forma aggiuntiva di mortalità, prodotta dall’attività di pesca (Pauly, 1984). In alcuni casi si verifica un’eccessiva pressione di pesca sui riproduttori, che riduce enormemente le capacità rigenerative dello stock (Caddy, 1993).
Allo scopo di affrontare questi problemi si è sviluppata, a partire dagli anni ’70, una disciplina scientifica, la biologia della pesca, mirata principalmente allo studio delle popolazioni ittiche e all’elaborazione di adeguate misure gestionali per uno sfruttamento razionale delle risorse.
Gli studi di biologia della pesca sono rivolti, tra l’altro, a quantificare il livello di sforzo di pesca da applicare su una determinata popolazione o
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