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1- Il Business Model: definizione e configurazione nel sistema impresa

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1- Il Business Model: definizione e configurazione nel sistema impresa

Questo capitolo prende in esame il concetto di Business Model attraverso l’analisi della sua genesi in letteratura e dei suoi rapporti con altri fattori critici di osservazione delle imprese, in particolare la strategia e l’innovazione.

Per favorire l’inquadramento del concetto nel dibattito teorico, il capitolo fornisce in avvio una sintesi delle più affermate teorie che si sono succedute in campo accademico fino alla definitiva affermazione dell’oggetto della presente analisi (1.1).

Nonostante il termine Business Model negli ultimi anni abbia ricevuto un’attenzione crescente, esso soffre chiaramente di una pluralità di vedute riguardo alla sua definizione: nel tentativo di colmare questa lacuna, sottolineando i punti comuni espressi dai diversi autori, si è fornito un approfondito excursus della letteratura, tenendo ben presente i diversi approcci in cui il termine è stato adottato e la sua interdisciplinarietà (1.2).

Si sono analizzati i rapporti tra il Business Model e la strategia dell’impresa, due termini che vengono spesso erroneamente confusi tra loro, a causa appunto dell’assenza di una chiara definizione del primo, ma che se venissero analizzati in modo integrato porterebbero ampi benefici alle imprese (1.3).

Ci si è soffermati sul processo di innovazione del Business Model, su quanto esso sia un bisogno sempre più importante per le imprese in uno scenario estremamente mutevole come quello attuale e sul concetto stesso di innovazione attraverso il punto di vista del Business Model (1.4).

Infine si sono presentate analiticamente due diverse concezioni di Business Model: il ‘Canvas’, recentemente redatto da A. Osterwalder e ritenuto da molti manager, consulenti ed imprenditori uno strumento utile e pratico per la gestione aziendale (1.5), ed il Qmat, documento ufficiale che deve essere predisposto ed inviato a Borsa Italiana dalle società che intendono quotarsi sul segmento MTA (1.6).

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1.1 Alcune teorie precedenti

Gran parte degli autori che hanno trattato il tema del Business Model negli ultimi anni, in particolare coloro che hanno ripercorso l’evoluzione storica del concetto, si sono soffermati su alcune teorie della letteratura manageriale che lo hanno preceduto. In alcuni casi l’obiettivo era semplicemente quello di ricostruire la genesi del background accademico su cui si basa anche il concetto di Business

Model,1 in altri invece si voleva dimostrare come quest’ultimo sia la sintesi

perfetta di diversi framework teorici che lo hanno preceduto,2 oppure si intendeva

ricercare quali tra le teorie più acclamate fosse più rappresentativa all’interno del

concetto preso in esame.3

Non è scopo di questo lavoro presentare in modo analitico tali teorie

manageriali,4 per le quali si rimanda ai testi originari dei rispettivi autori. È

sembrato utile farne una trattazione sommaria, non tanto per illustrare un percorso lineare che ha portato all’affermazione definitiva del Business Model su tutte le altre teorie presenti, né per dimostrare come esso sia più rappresentativo rispetto a queste ultime, piuttosto per introdurre il lettore nel campo di ricerca in cui si è sviluppato l’uso di questo termine e per mostrare alcuni eventuali legami che esso può avere con le teorie proposte in passato.

Nel 1980 Abell propose una matrice a tre dimensioni per individuare e definire un business, al fine di capire come un’impresa compete in un determinato

contesto.5 Secondo tale autore le tre dimensioni chiave di analisi sono:

 i gruppi di consumatori serviti (Target)

 le funzioni/bisogni che vengono soddisfatti (Customer Value Proposition)

1 Chesbrough H., Rosenbloom R. S., The role of the business model in capturing value from innovation:

evidence from Xerox Corporation’s technology spin-off companies, Industrial and Corporate Change,

volume 11, numero 3, 2002, p.530 2

Amit R., Zott C., Value Creation in e-business, Strategic Management Journal, 22, 2001, p.495 e seguenti

3 George G., Bock A. J., The Business Model in practice and its Implications for Entrepreneurship

Research, Baylor University, 2010

4 Alcune di queste sono state considerate in modo un po’ azzardato i prodromi del Business Model da Marletta E., Russo A., I significati di business model e la loro riconfigurazione, 2010

5 Abell D.F., Defining the business. The Starting Point of Strategic Planning, Prentice Hall, Inc. Englewood Cliffs, New Jersey, 1980

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 le tecnologie utilizzate

Tale contesto si risolve in altrettante domande per capire, interpretare e rinnovare un business.

 Chi? Quali gruppi di consumatori stiamo servendo? Quali altri gruppi sono presenti nel mercato? (Definire il Target)

 Cosa? Quali sono i benefici che il nostro segmento di consumatori ottiene attraverso l’uso dei nostri prodotti/servizi? (Definire la Customer Value Proposition)

 Come? Qual è la combinazione delle risorse (cioè il Business Model) che garantisce tale Customer Value Proposition? Quali competenze e asset servono alla società per crearla e distribuirla? (Definire il Business Model) Ognuna delle tre domande ovviamente ha bisogno di adeguati approfondimenti per i quali si rimanda all’opera di Abell.

Per il presente lavoro è interessante notare come già in Abell vi sia un primo riferimento al termine Business Model, che nonostante non sia precisato analiticamente né sia preminente sul resto della costruzione teorica, può definirsi come “la combinazione di risorse, competenze e asset necessari all’impresa per sviluppare una determinata Customer Value Proposition ad un dato segmento di clienti”.

In seguito al Business di Abell, un’altra teoria che ha riscosso molto successo è

stata la Business Idea di Norman.6 Tale autore, nel tentativo di spiegare i fattori

all’origine del vantaggio competitivo in un determinato ambiente, ha introdotto alcuni concetti nuovi che sarebbero poi rimasti come pietre miliari nella letteratura successiva.

Norman ha sostenuto che a causa degli accentuati fenomeni di dinamismo e di discontinuità ambientali, l’attività strategica dovrebbe configurarsi come un’attività svolta in modo continuativo, al pari di quella operativa, e che l’apprendimento delle strategie di successo dovrebbe ritenersi un processo di “apprendimento attraverso il fare” (learning by doing). Il risultato di queste due osservazioni è stata la modifica del concetto stesso di strategia, il quale è andato

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delineandosi sempre più come un processo di apprendimento senza sosta, guidato da una visione strategica alla base che con il tempo si precisa, si modifica e si consolida ed alimentato da una forte tensione al cambiamento e da una continua raccolta ed elaborazione delle informazioni sui risultati delle azioni attuate dall’impresa e sull’ambiente in cui essa compete.

Si è dunque configurato un vero e proprio processo di apprendimento strategico, formato da diverse tappe in successione tra loro, nelle quali quest’ultimo si intreccia con i numerosi processi di sperimentazione operativa e sviluppo di

risorse e strutture.7

Un altro elemento fondamentale è la coerenza tra gli elementi costitutivi della Business Idea, i quali si riconducono fondamentalmente a tre:

 la struttura organizzativa

 il segmento di mercato in cui si compete  il prodotto offerto

Tale coerenza si ottiene attraverso una tensione continua verso il cambiamento e l’apprendimento e mediante il superamento degli ostacoli interni al sistema di potere, fattori che si concretizzano in un efficace sistema di motivazione delle risorse umane e di governance.

Mintzberg ha successivamente unificato l’approccio del learning by doing appena citato con il tradizionale paradigma della scuola di Harvard, per il quale si ha dapprima la concettualizzazione di una “strategia intenzionale” ed in seguito la realizzazione della “strategia deliberata”.

L’autore ha sostenuto che il management deve combinare la formulazione ed il controllo strategico con la flessibilità e l’apprendimento continuo, creando le condizioni interne affinché il learning by doing si realizzi nella sua massima efficacia e osservando attentamente le strategie emergenti, diverse da quella intenzionale, valutandole e sostenendole a seconda dei casi.

Alla fine la strategia realizzata deriverà da un percorso in cui sono confluite la strategia deliberata, derivante da quella intenzionale approvata dai vertici

7

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aziendali, e le strategie emergenti, scaturite dal processo di apprendimento strategico.

Mintzberg aggiunge anche che il management non dovrebbe promuovere un cambiamento continuo, ma gestire l’impresa con un indirizzo strategico stabile, in modo da darle la giusta continuità per un lungo periodo, così da operare profittevolmente. Allo stesso tempo dovrebbe cogliere in modo tempestivo i segnali ambientali che sconvolgono la strategia esistente, così da poterla rinnovare completamente in un periodo ristretto, mantenendo al contempo una

continuità strategica.8

Nel contesto storico di questo dibattito teorico si trova anche un noto studioso italiano, il quale ha introdotto alcuni concetti che sarebbero in seguito divenuti fondamenti degli insegnamenti nelle cattedre universitarie sul tema della strategia.

Vittorio Coda ha infatti diffuso il termine “Orientamento Strategico di Fondo” (OSF): “l’OSF di un’impresa può definirsi in prima approssimazione come la sua identità profonda o, se si preferisce, la parte nascosta e invisibile del suo disegno strategico, che sta al di sotto delle scelte concrete esplicitantisi nel profilo strategico visibile … È fatto di idee-guida, valori, convincimenti e atteggiamenti di fondo, i quali per loro natura non possono rendersi visibili direttamente, ma

solo attraverso le scelte e i comportamenti concreti che essi animano”.9

L’OSF viene incorporato nella cultura aziendale e dovrebbe svilupparsi e concretizzarsi nelle strategie che vengono messe in atto dall’impresa, le quali sono gerarchicamente inferiori all’OSF e a loro volta “si dispongono secondo una certa gerarchia, che evidenzia tre livelli: quello aziendale, quello di area d’affari e

quello funzionale interno ad un’area strategica di affari (ASA)”.10

Nell’impostazione di Coda il concetto di strategia è intercambiabile con quello di “Formula Imprenditoriale”: questa è il prodotto della storia e delle scelte compiute dall’impresa nel tempo e si esplica in cinque fattori principali:

8 Mintzberg H. , Of Strategies, Deliberate and Emergent, Strategic Management Journal, n.3, 1985 9 Coda V., 1988, op.cit., p.25-26

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 uno o più sistemi competitivi in cui l’impresa è inserita e stabilisce rapporti con clienti, fornitori e concorrenti

 un’offerta (o sistema di prodotto) che si confronta con quelle dei concorrenti

 un sistema di interlocutori sociali, all’interno del quale stabilisce rapporti con taluni finanziatori, lavoratori, rappresentanti sindacali ecc..

 una proposta progettuale, distinta per ogni interlocutore sociale, che comprende richieste di contributi o consensi e prospettive di ricompensa, la quale si confronta con proposte analoghe da parte dei concorrenti

 una struttura che fronteggia le forze dei sistemi competitivi e le attese e le pressioni degli interlocutori sociali

Coda precisa infine che una formula imprenditoriale di successo è caratterizzata dal fine di creare ricchezza in modo duraturo, dall’innovatività e dalla coerenza con cui si combinano gli elementi che la compongono e dal fatto di essere il

risultato di un processo di apprendimento.11

Come si vedrà nel seguito di questo lavoro, il concetto di formula imprenditoriale

è strettamente collegato a quello di Business Model.12

In questa rassegna teorica non si può non menzionare il grande lavoro di Michael Porter, vero leader internazionale sul tema della strategia. In uno dei suoi primi lavori l’autore della scuola di Harvard concepì un modello per analizzare il sistema concorrenziale di un’impresa, al fine di stabilirne la posizione competitiva e per prevenire le minacce delle forze concorrenziali esterne.

In sostanza esso si basa sui rapporti dell’impresa con le “cinque forze” principali che agiscono sul suo ambiente competitivo:

 i concorrenti diretti. Si possono stabilire rapporti di collaborazione o di rivalità con le imprese che offrono gli stessi prodotti/servizi

 i clienti. L’impresa può esercitare sui destinatari dei suoi output un certo potere contrattuale oppure può subirne l’integrazione a monte

11 Coda V., 1988, op.cit., p.71 e seguenti 12

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 i fornitori. L’impresa può esercitare un certo potere contrattuale sui soggetti da cui acquista materie prime e semilavorati oppure può subirne l’integrazione a valle

 gli entranti potenziali. Il numero di imprese che potrebbero entrare nell’arena competitiva dipende dalle barriere all’entrata e all’uscita in essa presenti

 i prodotti sostitutivi. Imprese che offrono beni/servizi diversi, ma che soddisfano gli stessi bisogni dei clienti dell’impresa potrebbero minacciarne la posizione competitiva

L’obiettivo di questo tipo di analisi è far sì che queste cinque forze non erodano

la redditività e la posizione competitiva acquisita dall’impresa.13

Pochi anni dopo Porter introdusse la Value Chain Analysis per analizzare il vantaggio competitivo delle imprese. Essa suddivide un’organizzazione in un insieme di processi i quali attraversano l’intero ciclo di vita di un prodotto: dall’acquisto delle materie prime, alla lavorazione, fino alla distribuzione e alla vendita. Questa formulazione prevede la divisione delle attività aziendali in

primarie e secondarie14 allo scopo di stabilire le aree di vantaggio competitivo e

di conseguenza quale strategia perseguire per ottenere un vantaggio competitivo sostenibile. La mappatura delle attività aziendali è stata fin da subito utilizzata come un pratico strumento per capire e monitorare i punti di forza e di debolezza di un’azienda e anche per trovare le combinazioni più adatte tra imprese per

formare alleanze strategiche.15

In alcuni lavori sul tema del Business Model, sono state citate anche le teorie

sull’innovazione proposte da Schumpeter16 più di mezzo secolo fa: l’economista

austriaco sostenne che l’innovazione è la principale fonte di creazione di valore

13 Porter M., Competitive Strategy: Techniques for Analysing Industries and Competition, Free Press, New York, 1980

14 Le attività primarie comprendono: Acquisti; Attività operative; Logistica esterna; Marketing e vendite; Servizi. Le attività secondarie(o di supporto) invece: Gestione delle risorse Umane; Approvvigionamenti; Infrastruttura dell’impresa; Sviluppo della tecnologia.

15 Porter M., Competitive advantage: creating and sustaining superior performance, Free press, New York, 1985

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14

ed esaltò lo sviluppo tecnologico e le sperimentazioni di nuove combinazioni delle risorse come motori del cambiamento e dello sviluppo economico.

La Resource Based Value (RBV)17 considera l’impresa come un intreccio di

risorse e capacità specializzate e ritiene che attraverso una loro efficace combinazione sia possibile creare nuovo valore. Affinché ciò possa accadere è fondamentale identificare le risorse potenziali dell’impresa e assicurarsi che siano: durevoli, scarse, non facilmente imitabili, eterogenee all’interno della stessa, atte a creare valore e non sostituibili.

Il management dovrà di conseguenza porre molta attenzione allo sviluppo e al monitoraggio di tali risorse all’interno dell’organizzazione in modo da incrementare le performance dell’impresa.

Nella teoria dei “Network Strategici” l’impresa è inserita in una visione più ampia, all’interno di una organizzazione di imprese le quali, attraverso varie forme di collaborazione, possono sviluppare molte modalità di creazione di valore che altrimenti sarebbero rimaste inespresse.

Le imprese possono stipulare partnership, alleanze strategiche, joint-ventures o qualsiasi altro accordo che permetta loro di unire le proprie risorse e competenze. All’interno del network si pongono numerose questioni riguardo la sua formazione, le relazioni tra le partecipanti e le modalità di creazione del valore. Alla fine le imprese che riescono a trarre maggior profitto sono quelle che hanno

contribuito con asset dal maggior regime di appropriabilità.18

La Transaction Cost Economics (TCE) contrappone l’impresa al mercato e si chiede perché la prima effettui in autonomia alcune operazioni che potrebbero agilmente essere condotte attraverso il secondo.

Williamson identificò alcuni fattori che accrescevano l’inefficienza delle transazioni di mercato, quali la razionalità limitata, la complessità, l’asimmetria

17 Barney J. B., Is the Resource-Based Theory a Useful Perspective for Strategic Management

Research?, Yes, Academy of Management Review; 26, (1), 2001

18

Rasmussen B., Business Model and the Theory of the Firm, Centre for Strategic Eonomic Studies, Victoria University of Technology, Pharmaceutical Industry Project Working Paper Series n. 32, Giugno 2007, p.7

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15

informativa, l’incertezza e l’opportunismo presente in alcune situazioni.19

Di conseguenza, l’efficienza delle transazioni venne vista come la maggior fonte di creazione di valore e la TCE si risolse nell’identificazione della forma di governance più efficace per diminuire i costi di transazione.

La teoria del Knowledge Management20 è stata ripresa da alcuni autori21 per

dimostrare come la costruzione accurata di un Business Model sia un vero e proprio processo in cui si forma conoscenza condivisa all’interno dell’organizzazione.

Alcuni autori22 hanno proposto l’utilizzo del concetto di Business Model

all’interno del contesto della Balance Scorecard23

in modo da rendere quest’ultima più efficace, oppure vi si sono chiaramente ispirati al fine di definire

al meglio la loro idea di Business Model.24

La Balance Scorecard è uno strumento di supporto per il management nell’esecuzione della strategia ed il suo obiettivo è di tradurre questa in target precisi e misurabili, così da poterla costantemente valutare. Essa si suddivide attraverso quattro diverse prospettive di analisi, ognuna delle quali a sua volta presenta numerosi indicatori da controllare costantemente:

 prospettiva dei consumatori. La società analizza il punto di vista dei suoi clienti e come può migliorare verso di loro

 prospettiva interna. La società riflette sui fattori in cui deve eccellere  prospettiva dell’innovazione e dell’apprendimento. La società analizza

come può continuare a crescere e a creare valore

 prospettiva finanziaria. La società analizza il punto di vista dei suoi azionisti e come può migliorare verso di loro

19

Williamson OE., Transaction cost economics: the governance of contractual relations, Journal of Law and Economics, 22, 1979

20 Nonaka I., The Knowledge-Creating Company, Harvard Business Review, Novembre-Dicembre 1991 21 Osterwalder A., Pigneur Y., Tucci C., Clarifying Business Models: origins, present and future of the

concept, Communications of the Association for Information System (CAIS), volume 15, Maggio 2005

22

Bubbio A., Gruppi A., Lagonigro F. Solbiati M., Reinventare il Business Model. Come recuperare la redditività perduta, Ipsoa, Milano, 2012.

23 Kaplan R. S., Norton D. P., The balance scorecard—measures that drive performance, Harvard Business Review, 70 (1), 1992

24

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16

In seguito Kaplan e Norton hanno definito il processo di Strategy Mapping, il quale serve a chiarificare e a comunicare i collegamenti tra la strategia e gli obiettivi definiti dalla Balance Scorecard, in modo tale da avere un modello

unico di analisi per la strategia e per la sua effettiva esecuzione.25

1.2 Alla ricerca di una definizione: un excursus della letteratura

Dopo aver presentato gran parte delle teorie accademiche sviluppatesi negli anni precedenti all’affermazione definitiva del Business Model, iniziamo adesso ad entrare nel vivo dell’argomento osservando i primi utilizzi del termine che sono stati fatti in letteratura, il suo sviluppo attraverso diversi percorsi non necessariamente collegati tra loro, fino al ricongiungimento all’interno del contesto relativo alla realizzazione della strategia.

In questo paragrafo saranno analizzate anche le problematiche incontrate dagli autori nella definizione del concetto, i diversi approcci utilizzati nella sua trattazione e le diverse modalità in cui è stato definito.

Le molteplici definizioni di cui il termine è stato oggetto negli ultimi anni verranno presentate e ricondotte ad alcuni punti comuni e saranno esposte le caratteristiche di un Business Model efficace.

Vedremo come esso si rapporta con l’ambiente in cui l’impresa è inserita e come i cambiamenti in quest’ultimo abbiano determinato la nascita di alcune tipologie di Business Model mai esplorate in precedenza.

Osserveremo il suo ciclo di vita, gli errori più frequenti che vengono fatti dalle imprese nella sua implementazione e le modalità più adatte per valutarlo.

1.2.1 L’origine del termine e il crescente interesse della letteratura

Nel 1957 il termine Business Model è stato citato per la prima volta in un articolo

accademico e nel 1960 esso comparve nel titolo e nell’abstract di un altro.26 Nel

25 Kaplan R. S., Norton D. P., Having Trouble with Your Strategy? Then Map It, Harvard Business Review, 78 (5), 2000

26

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17

1975 si ebbe un altro riferimento e da quel momento fino alla metà degli anni

Novanta il termine subì un uso occasionale nella letteratura.27

L’esplosione della new economy è stata il fattore determinante del crescente interesse verso il Business Model da parte del mondo accademico e non. I due grafici che vengono riportati di seguito mostrano in modo molto chiaro questo trend.

Figura 1: grafico del crescente interesse verso il Business Model (Fonte: Zott C., Amit R., Massa L., 2010, p.5)

Figura 2: crescente interesse verso il Business Model. (Fonte: Osterwalder A., 2004, p.23)

Un elemento che caratterizza la quasi totalità degli studi compiuti sul tema del Business Model è l’assenza di una definizione del suddetto alla base della ricerca

27

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18

svolta: spesso gli autori non la forniscono affatto, dandola per scontato, in molti casi ne inseriscono una attraverso l’elenco dei componenti alla base del Business Model, senza precisare dunque una chiara visione d’insieme e talvolta si limitano a citare studi precedenti per definire il concetto.

Il problema centrale è che le molteplici definizioni che si trovano nella letteratura sono soltanto in pochi casi coincidenti tra di loro e tale mancanza di chiarezza ha generato confusione e dispersione nei ricercatori stessi diventando un ostacolo

molto forte per lo sviluppo di studi cumulativi sul tema.28

A conferma di quanto appena detto, vi è il fatto che il termine Business Model è stato definito con diverse accezioni da parte dei ricercatori che se ne sono

interessati:29

 una dichiarazione  una descrizione  una rappresentazione  un’architettura

 uno strumento concettuale o modello  un modello strutturale

 un metodo  una struttura  un pattern  un insieme

I due lavori che si sono occupati con maggior rigore ed ampiezza di sistematizzare e dare ordine alla letteratura sul Business Model sono: Osterwalder (2004) e Zott, Amit, Massa (2010).

Il primo prende in esame gran parte dei lavori presenti fino ad allora ed analizza i diversi punti di vista attraverso cui gli autori hanno trattato il tema del Business Model. L’autore ha dunque individuato sette categorie, corrispondenti a sette differenti modalità di affrontare il suddetto tema:

 una definizione

28

Zott C., Amit R., Massa L., The Business Model: theoretical roots, recent developments and future

research, IESE Business School- University of Navarra, Working Paper, 2010, p.5-6

29

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19

 una tassonomia

 un elenco dei componenti

 strumenti o rappresentazioni grafiche per il design del Business Model  approccio ontologico

 componenti di cambiamento temporale del Business Model  misure di valutazione del successo di un Business Model

Zott, Amit, Massa (2010) hanno adottato un’altra prospettiva di osservazione: partendo dal fatto che, dalla metà degli anni Novanta, quando l’uso del termine si è fatto sempre più crescente, la letteratura sull’argomento si è sviluppata in modo interdisciplinare, gli autori hanno analizzato il Business Model attraverso i tre

principali fenomeni cui esso si poneva in relazione:30

 e-business. Il Business Model inteso come strumento di studio delle organizzazioni e delle imprese “internet based”

 temi strategici. Il Business Model come descrizione integrata delle attività d’impresa in una forma aggregata per indagare temi come la creazione di valore, le performance e il vantaggio competitivo

 innovation and technology management.31 Qui il Business Model è stato

indagato sia come veicolo attraverso cui le imprese commercializzano nuove idee e tecnologie che come nuova dimensione dell’innovazione stessa

A questi ultimi due approcci verranno dedicati successivamente due paragrafi separati (1.3 e 1.4), a causa della rilevanza dei rispettivi argomenti, mentre il primo merita una spiegazione fin da subito, in quanto è all’origine dell’elevato incremento di interesse che vi è stato nei confronti del Business Model a partire dalla seconda metà degli anni Novanta. Tale crescita, come mostrato dai grafici riportati sopra, è dovuta allo studio delle e-business, cioè di tutte quelle imprese, quei mercati e quelle transazioni che utilizzano principalmente il canale web.

30

Zott C., Amit R., Massa L., 2010, op.cit., p.7

31 Un altro autore presenta la medesima ripartizione con una differenza riguardo al terzo tema di indagine: lo definisce “approccio teorico-organizzativo” ed in esso il Business Model è visto come la rappresentazione astratta dell’architettura di una società. Si veda Wirtz B. W., 2011, op.cit., p.20 e seguenti.

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20

Tali imprese hanno avuto un vero e proprio boom alla fine degli anni 90, parallelamente ai mercati azionari, i quali ne esaltavano le quotazioni a dismisura salvo poi ricredersi improvvisamente al momento dell’improvviso crollo. Quello che è passato alla storia come “il boom delle dot.com” è stato permesso da diversi fattori riconducibili alla rapida ascesa di internet e ai rapidi progressi nelle ICT, in primis l’abbattimento dei costi di comunicazione.

Tali nuove tecnologie hanno permesso lo sviluppo di nuove forme organizzative, di scambio e di collaborazione tra imprese.

All’interno di questa rivoluzione nelle modalità di svolgimento delle consuete attività d’impresa, la ricerca sul Business Model si colloca innanzitutto come tentativo di capire, definire e catalogare tali innovazioni. In quel periodo di esuberanza nei mercati finanziari anche molti venture capital e fondi di investimento si sono interessati a capire meglio tali logiche, in particolar modo

quando imprese internet based richiedevano capitali al mercato.32

Di conseguenza, diversi autori hanno studiato il Business Model relativamente al

mondo delle e-business, talvolta fornendo delle vere e proprie tassonomie33 e in

altri casi elencando gli elementi che lo componevano.34

Gli autori che si sono impegnati in questa corrente di ricerca hanno posto il loro interesse sulla genesi di questo nuovo tipo di imprese, sul loro ruolo nell’ambiente competitivo e hanno ideato nuove definizioni e classificazioni, utilizzando ognuno le discriminanti che riteneva più opportune. Gli aspetti su cui si sono soffermati con più attenzione sono quelli attinenti alla nozione del valore, ai risultati finanziari e all’architettura dei network presenti tra le imprese e i

rispettivi partner.35

Le numerose novità introdotte nei mercati dalla rivoluzione tecnologica avevano nel frattempo attirato anche l’interesse degli studiosi di strategia e di innovation

32 Rasmussen B., 2007, op.cit.

33 Timmers P., Business Models for Electronic Markets, Journal on Electronic Markets, 8 (2), 1998, Linder J., Cantrell S., Changing Business Models: Surveying the Landscape, Accenture Institute for Strategic Change, 2000, Weill P., Vitale M. R., Place to Space: Migrating to e-Business Models, Harvard Business School Press, Boston, 2001

34 Afuah A., Tucci C., Internet Business Models and Strategies, McGraw Hill, Boston, 2003, Osterwalder A., The business model ontology. A proposition in a design science approach, Ecole des Hautes Etudes Commerciales de l'Universitè de Lausanne, Losanna, 2004

35

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21

and technology management. Internet schiudeva allora un enorme ventaglio di nuove possibilità e scenari inediti da esplorare a costi ridotti e con vantaggi immediati. In modo particolare, ad attirare l’interesse degli studiosi, vi erano le nuove modalità di partnership e collaborazione che le imprese potevano intraprendere tra di loro, le nuove forme organizzative che queste ultime si davano e le fonti di ricavi innovative, inimmaginabili fino all’avvento del web. Una volta che la bolla delle imprese internet era scoppiata, l’interesse verso il Business Model rimase comunque costante da parte di queste due tipologie di studiosi. Da quel momento la letteratura sul tema ha dunque seguito questi due binari, mentre il primo approccio indicato da Zott, Amit, Massa (2010) è stato, per forza di cose, abbandonato.

In seguito a questa digressione sulle e-business e sull’origine dell’interesse verso il concetto di Business Model, si riprende la classificazione di Osterwalder (2004) mostrata in precedenza, la quale, con i suoi sette angoli di analisi, rende al meglio la complessità, la difficoltà e il percorso non lineare che gli autori hanno intrapreso per trattare questo argomento.

Prima di iniziare questo percorso descrittivo, pare utile consultare un grafico tratto da Osterwalder (2005), nel quale l’autore mostra quelle che secondo lui sono state le cinque fasi evolutive nella trattazione del Business Model fino a

quel momento.36

Nonostante le difficoltà incontrate in questa area di ricerca, dovute in particolare alla disomogeneità di opinioni sull’oggetto stesso di questa e al fatto che gli studiosi raramente si sono affidati ai lavori dei colleghi per sviluppare nuove teorie, ma hanno sempre ricominciato da capo, Osterwalder ha riscontrato la presenza di cinque fasi in successione nella letteratura sul Business Model.

36 Osterwalder A., 2005, op.cit., p.11

(16)

22 Figura 3: evoluzione del concetto di Business Model. (Fonte: Osterwalder A. et al., 2005, p.11)

Durante la prima fase, in cui l’uso del termine stava emergendo, diversi autori hanno fornito delle definizioni e delle classificazioni al fine di inquadrarlo meglio.

Successivamente tali descrizioni sono state approfondite definendo i componenti del Business Model stesso, dapprima in modo superficiale, con delle semplici liste (fase 2), ed in seguito in modo più analitico descrivendoli attentamente uno ad uno (fase 3).

Nella quarta fase i ricercatori hanno creato delle ontologie e dei modelli di riferimento per rappresentare in modo più efficace il Business Model. In questa fase si è potuto iniziare a valutare e a testare i modelli in modo più rigoroso. L’ultima fase si è proposta di dare un senso applicativo al concetto di Business Model, rendendolo uno strumento utile per il management.

1.2.2 Alcune definizioni di Business Model

Si presentano di seguito in ordine cronologico e con un breve commento alcune delle definizioni più importanti di Business Model fornite dagli studiosi negli ultimi anni. Sono state selezionate quelle più citate nei lavori degli stessi ricercatori tentando anche di esaltare i diversi approcci con cui è stato affrontato l’argomento.

Prima di iniziare questo elenco, sembra utile riportare alcuni attributi necessari per una corretta definizione del termine Business Model: questa dovrebbe essere

(17)

23

“ragionevolmente semplice, logica, misurabile, comprensibile e significativa a

livello operativo”.37

Nel 1998 Timmers, che lavorava allora per la Commissione Europea,38 fu uno dei

primi autori a fornire una definizione dettagliata di Business Model, oltre che a stabilirne un’accurata tassonomia, come si vedrà più avanti. Per lui il Business Model è scomponibile in tre punti:

 “un’architettura per il prodotto, servizio e i flussi informativi, che include una descrizione dei vari attori presenti nel business e dei rispettivi ruoli; e  una descrizione dei vari benefici potenziali per i vari attori presenti nel

business; e

 una descrizione delle fonti di ricavi”.39

L’autore, con l’intento di capire ancor di più le modalità con cui una società realizza la sua mission, ha inoltre aggiunto un Marketing Model, che rappresenta la combinazione del Business Model e della strategia di marketing della società in considerazione.

Nel 2000 Linder e Cantrell, dell’Accenture Institute for Strategic Change, hanno dato la seguente definizione: “il Business Model è la logica principale di una organizzazione con lo scopo di creare valore. Esso chiarisce come l’impresa fa soldi e sottolinea le attività distintive e gli approcci che le permettono di avere

successo”.40

Gli autori rimarcano l’estrema importanza e gli elevati benefici di una definizione quanto più chiara e condivisa del Business Model dell’azienda in cui si lavora: ne beneficerebbero per esempio gli addetti alle vendite, che conoscerebbero i bisogni dei consumatori su cui far maggior leva, il settore della comunicazione, che saprebbe inviare i messaggi giusti, ed i lavoratori manuali, che potrebbero infondere materialmente nel prodotto fabbricato le caratteristiche che il management ritiene che i consumatori desiderino.

37

Morris M., Schindehutte M, Allen J., The entrepreneur’s business model: toward a unified

perspective,Journal of Business Research, (58), p.729 38 Osterwalder A., 2004, op. cit. ,p.25

39 Timmers P., 1998, op.cit, p.4 40

(18)

24

Essi identificano inoltre tre diverse tipologie di modelli: quelli operativi, che corrispondono a quelli realmente attuati dalle imprese, i ‘change model’ e i ‘componenti del Business Model’.

L’anno successivo Amit e Zott compiono un lavoro pionieristico sulle e-business, dimostrando che per capire queste ultime non è più sufficiente la letteratura in tema di innovazione, management e strategia presente fino ad allora, ma che serve un nuovo framework di analisi che unifichi e consolidi le teorie precedenti. Da questa considerazione essi giungono a concepire il Business Model come una nuova unità di analisi e una sintesi delle precedenti teorie, che “descrive il contenuto, la struttura e la governance delle transazioni progettate in modo da

creare valore attraverso la valorizzazione delle opportunità di business”.41

Il contenuto delle transazioni si riferisce ai beni e alle informazioni che sono oggetto di scambio e alle risorse e alle capacità richieste per permettere quest’ultimo. La struttura delle transazioni riguarda le parti che partecipano al processo di scambio, le modalità con cui esse sono collegate e la sequenza e i meccanismi delle stesse transazioni. Questi fattori influenzano la flessibilità, l’adattabilità e la scalabilità di queste ultime. La governance delle transazioni si riferisce alle modalità in cui i flussi di informazioni, di risorse e di beni sono controllate dalle diverse parti in causa, alla forma legale dell’organizzazione e agli incentivi forniti ai partecipanti alle transazioni.

Attraverso questa triplice descrizione gli autori osservano come la loro concezione di Business Model sia coerente con gran parte degli approcci manageriali e strategici proposti fino ad allora, per quanto differenti essi fossero. Viene sottolineato il fatto che un determinato Business Model sia riferibile soltanto alla rispettiva impresa in cui esso trova fondamento, cosicché si può parlare del ‘business model dell’impresa x’, in quanto esso è costruito e basato su tale realtà; allo stesso tempo la portata teorica del concetto non si esaurisce all’analisi della singola impresa, poiché esso può estendersi a tutte le imprese di

41

(19)

25

qualsiasi settore per aiutarle a capire le loro fonti di creazione di valore e le

opportunità da sfruttare.42

L’importanza del loro contributo non si esaurisce qui: Amit e Zott hanno individuato le quattro fonti principali di creazione di valore in una e-business, dove per valore non intendono quello strettamente appropriato dall’impresa stessa, ma quello interamente creato, indipendentemente dai soggetti beneficiari. Gli autori spiegano analiticamente tali quattro fonti di creazione di valore, attraverso esempi concreti, collegamenti con le precedenti teorie manageriali e

strategiche e inserendole nell’allora innovativo contesto delle e-business,43

per poi precisare infine che la loro analisi può estendersi a qualsiasi impresa, in quanto i vantaggi conseguiti dalla rivoluzione tecnologica non sono limitati ad un

gruppo ristretto di aziende, ma sono alla portata di tutte44.

Figura 4: le 4 fonti di creazione di valore. (Fonte: Amit R., Zott C., 2001, p.504)

Al centro del grafico vi è il valore, la cui continua ricerca è l’obiettivo di ogni impresa e le frecce che collegano tra loro le quattro fonti di creazione del valore stanno ad indicare l’importanza della loro interdipendenza, in quanto esse si rafforzano l’un l’altra.

L’efficienza delle transazioni, misurabile come il costo unitario sostenuto per ognuna di esse, risulta essere un driver fondamentale per la creazione di valore e

42 Amit R., Zott C., 2001, op.cit., p. 513-514 43

Amit R., Zott C., 2001, op.cit., p. 503-509 44

(20)

26

può essere ricercata in molti modi, come ad esempio la realizzazione di economie di scala, un sistema di comunicazione più semplice e veloce ed una riduzione delle asimmetrie informative.

Le sinergie sono presenti ogni volta in cui due o più beni legati tra loro forniscono un valore maggiore rispetto al caso in cui essi siano invece separati. Esse possono realizzarsi in moltissime modalità, ad esempio tra diversi prodotti o servizi offerti ai clienti, tra tecnologie presenti all’interno dell’impresa e tra attività on-line ed off-line.

Il lock-in riguarda il mantenimento e lo sviluppo delle relazioni presenti con i propri consumatori e con i partner strategici, prevenendo la loro migrazione verso i competitors dell’impresa. In uno scenario ipercompetitivo come quello attuale, la fidelizzazione del consumatore e dei partner in affari sono due dimensioni chiave per il successo e possono attuarsi con la presenza di switching costs, per cui ad essi non risulterà conveniente abbandonare il rapporto instaurato con l’impresa, o attraverso la presenza di esternalità positive, dirette o indirette, dovute all’esistenza di un determinato network.

Infine, la ricerca di Amit e Zott ha rimarcato l’importanza dell’innovazione come motore per la creazione del valore: essa può intendersi riguardo al solo prodotto o servizio offerto, oppure al metodo di produzione, alle tecniche distributive e commerciali o addirittura alla creazione di nuovi mercati e nuovi bisogni.

Nel 2002 Magretta precisa che i Business Model sono elementi fondamentali per il successo di qualsiasi tipo di organizzazione, a partire dalle start-up fino alle imprese più affermate e li definisce come “storie - storie che spiegano come lavora un’impresa. Un buon business model risponde alle vecchie domande di Peter Drucker. Chi è il consumatore? E qual è il valore che gli offriamo? Esso inoltre risponde alle fondamentali domande che ogni manager deve porsi: Come facciamo soldi in questo business? Qual è la logica economica sottostante che spiega come possiamo distribuire valore ai consumatori ad un costo

appropriato?”.45

(21)

27

L’autrice sottolinea l’importanza della coerenza tra i vari elementi del Business Model e divide l’analisi del suddetto nella parte narrativa e in quella numerica, le quali devono essere entrambe efficaci, pena il fallimento dell’iniziativa.

Nello stesso anno, Chesbrough e Rosenbloom pubblicano un importante contributo su questo tema, che risulterà la base per la teoria dell’ “Open Business Model” che sarà presentata nel paragrafo 1.4.

Gli autori ritengono che la funzione del Business Model sia di “fornire un framework coerente che prende come input le caratteristiche e le potenzialità tecnologiche e li converte, attraverso i mercati ed i consumatori, in output economici. Il Business Model è concepito come uno strumento che si focalizza nella mediazione tra lo sviluppo tecnologico e la creazione di valore

economico”.46

Viene argomentato come i numerosi fallimenti di imprese che non sono state capaci di fronteggiare efficacemente i cambiamenti tecnologici in corso siano dovuti al fatto che esse non siano riuscite a mettere in pratica nuovi Business Model, i quali erano richiesti dalle nuove circostanze, e che le imprese hanno bisogno di capire il ruolo cognitivo del Business Model come strumento per ottimizzare i loro investimenti in tecnologia.

Afuah e Tucci nel 2003 hanno fornito una interessante definizione di Business Model, molto legata agli aspetti strategici dell’impresa: gli autori precisano che “la prima determinante delle performance di un’impresa è il suo Business Model. Questo è il metodo attraverso cui un’impresa costruisce ed utilizza le sue risorse in modo da offrire ai suoi consumatori un valore migliore rispetto a quello offerto dai competitors, riuscendo con ciò a fare soldi. Esso descrive dettagliatamente le modalità con cui un’impresa fa soldi adesso e quelle con cui pianifica di continuare a farne nel lungo termine. Il modello è ciò che permette ad un’impresa di avere un vantaggio competitivo sostenibile, così da ottenere performance migliori dei concorrenti nel lungo termine. Un Business Model può essere

46

(22)

28

concettualizzato come un sistema fatto di componenti e rapporti dinamici tra i

componenti”.47

Nel 2005 Osterwalder giunge alla sua definizione di Business Model dopo aver esaminato la letteratura precedente ed aver indirizzato la sua ricerca attraverso

l’unione delle definizioni dei termini “business” e “model”.48

Per lui dunque, “un business model è uno strumento concettuale che contiene un insieme di elementi e le loro relazioni e che permette di esprimere la logica di business di una specifica impresa. È una descrizione del valore offerto da una società ad uno o più gruppi di consumatori e dell’architettura di un’impresa e del suo network di partner per creare, portare sul mercato e distribuire questo valore,

in modo da generare fonti di ricavi profittevoli e sostenibili”.49

Sempre nel 2005, Shafer, Smith e Linder, osservando il generale disaccordo presente tra gli studiosi riguardo alla definizione di Business Model, si sono proposti di fornirne una che integrasse e sintetizzasse le precedenti e che fosse al contempo semplice, così da poterla facilmente ricordare e comunicare.

Gli autori hanno dunque definito il “business model come una rappresentazione della logica principale e delle scelte strategiche sottostanti ad un’impresa per

creare e catturare valore all’interno di un network del valore”.50

Nel 2007 Casadeus-Masanell e Ricart, esaminando alcune precedenti definizioni, hanno osservato che un importante componente del Business Model è l’insieme delle scelte compiute dal management riguardo alle modalità attraverso cui l’impresa deve operare, le quali hanno un impatto diretto sulla creazione di valore da parte della stessa e sulla sua capacità di catturare tale valore.

Gli autori intendono dunque il Business Model come “le scelte compiute dalla società riguardo alle politiche gestionali, agli asset e alla struttura di governance di tali politiche ed asset, e le loro conseguenze, che possono rendere l’impresa

flessibile o rigida”.51

47 Afuah A., Tucci C., 2003, op. cit., p.3 48 Osterwlader A. et al., 2005, op.cit., p.5-6 49

Osterwalder A. et al., 2005, op. cit., p.17-18

50 Shafer S. M., Smith H. J., Linder J. C., The Power of Business Models, Kelley School of Business, Indiana University, 48, 2005, p.202

51 Casadeus-Masanell R. R., Ricart J. E., Competing through Business Models, IESE Business School, University of Navarra, Working Paper, 2007

(23)

29

Nel 2010 Doz e Kosonen sostengono che i Business Model possono essere definiti sia oggettivamente che soggettivamente: “oggettivamente sono insiemi di relazioni operative strutturate ed interdipendenti tra un’impresa ed i suoi consumatori, fornitori, partner ed altri stakeholder, e tra le sue unità e dipartimenti interni (funzioni, staff, unità operative ecc..). Queste relazioni ‘reali’ sono articolate in procedure o contratti e incorporate (spesso) in azioni di routine. Ma per il management dell’impresa i Business Model sono anche delle rappresentazioni soggettive di questi meccanismi, che delineano il modo in cui

esso crede che l’impresa si relazioni con l’ambiente”.52

Gli autori, con questo duplice punto di vista, riconoscono il Business Model anche come un semplice modello, il quale, nelle sue numerose e mutevoli applicazioni concrete, riflette sempre le ipotesi di chi lo ha creato.

Nel medesimo anno Osterwalder fornirà una definizione molto più breve e semplice rispetto alla precedente: “un modello di business descrive la logica in

base alla quale un’organizzazione crea, distribuisce e cattura valore”.53

Nel 2013 l’IR (Integrated Reporting) ha definito il Business Model come “il sistema di input, attività di business, output e benefici, scelto dall’organizzazione

con lo scopo di creare valore nel breve, medio e lungo termine”.54

Come detto in precedenza, l’elenco delle definizioni appena presentato contiene soltanto una piccola parte rispetto a quelle presenti in letteratura e dunque non può ritenersi esaustivo.

Lo sviluppo di ricerche convergenti su questo tema ha i due grandi limiti dell’interdisciplinarietà dell’interesse verso il Business Model e delle notevoli differenze tra le numerose definizioni che ne sono state date. Nonostante ciò, sembra opportuno riportare alcuni punti comuni che sono emersi dai diversi

approcci di ricerca:55

52

Doz Y. L., Kosonen M., Embedding Strategic Agility. A Leadership Agenda for Accelerating Business

Model Renewal, Long Range Planning, vol.43, 2010, p.370-371

53 Osterwalder A. Pigneur Y., Creare modelli di Business, edizioni FAG, Milano, 2012, p. 14 54 IR (Integrated Reporting), Business Model, 2013, p.6

55

(24)

30

 il Business Model sta emergendo come una nuova unità di analisi, che abbraccia e supera i tradizionali livelli di indagine dell’impresa e del network.

 il Business Model adotta una prospettiva olistica e sistemica per spiegare che cosa fa un’impresa e come lo fa, al contrario degli approcci particolaristici e funzionali

 il sistema delle attività ricopre un ruolo fondamentale nella gran parte delle concettualizzazioni che sono state fatte

 il Business Model mette al centro della propria indagine il concetto del valore, tanto riguardo alla creazione quanto alla cattura di questo da parte dell’impresa

1.2.3 Tassonomie del Business Model

La tassonomia è una branca della biologia che studia i diversi organismi viventi

in modo comparativo, raggruppandoli sulla base di caratteristiche comuni.

Nell’ambito di ricerca del Business Model essa è stata utilizzata in particolare da coloro che studiavano tale concetto in rapporto alle e-business, in quanto avevano l’urgente bisogno di trovare dei parametri adatti per classificare nuove tipologie di imprese.

Taluni autori56 si sono soffermati a descrivere alcune tipologie di Business Model

estremamente innovative, le quali non sarebbero state possibili senza lo sfruttamento delle nuove tecnologie informatiche, ma soltanto in pochi hanno redatto delle vere e proprie tassonomie.

Tra questi ultimi si annovera certamente Timmers, che nel 1998 ha suddiviso le e-business sulla base dei due criteri discriminanti del grado di innovazione e del grado di integrazione funzionale. Ne sono risultate 11 differenti tipologie di imprese, per ognuna delle quali è stata fornita una descrizione.

56

Teece D. J., Business Model, Busines Strategy and Innovation, Long Range Planning, n.43, 2010 e Osterwalder A. et al., 2012, op. cit.

(25)

31

Figura 5: tassonomia delle "e-business". (Fonte: Timmers P., 1998, p.7)

Linder e Cantrell nel 2000 hanno proposto una classificazione dei Business Model che non comprendeva soltanto le e-business e che si focalizzava su due dimensioni principali: l’attività svolta come fonte di ricavi e la posizione di prezzo e di valore rispetto ai concorrenti.

Dalla loro analisi sono risultate 8 tipologie di imprese, ognuna delle quali può

concretizzarsi in diversi modi:57

 price models (razor and blade, shopping a basso prezzo, fee for advertising)

 convenience models (offerta vantaggiosa, completa e con gratificazione istantanea)

 commodity-plus models (prodotti di massa affidabili e a basso prezzo)  experience models (vendita di esperienza, brand con alta reputazione)  channel models (ottimizzazione e qualità dei canali di vendita, rivenditori

ad alto valore aggiunto)

 intermediary models (aggregatori di più operatori)

 trust models (leadership di prodotto o di servizio fondata sulla fiducia)  innovation models (prodotti/servizi inimitabili, ‘breakthrough markets’..) Nello stesso anno altri autori hanno proposto una classificazione dei differenti possibili network del valore presenti nel mondo delle imprese internet-based, utilizzando come criteri discriminanti il grado di integrazione del valore

57 Linder J., Cantrell S., 2000, op.cit., p.8-9

(26)

32

all’interno del network e il grado di controllo in esso presente, riscontrando cinque tipologie di network del valore.

Figura 6: "b-webs". (Fonte: Tapscott D., Ticoll D., Lowi A., 2000)

Nel 2001 Weill e Vitale descrivono quelle che per loro sono le classificazioni base per inquadrare il mondo delle e-business, trovando ben otto modalità con

cui si può condurre un’impresa del genere:58

 content provider  direct to customer  full-service provider  intermediary

 shared infrastructure  value net integrator  value community

 whole-of-Enterprise/Governement 1.2.4 I componenti del Business Model

Come si è visto in precedenza, definire il Business Model non è stato un compito semplice per gli autori che se ne sono occupati, cosicché alcuni di loro hanno deciso di non darne soltanto una definizione in senso classico, ma di elencarne i componenti principali, sperando in tal modo di evitare la confusione terminologica che ha da sempre accompagnato l’utilizzo di questo termine.

58

(27)

33

Tra gli autori che hanno scomposto il Business Model in diversi componenti, Afuah e Tucci ne hanno trovati otto, per ognuno dei quali l’impresa deve essere

capace di fornire delle risposte chiare:59

 customer value. L’impresa deve chiedersi se sta offrendo qualcosa di distintivo rispetto ai concorrenti oppure qualcosa di omogeneo ad un minor prezzo

 design scope. La società deve sapere qual è il target di riferimento a cui sta offrendo tale valore e quali prodotti/servizi esprimono tale valore  pricing. L’impresa deve dare un prezzo al valore che offre

 fonti di ricavi. L’impresa deve chiedersi da dove vengono i ricavi, chi pagherà per quale tipo di valore e quando lo farà. Deve definire dei margini per ogni mercato in cui opera e capire quali leve li guidano

 attività connesse. L’impresa deve sapere quali attività svolgere e in che modo collegarle per offrire la sua proposta di valore

 implementazione. La società deve collegare al meglio le sue attività connesse con la sua struttura organizzativa, i sistemi, le persone e l’ambiente circostante

 capacità. L’impresa deve riconoscere le sue capacità e colmare quelle che le mancano. Deve inoltre capire se ne possiede qualcuna distintiva, che le permetta di offrire un valore migliore rispetto ai concorrenti e che sia difficile da imitare

 sostenibilità. Un’impresa deve capire quali sono i suoi fattori più difficili da imitare e definire le modalità con cui continuare a fare soldi e mantenere il proprio vantaggio competitivo

Stahler ha elencato soltanto quattro componenti del Business Model, adottando quindi una impostazione molto semplice, ma che ha colto l’essenza del concetto

in esame. Essi sono i seguenti:60

 value proposition

 prodotto/servizio offerto

59

Afuah A., Tucci C., 2003, op.cit., p. 46

60 Stahler P., Business Models as an Unit of Analysis for Strategizing, International Workshop on Business Models, Lausanne, Switzerland, 2002, p.6

(28)

34

 architettura del valore  fonti di ricavi

Mentre gli altri tre elementi sono facilmente intuibili, è bene precisare che per architettura del valore l’autore intende le modalità e le configurazioni della catena del valore attraverso cui quest’ultimo viene creato. Essa delinea gli agenti

economici che partecipano a tale processo e i rispettivi ruoli.61

Chesbrough e Rosenbloom identificano le sei funzioni principali che un buon

Business Model deve adempiere:62

 articolare la value proposition  identificare i segmenti di mercato

 definire la catena del valore in cui l’impresa crea e distribuisce la sua offerta e determinare gli asset complementari necessari per supportare la sua posizione in tale catena

 stimare la struttura dei costi e il potenziale di profitto dei prodotti/servizi offerti, data la value proposition e la catena del valore scelti

 descrivere la posizione dell’impresa all’interno del network del valore che lega i fornitori ai consumatori e identificare i potenziali partner e competitors

 formulare la strategia competitiva attraverso la quale l’impresa otterrà e manterrà un vantaggio nei confronti dei rivali

Questo elenco estende la prospettiva di osservazione del Business Model all’intero network del valore in cui l’impresa si inserisce, con particolare attenzione alle altre imprese con cui essa entra in relazione e al vantaggio competitivo.

Al pari di Stahler, altri autori identificano quattro componenti base del Business

Model, i quali a loro volta ne contengono altri.63

 Scelte strategiche: target di consumatori, value proposition, competenze, mission, branding, prodotti/servizi offerti, differenziazione ecc..

61 Stahler P., 2002, op.cit., p.7

62 Chesbrough H., Rosenbloom R. S., 2002, op.cit., p.533-534 63

(29)

35

 Value network: relazioni con i fornitori e i consumatori e flussi informativi

 Creazione di valore: risorse, asset, processi e attività impiegati  Cattura del valore: costi, profitti e aspetti finanziari

Linder e Cantrell hanno sentito l’urgenza di catalogare gli elementi del Business Model, poiché troppo spesso tale termine veniva utilizzato al posto di un suo componente specifico e quindi il bisogno di fare chiarezza a riguardo era impellente.

Tali autori hanno inserito diversi temi cari alla letteratura sul marketing nel loro framework sul Business Model, nel quale hanno identificato una serie articolata di domande che ogni impresa dovrebbe porsi:

 perché siamo un’organizzazione?

 come otteniamo e manteniamo consumatori?  qual è la nostra value proposition distintiva?

 chi sono i nostri consumatori e quali sono i loro bisogni?  che cosa offriamo loro? (prodotti/servizi/esperienza)  come li raggiungiamo?

 qual è la nostra politica di prezzo?

 come distribuiamo la nostra offerta in modo distintivo?  come eseguiamo le operazioni previste?

 quali sono le nostre capacità distintive?

 in che modo la nostra struttura finanziaria è distintiva?

Le risposte a queste domande hanno delle implicazioni sulla struttura dei costi,

sulle fonti dei ricavi e sugli asset utilizzati nella gestione ordinaria.64

Un altro interessante approccio al Business Model in ottica di marketing è stato fornito da Hamel, il quale ha individuato quattro elementi principali, a loro volta scomponibili in diversi sub-elementi. Come si vede dal grafico seguente, tali elementi sono collegati tra loro da dei ponti, i quali ne rappresentano le rispettive

conseguenze.65

64

Linder J., Cantrell S., 2000, op.cit.

(30)

36 Figura 7: Business Model concept. (Fonte: Hamel G., 2000)

Interessante osservare il fatto che l’autore concepisse il Business Model semplicemente come un business concept che viene messo in pratica.

Weill e Vitale hanno individuato sette componenti da osservare nel loro studio

sulle e-business: 66

 obiettivo strategico e value proposition (scelte di prodotti/servizi offerti, target da raggiungere e posizionamento di mercato)

 fonti di ricavi

 fattori critici di successo (cose che l’impresa deve saper fare bene per prosperare)

 principali competenze (da creare e sviluppare)  segmenti di consumatori

 canali distributivi (particolarmente importanti per i business on-line)  infrastruttura IT (serve a mettere in comunicazione i diversi reparti

dell’impresa tra di loro e a collegare questa con i fornitori, i consumatori e gli alleati)

Magretta, proseguendo nel suo paragone tra il racconto di una storia e la descrizione di un Business Model, ritiene che quest’ultimo sia una tra le tante variazioni possibili sulla base della catena del valore sottostante ad un determinato business. Poiché secondo lei tale catena ha due parti distinte, l’autrice ha adottato una classificazione ristretta ed estremamente semplice, tra le attività connesse al ‘fare qualcosa’ e quelle relative al ‘vendere qualcosa’.

66

(31)

37

Tra le prime si inseriscono ad esempio il design, l’acquisto di materie prime e la produzione, mentre tra le seconde si trovano la ricerca dei consumatori, le

transazioni di vendita e la distribuzione del prodotto/servizio offerto.67

Osterwalder nel suo primo lavoro del 2004 ha individuato nove blocchi riassuntivi del Business Model:

 value proposition  segmenti dei clienti  canali distributivi  relazioni con i clienti  struttura dei costi  modello dei ricavi  partnership

 configurazione di valore  capacità

Come vedremo nel paragrafo 1.5, lo stesso autore in un lavoro del 2010 confermerà l’approccio dei nove blocchi con solo due piccole variazioni.

Nel 2005 Morris propone un framework con tre differenti livelli di

decison-making, ognuno dei quali riflette un preciso scopo manageriale:68 al primo

livello, detto foundation, vengono prese generiche decisioni riguardo all’essenza del business e si pone attenzione alla sua coerenza interna; al proprietary level si sviluppano delle combinazioni uniche tra le diverse variabili decisionali in modo da ottenere un vantaggio competitivo; infine al rules level si delineano i principi direzionali e di governance in base ai quali eseguire le decisioni prese ai livelli precedenti.

Per ognuno di tali livelli sono previste sei differenti aree decisionali:

 value proposition (natura del prodotto/servizio offerto, canali distributivi)  target (consumatori da raggiungere)

 competenze interne (intese come fonti di vantaggio competitivo)

67 Magretta J., 2002, op.cit., p.4 68

(32)

38

 posizione di mercato (ricerca e mantenimento di un’unica e difendibile nicchia di mercato rispetto ai concorrenti)

 economic model (struttura dei costi, volumi e margini sulle vendite, prezzi)

 investment model (ambizioni spazio-temporali e dimensionali)

L’ultimo elemento presentato è molto interessante in quanto si focalizza su una prospettiva particolare, difficilmente analizzata da altri autori, ma estremamente rilevante per la presente analisi. Gli autori riconducono gli Investment Model a quattro tipologie principali, a seconda degli obiettivi delle imprese:

 sussistenza

 guadagno (stabile e continuativo)  crescita

 speculazione

Ai fini dell’analisi del Business Model è fondamentale definire l’Investment Model dell’impresa, in quanto esso influisce molto sulle strategie competitive perseguibili dalla stessa, sulla sua architettura, sulle risorse e le competenze

interne necessarie e sulle performance economiche.69

Il professor Kaiser nel 2008 ha stabilito quattro componenti per la costruzione di

un Business Model efficace:70

 core strategy  risorse strategiche  network di partnership  customer interface

La core strategy definisce le modalità con cui un’impresa compete ed è costituita dalla mission, dal grado di ampiezza dei mercati di sbocco dei suoi prodotti e dalle modalità con cui si differenzia dai suoi concorrenti.

Le risorse strategiche comprendono le competenze principali e gli asset strategici posseduti dall’impresa, dalla cui combinazione essa costruisce un vantaggio competitivo sostenibile.

69 Morris M. et al, 2005, op.cit., p.730-731

70

Kaiser U., A Primer in Entrepreneurship, Institute for Strategy and Business Economics, Università di Zurigo, 2008, p.16 e seguenti

(33)

39

Un’impresa raramente possiede al suo interno tutte le risorse che le servono per svolgere le attività necessarie a sviluppare la sua mission, dunque si inserisce in un network di partnership, rivolgendosi a dei fornitori e stipulando accordi con altre società, accollandosi spesso notevoli rischi.

L’ultimo elemento, ovvero la customer interface, dipende molto dalla scelta fatta dall’impresa riguardo al modo in cui competere e comprende il target di mercato, le modalità con cui si tenta di raggiungere quest’ultimo e la politica dei prezzi. Nel 2009 il Boston Consulting Group (BCG) ha individuato sei elementi in cui

scomporre il Business Model:71

 segmenti target di clienti  prodotto/servizio offerto  modello di ricavi

 catena del valore  modello dei costi  organizzazione

I primi tre elementi corrispondono alla value proposition e gli altri tre al modello operativo, che sono i due pilastri di un Business Model secondo lo schema del BCG.

1.2.5 Strumenti di rappresentazione del Business Model

Il primo lavoro che ha presentato una modalità di rappresentazione grafica del

Business Model è quello di Weil e Vitale,72 nel quale i due autori, nell’intento di

creare uno strumento che aiutasse nell’analisi delle iniziative di e-business, hanno sviluppato l’ “e-business model schematic”, che sottolinea gli elementi più importanti presenti in un Business Model.

71 Lindgardt Z., Reeves M., Stalk G., Deimler M. S., Business Model Innovation. When the Game Gets

Tough, Change the Game, BCG (The Boston Consulting Group), Dicembre 2009, p.1

72

(34)

40

Figura 8: rappresentazione del Business Model. (Fonte: Weill P., Vitale M. R., 2001)

Questo modello comprende l’impresa oggetto di analisi, i suoi fornitori, gli alleati, i consumatori, i flussi di prodotti, di informazioni e di soldi, i ricavi e gli altri benefici che i partecipanti ricevono. Gli autori, attraverso l’uso di questo modello, intendono mostrare la posizione di ogni impresa all’interno della catena del valore di ogni industria e le contraddizioni esistenti in un Business Model, sottolineando le competenze necessarie da acquisire e la forma organizzativa migliore per implementarlo.

L’anno successivo è stato proposto un altro modello di rappresentazione grafica da Gordjin, ma questo verrà trattato in seguito quando si parlerà dell’ontologia sviluppata da tale autore.

Il contributo di maggior rilievo su questo tema è senza dubbio quello di Casadeus-Masanell e Ricart del 2007, il quale si ispira chiaramente alla loro definizione di Business Model mostrata in precedenza.

Gli autori ritengono che vi siano due attributi fondamentali per poter operare un’efficace rappresentazione del Business Model: l’aggregazione e la scomponibilità dei suoi elementi. Il primo si riferisce alla possibilità che un insieme di decisioni differenti prese dal management, ma attinenti alla medesima

sfera decisionale, sia incorporato in una sola scelta da parte della società;73 il

secondo invece permette, a seconda degli elementi che si vogliono osservare, di analizzare singolarmente alcuni gruppi di scelte e di conseguenze che non

73 L’esempio riportato dagli autori si riferisce ad una politica di elevati incentivi monetari ai dipendenti: questi saranno calibrati in modo differente per ogni lavoratore, ma per la rappresentazione del Business Model possono essere raggruppati in un solo insieme nominato “elevati incentivi monetari”.

Figura

Figura  1:  grafico  del  crescente  interesse  verso  il  Business  Model  (Fonte:  Zott  C.,  Amit  R.,  Massa  L.,  2010, p.5)
Figura 16: la relazione  tra i concetti "business  model" e "strategia"
Figura 17: Business Model Canvas. (Fonte: Osterwalder A. Pigneur Y., 2012, p.44)

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