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Parte prima. L’imputabilità.

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Academic year: 2021

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Parte prima. L’imputabilità.

Introduzione: cenni storici.

Il concetto di imputabilità, la sua precisa delineazione, le connessioni con altri istituti di diritto sostanziale e processuale hanno rappresentato da sempre una sfida per il legislatore, per la dottrina e per la magistratura.

Inoltre, il principio secondo il quale chi è "folle", "alienato", "malato di mente"o "affetto da disturbo” debba essere considerato meno o per nulla responsabile dei propri atti, in quanto le proprie capacità di comprensione o di libera determinazione risultano compromesse, è principio d’antica data e di quasi universale accettazione.

A ben vedere, infatti, già nel diritto romano, in aderenza alla dottrina ippocratica1, i "furiosi" e i "fatui" che si fossero resi responsabili di reati, erano esenti da punizioni. La "fatuitas" era pressoché assimilabile al difetto d’intelligenza; nel "furor" si includevano, invece, tutte le forme di follia. Tra l’altro, già allora si conosceva la possibilità di un "lucido intervallo", talché se il delitto era commesso in tale intervallo non vi era sanzione. 2

Nella legislazione giustinianea si assistette all’ampliamento del vocabolario "nosografico" con l’inserimento delle categorie di "dementia", "insania", "mania", "amentia": tutte situazioni che comportavano l’impunità per l'eventuale delitto. Ferma restando l’ipotesi in cui questo fosse stato commesso nel c.d. “lucido intervallo”. In tale

1

Ippocrate (Isola di Coo, 450 a.C. ca. -370 a.C. ca.) fu un medico greco e fondatore della medicina scientifica in Grecia. Fu celeberrimo nella sua epoca, secondo quando testimoniano Platone e Aristotele. Il Corpus hippocraticum, che racchiude la dottrina ippocratica e il famoso Giuramento, è costituito da cinquanta opere divise in settantadue libri, un tempo tutte erroneamente ascritte a I.; esse invece furono redatte, per la maggior parte, tra il V e il IV sec. a.C. da vari autori. Due sono i punti chiave della dottrina ippocratica: in primis, l’organismo è considerato come sistema unitario, attraverso il richiamo del concetto greco della physis, ossia dell’insieme delle proprietà che definiscono ogni cosa. Così il corpo e lo spirito formano nell’uomo un’unità inscindibile e la malattia,

indipendentemente dall’organo interessato, è considerata unica nella sua essenza. In secundis, la dottrina degli umori: I. contraddistingue quattro umori :sangue, flegma, bile gialla e bile nera. Il primo proviene dal cuore, il secondo dal cervello, il terzo dal fegato e il quarto dalla milza. La salute è identificata con il perfetto equilibrio degli umori, di contro la malattia è identificata con il loro squilibrio. Questo squilibrio è ascritto a fattori legati alle intemperie: la dieta,i miasmi, le stagioni, il clima. Scopo della terapia è ristabilire l’equilibrio, e per farlo il medico deve soltanto assecondare la vis medicatrix del corpo, che ha in se i mezzi per guarire. Cfr. Dizionario di Medicina, Treccani, 2010.

2

Per le notizie storiche siamo largamente debitori a: Fornari (1987/a); Fornari (1989/b); Marchetti (1990). A costoro si rinvia per più diffuse informazioni.

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periodo, anche gli intensi gradi delle passioni erano considerati atti ad escludere la responsabilità, e l'ubriachezza "derubricava" il reato da doloso a colposo.

Per quel che attiene al Mondo Romano, i malati di mente furono considerati penalmente responsabili solo nel periodo che vide in vigore il diritto penale germanico; tale diritto, infatti, avendo riguardo esclusivo all'elemento oggettivo del danno, non si curava dell'elemento soggettivo.

L'attenzione all'elemento soggettivo del reato non sarà mai deposta invece dalla Chiesa: il Corpus Iuris Canonici pubblicato nel 1500 escludeva l'imputabilità per coloro “cui facessero difetto il discernimento e la volontà libera”, vale a dire i dementi e i furiosi, comprendendosi anche le situazioni di furore improvviso e transitorio. Per giunta, nel diritto canonico, si assimilavano alle malattie mentali anche la febbre violenta, il sonno, il sonnambulismo, l'ira subitanea e il dolore intenso, in quanto appunto suscettibili di incidere sulla consapevolezza e sulla libertà dell'azione. Per gli stessi motivi si escludeva l’imputabilità anche nell’ipotesi d’ubriachezza. Occorre tener presente, tuttavia, che tali disposizioni non trovarono applicazione nel periodo dell'Inquisizione, in cui considerazioni di politica criminale prevalsero; ed essendo la malattia mentale punita con la messa al rogo, poiché considerata effetto di stregoneria o di influenza diabolica, poco importò che i folli fossero o meno responsabili.

Sempre nel corso del XVI sec, precisamente nel 1532 la lex Carolina di Carlo V, imperatore del Sacro Romano Impero, primo tentativo di sistemazione del diritto penale, dichiarava immune da pena il furioso e l’infante.

Si era iniziato, intanto, a consultare i medici: Johann Weyer, nel VI secolo, è considerato il primo psichiatra medico-legale 3; Paolo Zacchia, medico pontificio, è reputato il fondatore della psicopatologia forense italiana (allora "psicologia forense") con le sue Questiones medico-legales della prima metà del XVII secolo. Costui, tra l'altro, descrive i malati con delirio parziale, e distingue tra forme d’origine organica, d’origine psichica, di natura reattiva4

. Riporta Babayan, nel suo “Aspetti legali della

3

Marchetti M., Cenni storici di psichiatria forense, in: Ferracuti F.(a cura di), Trattato di Criminologia, Medicina

Criminologica e Psichiatria Forense, Vol.13: Psichiatria forense generale e penale, Giuffrè, Milano, 1990, pg. 1

4

Fornari U., Improvviso furore, coscienza e volontà dell'atto: storia di un concetto, Rivista sperimentale di freniatria

medicina legale delle alienazioni mentali, Vol. CXI, Fasc. VI, pg. 1325, 1987/b.

Ibid. Marchetti M., Cenni storici di psichiatria forense, in: Ferracuti F.(a cura di), Trattato di Criminologia,

Medicina Criminologica e Psichiatria Forense, Vol.13: Psichiatria forense generale e penale, Giuffrè, Milano,

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psichiatria nella legislazione sovietica”5

, che un documento russo del 1760 attesta che

un truffatore, visitato da tre medici che ne riconobbero l'infermità mentale ("è malinconico per natura, ed il suo caso rientra nella malattia detta ipocondria") al posto della pena fu inviato in un monastero. In realtà, bisognerà poi aspettare a lungo prima che i medici siano accolti senza o con poco sospetto nei tribunali, come testimonierà la storia dei rapporti fra psichiatria e giustizia, illustrata da Foucault per la Francia, e da Fornari e Rosso (1986) anche per il nostro Paese. Senza dubbio, in ogni caso, il 1700 e l’Illuminismo rappresentano un momento fondamentale anche per le tematiche relative all’imputabilità. In tale secolo, è difatti collocata la nascita della psichiatria moderna, tradizionalmente ricondotta a Philip Pinel.6 Il medico francese si propose di curare i pazienti psichiatrici gravi, e non solo di custodirli; teorizzò importanti elementi terapeutici, come la costruzione di un rapporto personale con il malato mediante i colloqui; e, nel suo Trattato medico-filosofico sull’alienazione mentale, del 1801, classificò, in base a lesioni organiche, malattie mentali come la melanconia ( delirio parziale), la mania (delirio generalizzato), la demenza (indebolimento intellettuale generalizzato), l’idiotismo (mancanza totale delle funzioni intellettive). Egli coniò anche il concetto di follia parziale7in relazione a quei malati che seguivano percorsi di ragionamento “normali” in quasi tutte le manifestazioni della loro vita, eccetto in alcuni specifici settori compromessi dalla malattia. Il concetto di follia parziale fu poi ulteriormente elaborato da Esquirol8 e dal suo allievo Georget J.E.9, il quale teorizzò la

5

Cfr. Babayan E.A., Aspetti legali della psichiatria nella legislazione sovietica, in: Ferracuti F. (a cura di), Trattato di Criminologia, Medicina Criminologica e Psichiatria Forense, Vol. 13: Psichiatria forense generale e penale, Giuffrè, Milano, 1990, pg. 241.

6

Cfr. Dawan D., I nuovi confini dell’imputabilità nel processo penale, in Teoria e Pratica del diritto, Giuffrè Editore,2006 ,pg.12. e Surace G.M.P, Il delitto d’impeto. Scenari psicopatologici, criminologici e forensi sul crimine efferato da impulso irresistibile. Rubbettino Editore, 2005, pg. 19.

7 Ibi. Dawan D., I nuovi confini dell’imputabilità nel processo penale, in Teoria e Pratica del diritto, Giuffrè

Editore,2006. per una più ampia ricostruzione storica, cfr. Fornari U., Monomania Omicida, Torino, 1997,pg31 ss.; Marchetti M.Breve storia della psichiatria forense, in Riv. it.med.leg..,1986 pg 346, Focault M., Storia della follia

nell’età classica.,Milano,1987.

8

Ibid. nota 6.

9

Allievo di Esquirol. All’opera del 1826 di Georget si deve la prima, effettiva, impostazione medico-legale, criminologia e psichiatrico forense. Cfr Dawan D., I nuovi confini dell’imputabilità nel processo penale, in Teoria e Pratica del diritto, Giuffrè Editore,2006.

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follia parziale come movente esclusivo del crimine, non necessariamente coinvolgente ogni aspetto della condotta del reo; aprendo, così, nuovi profili di problematicità in seno alla tematica dell’imputabilità.10 All’inizio dell’Ottocento, si cominciò così ad ipotizzare che il malato di mente potesse essere considerato non responsabile di reati da lui non voluti ma dovuti, invece, alla sua malattia e si cominciò, in particolare a parlare di monomania omicida11intesa come una follia parziale che travolge la capacità di autocontrollo. Si aprì quindi la strada alla possibilità che l’omicidio potesse essere “scusato” anche quando fosse indotto da un vizio di mente diverso dalla demenza.

In questo nostro breve excursus non si può non richiamare Le Code Napoléon del 1810. Codice che informerà tutta la codificazione europea del XIX secolo. Come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, esso costituisce, con il suo articolo 64, una normativa di riferimento costante per la legislazione italiana, pre e post unitaria, in merito all'imputabilità.

Per ciò che attiene al Nostro Paese, dopo il raggiungimento dell'Unità, il Regno d'Italia è volto a conseguire l'uniformità normativa su tutto il territorio nazionale anche nel campo della giustizia criminale (impresa che si concluderà quasi vent'anni dopo), e molto si dibatte su tali questioni, avendo riguardo anche per la tradizione giuridica dei precedenti Stati italici, ispirati per la maggior parte proprio al già citato Code Pénal

Napoleonico (con l’eccezione del Granducato di Toscana). In questo contesto, ancor

prima del delinearsi dello scontro fra “scuole”, e poi con maggiore forza dal momento in cui Enrico Ferri dà corpo e voce all'orientamento positivista, facendo, contestualmente, compattare gli esponenti di quella che più tardi sarà definita Scuola Classica, numerosi autori discutono e analizzano argomenti fondamentali come l'esistenza o meno del libero arbitrio e delle patologie che escludono o diminuiscono le capacità intellettive e volitive di un individuo.

L’ obiettivo è quello di esaminare le ripercussioni di simili concetti nell'ambito penale, le eventuali influenze esercitate sul diritto di punire dello Stato, sugli scopi che

10

Cfr. Dawan D., I nuovi confini dell’imputabilità nel processo penale, in Teoria e Pratica del diritto, Giuffrè Editore,2006, pg 13.

11

Fornari u., Monomania omicida, cit. Quella che allora era chiamata monomania omicida oggi potrebbe assumere il nome di discontrollo episodico della personalità. Cfr. Dawan D. I nuovi confini dell’imputabilità nel processo penale, pg.13.

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quest'ultimo si prefigge e soprattutto sul modo migliore per formulare il dettato di quel codice unitario che si cercava faticosamente di elaborare. La riflessione sulla dogmatica giuridica va, in quegli anni, di pari passo con l’attenzione per le nuove scoperte medico-scientifiche, come emerge anche dal fatto che a formare le commissioni che per venti anni modellarono la codificazione, furono chiamati esponenti di punta non solo della cultura giuridica ma anche scientifica e universitaria.

Una volta completato ed entrato in vigore il codice Zanardelli, che presenta numerose modifiche rispetto alla normativa previgente, è sulla pratica giudiziaria - in particolare sulle problematiche connesse al processo per giurati - che si concentra l'attenzione della dottrina e, in generale, degli operatori del diritto.

Anche il Codice Zanardelli, peraltro, fu oggetto di profonde critiche ed ebbe vita breve, almeno rispetto all'attuale. Un primo progetto di nuovo Codice Penale, ispirato ai principi positivistici, fu redatto, nel 1921 ,da una commissione presieduta da Ferri, ma non ebbe buona sorte. Trovò invece attuazione il progetto realizzato da una commissione ministeriale istituita nel 1925, che elaborò l'attuale Codice Penale che, prende il nome dal Guardasigilli dell'epoca, Arturo Rocco,esponente della Scuola Tecnico-Giuridica, i cui principi furono trasposti nelle nuove norme, pur con qualche concessione alla Scuola Positiva.12

Nelle pagine seguenti saranno analizzati dal punto di vista dei lavori legislativi, dei contributi dottrinali e del materiale giurisprudenziale, alcuni aspetti della nozione di imputabilità, in particolare quello del vizio totale o parziale di mente considerato come causa scriminante, per restituire ad uno sguardo moderno le numerose sfaccettature di questo istituto così come si presentava in Italia nel periodo a cavallo dei secoli XIX e XX.

12 Cfr. Carrieri, Greco, Catanesi in: Canepa G., Marugo M.I. (a cura di), Imputabilità e trattamento del malato di

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1. Cenni storici: dai codici preunitari al codice Zanardelli.

Come si è accennato nel paragrafo precedente, il principale modello di riferimento per le codificazioni penali preunitarie presenti sul territorio italiano è stato il Code Pénal del 1810, in vigore in molta parte della Penisola a partire dal 1811.

Per quanto riguarda l'istituto dell’imputabilità e delle cause che possono escluderla, tale codice prevedeva, all'articolo 64 che“Non vi é né crimine né delitto quando l'imputato

era in stato di demenza al tempo dell’azione o quando vi è stato costretto da una forza alla quale non ha potuto resistere”13. L’articolo reca un chiaro riferimento alla dottrina di Georget, in particolar modo al principio secondo cui il delitto è sintomo di patologia mentale qualora da esso l’autore non ricavi alcun vantaggio.14

Per interpretare il termine demenza ed operare un confronto tra il principio delineato dall’articolo e la fattispecie concreta vennero presi in considerazione non solo autorevoli pareri risalenti alla prima metà del secolo, ma anche le teorie dei più innovativi medici legali, che ebbero un ruolo da protagonisti nelle aule giudiziarie francesi di quel periodo.

Dal confronto delle opinioni espresse all’epoca dagli esperti, ricaviamo l'ambito di applicazione della parola dèmence: in essa si vollero includere le due forme principali di malattia mentale, cioè l'idiotismo e la follia; quest'ultima, a sua volta, suddivisa in demenza vera e propria, mania con delirio e mania senza delirio o monomania. Venne specificato che tale stato di infermità mentale non doveva essere totale, non era perciò necessario che coincidesse con una completa perdita di intelligenza, in modo da includere anche stati patologici quali il sonnambulismo ed i cosiddetti “lucidi intervalli”. Appaiono evidenti gli influssi della psichiatria, francese, dell'epoca, in particolare nel concetto di monomania di Esquirol e Georget.

Per quanto riguarda il riferimento ad una forza a cui non si è potuto resistere, si desume dai lavori preparatori del Code Pénal Napoléon che tale locuzione indicava unicamente la coercizione, cioè un intervento sull'agente, esterno e di tipo fisico, non era quindi

13 Article 64: “ Il n'y a ni crime ni délit lorsque le prévenu était in état de démence au temps de l'action, ou lorsq'il a

été contraint par une force a laquelle il n'a pu résister”.

14

Secondo la dottrina di G.,infatti, ogni azione umana è volta all’ottenimento di un vantaggio, il quale può esere lecito o illecito, oppure perseguito in modo lecito o illecito. Cfr. Dawan D., I nuovi confini dell’imputabilità nel

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riconducibile alla previsione dell'art.64 la spinta emotiva prodotta dagli affetti e dalle passioni.

Nei lavori preparatori si chiarisce, inoltre, che l'azione è imputabile solo quando vi è il concorso simultaneo di cognizione, volontà e libertà, e che: "E' demente colui che soffre

una privazione di ragione; che non conosce la verità; che ignora se ciò che fa sia bene o male; e che non può affatto adempiere i doveri più ordinari della vita civile. Un uomo posto in questo stato è un corpo che ha soltanto figura e ombra di uomo; il suo reato è tutto fisico, poiché moralmente non esiste nulla" (cit. da: Fornari, 1989/a). Una

concezione certamente ristretta.

L’eco e l’influsso del Code Pénal furono avvertiti in diverse zone del continente europeo: in particolare il codice austriaco, quello prussiano e buona parte dei codici preunitari italiani recepirono il principio di imputabilità espresso nell’articolo 64, procedendo così, senza definire un proprio concetto di imputabilità, ad enucleare semplicemente le cause di esclusione della stessa. 15

In area austriaca, ad esempio, già il Codice Penale Universale del 1803 prevedeva al §2, lettera a), il principio generale secondo cui le azioni o omissioni di chi è totalmente privo dell'uso della ragione non possono venire imputate come reato, essendo esclusa la prava intenzione (a sua volta composta da un momento di deliberazione ed uno di determinazione), e annoverava tra le cause che eliminano la volontà di compiere il delitto la “forza insuperabile” ( §2, lettera e). Il successivo Codice del 1852, tra l’altro in vigore anche nei territori del Lombardo - Veneto, pur ricalcando al §2 la precedente normativa del 1803, rinuncia all'elenco tassativo preferendo una disposizione dal tono più generale e che al contempo affianca alla follia totale quella saltuaria (rimangono comunque imputabili le azioni commesse nei lucidi intervalli) e la forza insuperabile. Dopo la Restaurazione, all'esempio francese si uniformarono le Leggi Penali del Codice

per lo Regno delle due Sicilie del 1819, che all'articolo 6116 ricalcano il Code Pénal, ma con due novità di rilievo:

15

Come evidenzia Dawan nel suo testo, anche i maggiori codici penali europei varati o riformati nella seconda metà del ‘900 non dedicano una definizione autonoma al concetto di imputabilità: così è per il c.p. spagnolo del 1973, il c.p. austriaco del 1974 e il c.p. francese del 1992. Cfr. Dawan D., I nuovi confini dell’imputabilità nel processo

penale, in Teoria e Pratica del diritto, Giuffrè Editore,2006, pg 14.

16 Articolo 61: “Non esiste reato, quando colui che lo ha commesso, era nello stato di demenza o di furore nel tempo

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In primo luogo, al caso tipico della demenza, si aggiunge quello del furore, che trasforma gli uomini in “istromenti atti a nuocere”, quasi posti “fuori dalla sfera

dell'ordine sociale” 17.

In secondo luogo, la forza irresistibile trova un’autonoma collocazione nell'articolo successivo (Art. 62“Non esiste reato, quando colui che lo ha commesso, vi è stato

costretto da una forza cui non ha potuto resistere”), in modo da separare con maggiore

chiarezza le categorie di scriminanti in base alla diversa origine: come evidenzia Canofari, infatti, questa norma presuppone che sull'agente sia stata esercitata violenza, cioè “una forza esterna che malgrado il dissenso della volontà […] trascina verso la

sua direzione”.18

Nella Codificazione penale per il ducato di Parma, Piacenza e Guastalla del 1820, in particolare dall’analisi dell’articolo 62 di tale codificazione, traspare l'intento del legislatore di precisare l'area di applicazione delle cause di non imputabilità. Questo intento è reso evidente, innanzi tutto, dall'aggiunta di un ulteriore stato di mente rilevante, ottenuto attraverso la scomposizione della demenza in due tipologie: imbecillità e pazzia. Sulla stessa riga si colloca la qualificazione del furore come morboso, per rimarcare l'origine patologica della causa. Inoltre la costrizione che spinge a compiere l'azione criminosa “nonostante il dissenso della […] volontà”, è posta in un separato alinea e si ribadisce che la sua provenienza deve essere esterna rispetto al soggetto agente.

In aggiunta, è introdotta una distinta normativa per i casi in cui la portata delle circostanze succitate non sia tale da escludere totalmente l'imputabilità; il codice contempla, infatti, anche l'ipotesi che: "Allorché la pazzia, l'imbecillità, il furore o la

forza non fossero giusta il retto e fondato giudizio dei Tribunali a quel grado da rendere non imputabile affatto l'azione, potrà questa tuttavia essere punita, secondo le circostanze de' casi, colla prigionia o colla custodia in casa di correzione". Ipotesi che

fu analogamente prevista anche dal Codice di Sardegna e da quello estense (Fornari, 1989/a). Previsioni che delineano, in maniera seppur embrionale, il "vizio parziale" di mente.

17 Canofari, Commentario, cit., pag.159. 18 Cit. Canofari, Commentario, cit., pag.168.

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Sulle innovazioni apportate in tale ambito dal Codice Penale parmense scriverà negli anni avvenire, tra gli altri, Pellegrino Rossi, che evidenzierà come questa codificazione presenti una “moderazione relativa” rispetto al modello rappresentato dal Code Pénal19

. I Regolamenti penali di Papa Gregorio XVI per lo Stato Pontificio, entrati in vigore nel 1832, invece, si limitano a utilizzare la generale nozione di pazzia all'articolo 26, senza ulteriori rimandi a delle specifiche figure di disturbo mentale; accogliendo però la distinzione tra malanno transitorio e affezione permanente, in ossequio alla secolare attenzione prestata dalla Chiesa allo studio ed alla classificazione dei diversi gradi di intenzionalità dell'agente al momento del delitto.20

Nel panorama delle numerose legislazioni vigenti all’epoca nella Penisola, le normative in vigore nel Regno di Sardegna e nel Granducato di Toscana rappresentarono gli ideali punti di partenza da cui mossero i lavori per l’unificazione del diritto penale sul territorio nazionale.

Per quel che attiene al Regno di Sardegna, nel 1839 viene approvato il Codice per il

Regno di Sardegna che si rifaceva al Code Pénal, ma teneva presente anche il lavoro

svolto nel ducato di Parma: pertanto, all'art. 9921 , accoglieva la triplice indicazione degli stati scriminanti, includendo, però, nella stessa disposizione anche la forza irresistibile; che, privata dell’aggettivazione di“esterna”, diveniva idonea ad includere le spinte passionali, interne al soggetto.

La formula che più rimane impressa nelle menti dei legislatori unitari, tuttavia, e che, come vedremo, a lungo farà discutere nelle varie commissioni, è quella del Codice del

Granducato di Toscana del 1853.

Questa normativa presentava un’ innovazione notevole rispetto alla tradizione di matrice francese:utilizzava una formulazione generale per individuare i due elementi soggettivi in assenza dei quali non può parlarsi di imputabilità di una azione delittuosa, ossia la coscienza dei propri atti e la libertà di elezione22. Una scelta che, se da un lato

19

Cfr.Pellegrino Rossi, Trattato di diritto penale, Napoli, 1896, 22

20

Art. 26: Non sono da imputarsi a delitto le commissioni ed omissioni contrarie alla legge §1 se seguirono nello

stato di pazzia saltuaria nel tempo dell'alienazione di mente, e nel tempo di pazzia continua [...]

21

Art.99 “Non vi ha reato se l'imputato trovavasi in istato di assoluta imbecillità, di pazzia o di morboso furore

quando commise l'azione, ovvero vi fu costretto da una forza alla quale non poté resistere”, Codice penale per gli stati di S. M il Re di Sardegna (Ristampa anastatica), con presentazione di Sergio Vinciguerra e Mario Da Passano,

Padova, Cedam, 1993.

22

Art.34 “Le violazioni della legge penale non sono imputabili, quando chi le commise non ebbe coscienza de' suoi

atti, e libertà di elezione”. Per un'analisi dell'articolo e dell'influenza che ha avuto su questa definizione il § 71 del

Codice del Baden, si veda Sergio Vinciguerra, Fonti culturali ed eredità del codice penale toscano, in Codice penale pel Granducato di Toscana (1853) – ristampa anastatica, Padova, Cedam, 1995, pag.CLXVII.

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fu lodata per la sua tecnicità e per la capacità di superare gli inconvenienti di una troppo rigida enumerazione, dall’altro generò dei profondi dubbi sul versante applicativo: il timore di affidare a giurie “incolte” tale definizione è, difatti, un tema ricorrente nella dottrina di quegli anni.

Alla vigilia dell'unificazione politica del Paese, il Parlamento, con la Legge del 25 Aprile del 185923, affidò al Governo del Re “poteri straordinari”.

In virtù dei quali, nei mesi successivi, il governo varò importanti riforme istituzionali, come ad esempio la riforma del contenzioso amministrativo e la riforma elettorale, senza la partecipazione e il controllo delle Camere. Nell’ambito di questo programma di riforma, furono promulgati con i Regi Decreti nr. 3783; 3784 e 3786 del 20 novembre 1859, rispettivamente il nuovo Codice Penale, il Codice di Procedura Penale e il

Codice di Procedura Civile.

Il nuovo codice penale entrò in vigore nel 1860. Tale codice, tuttavia, almeno in relazione all’argomento de quo, anziché muovere dalla più avanzata produzione toscana, si rifà in modo palese alla legislazione sarda di vent’anni prima, e al precedente francese.

In effetti, l’articolo 64, con l'elenco delle tre scriminanti ed il riferimento alla forza irresistibile, ripropone fedelmente l’articolo 99 del Codice Albertino.

Tale articolo fu, però, riscritto in occasione dell’estensione del codice alle Province napoletane, avvenuta nel 1861, con una formulazione che appare decisamente più innovativa: “Non vi è reato se l'imputato nel tempo in cui l'azione fu eseguita, trovavasi

in istato di privazione di mente, permanente o transitoria, derivante da qualunque causa., ovvero vi fu tratto da una forza alla quale non poté resistere”.

Come si evince dalla lettera dell’articolo, permane il riferimento ad una forza irresistibile, accanto alla quale però, scompare l’enumerazione delle varie affezioni psico-fisiche, sostituita e racchiusa nella locuzione generale di “privazione di mente”; espressione ulteriormente dilatata nel suo ambito di applicazione dalla precisazione che essa possa derivare “da qualunque causa” ed essere sia permanente che transitoria. Appare, a questo punto, opportuno sottolineare che, nel nuovo codice penale trovò spazio anche la previsione dell’articolo 95 del Codice Albertino24

: “Allorché la pazzia,

l'imbecillità, il furore o la forza non si riconoscessero a tal grado da rendere non

23 L n.3347 del 25 aprile 1859 24

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imputabile affatto l'azione, i Giudici applicheranno all'imputato, secondo le circostanze dei casi, la pena del carcere estensibile anche ad anni dieci, o quella della custodia, estensibile anche ad anni venti". Previsione che, come abbiamo già accennato in

precedenza, delineano, seppur in maniera embrionale, il "vizio parziale" di mente.

1.1 Cenni storici: il Codice Zanardelli.

La sostanziale estensione del Codice Penale Sardo al resto del Regno d’Italia non sopì, in realtà, l’esigenza di una codificazione penale che fosse nazionale. Si aprì un ventennio di dibattiti, commissioni e proposte, in cui la tradizione codicistica preunitaria, fin qui tratteggiata, fece sentire tutta la sua influenza; e che portò alla stesura di quello che sarebbe stato il primo codice penale d’Italia. Dopo un iniziale fitto dibattito, dominato da dispute relative alla pena di morte, sull’ opportunità di estendere al Granducato di Toscana il Codice sardo, nel 1864 si ebbe il primo progetto di Codice. Tale progetto, limitato invero al solo primo libro, fu promosso dal Ministro di Grazia e Giustizia Giuseppe Pisanelli e fu elaborato da Giovanni De Falco. Negli anni successivi si susseguirono diverse commissioni ministeriali deputate alla realizzazione del codice, i cui risultati confluirono in due progetti: il primo, in due libri, fu presentato alle camere nel 1868, il secondo fu invece presentato nel 1870.

Da questi primi tentativi, passarono altri tredici anni e innumerevoli commissioni prima di approdare al progetto definitivo che prenderà il nome da Zanardelli, un ritardo da imputarsi alle maggiori difficoltà di completare l'iter legislativo ordinario e all’instabilità politica che caratterizzò quegl’anni. 25

25

Nominato Guardasigilli, il De Falco promosse, nel 1873,un nuovo progetto in due Libri, che, a causa delle sue dimissioni, non fu presentato alle Camere. Nel 1874, giunseall’esame del Senato il progetto del nuovo ministro, Paolo Onorato Vigliani che, approvato nel maggio 1875, non poté essere trasmesso alla Camera a causa della crisi che, nel 1876, portò un cambio di governo. Il Guardasigilli subentrato in carica,Pasquale Stanislao Mancini, adottò comunque il progetto Vigliani e, dopo averne affidata la revisione ad una commissione di alto profilo intellettuale lo sottopose all’esame delle assemblee legislative: noto come Progetto Mancini, il testo, limitatamente al Libro primo, fu approvato dalla Camera nel 1877. Proseguivano nel contempo, i lavori per un nuovo progetto. Tuttavia, i lavori si interruppero per le dimissioni del Mancini, alla fine del 1877. Nel 1883 Giuseppe Zanardelli assunse l’incarico di redigere un nuovo progetto integrale di Codice penale, ma, cessato dall’incarico, spettò al successore Bernardino Giannuzzi Savelli presentarlo alla Camera, in novembre. Giunto alla guida del dicastero della Giustizia, Enrico Pessina aggiunse a questo testo alcune altre modifiche. Dal solco di questi testi si discostò invece il progetto del 1886 ad opera del ministro Diego Tajani, che prevedeva un autonomo terzo Libro per le contravvenzioni. Ma ne fu redatto solo il primo Libro.

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Nell'ambito dell'istituto dell'imputabilità e della scriminante per vizio di mente, pur nella varietà delle formule proposte nel corso del tempo, vi sono delle tematiche che rimangono costanti e si riscontrano sia nei verbali dei dibattiti parlamentari26 che negli scritti dottrinali pubblicati dagli stessi protagonisti.

Un dato costante che si registra nelle reazioni dei diversi commissari è l'ammirazione per la formula toscana. In effetti, riscontriamo diversi riferimenti positivi, in particolare all'articolo 34 del Codice del Granducato non solo, nelle parole del ministro Vigliani, che tentò di riprodurre,almeno in parte, la formula, ma anche in quelle di altri commissari, come ad esempio Buccellati (che propone di adottare la formula toscana durante i lavori della commissione ministeriale sul progetto del 1876-1877), Carrara, De Falco, Tolomei, Panettoni, ed ancora Faranda, Arabia e Nocito (in sede di Commissione Reale di revisione del Codice Zanardelli).

La dottrina riconobbe l'elevato valore tecnico dell’enunciato toscano e i vantaggi prodotti da una definizione generale, a discapito di un'enumerazione di casi specifici, che rischia di non riuscire a rimanere al passo con i progressi scientifici, e di risultare carente di fronte ad un fenomeno con molteplici manifestazioni.

Tuttavia, una parte della dottrina e dei tecnici chiamati in causa, evidenziò in più occasioni, profonde perplessità circa l’efficacia pratica di un formulazione generale, soprattutto in virtù del proposito di applicazione al territorio dell'intera penisola. Ciò giacché alcune zone della Penisola erano ritenute notevolmente “arretrate” dal punto di vista giuridico: in particolare, traspare un consistente scetticismo nei confronti della giuria, e ciò spinge a ricercar formule più semplici e più precise, piuttosto che fare affidamento su nozioni troppo tecniche come quella del codice Granducale, che si ritenevano di troppa difficile comprensione e applicazione per le giurie del resto del Paese.

Rientrato al dicastero della giustizia, Zanardelli presentò alla Camera, il 22 novembre 1887, il progetto del Codice penale. Nel corso dei mesi seguenti, il testo venne sottoposto a discussione in Aula ed affidato dalla stessa Assemblea allo studio di una commissione presieduta da P.S. Mancini. Emerse, nel contempo, la proposta di non affrontare alla Camera la votazione articolo per articolo, ma di delegare al governo eventuali correzioni. Dopo un’aspra discussione, la legge delega, nel giugno 1888, fu approvata ed il testo passò al Senato, che, verificatane l’opportunità, autorizzò il governo ad apportate le modifiche necessarie e a pubblicarlo. Una commissione, presieduta dallo stesso Zanardelli, si occupò di formulare modificazioni, tra le quali alcune suggerite a suo tempo dal Parlamento: il testo definitivo,con una relazione del Guardasigilli, fu presentato al re nel giugno 1889. Umberto I lo firmò il 30 giugno 1889 ed il Codice penale entrò in vigore nel Regno il I° gennaio 1890.

26

Baldassarre Paoli, Esposizione storica e scientifica dei lavori di preparazione del Codice penale italiano dal 1866

al 1884, Firenze, Niccolai, 1884-1885, Vol.I, pag.97 e ss;

Giulio Crivellari, Il codice penale per il Regno d'Italia: approvato dal R. decreto 30 giugno 1889, con effetto dal 1

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A titolo esemplificativo, si possono richiamare le parole di Francesco Faranda, il quale parlò di difficoltà insormontabili per raggiungere una formula condivisa sull'imputabilità ricollegando, tali difficoltà proprio alla presenza dei giurati, che egli definì un “cancro che rode sino il sentimento della giustizia”, e ritenendoli soggetti, in assoluto, impreparati ad affrontare il loro compito e le nozioni giuridiche, poiché “la

scienza sarà sempre aristocratica, e che la Giuria non capisce né questa né altra massima o precetto nel quale bisogna risalire a' più ardui problemi di diritto”.

Di contro, anche questa posizione fu oggetto di aspre critiche, soprattutto da quella parte della dottrina che riteneva che un codice penale dovesse essere formulato semplicemente con “un linguaggio chiaro, esatto ed intellegibile a tutti […] senza

alcuna preoccupazione della istituzione dei giurati” 27

, e ispirandosi ai principi di giustizia.

Altro elemento comune ai vari progetti, si riscontra rispetto alle scelte lessicali compiute; dove si evince il ricorso a termini molto ampi come “stato” o aggettivi come “tale”, “qualsivoglia” e “qualsiasi” (come, ad esempio, nei progetti datati 1868 38 , 1876 39 , 1877 40 ), che se da un lato, rendono scarsamente precisa la norma 41 , dall'altro permettono un ampio livello di discrezionalità in fase interpretativa, con ricadute negative sul fronte della certezza.

Nel maggio del 1876, ad esempio, in occasione dei lavori della Commissione ministeriale sul progetto della Camera dei deputati, Buccellati, Brusa, Casorati e lo stesso ministro Mancini presentarono un’istanza esprimendo il dubbio se mantenere o meno i riferimenti allo stato di infermità o morbosità nel timore di causare dei dubbi ai giurati, che avrebbero potuto attribuire all'espressione un significato più ristretto rispetto a quello legale e scientifico: in tal modo si giunse a redigere l'articolo 61, che, appunto, fa riferimento ad un generico “stato” in grado di togliere la coscienza di delinquere. Il progetto così predisposto venne inviato alle magistrature del Regno per sollecitarne analisi e osservazioni, ma dai pareri di molte corti, come ad esempio quelle di Napoli, Messina, Parma e Modena, emerse, al contrario, la richiesta di inserire nella norma un riferimento espresso all'infermità: ritenendolo il solo modo in cui porre un freno all'ingresso delle passioni delittuose nella sfera delle cause scriminanti.

27

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Nel tentativo di superare i punti deboli delle passate formulazioni, si propose di collegare al riferimento generale sullo stato di mente l'esistenza di determinati effetti, comportanti o la soppressione dell’intelletto o l’esclusione della libertà di agire. Recuperando, in tal modo le nozioni della formula toscana, ma al contempo, collegandone gli effetti scriminanti alla necessaria presenza di uno stato patologico. Giunti a questo punto, la discussione si concentrò principalmente sulla c.d. forza

irresistibile, produttrice della mancanza di libertà: espressione con cui si faceva

riferimento ad un concetto controverso,cioè alla famosa “libertà di elezione” e alla questione del libero arbitrio, che proprio in quegli anni era oggetto delle critiche di Enrico Ferri e della nascente Scuola Positiva. Questione che, entrò così nelle aule parlamentari, ove si assistette a diversi tentativi di eliminare dal testo del codice alcuni riferimenti ai principi cardine della Scuola classica, in favore di disposizioni più vicine alle posizioni positiviste.

Tra l’altro, anche rispetto alla c.d. forza irresistibile, si ripresentarono i timori di affidare la valutazione all’istituto del giurì, e furono ripresentate le istanze perché si escludessero gli stati passionali dal catalogo delle scriminanti. D'altra parte, gli stessi trattati di medicina28 spesso avvaloravano nell'opinione pubblica “profana” e tra i giuristi l'idea che impulsi e stati d'animo incontrollati fossero sintomi certi di una patologia.

Molti commissari, suggerendo delle formule alternative a quelle dei progetti, si dissero persino convinti che fosse un errore ricorrere a termini dell’ambito medico per individuare una causa generale di non imputabilità.

Anche se, come si vedrà in seguito, una soluzione soddisfacente e definitiva non sarà trovata nemmeno con la nuova legislazione, con conseguenti difficoltà per la pratica giurisprudenziale collegata all'imputabilità anche negli anni successivi all'entrata in vigore del Codice Zanardelli. Rispetto a questo codice, si riscontra un'adesione più convinta alla locuzione scelta, forse perché si avvertì il bisogno di raggiungere un punto fermo, decidendo di concentrare l'attenzione non sulla causa morbosa, ma sugli effetti che questa deve produrre, limitandosi, quindi, al riferimento ad una più duttile

28 Cit.

Ancora negli anni '70 dell'Ottocento, per esempio, viene citata dai medici (ad esempio nelle pagine di Giuseppe Gianelli) la classificazione delle malattie mentali fornita da Pinel nel suo Trattato, in cui “atti di

stravaganza o di furore”, “disorganizzazione morale”, “attività turbolenta o forsennata”, “orgoglio spinto all'eccesso”, “tristezza profonda e concentrata” sono tutte possibili manifestazioni di una alienazione mentale (di malinconia o di mania), Philippe Pinel, La mania – Trattato medico filosofico sull'alienazione morale, a cura di Francesco Fonte Basso e Sergio Moravia, Venezia, Marislio Editori, 1987, pag. 97 e ss.

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“infermità di mente”, che lascia spazio anche al senso comune di giurati e magistrati togati senza chiudere ad alcuna teoria scientifica particolare, così come auspicato tra gli altri, da Lucchini. Nella sua Relazione davanti al Senato, il ministro spiegò in modo analitico il significato che doveva essere attribuito alle singole parole, in modo da fugare i dubbi sorti in riferimento all'espressione, e fornendo contemporaneamente delle preziose linee guida per la successiva pratica giudiziaria.

2. Dibattito dottrinale: Il libero arbitrio e la definizione dell'imputabilità

penale.

La posizione di Carrara e Pessina.

Abbiamo già accennato, nel precedente paragrafo, al fatto che la realizzazione del codice Zanardelli fu accompagnata da un fervido dibattito dottrinale, incentrato prevalentemente sul tema del libero arbitrio e della cosiddetta forza irresistibile. Dibattito in cui si fronteggiarono essenzialmente due posizioni: quella della Scuola Classica del diritto caratterizzata da una visione razionale del reato; basata sul principio del libero arbitrio, cioè sulla convinzione dell’assoluta facoltà dell’uomo di autodeterminarsi secondo una libera e totale scelta della propria volontà; e che considera il reato “violazione cosciente e volontaria del comando penale”, frutto di una valutazione del soggetto in termini di costi e benefici, e la pena necessariamente proporzionata al reato, afflittiva, personale, determinata e inderogabile.

A questa si contrappone la posizione assunta dalla nascente scuola Positiva che, assumendo quale principio cardine di tutti i fenomeni fisici e psichici il principio di causalità, riteneva il reato un fenomeno naturale e sociale, prodotto non da una scelta libera e responsabile del soggetto, ma da un triplice ordine di cause: antropologiche, fisiche e sociali, indice rivelatore di una personalità socialmente pericolosa. Per cui il principio di responsabilità individuale deve essere sostituito da quello di responsabilità sociale, e lo scopo della pena deve essere la difesa sociale. Posizione che arrivava a

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negare la stessa categoria dell’imputabilità e la distinzione tra soggetti imputabili e soggetti non imputabili.

In questa panorama le opinioni di Francesco Carrara e Enrico Pessina, esponenti chiave della Scuola Classica, ci permettono di cogliere non solo l’essenza della posizione della suddetta scuola rispetto al tema in oggetto ma anche gli argomenti su cui la dottrina fece leva per resistere all’affermazione della Scuola Positiva.

Nel 1867 Francesco Carrara rappresentava i penalisti impegnati nella stesura del nuovo codice. Nel suo Programma29 scrive che “l'uomo soggiace alla legge penale in quanto è ente dirigibile, questa sua subiezione ha causa nel suo intelletto e nella sua volontà” 30, espressione che, in perfetta linea con il pensiero della scuola positiva, palesa quello che è il presupposto dell’imputabilità nel pensiero della Scuola Classica: il postulato del libero arbitrio. Per Carrara il primo requisito per arrivare all'imputazione civile o giuridica di un fatto ad un soggetto è che quest'ultimo non solo abbia materialmente causato l'avvenimento, ma anche che l'individuo arrivi a compiere quell'atto “con

volontà intelligente”, e ciò è possibile solo se si dà per presupposto che l'uomo sia “un essere moralmente libero”, sia quindi dotato di libero arbitrio per poter

autonomamente determinare la propria condotta.

Nel pensiero dell'autore non vi sono incertezze sul punto in questione: nell'azione delittuosa concorrono due forze, una fisica e l'altra morale, e quest'ultima a sua volta è composta da quattro requisiti: conoscenza della legge e previsione degli effetti (cosiddetto concorso dell'intelletto), libertà di eleggere e volontà di agire (cosiddetto concorso di volontà), essi assieme formano l'intenzione o, come la chiama Carrara, lo

“sforzo della volontà verso il delitto”31

. Su di essa possono però intervenire sia dei fattori che diminuiscono o azzerano la potenza intellettiva, cioè delle cause fisiologiche capaci di deteriorare o alterare le aree dell'organismo in cui ha sede l'intelligenza (tra cui l'età, il sonno, il sordomutismo e la pazzia), sia degli elementi che riducono la spontaneità volitiva dell'agente (la coazione, l'impeto delle passioni e l'ubriachezza).

29

Francesco Carrara, Programma del corso di Diritto Criminale dettato nella R. Università di Pisa, Parte Generale, Vol.I, Lucca, Tip. Giusti, 1877, §4 e ss., pag.40.

30

Carrara, Programma, cit., §12, pag.43 e §19, pag.47.

31

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Tuttavia, per l’autore, solo i primi fattori sono in grado di diventare delle scriminanti vere e proprie: egli ritiene, infatti, che “il decidere a proprio talento il fare o il non fare,

dietro i calcoli dell'intelletto”32

, essendo una “potenza astratta dell'animo”33, non può mai essere del tutto sottratta all'uomo. Può, al limite, essere “meno spontanea” quando intervengono determinati impulsi ma non scompare mai, nemmeno in presenza di una coazione morale esterna.

Egli distingue tra atto coatto e atto invito .

Mentre nel primo sono presenti nell’attore l’intenzione e l’azione, mentre l'arbitrio nella determinazione è limitato; l’atto invito, è compiuto da un soggetto che non è più agente, ma agito, in quanto sopraffatto da una forza fisica che utilizza il suo corpo come strumento. Non sono quindi presenti nell’agente né l’intenzione, né una vera azione, vi è solo una “passività innormale” (non corrispondente, tra l’altro, allo stato psichico e fisico riscontrabili in un atto involontario) che produce irresponsabilità penale. Il giurista lucchese, tuttavia, non fornisce esempi in merito alle cause che possono produrre una tale passività nell'uomo, preoccupandosi piuttosto di sottolineare l'impossibilità di sopprimere in modo totale il libero arbitrio nell'uomo.

La cosiddetta mania morale, quindi, che per definizione rappresenta solo una tendenza malvagia dell’animo dell’uomo, non va -almeno a parere di Carrara- ad intaccare il libero arbitrio e quindi, non ne diminuisce affatto la responsabilità, ma anzi accresce la temibilità sociale del soggetto. L'autore ammette che sul punto parte della scienza medica dissente, mostrandosi peraltro piuttosto scettico sulle potenzialità di tale orientamento di diffondersi con successo.

Nello stesso periodo, Enrico Pessina pubblica La libertà del volere – Prolusione al

corso di diritto penale, letta nella Regia università di Napoli il dì 20 dicembre del 1875,

in cui si propone di esaminare in maniera analitica una corrente di pensiero allora emergente, ma in grado di esercitare una grande influenza sulle basi stesse delle discipline morali e sociali ed in particolare di quella penale. Questa nuova prospettiva sulle cose “assume di essere una critica scientifica delle istituzioni appartenenti al

Diritto penale e [...] attinge le sue ispirazioni nel materialismo”34 .

32

Carrara, Programma, cit., §272, pag.216.

33

Carrara, Programma, cit., §273, pag.216.

34

Enrico Pessina, La libertà del volere – Prolusione al corso di diritto penale, in Discorsi varii, Napoli, Casa editrice napoletana, 1915, pag. 99.

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In quest’opera egli, preliminarmente, sottolinea che gli attacchi al libero arbitrio hanno alle spalle una lunga serie di precedenti, a partire dalla concezione antichissima di un Fato immutabile superiore all'uomo ed agli dei stessi; concezione poi confutata dai Pitagorici, da Socrate, Aristotele e gli Stoici. In seguito, ricorda, furono le teorie inerenti la Grazia e la predestinazione, in particolare di S. Agostino, a mettere in dubbio la possibilità dell'individuo di essere davvero libero da un condizionamento superiore, e successivamente la filosofia scolastica, e soprattutto Tommaso d'Aquino, ricondussero la dimensione trascendente, intesa come fine supremo, alla scelta -operata in modo autonomo- dell'essere umano di agire bene.

Tuttavia, per Pessina, si deve guardare con maggiore preoccupazione agli attacchi verificatisi nel XIX secolo.

Innanzitutto perché, quella che egli chiama scuola frenologica e fisiologica ha diffuso l'idea che sia possibile capire dalle condizioni dell'organo cerebrale la sede di istinti e sentimenti, oltre che i modi in cui operano il pensiero cognitivo e volitivo, riducendo così l'intelletto “ad una secrezione del cervello”35 .

In secondo luogo perché molto pericoloso è l'intento del positivismo, che aspira a

“fondare una così detta psicologia sperimentale o fisiologica dello spirito umano”, e

soprattutto propugna la necessità di abbandonare i vecchi metodi della psicologia tradizionale in favore del metodo induttivo. L'obiettivo conclamato è quello di analizzare le connessioni che intercorrono tra i moti dell'animo, i processi cognitivi e le azioni, per poter formulare delle leggi che cristallizzino tali rapporti. Scendendo nel particolare, Pessina cita l'opinione di Stuart-Mill in materia di associazione, per cui l'attività dell'uomo non è che una serie di associazioni di fenomeni, “l'uno dei quali

determina fatalmente l'altro come nel gioco delle forze naturali”; e la -presunta- libera

volontà dell'uomo non è altro che un effetto senza causa e perciò un qualcosa di misterioso che non può essere ammesso dalla scienza.

Secondo Pessina, ed, invero, l’intera Scuola Classica, accettare il determinismo, ed in particolare il modo di considerare la volontà dell'uomo che ne è alla base, significa distruggere il principio di responsabilità, che è fondamento del sistema penale. Assumendo questa prospettiva, sottolinea l’autore, la pena perde ogni funzione: dal

35

(19)

momento che l’agente non ha la possibilità di compiere una scelta differente, essa non può né costituire un deterrente né può avere alcuna funzione rieducativa del reo.

Si arriverebbe ad applicare una sanzione senza altro scopo che quello di dare l'esempio al resto del corpo sociale, ma “verso l'individuo è una violenza pura e semplice, che non

può dirsi meritata”36

. Non solo, in questo modo anche il diritto penale non avrebbe alcuna legittimità razionale, rappresenterebbe solo qualcosa la cui presenza è de facto necessaria per ottenere ordine, rinchiudendo in prigione coloro che non sono altro che vittime della Natura o dell'ambiente sociale. Questa conclusione porta l’autore a riaffermare il principio della libertà del volere.

In realtà il Pessina, pur non condividendo in toto le posizioni dei Positivisti, accetta e fa propri alcuni dei loro risultati.

Infatti egli riconosce che il volere dell'uomo non è puramente casuale, ma è mosso da motivi. Motivi che ritiene possano essere considerati “o concezioni della mente, o

appetizioni de senso, o sentimenti […], o qualche obbietto razionale come la giustizia o l'umanità”; e che per quanto influiscano sulla volontà, ad esempio fornendo uno scopo

da raggiungere, non sono in grado di distruggere l'autodeterminazione dell’individuo. Riconosce che la persona non è isolata in se stessa, ma opera in un ambiente che influenza e da cui viene influenzata, non solo nella sua componente fisica, ma anche in quella psichica. Ammette anche la possibilità che la volontà dell'uomo possa essere la “cagione accidentale” nei fenomeni sociali, così come individuata da Quételet.

Ma soprattutto Pessina fa propri gli studi del tedesco Drobisch. Nelle pagine dell'autore tedesco, infatti, i risultati costanti sono indicati come frutto di cause costanti, le quali però in alcuni casi possono essere modificate. Si spiega, inoltre, come l'uomo medio non sia altro che una astrazione matematica; che il carattere dell’uomo è costante ma non immutabile, e l'attitudine a delinquere si forma sulla base di diversi fattori. Drobisch chiarisce, però, che il fatto che si delinqua o meno dipende dalle occasioni, dalla riflessione, dall'educazione morale, e quindi non è possibile affermare con certezza ed a livello generale che la volontà di non compiere crimini sia sempre dovuta al fatto che non si è avuta l'opportunità materiale di assecondare una spinta criminale o, viceversa, che tale volontà si sia formata in modo razionale per resistere all'impulso di agire contro la legge.

36

(20)

Le pagine della prolusione si chiudono con la constatazione che, se pure il metodo scientifico-positivo ha la sua innegabile precisione non può essere utilizzato per indagare il mondo delle “realtà soprasensibili”.

Altri autori presero spunto dalle parole di Pessina, e allo stesso modo, dopo aver affermato il principio di libertà di indagine scientifica, ribadiscono la convinzione che l'applicazione della legge della causalità fisica ai meccanismi di pensiero umani non sia una base sufficiente per fondare un qualsiasi sistema di imputabilità penale37 , tale da giustificare l'applicazione di una pena. Su posizioni molto simili si pone, ad esempio, Tancredi Canonico, docente di diritto penale all'Università di Torino ed in seguito consigliere di Cassazione, oltre che Senatore del Regno; In uno scritto del 1875 analizza l'idea che “serpeggia a' di nostri nelle menti, nelle scuole, nei libri” 38 e che, se “fosse vera, cambierebbe interamente la base e il carattere del diritto penale” con

fondamentali ripercussioni sulle istituzioni e sui metodi di esercitare la giustizia criminale. L'opinione di Canonico, tuttavia, si basa sulla convinzione che esista l'anima umana, in cui si realizza l'unità di tutte le facoltà proprie della mente di un individuo, benché trovino posto in organi distinti. Le interazioni di tali capacità influiscono sullo stesso piano fisiologico e non solo in modo positivo: l'autore afferma, infatti, che

“talora è il vizio dello spirito che imprime una tendenza viziosa all'organismo”39

. Se da un lato egli condivide l’idea dell'esistenza di una influenza tra l'ambito psichico e quello biologico, dall’altro ribalta la prospettiva rispetto al credo determinista, perché è nelle debolezze e nelle tare dell'animo che spesso si annidano le cause della malattia fisica. Il reato riacquista così, nel pensiero di Canonico, la propria dimensione morale ed allo stesso tempo viene recuperato il ruolo della pena non come strumento necessario per rispondere alla giustizia violata e per emendare il reo.

Occorre tener presente che la dottrina giuridica italiana non è l'unica ad opporre resistenza al diffondersi delle concezioni positiviste: anche in Francia, ad esmpio Tissot ritiene sia un “oltraggio all'umanità”40 il voler negare che i rei possano ravvedersi, mentre in Germania Roeder qualifica questo atteggiamento come una calunnia alla

37

“Lo spirito come puro sviluppo del mondo fisico non ci pare un concetto atto a spiegare la responsabilità penale”,Filomusi Guelfi, Delle condizioni, cit., pag.6.

38

Tancredi Canonico, Il delitto e la libertà del volere: cenni, Torino, Stamp. Paravia, 1875

39

Canonico, Il delitto e la libertà del volere, pag.11.

40

Claude Joseph Tissot, Introduction philosophique à l'étude du droit pénal et de la reforme penitentiaire, Paris, 1874, Liv.IV, chap.V, §3.

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divinità, perché è un fatto reale, anche se non frequente, che vi siano dei casi in cui i criminali modificano le loro abitudini e si correggono.

Le opinioni di Lombroso e Ferri sul libero arbitrio.

A sostegno della Scuola Positiva, vi erano pensatori altrettanto illustri quali Cesare Lombroso ed Enrico Ferri.

Cesare Lombroso, che lo stesso Ferri individua come il fondatore dell’antropologia criminale41, nel suo celebre trattato L’uomo delinquente, muovendo da l'osservazione diretta, riscontri sperimentali e risultanze statistiche delineò la teoria di una “necessità del delitto”, per cui la condotta antigiuridica dipende sì da circostanze esterne, ma soprattutto dalla costituzione fisica e dall'educazione, sostenendo inoltre che una volta presentatasi nella persona questa spinta alla delinquenza, essa si rivela essere

“immedicabile”42 .

Enrico Ferri, invece, tentò una conciliazione tra le posizioni espresse dalla Scuola Classica e dal Lombroso, e, rinunciando a considerare i soggetti che partecipano al fenomeno criminoso come un’ universalità indistinta, operò una distinzione tra i cosiddetti “delinquenti incorreggibili” e i “delinquenti occasionali”43

. Giunse così a ritenere le riflessioni degli idealisti valide per i delinquenti da lui denominati “occasionali”, i cui comportamenti fuori legge non sono inevitabili, non essendo prodotti da un “difetto costituzionale” nel corpo o nell'educazione, e che perciò possono ancora essere influenzati dalla minaccia di una sanzione. Essi sono, secondo Ferri, uomini che “pur avendo in sé la predisposizione al delitto, per debolezza di senso

morale e scarsa previdenza, trovano tuttavia nell’ambiente esterno, nel corso di speciali occasioni la spinta decisiva a malfare.”44

Mentre ritenne le teorie deterministe applicabili a quegli individui che, nati con una congenita predisposizione al reato, sono privi di una qualsiasi possibilità di scegliersi un modo di vivere diverso, i quali

41

Ferri E., La scuola criminale positiva: conferenza del prof. Enrico Ferri nella Università di Napoli., Enrico Deteken Editore, pag.9

42

Cesare Lombroso, cit. L'uomo delinquente, Milano, 1876, pag.206-208.

43

Ferri E., La scuola criminale positiva: conferenza del prof. Enrico Ferri nella Università di Napoli., Enrico Deteken Editore, pag.13

44

Ferri E., La scuola criminale positiva: conferenza del prof. Enrico Ferri nella Università di Napoli., Enrico Deteken Editore, pag.13

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“trovano nell’ambiente esterno il pretesto del loro diritto”, da lui denominati, per

l'appunto, “delinquenti incorreggibili”.

Ferri, è un convinto assertore dell’ illusorietà del libero arbitrio, infatti ne La scuola

criminale positiva: conferenza del prof. Enrico Ferri nella Università di Napoli si

dichiara di negare, assieme a tutti i seguaci della Scuola Positiva, l’ammissibilità di un libero arbitrio o di una libertà morale, assoluta o limitata. Ciò soprattutto perché “il

libero arbitrio assoluto o limitato […] urta diametralmente contro due leggi universali dello stesso pensiero umano.” La prima è la legge di causalità, per cui “ogni effetto suppone una causa o un complesso di cause ed è necessariamente determinato da esse né, date quelle cause, può essere diverso da quello che è”; la seconda è la legge della

conservazione della massa di Lavoiser per cui “ Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si

trasforma” e quindi, spiega il professore “l’atto umano, che è la trasformazione di una deliberazione volitiva e questa che è la trasformazione di precedenti moti fisici esterni, non possono essere nulla di più e nulla di meno, di quanto era insito, per forza e per direzione, nei precedenti immediati. Non potrebbe quindi la volontà umana ex nihilo aggiungere o togliere nulla alla determinazione delle cause, che in un dato istante la sollecitano, la urtano, la premono, la decidono in un determinato senso, che è quindi la risultante delle varie forze presenti.”45

Come chiarisce nell’opera emblematicamente intitolata La teorica dell'imputabilità e

la negazione del libero arbitrio, la cui prima edizione risale al 1878, la necessaria

premessa al ragionamento giuridico in ambito penale, non può quindi che essere proprio l’inesistenza di una volontà libera. Che egli ritiene soltanto una costruzione teorica dell’uomo volta a spiegare le cause che producono gli atti di volontà. L’uomo sarebbe, infatti, capace di vedere soltanto l’effetto della volontà, che giudicherebbe “capriccioso ed arbitrario” proprio perché non in grado di conoscere tutti motivi che lo hanno generato, e attribuirebbe quindi al pensiero umano la caratteristica dell’autodeterminazione.

Nel pensiero di Ferri, invece, intelligenza, sentimenti ed istinti sono un unico frutto dell'attività dei centri nervosi, ogni idea è dotata di un’ impulsività che la rende materialmente percepibile: ciò che viene comunemente indicato come volontà non è

45

Cit. Ferri E., La scuola criminale positiva: conferenza del prof. Enrico Ferri nella Università di Napoli., Enrico Deteken Editore, pag.15-16.

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altro che “l'astrazione di tutti quei singoli atti impulsivi o volitivi che realizzano le idee

e le rappresentazioni” e, tutti i fenomeni psichici sono connessi in modo inscindibile,

tanto che le distinzioni formulate per differenziarli sono solo di tipo logico-ideale. Sulla base di tale considerazione è necessario ricostruire tutto l'istituto della imputabilità e quindi rivedere il concetto di responsabilità penale personale per sostituirvi un nuovo tipo di responsabilità, quella sociale: l'uomo che compie un'azione antigiuridica è chiamato a risponderne solo ed esclusivamente perché fa parte di un corpo sociale e va soggetto a pena non in vista di una futura emenda, bensì per essere curato (nei rari casi in cui questo sia possibile) o neutralizzato in quanto pericoloso.

Ad onor del vero, appare opportuno ricordare che resistenze all’affermazione delle teorie positiviste si manifestarono non solo in ambito giuridico, ma anche il campo scientifico.

Nel periodo antecedente al successo di tali teorie, i medici pur non facendo riferimento al libero arbitrio ne davano per scontata l’esistenza, e guardavano alle facoltà psichiche muovendo da una distinzione elaborata dagli psicologi, che discerneva tra intelletto ed animo. Alcuni medici avevano anche apprezzato apertamente la formulazione dell’imputabilità contenuta nell’articolo 34 della legislazione toscana (disposizione che per molti giuristi racchiude il principio del libero arbitrio) ritenendola in grado di operare un livellamento, portando “la legislazione criminale a livello dello stato attuale

della psichiatria” 46

, impedendo al legislatore di ricadere nell'erronea abitudine di ricorrere al trinomio di affezioni morbose ereditato dal codice albertino, che nei casi pratici avrebbe comportato difficoltà di coordinamento con le più moderne nomenclature e classificazioni mediche, oltre a richiedere indagini particolarmente complicate. In sostanza, il mondo della mente era visto, nell'ottica tradizionale, come un tutto unitario, e si riteneva pura apparenza il fatto che i sintomi più gravi si manifestino esclusivamente o come tare nell’intelligenza o come affezioni della volontà. È per questo motivo, almeno secondo alcuni autori, che anche nei lavori preparatori per il codice penale si sono usate espressioni che richiamano più da vicino la sfera intellettiva, al fine di far rientrare il fattore volitivo nell'ambito della locuzione della forza

46

Giuseppe Gianelli, Sulle cause fondamentali di incapacità criminale state ritenute nell'ultimo progetto di codice penale del Regno – Considerazioni, Padova, Prosperini, 1868, pag. 8: egli parla di un “felice accoppiamento delle idee espresse colle parole mancanza di coscienza de' suoi atti e di libertà di elezione”, e difende il dettato toscano rifiutato, a suo parere ingiustamente, dalle commissioni legislative del progetto del 1868 chiedendosi “fino a quando in Italia si rifiuterà la propria merce scientifica, e si preferirà la straniera”.

(24)

irresistibile. Un simile modo di procedere fu molto criticato perché il tenore letterale della norma non è facilmente ricollegabile alla così detta follia ragionante, essendo stato pensato ab origine per la sola coazione esterna, e richiede un giudizio di tipo medico-scientifico e non solo giuridico, da affidare all'autorità di pubblica sicurezza piuttosto che al giudice ordinario.

Chi fra i medici legali denunciò una eccessiva “influenza della filosofia pura sulle scuole giuridiche” fu Arrigo Tamassia, nella sua Prefazione all’edizione italiana dell’opera La responsabilità nelle malattie mentali di Maudsley47

, in cui rivendica la tecnicità medico-scientifica del giudizio su alienazione mentale e imputabilità. Per il professore pavese, il pensiero è un fatto materiale, alla cui produzione non concorre unicamente il cervello, ma tutte le diverse parti del corpo, in un meccanismo di reciproche influenze: nel caso della pazzia tali influssi vengono indicati come “molteplici alterazioni fatalmente cospiranti” 109 . È necessario perciò abbandonare le concezioni filosofiche e metafisiche inerenti l'intelligenza individuale e le sue facoltà, ottenute tramite delle speculazioni estranee a qualsiasi indagine scientifico-fisiologica sul cervello e sull'organismo, da cui non si è ricavato altro che un'immagine puramente astratta ed ideale della vita interna della persona. Questo voler sottolineare il profilo “fisico” dell'attività intellettuale umana non deve di per sé essere considerato un tentativo di disprezzare o sminuire le doti e le capacità proprie dell'uomo (e di conseguenza perturbare l'ordine prestabilito): è un dato che viene dimostrato incontrovertibilmente ed in modo oggettivo -almeno secondo Tamassia - dai risultati dell’esperienza medica.

Tra i giuristi anche Luigi Lucchini bollò come “semplicisti” i fautori della corrente positivista, rivendicando la propria autonomia da qualsivoglia Scuola di diritto penale. Lucchini fu molto duro nel giudizio verso i positivisti, infatti nel suo saggio I semplicisti

(antropologi, psicologi e sociologi) del diritto penale , egli afferma che non rimarrebbe

che un “interesse puramente accademico, starei per dire arcadico, nei riguardi

giuridici, della ostentata negazione del libero arbitrio, per la quale parmi che siasi

47 Enrico Maudsley, La risponsabilita nelle malattie mentali, Milano, Dumolard, 1875, con Prefazione di Arrigo

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inutilmente sprecato troppa carta e troppo inchiostro, massime da parte di chi [...] si pose a combattere il sentimento del libero arbitrio”48

,

Contro l'interpretazione del sistema della imputabilità penale nel Regno d'Italia così come illustrata da Ferri nei Nuovi Orizzonti , fondato sul libero arbitrio, il direttore della Rivista penale intende affermare non solo che “nel concetto pratico di imputabilità giuridica non entri per nulla il coefficiente del libero arbitrio”, ma anche che questo non viene chiamato in causa né dalla contestata formula della forza irresistibile, né dalla locuzione toscana della libertà di elezione49 . Anche se, in verità, il giurista non aderì pienamente all’idea tradizionale, preferendo qualificare il libero arbitrio come un sentimento, che per l'uomo “costituisce una speciale compiacenza” e proprio per questo non si riesce a farne a meno.

Egli si dimostrò, tra l’altro, maggiormente interessato a capire le ragioni della divergenza tra l'idea astratta e comunemente diffusa dell'imputabilità, da quella corrente nei tribunali, tanto che i dibattimenti apparivano mai volti a dimostrare la presenza del libero arbitrio nell'imputato. Lucchini giunse alla conclusione che la prima delle due nozioni è equivoca e confusa: in essa non sono nettamente separati l'ambito etico da quello giuridico, la responsabilità verso se stessi da quella verso la società. Nell'intimo della propria coscienza, infatti, ogni uomo guarda alle sue decisioni ed azioni come alle conseguenze della capacità di autodeterminarsi; il giudizio su una condotta che deve essere dato nella sfera sociale, tuttavia, non può che basarsi su elementi apprezzabili dall'esterno (rapporto di causalità tra comportamento e fatto), eventualmente

sottoponendo l'imputato a sanzioni penali nel caso in cui quest’ ultimo abbia posto in essere volontariamente le cause del reato. Sarebbe perciò più corretto, secondo Lucchini, parlare di libertà di azione, di cui la volontarietà è solo un attributo.

In merito poi alle spiegazioni che gli scienziati propongono per spiegare i processi organici grazie ai quali si forma la volontà -i riferimenti sono a Théodule-Armand Ribot-, implicanti diverse fasi complesse di interazione di organi e di forze, l'autore rispose che “nemmeno quei visionari di metafisici” hanno mai “architettato nulla di più

48

Luigi Lucchini, I semplicisti (antropologi, psicologi e sociologi) del diritto penale: saggio critico, Torino, Utet, 1886, pag.46.

49

In merito alla forza irresistibile, Lucchini afferma che si è chiamati a ricercare la causa che spinge a compiere l'azione criminosa, non ad indagare lo stato della mente o della volontà. Per ciò che riguarda la libertà di elezione toscana, invece, dato il suo carattere onnicomprensivo essa può facilmente venire interpretata come stato di necessità, legittima difesa o nel senso di una psicopatia, senza per questo chiamare in causa il libero arbitrio o prestare il fianco ad abusi da parte della difesa o dei giurati.

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