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TRADURRE BETRAYED

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Academic year: 2021

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80 CAPITOLO TERZO

TRADURRE BETRAYED

Nelle prime pagine dell‟introduzione al suo libro Dire quasi la stessa cosa, Umberto Eco si interroga su che cosa vuol dire in realtà tradurre, concludendo che ancora oggi non si è in grado si dare una riposta soddisfacente a questa domanda:

Che cosa vuol dire tradurre? La prima e consolante risposta vorrebbe essere: dire la stessa cosa in un‟altra lingua. Se non fosse che, in primo luogo, noi abbiamo molti problemi a stabilire che cosa significhi “dire la stessa cosa”, e non lo sappiamo bene per tutte quelle operazioni che chiamiamo parafrasi, definizione, spiegazione, riformulazione, per non parlare delle pretese sostituzioni sinonimiche. In secondo luogo perché, davanti a un testo da tradurre, non sappiamo quale sia la cosa. Infine, in certi casi, è persino dubbio che cosa voglia dire dire. (Eco 2003: 9)

La traduzione è quindi un processo tutt‟altro che semplice. Le cose si complicano ulteriormente nel momento in cui si tratta di tradurre testi per il teatro, quando il già di per sé arduo compito di tradurre, lo diventa ancora di più. La difficoltà deriva dalla natura complessa e ibrida del testo teatrale e del trasferimento inter o intralinguistico e intersemiotico implicato nella sua traduzione. Il traduttore opera in questo campo tra due fuochi o, per utilizzare la metafora usata da Sara Soncini, egli è “a servant of two masters.” (Soncini 2007: 271) Il passaggio intersemiotico dal testo alla performance pone al traduttore il difficile compito di operare in due sistemi contemporaneamente, verbale e gestuale, e a rivolgersi a due tipi di pubblico diversi, lettore e spettatore. A proposito dei difficili compiti del traduttore per il teatro, Alessandro Serpieri riconosce fra di essi una delle più grandi sfide, ovvero cercare di salvare più elementi possibili dell‟originale nel passaggio tra la pagina e la scena:

Ma tradurre significa interpretare un testo e riscriverlo in un‟altra lingua per un altro teatro, e quindi imparare il modo e i modi con cui far slavi – in un‟altra lingua, un‟altra cultura, un‟altra epoca – quanti più livelli possibile dell‟originale. (Serpieri 2002: 65)

La scelta di tradurre un testo come Betrayed nasce dalla sfida che offre la particolare natura ibrida del linguaggio drammatico ad una traduzione in italiano.

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81 Accingersi alla traduzione di un testo come Betrayed significa vedere la traduzione come un punto di contatto tra lingue e culture diverse, perché nel testo convivono due culture e due lingue diverse. Anche se l‟inglese assume il ruolo di lingua franca, la lingua di Betrayed è un ibrido misto tra inglese a arabo. Si tratta di una variazione linguistica di cui l‟autore si serve per mettere in evidenza non solo questa reciproca contaminazione tra le due lingue principali, ma anche per mantenere il tratto di realismo, dato che si tratta di storie vere. Sin dall‟inizio era chiaro che adottare una strategia basata sull‟addomesticamento del testo non avrebbe prodotto un risultato efficace, perché avrebbe allontanato la versione italiana dall‟intenzione che Packer ha conferito all‟originale, ovvero mantenere “the inadvertent bluntness and accidental poetry of a second language, and the intensity of life caught in a reflective pause during an extreme time.” (Packer 2008: ix)

In questo caso non potevo pretendere che la comunicazione avviene in italiano, perché l‟italiano non è la lingua franca della situazione reale, e non era neanche lecito cercare di conferirle uno status pari a quello dell‟inglese in quanto lingua universale di comunicazione. La versione italiana del testo ha la funzione di rendere accessibile il testo ad pubblico italiano, che deve comunque rimanere consapevole di trovarsi davanti ad una traduzione, adottando la convenzione che i personaggi parlano in italiano, ma il pubblico sente l‟inglese. La particolarità del testo drammatico di Betrayed consiste nell‟uso dell‟inglese che fanno i diversi rappresentanti delle due culture. Rimanendo pur sempre convinta che una traduzione deve funzionare nella lingua di arrivo nella stessa maniera in cui funziona il testo nella lingua di partenza, credo anche che in questo caso sia necessario evidenziare il fatto che siamo davanti ad una comunicazione interculturale fatta in inglese, e che la presente, è la traduzione di essa. Per questo motivo ho scelto di optare per una strategia trasparente e ho permesso che l‟inglese e l‟arabo filtrassero nel testo di arrivo. In questo caso era necessario porre l‟accento sulla particolarità dell‟inglese come seconda lingua parlato dagli interpreti, sottolineando l‟effetto straniante che a tratti produce.

Come è già stato accennato, in Betrayed il giornalista americano si serve della tecnica del verbatim per la realizzazione dei dialoghi fra i personaggi. Packer ha più volte affermato che la maggior parte dei dialoghi nel dramma provengono direttamente dalle sue interviste. Uno degli aspetti più difficili da gestire nella traduzione del testo è indubbiamente questa natura della lingua. Le due spinte opposte che deve affrontare il traduttore si esauriscono fra la scelta di naturalizzare il modo di esprimersi dei

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82 personaggi o adottare una strategia esotizzante, cercando di mantenere l‟intento originale del testo. I tratti formali che caratterizzano il particolare modo in cui si esprimono gli interpreti sta sostanzialmente nell‟uso dei proverbi iracheni che nel testo emergono come una traduzione letterale dall‟arabo in inglese. Indubbiamente, l‟effetto di straniamento è molto presente e persiste anche nella scelta della sua resa nella traduzione italiana. I proverbi sono compresi dal pubblico italiano e inglese come tratti linguistici particolari di una determinata cultura caratterizzata da una particolare provenienza linguistica. Essi vengono percepiti come deviazioni dall‟uso normale della lingua in quanto espressioni non presenti nella lingua di arrivo, e perciò estranei. Questa deviazione avvertita nelle traduzioni inglese e italiana produce un effetto straniante, ma nella lingua araba è la regola. La scelta di tradurre letteralmente anche nella trasposizione in italiano i proverbi ed espressioni arabi rischia non solo di straniare lo spettatore, ma di chiedergli uno sforzo traduttivo in più. Analizzando a fondo la psicostilistica di queste espressioni è facile concludere che sono espressioni su cui grava una forte componente emotiva, in quanto pronunciate in momenti di grande tensione, talvolta disperazione. È sostanzialmente la prova di quella schiettezza, „the inadvertent bluntness‟ di cui parla Packer.

Le problematiche che caratterizzano la trasposizione di queste espressioni in italiano risvegliano il vecchio dibattito sui possibili modi di tradurre, di cui si ricorda la dicotomia individuata da Friedrich Schleiermacher nel suo Über die verschiedenen

Methoden des Übersetzens (1813), che offre sostanzialmente due scelte: lasciare fermo

il testo di partenza avvicinando ad esso il lettore oppure lasciare fermo il lettore accostandogli il testo di partenza:

Le due vie sono talmente diverse che, imboccarne una, si deve percorrerla fino in fondo con il maggiore rigore possibile; dal tentativo di percorrerle entrambe contemporaneamente non ci si possono attendere che risultati estremamente incerti, con il rischio di smarrire completamente sia lo scrittore che il lettore […] Nel primo caso, con il suo lavoro, il traduttore è impegnato a surrogare, per il lettore, la comprensione della lingua originale, che a questi manca. […] Il secondo, invece […] evidentemente preso da tutti coloro che si servono della formula: si deve tradurre un autore così come egli stesso avrebbe scritto nella nostra lingua. (cit. in Denissova 2010: 47)

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83 Le problematiche presenti nel caso dei proverbi arabi spingono sempre di più verso la scelta di imboccare la strada dell‟esotizzazione per rendere i termini culturalmente vincolati senza contaminarli nel processo di trasferimento linguistico, assumendosi il rischio di provocare nello spettatore, nel suo tentativo di disambiguazione della metafora, un effetto di straniamento. Questa scelta, a discapito di una strategia di addomesticamento può essere definita modernizzante, perché conduce il lettore a vivere da vicino la cultura e la lingua del testo di partenza. Questo criterio è da osservare con estrema severità data l‟assoluta diversità culturale. La critica più immediata che può provocare la scelta di adottare una strategia esotizzante è quella che riguarda l‟equivalenza. Talvolta sembra una scelta meno rischiosa cercare di sostituire le espressioni con una sostituzione metaforica, che forzare la propria lingua. Percorrere la strada dell‟equivalenza è una scelta più facile e meno rischiosa, ma che va contro l‟intenzione originale dell‟opera e rischia di omologare i personaggi, adottando le loro specifiche modalità discorsive al conformismo della lingua standard. Antoine Berman è convinto che l‟equivalenza è una pratica limitante e poco fruttuosa:

To play with “equivalence” is to attack the discourse of the foreign work. Of course, a proverb may have its equivalents in other languages, but…these equivalents do not

translate it. To translate is not to search for equivalents. The desire to replace

ignores, furthermore, the existence in us of a proverb consciousness which immediately detects, in a new proverb, the brother of an authentic one: the world of our proverbs is thus augmented and enriched. (Berman 2004: 287)

Vediamo in dettaglio quali sono le espressioni che presentano maggiori difficoltà nella trasposizione in italiano. La prima sfida alla traduzione è presentata dalla frase di Laith «From the horse‟s mouth» (Packer 2008: 9), con la precisazione parentetica che Laith è amante delle frasi idiomatiche americane. Data la strategia di base adottata, un procedimento esotizzante finalizzato a riprodurre l‟effetto straniante di cui già discusso mi è sembrata l‟unica via possibile da intraprendere. Il risultato finale della frase in traduzione: «Dalla bocca del cavallo», è in grado di conferire il giusto equilibrio tra comprensione ed effetto straniante. Optare per una traduzione del tipo: «Direttamente dalla fonte», che a prima vista sembra l‟unica opzione lecita in italiano, avrebbe senz‟altro eliminato la particolarità dell‟iracheno che si esprime in inglese.

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84 Un altro caso presenta l‟uso di un proverbio iracheno letteralmente tradotto da Laith in inglese. Si tratta di «We‟re blowing in a punctured bag.» (Packer 2008: 57) Avendo optato per una strategia esotizzante volta a mantenere la natura ibrida dell‟originale, tradurre con: «Stiamo combattendo contro i mulini a vento», volendo così rendere l‟accingersi a un‟impresa inutile, che nel testo è quella di trasformare i badge degli interpreti per una loro maggiore sicurezza, non avrebbe prodotto nessun risultato efficace. Dato che la frase stessa suona strano in inglese, perché è una traduzione letterale di un proverbio arabo l‟opzione di tradurre alla lettera: «Stiamo soffiando in una busta bucata», si è rivelata quella più adatta.

Altri esempi simili tradotti letteralmente per la stessa motivazione sono: «a duoble-edged sword» (Packer 2008: 62), diventato: «lame a doppio taglio.»; «I fell in between heaven and hell» (Packer 2008: 90), tradotto: «Ero caduto tra il paradiso e l‟inferno»; «I am, how do you say it, hung out to dry» (Packer 2008: 90), reso in italiano con: «Sono, come dite voi, appeso fuori ad asciugare.»

È diverso il caso dei lessemi arabi presenti nell‟originale, che non sono stati soggetti a cambiamenti neanche nella traduzione in italiano. L‟inserimento di lessemi in arabo da parte di Packer non comporta grossi problemi a livello di comprensione. Nella maggior parte dei casi si tratta di parole che fanno parte della nostra cultura generale. In poche altre occasioni queste parole vengono subito spiegate nelle battute successive dei personaggi. Lasciandole in arabo nella versione italiana si ottiene l‟effetto che il testo originale mira ad ottenere, ovvero il desiderio di avvicinare lo spettatore a quella cultura e a quella lingua. Renderle in italiano non avrebbe prodotto nessun risultato significativo, dato che non hanno un riferimento preciso a livello culturale. Zuwaj mutea (Packer 2008: 20), ad esempio, spiegato come un matrimonio provvisorio non fornisce nessuna informazione allo spettatore italiano che gli permetta di capire meglio il significato. Lasciare queste parole in arabo nella versione italiana permette di farle diventare oggetto del dialogo fra i personaggi, in cui viene meglio specificato il significato. Nell‟esempio dello zumaj mutea, Laith è coinvolto nell‟atto di tradurre quel termine al soldato: «Laith: An imam can arrange a marriage between two people for a certain period of time. It can be as short as an hour. There is a contract, a dowry, everything.» (Packer 2008: 20) Lo stesso vale ad esempio per la parola alaasa: «Laith: They are the informants who sit all day in the street and watch for people they consider the enemy. It means „the ones who chew‟» ( Packer 2008: 8), resa in italiano con «masticatori»

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85 Un altro dei problemi traduttologici che pone il testo di Betrayed scaturisce dall‟uso costante del gergo militare. Gli acronimi di cui è caratterizzato il dramma presentano una vera e propria sfida nella trasposizione dall‟inglese in italiano, che concerne la non facile scelta tra scioglierli laddove possibile o meno. La problematica dell‟impossibile equivalenza tra le due lingue sorge nel momento in cui il linguaggio settoriale pone dei limiti non solo a livello lessicale e pragmatico, ma anche culturale. In un primo momento l‟approccio ai numerosi acronimi presenti nel testo è stato quello di privilegiare una tecnica esplicativa che garantisse la massima comprensione da parte dello spettatore. Questa prima ipotesi non prendeva in considerazione il fatto che tutti i personaggi del dramma possiedono una totale dimestichezza con questa specifica terminologia. A livello scenico gli acronimi non presentano nessun ostacolo alla comunicazione. Il problema sorge a livello extra-scenico nel momento in cui gli acronimi risultano poco comprensibili sia al pubblico che ha dimestichezza con la lingua inglese sia ad un pubblico italiano. Il gergo militare può essere definito uno dei punti di maggiore oscurità del testo, poiché conducono il traduttore su un bivio riguardo la strategia da adottare.

La decisione finale di intraprendere la strada di una strategia di compromesso, un‟ibridazione delle spinte opposte fra sciogliere gli acronimi e sostituire con il corrispettivo italiano ove possibile proviene, da un lato, dal desiderio di garantire la comprensione allo spettatore da cui già l‟autore e il testo richiedono molti sforzi traduttivi, e dall‟altro, dall‟obbligo di preservare il sistema del testo originale, affidando una buona dose di complicità funzionale all‟attivazione dei significati sulla scena. A proposito di questi problemi, Alessandro Serpieri, ricordando la sua esperienza di tradurre Amleto, fa una considerazione che mette in primo piano l‟intenzione del testo, ma che non trova efficace realizzazione riguardo alle problematiche del gergo militare in Betrayed:

[…] fu lì [tradurre Amleto]che compresi come il testo drammatico non sia mai ʺpienoʺ, come lo è un romanzo o un poema epico o una lirica, in quanto si presenta sempre come ʺvirtualeʺ: in sé completo per quanto riguarda la registrazione linguistica (sia di battute che eventualmente di didascalie) e tuttavia ellittico in quanto deve completare il suo senso o i suoi sensi, in combinazione con i codici della scena – il mimico, il gestuale, il prossemico, il cinesico, per quanto riguarda il corpo dell‟attore, e il sovrasegmentale o intonazionale, per quanto riguarda la voce e i significati supplementari che essa deve, o può, imporre alle parole scritte sulla pagina. Indicai già allora che «il testo tradotto deve sempre cercare di rimanere denso e ellittico come l‟originale, anche a costo di risultare talvolta ostico alla semplice lettura. I grumi di senso si chiariranno nell‟attivazione della parola dentro i codici

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86 scenici. Mimare le opacità della scrittura drammatica, che diventano poi punti di forza sulla scena, significa ri-produrre il sistema del testo originale. Se, invece ci si lascia tentare da parafrasi, perifrasi, aggiunte, scioglimenti, per risolvere quelle opacità già sul piano della lettura, si potrà chiarire qualche segmento, ma si infrangerà il sistema e si effettuerà una sottrazione di teatralità». (Serpieri 2002: 65-66)

Preservare il sistema del testo originale significa cercare di mantenere la natura sintetica e concisa che caratterizza i lessemi che fanno parte del gergo militare. Il comportamento del traduttore in questo caso parte, in un primo momento, da una traduzione intralinguistica, vale a dire lo scioglimento degli acronimi nella lingua originale per comprenderne meglio il significato preciso nella lingua di partenza. Il secondo passo da compiere è quello di cercare gli equivalenti diretti nella lingua di arrivo, ove possibile. Questo secondo passo impone al traduttore l‟obbligo di scogliere alcuni di essi per raggiungere un maggior grado di comprensione dato il fattore complicante della corrispondenza perfetta, che spesso non si verifica. Il rischio maggiore è un effetto straniante che può mettere a repentaglio la comprensione. Un‟aggravante della situazione rappresenta il grado di dimestichezza del pubblico con il gergo militare della propria lingua. Dato che si tratta di un linguaggio settoriale e molto specifico, raramente si verifica una familiarità totale con esso, anzi, sovente il caso è esattamente il contrario. Di seguito vengono elencati alcuni degli esempi che per esigenze funzionali ho dovuto sciogliere.

AK AK-47 Kalashnikov

RPG Rocket Propelled Grenade granata a razzo

IED Improvised Explosive Device ordigno esplosivo improvvisato

EFP Explosively Formed Projectile Proiettile a carica cava

DOD Department of Defence Ministero della Difesa

DFAC Dining Facilities Administration Center mensa

FSN Foreign Service Nation Servizio estero degli USA

FSO Foreign Service Officer Funzionario degli Affari Esteri

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87 Uno degli esempi su cui vale la pena soffermarsi è l‟acronimo RSO ( in inglese Regional Security Officer) utilizzato per designare quell‟esponente del corpo militare che nelle missioni internazionali svolge il servizio di occuparsi della sicurezza nell‟ambasciata, fornire i permessi ai diplomatici per uscire dalla Zona Verde, eseguire i test alla macchina della verità previsti per coloro che provengono dalla Zona Rossa e lavorano presso l‟ambasciata, e condurre i briefing sulla sicurezza. La traduzione di questo acronimo presenta maggiori difficoltà nella resa in italiano, poiché nelle forze armate italiane non esiste una tale figura, ed è estremamente complesso trovare il modo migliore per trasmetterlo al pubblico italiano. La strategia migliore da adottare in questo caso è quella dell‟approssimazione, rendendo l‟acronimo partendo dal ruolo principale che questa figura svolge – occuparsi della sicurezza. Alessandro Serpieri definisce una tale strategia near-letter quality, che mira a compensare il livello di perdita che inevitabilmente si verifica nel passaggio tra due lingue e due culture diverse. Il traduttore, è convinto Serpieri, deve imparare a perdere. Nella scelta di tradurre l‟acronimo con un generico «ufficiale regionale addetto alla sicurezza» ho immancabilmente perso parte del valore semantico dell‟originale, che ritengo di aver rimediato con una resa linguistica che non snatura, piuttosto ricalca l‟originale, ma comunque riesce ad eliminare o perlomeno mitigare l‟effetto straniante dell‟originale, e garantire la corretta e immediata comprensione. Qui entra in gioco la difficoltà del lavoro del traduttore, che si vede costretto a combattere la mancanza di corrispondenza perfetta tra lingua di partenza e lingua di arrivo. Già Wilhelm von Humboldt, nell‟introduzione alla sua traduzione dell‟Agamennone di Eschillo, affermava che non esiste una perfetta corrispondenza fra le varie lingue, “nessuna parola di una lingua è completamente uguale a una di un‟altra lingua.” (cit. in Denissova 2010: 48) Le lingue possono esprimere concetti simili con parole analoghe, ma non ci sarà mai un‟impeccabile parità. La stessa idea è condivisa anche da Alessandro Serpieri che conclude: “[…] ogni parola, in una lingua, ha uno spettro di significati che non corrisponde mai del tutto alla parola apparentemente equivalente delle lingua in cui si traduce.” (Serpieri 2002: 74) La strada dell‟adattamento perfetto, o quasi, sembra dunque l‟unica possibile via da percorrere in questo caso.

Un altro esempio su cui riflettere è «badge», che inizialmente avevo cercato di tradurre in più modi fra cui: distintivo, licenza. Nel testo si parla anche di «clearance» che io ho tradotto in un primo momento con «autorizzazione», scelta anche essa non definitiva. Come si capisce dal testo i badge sono legati alla clearance in modo da

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88 distinguere le varie persone che li portano e il loro livello nell‟organizzazione della sicurezza. Gli iracheni sono dotati di badge gialli, che significa che devono essere sottoposti ad un controllo ogni volta che entrano nella Zona Verde, vale a dire che sono considerati una possibile minaccia. Si tratta in realtà della cosiddetta security clearance che è un‟autorizzazione all‟accesso di informazioni riservate o segrete. Il corrispettivo italiano è il ‹nulla osta sicurezza›, brevemente NOS. Si tratta di un'abilitazione di persone, enti o società al trattamento di informazioni, documenti o materiali classificati (segreti e/o riservati). Esistono vari livelli di nulla osta, da riservato a segretissimo. La mia scelta definitiva è stata quella di lasciare invariato badge che attualmente è d‟uso comune anche in italiano (e data anche la maggiore frequenza con cui compare nel testo) e tradurre clearance come già detto – NOS, che è in linea con il linguaggio conciso e di economia del testo originale.

Oltre alle scelte traduttive richieste dal testo fino a questo momento, la presenza delle formule di cortesia presenta un altro problema nella trasposizione in italiano. Come è ben noto in inglese non esiste una chiara distinzione tra le formule di cortesia in cui You viene utilizzato sia in contesti formali che informali. In questo caso l‟italiano possiede una risorsa in più. Ci sono due scene in cui era necessario fare una scelta fra le due possibilità che offre l‟italiano – il Tu e il Lei. Nel primo caso si tratta della conversazione tra Laith e il soldato nella seconda scena. Sin dalle prime battute ho optato per la scelta del Tu. La conversazione fra i due è amichevole sin da subito. I due arrivano persino a stringersi la mano. Questa mia scelta è stata guidata soprattutto dalle osservazioni fatte da Sirkku Aaltonen e l‟analisi minuziosa effettuata sul testo di Packer, ponendo l‟accento sui cosiddetti clashes in ethics. Il primo clash, ovvero, misconception

of equality and friendship viene individuato nel caso di Laith e il suo primo approccio

per cercare lavoro all‟ambasciata, dove incontra il soldato che gli offre un lavoro insieme alla sua squadra, Gli Assassini. Laith prende questo invito come un invito d‟amicizia, di diventare uno di loro, ed è qui, e in altre due situazioni dove traspare il fraintendimento della sua posizione: “Soldier: The palace is for pussies and bureaucrats, dude. Come work with my unit, Alpha Company,the Assassins. It‟d be awesome. We do patrols, raids, checkpoints. We definitely could use some interpreters.” (Packer 2008: 17)

La conversazione procede in maniera amichevole che fa pregustare il sapore dell‟inizio di una nuova amicizia per il futuro. I due si stringono la mano e si rendono conto che è la prima volta per entrambi:

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89 Laith: I know an organization that can help him. […] Sir, do you think I could get a job in the palace?

Soldier: The palace is for pussies and bureaucrats, dude. […] What‟s your name? Laith: Abdel-Aziz.

Soldier: Whoa! Way too hard. Okay if I call you Al? Laith: Sure. What‟s your name?

Soldier: Jason.

Laith: Okay if I call you Jassim? (Packer 2008: 17)

Laith: Conosco un‟organizzazione che può aiutarlo. […] Senticapo, credi che potrei avere un lavoro nel palazzo?

Soldato: Il palazzo è roba per femminucce e burocrati, bello. […] Come ti chiami? Laith: Abdel-Aziz.

Soldato: Cosa? Troppo difficile. Va bene se ti chiamo Al? Laith: Certo. Tu come ti chiami?

Soldato: Jason.

Laith: Ci stai se ti chiamo Jassim?

È un atteggiamento che Moira Inghilleri definisce “fictive kin”, (Inghilleri 2011: 103) in cui tra interpreti e militari che lavorano insieme in zone di conflitto si sviluppa un rapporto di vicinanza e uguaglianza. Ho deciso di risolvere ‹Sir› con ‹capo› per tentare di mantenere il tono amichevole della conversazione. Laith, inoltre, si rivolge in questo modo al soldato, perché ancora non conosce il suo nome. Il soldato si dimostra subito disponibile, eliminando in questo modo la possibilità che i due si dessero del Lei.

In un‟altra occasione vediamo Laith che chiede al suo amico soldato di spegnere il riflettore che lo illumina e mette a rischio la sua vita mentre esce a fine turno. Il soldato lo rassicura e gli fa credere che è protetto in ogni momento dal resto della squadra:

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90 Laith: Sir, there is a problem maybe you can fix. This light […spot light on top of the Assassins‟ Gate] ― when I walk home my shadow shows from a very far distance. It‟s dangerous. Can you turn it off unil I go one hundred meters?

Soldier: […] Don‟t worry about it, dude, you‟re on our team. A sniper‟s got you coveredthe whole way. Guy could shoot an apple off that blast wall. (Packer 2008: 23)

Questo tipo di comportamento fa credere a Laith che i soldati lo considerino uno di loro, che il loro rapporto si basi sull‟amicizia e la fiducia, che loro lo difenderanno in ogni occasione come farebbero per uno di loro. “You‟re on our team” si rivela una squallida bugia che serve per coprire quella verità a lungo negata ‒ gli interpreti sono soggetti a rischio in ogni singolo momento e nessuno si assume la responsabilità di difendere le loro vite.

Pochi passi dopo Laith si trova faccia a faccia con la triste verità: “Laith: A few nights later I met one of the snipers. I said, “Thanks for covering me.” “What are you talking about?” “When I go out.” He started laughing. It was just a story to trick me.” (Packer 2008: 24)

E ancora nella stessa conversazione con Adnan, Laith si rende conto della lacuna che in realtà lo divide dai suoi colleghi americani: Laith: […] What could I do? Quit? There were hundreds more behind me. I was naïve, I believed the Americans wouldn‟t lie t us. We are friends, yeah, but they didn‟t trust us. That was my first shock―nobody‟s looking out for you. You are on your own. (Packer 2008: 24)

Nella seconda scena è presente un altro caso di formula di cortesia. Si tratta della conversazione (se così la si può definire) tra il soldato e la donna irachena che chiede dell‟ambasciatore. La mia scelta di adottare la forma del Tu da parte del soldato è stata motivata, in un primo momento, dal fatto che visto che la donna non parla inglese, il Tu del soldato può essere visto come un modo per cercare di avvicinarsi a lei, cercare di capirla, di abbattere almeno la barriera che potrebbe comportare una forma di cortesia troppo elaborata, e concentrarsi più sul contenuto del discorso (nella didascalia viene specificato che lui non è affatto ostile nei suoi confronti).

Nella scena diciassette Prescott ha un‟accesa discussione con l‟ufficiale regionale addetto alla sicurezza, perché si è permesso di accusare Laith di spionaggio, sottoporlo al test della macchina della verità, e successivamente scortarlo fuori dalla Zona Verde. La mia scelta è stata di effettuare un passaggio dal Lei al Tu da parte di Prescott, perché nel corso degli eventi questo personaggio subisce una conversione;

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91 Prescott esce dal suo ruolo di superiore degli interpreti e americano, e diventa loro amico. La mia scelta è stata influenzata anche dalla considerazione di Aaltonen, che individua in questo episodio un ethical turn. Si tratta delle situazioni in cui una sincera amicizia può contribuire a sormontare le barriere di rango e nazionalità. In maniera molto graduale da loro superiore Bill Prescott si trasforma in amico di Adnan e Laith, mostrando un vero interesse per il loro paese e la loro cultura, volendo, come mai prima nessun‟altro, vedere cosa c‟è fuori dalla Zona Verde. È sempre Prescott che vuole aiutare loro quando fanno la richiesta di cambiare i badge da gialli in verdi. Il passaggio dal Lei al Tu da parte di Prescott (frutto anche dello stato di rabbia e indignazione in cui si trova Prescott) è avvenuto nelle battute seguenti:

Prescott: You have no authority to do this. I‟m telling you to release him. RSO: You do your job I‟ll do mine.

Prescott: You‟re making my job impossibile. RSO: You should keep better track of your staff. […]

Prescott: I‟m going to have you investigated for this. […] You have no idea of what this office does. You have no fucking idea what these men do for us. You‟re driving out the best.

RSO: My advice? You‟re way overstressed. Take some R&R. A week in Dubai. (Packer 2008: 87-88)

Prescott: Lei non ha l‟autorità per fare questo. Le sto dicendo di lasciarlo. L’ufficiale addetto alla sicurezza: Faccia il suo lavoro, io faccio il mio. Prescott: Lei mi sta rendendo impossibile fare il mio lavoro.

L’ufficiale addetto alla sicurezza: Dovrebbe tenere più a bada il propri dipendenti.

[…]

Prescott: Ti farò indagare per questo. […] Non hai idea del lavoro che svolge questo ufficio. Non hai la più pallida idea cosa stanno facendo per noi questi uomini. Stai cacciando fuori il meglio.

L’ufficiale addetto alla sicurezza: Vuole un consiglio? Lei è molto stressato. Si conceda qualche giorno di riposo e svago. Tipo una settimana a Dubai.

Accingersi alla traduzione di Black Watch di Gregory Burke significa cimentarsi in nell‟impresa di scontrarsi con una lingua, definita da Aleks Sierz ricca di

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92 “wry humour and insistent filthiness” (Sierz 2011: 89). Ad una prima lettura è esattamente questo il tratto che emerge dalla natura del testo; oltre ad essere scritto in stretto dialetto scozzese reso anche a livello di ortografia, Black Watch è un testo caratterizzato da espressioni colloquiali e gergo militare. Questa specificità della lingua è probabilmente il problema più evidente in cui ogni traduttore individuerebbe la sua prima sfida. Il primo pensiero è sicuramente quello di riflettere se la lingua di arrivo è così ricca di dialetti e variazioni linguistiche da poter permettere una trasposizione adeguata in un dialetto o in un altro. Durante il processo di traduzione questa riflessione è stata una della prime opzioni da valutare. Devo confessare che anche se a prima vista potrebbe sembrare una scelta efficace, dato che l‟italiano presenta una vasta gamma di dialetti, tuttavia, non potevo permettermi di optare per questa decisione, perché avrei totalmente cambiato la fisionomia del testo. I dialetti italiani portano una loro specificità legata anche al territorio e alla storia della regione a cui appartengono. Non era quindi pensabile tentare di stravolgere la particolarità del dialetto scozzese, rendendolo in un qualsiasi dialetto italiano. Per riuscire a risolvere questo problema ho deciso di optare per un italiano standard, ma molto colloquiale, e per un registro basso che confini con il linguaggio adolescenziale. In questo modo sono riuscita a mantenere il linguaggio dei soldati definito da Marcia Blumberg: “raw, rough, and filled with expletives” (Blumberg 2012: 84) In quasi ogni battuta dei personaggi sono presenti espressioni come „fuck‟; „cunt‟, „prick‟ Queste esperessioni sono secondo Blumberg le fondamenta del loro linguaggio, “the most powerful words they own” (Blumberg 2012: 85) Inoltre, nel testo sono presenti alcune espressioni che richiedevano una o più letture per riuscire ad inquadrare il loro senso. Per alcune di queste espressioni mi è stato utile vedere lo spettacolo per capire che cosa di preciso intendesse il personaggio. Uno degli esempi è la terza battuta di Rossco pronunciata nella scena che si intitola Attacco suicida: ‹I‟m fucking touching cloth here› (Burke 2007: 66), che io ho tradotto: ‹Cazzo, ne ho fatta una vestita›1

Per la traduzione di questa espressione mi è stato di gran aiuto consultare il dizionario delle espressioni colloquiali. Nella stessa scena sono presenti altre due espressioni che richiedono uno sforzo traduttivo, perché potenzialmente fuorvianti se si decide di basarsi solamente sul significato standard delle parole che compongono

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1.Touch Cloth:

One usually "touches cloth" when he/she passes gas and pokes out a turtle head while their pants are still on them. Then a peice of poo then touches their underwear leaving a small stain. This is usually uncomfortable to walk around with. 2.Touch Cloth:

to be near the point of defecating in one's pants after waiting too long http://www.urbandictionary.com/define.php?term=touch%20cloth

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93 l‟espressione. Si tratta della sesta battuta di Rossco: ‹His patter‟s murder tay like› (Burke 2007: 67), tradotta: ‹Fa schiantare anche per come parla, eh›, e la terza battuta di Granty: ‹He‟ll be slavering some pish› (Burke 2007: 67), tradotta: ‹Starà sparando certe cazzate›. Dato che una definizione ben precisa di queste espressioni è piuttosto difficile da trovare nei dizionari, perché sono accostamenti di significato tipiche della lingua che dipendono molto dal contesto, nella mia traduzione ho cercato di dare il senso che meglio corrisponde alle intenzioni del personaggio. Per la traduzione della battuta di Rossco sono partita dal significato della parola ‹patter›2

per poi legarla al resto dell‟espressione, contando molto sul contesto. Ho utilizzato lo stesso procedimento per la traduzione della battuta di Granty. Mi sono basata sulla parola ‹slaver› per riuscire ad estendere il significato in senso figurativo.

Per certi aspetti, l‟uso costante del gergo militare ad esempio, il testo di Gregory Burke presenta caratteristiche simili a quelle del testo packeriano. Questa somiglianza è dovuta in parte alla tematica dei due testi che si concentra primariamente sull‟argomento della guerra in Iraq. Data questa premessa, il testo di Burke non può che essere caratterizzato da un gergo militare molto presente. In questo testo trasporta lo spettatore nel mondo della guerra in misura maggiore in confronto al testo di George Packer. Come è già stato menzionato, Black Watch offre la prospettiva dei soldati che si trovano a combattere una guerra più grande della loro portata. Il fenomeno degli acronimi persiste anche in questo testo e rappresenta una sfida nella trasposizione in italiano.

Alcuni esempi che presentano difficoltà nella trasposizione in italiano sono contenuti nella scena intitolata Pub 4. Si tratta delle battute seguenti:

Granty: We tought they would just use the fifty cal ay. They used a fucking HES round ay.

Nabsy: Fucking uranium-tipped […]

Granty: Stewarty went mental ay. He got one ay them after, what the fuck did you use a HES round for? This cunt does nay give a fuck ay. He just shrugs and goes, „Oh, we needed tay change the fucking round anyway.‟ (Burke 2007: 62)

2 patter:

The slang and the use of slang by a certain person or group of persons. Can be used in a posative or negative manner depending on the assessement of it quality in wit, humour, and mannerism. Scottish in orgin.

(15)

94 La difficoltà nella traduzione di queste battute proviene dalla presenza dell‟acronimo ‹HES – High Explosive Shell›. La decisione di sciogliere l‟acronimo è stata l‟unica strada possibile da percorrere in questo caso, perché in italiano si tratta di una granata. Io ho tradotto come segue:

Granty: Pensavamo che avrebbero usato un calibro cinquanta. Invece hanno preso una granata.

Nabsy: Con delle punte d‟uranio. […]

Granty: Stewarty ha dato di matto. Ha detto ad uno di loro: “Perché cazzo hai usato una granata?” A quel tizio non gliene poteva fregare di meno. Ha alzato le spalle e se n‟è andato: “Oh, tanto dovevamo cambiarlo quel proiettile.”

Un caso molto interessante dal punto di vista della traduzione è presente nella stessa scena:

Cammy: IED‟d the first wagon. Rossco: Mortared us.

Writer: IED?

Cammy: Improvised Explosive Device. (Burke 2007: 63)

Cammy: Un IED contro il primo carro. Rossco: Da un mortaio.

Giornalista: Sarebbe a dire?

Cammy: Ordigno esplosivo improvvisato.

Durante la prima stesura della traduzione avevo deciso di sciogliere l‟acronimo già nella prima battuta e tradurlo con il corrispettivo italiano: ordigno esplosivo improvvisato. Questa scelta si è rivelata controproducente, perché in questo modo, avendo già esplicitato il significato dell‟acronimo la domanda del giornalista non avrebbe più avuto senso. Una seconda opzione è stata quella di inventare un nuovo acronimo (ordigno esplosivo improvvisato → OEI) che non esiste in italiano, ma che sarebbe potuto essere una soluzione possibile. In questo modo la domanda del giornalista sarebbe stata più una richiesta di conferma se davvero si tratta di un ordigno

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95 esplosivo improvvisato. Questa scelta avrebbe conferito al giornalista un ruolo che in realtà in Black Watch gli viene negato. I soldati riservono al giornalista il ruolo di outsider, di uno che non conosce il loro mondo e la loro esperienza diretta. Per loro il giornalista mira a diffondere una versione stereotipata e non corrispondente alla verità sulla vita del soldato. A questo proposito Marcia Blumberg è convinta che: “This criticism of the playwright reminds both the character and the audience that outsiders cannot know the reality of the situation without firsthand experience.” (Blumberg 2012: 84) All‟inizio della pièce Cammy afferma che di solito le persone hanno una loro idea riguardo chi la guerra l‟ha vissuta: “See, I think people‟s minds are usually made up about you if you were in the army.” (Burke 2007: 3) Il ruolo di outsider del giornalista doveva rimanere presente anche a livello linguistico. Lui non solo non ha nessuna idea cosa significhi far parte di una guerra, ma non conosce neanche il gergo militare. Per questo motivo ho deciso di lasciare invariato l‟acronimo inglese e rafforzare l‟effetto di straniamento che l‟acronimo ha sul giornalista, e rende motivata anche la sua domanda.

L‟esperienza di tradurre questi due testi è stata una vera e propria sfida per più di un motivo. Tradurre significa non solo cercare di dire „quasi la stessa cosa‟ in un‟altra lingua come dice Umberto Eco, ma è prima di tutto riflessione sulle intenzioni che l‟autore vuole conferire al testo, e sul bagaglio di significati che si scoprono ogni volta che il testo viene visto in un‟ottica più vasta e lo si inserisce in un contesto storico. Tradurre per il teatro non è come tradurre testi di narrativa o testi poetici. Per Susanna Basso tradurre è “un espediente di privilegiato isolamento” (Basso 2010: 4) Ma quando si traduce per la scena non si è completamente soli. Il pensiero di tradurre per uno spettatore e non per un lettore rende il processo di traduzione un atto di creatività e attiva l‟immaginazione.

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