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Capitolo 5. Un cambio di prospettiva

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Capitolo 5. Un cambio di prospettiva

Un primo approccio positivo nei confronti della wilderness ebbe inizio nelle città ad opera di letterati; sarebbe stato molto improbabile che il pioniere con la scure in mano avesse potuto dar vita a un cambiamento radicale. Il romanticismo, in Europa, affrancò la wilderness dai caratteri di ripugnanza e luogo sinistro che le erano stati attribuiti, ma il rovesciamento di prospettiva non fu immediato: la conquista di un atteggiamento favorevole nei confronti della natura selvaggia fu un percorso graduale, tanto che gli stessi uomini di lettere trovarono difficile, soprattutto al principio, rigettare in maniera netta l’idea predominante.

Il processo fu facilitato dall’accomunamento di Dio alla natura e, quindi, alla wilderness. L’origine di ciò deve essere individuata in alcuni asserti fondamentali

dell’illuminismo, come le conoscenze astronomiche e fisiche1. La scienza, talvolta

facendo le veci della credenza religiosa, parlò al mondo intero della vastità, dell’armonia e della bellezza dell’universo in cui viviamo, rafforzando, d’altronde, l’idea che esso non potesse essere che il frutto di volontà divina: il risultato fu un cambio d’atteggiamento straordinario nei riguardi della wilderness. Ad ogni modo, già nel 1681, il teologo inglese Thomas Burnet (1635-1715), in The Sacred Theory of the Earth, si serve delle proprie conoscenze religiose per tentare di fornire una spiegazione di come le montagne non possano essere null’altro se non opera di Dio, addirittura la

sua stessa immagine e rappresentazione terrena2. I territori aspri e non ancora

colonizzati iniziarono a essere intesi come la dimora di Dio e non più come quella di Satana; il nuovo pensiero fornisce una chiave per tuffarsi nella scoperta della bellezza della wilderness.

Il nuovo sentimento trova una sua espressione preliminare in Edmund Burke (1729-1797), che, in A Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful (1757), riprende la categoria estetica del sublime, già oggetto di studio nella Grecia antica, contribuendo all’eliminazione di quella credenza secolare secondo cui il bello della natura è riscontrabile solo se questa si lega a lavori antropici, come l’agricoltura o l’ordine del giardinaggio. Il sublime parte, invece, dal presupposto

1

M. Hope Nicolson, Mountain Gloom and Mountain Glory: The Development of the Aesthetics of the

Infinite, Seattle (WA), University of Washington Press, 1997, pp. 185-186.

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che l’innegabile paura e senso d’impotenza provati di fronte alla natura non sono un peso, ma un giubilo, da cui il sublime trae origine. Burke definisce il sublime con le seguenti parole: “Whatever […] excite[s] the ideas of pain and danger, that is to say, whatever is in any sort terrible, or is conversant about terrible objects, or operates in a manner analogous to terror, is a source of the sublime; that is, […] the strongest emotion which the mind is capable of feeling. […] the ideas of pain are much more powerful

than those which enter on the part of pleasure”3. Ma il dolore, il pericolo, il terrore, tutte

prove che la wilderness impone spietatamente, sono ugualmente affascinanti. Immanuel Kant (1724-1804), in Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime (1763), giunge ad affermare che “La visione di un monte le cui cime innevate si elevano sopra le nuvole, la descrizione dell’infuriare di una tempesta […] suscitano un piacere misto a

terrore […]”4

. Se ne evince che le manifestazioni più spaventose della natura, come le burrasche, mostrano all’uomo la sua piccolezza nei confronti della magnificenza della natura, manifestazione di Dio, e quindi la grandezza di questi. Il sublime fu il punto di partenza che favorì l’associazione fra la wilderness e Dio.

Fenomeno non meno importante, il deismo sosteneva che la via da seguire per conoscere Dio, l’unico creatore, fosse l’uso della ragione e l’osservazione della natura, che, in quanto pura, è dimora di Dio; grazie a quest’accomunamento, le verità dello spirito possono emergere dalle terre inabitate, poiché nelle città il lavoro antropico aveva ormai nascosto la presenza divina. A fianco del sublime, il deismo collaborò all’inversione di marcia, tanto che, a partire dalla metà del XVIII secolo, fu possibile

accostare la wilderness alla bellezza e all’essenza di Dio5.

La natura selvaggia divenne anche il luogo prediletto del romanticismo, i cui principi trovarono in seguito terreno fertile nelle lande americane, dove l’uomo romantico poteva sperimentare quanto insito nella sua anima. Alla base del romanticismo, il primitivismo sosteneva che la felicità e il benessere dell’uomo fossero indirettamente proporzionali al suo grado di civilizzazione; tale idealizzazione riteneva possibile per popolazioni di epoche precedenti o che non avessero raggiunto un alto livello di sviluppo tecnologico la conduzione di una vita tanto semplice quanto gioiosa. Non fu un caso, dunque, che molti europei iniziarono a fare lunghi viaggi in America,

3

E. Burke, A Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful, Oxford, Basil Blackwell, 1987, p. 39.

4

I. Kant, Beobachtungen über das Gefühl des Schönen und Erhabenen, trad. it. di L. Novati,

Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, Milano, BUR, 1989, p. 80.

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allo scopo di immergersi in lande selvagge e sperimentarne la bellezza e il potere;

questo cambiamento si manifestò tanto fra i pionieri, quanto fra gli agrimensori6.

5.1 Dall’Europa all’America

L’entusiasmo per la wilderness ebbe alla base, dunque, romanticismo, deismo e sublime, in Europa come in America, dove scrittori e artisti in generale, scienziati, ma anche pionieri, adottano un punto di vista antitetico ed evoluto rispetto ai paradigmi precedenti. Uno dei primi e più interessanti personaggi a farsi portatore di tale interpretazione dell’ambiente vergine fu William Byrd II (1674-1744), fondatore di Richmond, attuale capitale della Virginia, il quale riporta che, durante gli avanzamenti da parte della sua squadra di pionieri, questi gioivano nel dormire all’aperto, a contatto con la natura, anche durante le soste sui freddi monti Appalachi, la cui bellezza verrà celebrata negli scritti di Byrd: “The truth of it is, we took so much pleasure in that natural kind of login that I think at the foot of the account mankind are great losers by

the luxury of the feather beds and warm apartments”7. È esattamente in questo che fu

un pioniere: a differenza della maggior parte dei colonizzatori a lui contemporanei, egli aveva familiarità con le nuove convenzioni estetiche riguardo la natura, che lo condussero a instaurare con essa un rapporto non di conquistatore-conquistato, ma di equilibrio. Pertanto la wilderness divenne, in quanto opera gloriosa di Dio, un fenomeno da studiare e osservare con reverenza.

Fra il 1773 e il 1777, il grande botanico ed esploratore William Bartram (1739-1823) intraprese una serie di viaggi nell’ancora inesplorato sud-est degli Stati Uniti, allo scopo di studiarne flora e fauna, oltre che stabilire contatti con le popolazioni native. Ecco alcune descrizioni significative dei tanti paesaggi cui si trovò di fronte:

6

Per un approfondimento, si vedano R. Nash, Wilderness and the American Mind, cit., pp. 49-66, e, soprattutto, i capitoli da 14 a 18 di Graham Clarke (ed.), The American Landscape, Vol. I, Mountfield, Helm Information, 1993, pp. 187-362.

7

W. Byrd II, History of the Dividing Line betwixt Virginia and North Carolina Run in the Year of Our

Lord 1728, in Louis Booker Wright (ed.), The Prose Works of Willaim Byrd of Westover, Cambridge

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[…] the top of the Oconee mountain, where I rested; and turning about, found that I was now in a very elevated situation, from whence I enjoyed a view inexpressibly magnificent and comprehensive. The mountainous wilderness which I had lately traversed, down to the region of Augusta, appearing regularly undulated as the great ocean after a tempest; the undulations gradually depressing, yet perfectly regular, as the squamæ of fish or imbrications of tile on a roof. The nearest ground to me [was] of a perfect full green, next more glacous, and lastly almost blue as the ether with which the most distant curve of the horizon seems to be blended8.

How happily situated is this retired spot of earth! What an Elysium it is! Where the wandering Seminole, the naked red warrior, […] reclines and reposes under the odoriferous shades of Zanthoxylon […]; Liberty and Muses inspiring him with wisdom and valor, whilst the balmy zephyrs fan him to sleep.

Seduced by these sublime, enchanting scenes of primitive nature and these visions of terrestrial happiness, I had roved far away from Cedar Point but, awakening to my cares, I turned about and in the evening regained our camp9.

Estratti come questi mettono in risalto il carattere sublime della wilderness; e per Bartram, come anche per molti europei, il sublime della natura doveva essere associato con Dio. Mentre la prima rappresentazione paesaggistica va poco al di là del mero descrittivismo, della seconda ci colpisce la schiettezza con cui, brevemente, la sponda sud del lago George (Florida) e il paesaggio circostante vengono paragonati ai

campi elisi. È inoltre evidente la celebrazione del primitivismo dei Seminole10; il

guerriero indigeno viene ricordato come saggio, in virtù della vita di libertà che conduce e delle muse che lo ispirano, tanto che, quando arriva il momento di addormentarsi, viene cullato dalla brezza dello zefiro, sottolineando un legame inscindibile con gli elementi della natura. Si noti la potenza della scena creata dell’accostamento di “sublime, enchanting scenes” e “visions of terrestrial happiness”, tutte parole in grado di coinvolgere emotivamente il lettore, al fine di farlo riflettere sulle qualità supreme della natura.

8

W. Bartram, “A Journey from Fort Prince George to the Valley of the Little Tennessee River, and the Great Trail Across Alabama”, in Helen Gere Cruickshank (ed.), John and William Bartram’s America:

Selections from the Writings of the Early American Naturalists, Garden City, New York (NY), Anchor

Books Doubleday & Company, 1961, p. 117.

9

Ibidem, pp. 174-175.

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Bartram, come Byrd, era attratto dall’essenzialità del primitivismo romantico,

poiché vedeva in esso la possibilità di una vita pacifica11. Si ebbe dunque una sorta di

periodo di transizione, in cui si mantennero vive più visioni della wilderness: il prevalere iniziale di quella negativa venne affiancato da quella positiva; tanto che ambedue si videro costrette a coesistere, fino a quando, dopo un processo lungo e travagliato, la visione positiva prevalse. Fra il 1780 e il 1785 lo spirito americano era

pronto a vivere in completa armonia con la wilderness12.

In questo lasso di tempo, figura di notevole rilievo è Philip Morin Freneau (1752-1832), che con gusto preromantico esaltò la natura in “The Wild Honeysuckle” (1786); questa poesia ebbe anche una certa influenza sui protagonisti del trascendentalismo, Ralph Waldo Emerson (1803-1882) e Thoreau.

Fair flower, that dost so comely grow, Hid in this silent, dull retreat,

Untouched thy honied blossoms blow, Unseen thy little branches greet:

No roving foot shall crush thee here, No busy hand provoke a tear.

By Nature’s self in white arrayed, She bade thee shun the vulgar eye, And planted here the guardian shade, And sent soft waters murmuring by;

Thus quietly thy summer goes, Thy days declining to repose.

Smit with those charms, that must decay, I grieve to see your future doom;

They died – nor were those flowers more gay, The flowers that did in Eden bloom;

Unpitying frosts, and Autumn’s power Shall leave no vestige of this flower.

11

R. Nash, Wilderness and the American Mind, cit., p. 55.

12

Cfr. M. E. Woolley, “The Development of the Love of Romantic Scenery in America”, in The

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From morning suns and evening dews At first thy little being came:

If nothing once, you nothing lose, For when you die you are the same;

The space between, is but an hour, The frail duration of a flower13.

I versi seguono la vita di una madreselva, di cui il poeta si fa difensore, affermando che la vita del fiore è stabilita dalla natura, e che l’uomo non possiede alcun diritto di deciderne la sorte. Il poeta dichiara il suo amore alla madreselva, qui da intendersi come sineddoche della natura; pertanto l’amore manifestato è rivolto a tutta la natura, che permette la felice nascita del fiore, fornendogli ombra e acqua nel silenzio della wilderness, lontano dagli insediamenti umani, dove nessun passante distratto né le mani violente ne minacceranno la bellezza e la nobile esistenza. Freneau pone l’accento sul fatto che il luogo isolato, così come l’ombra che fa da guardia alla pianta, sono parte del disegno della natura. Nel veloce scorrere della poesia, emerge il paragone fra la vita e la morte del fiore e il destino umano; poiché l’esistenza di entrambi è “declining to repose”, si evidenzia un inevitabile legame fra il fiore, e quindi la natura tutta, e l’essere umano.

Freneau insiste sulla preminenza morale della vita nelle foreste sulla vita snaturata condotta nelle città; sostenitore del mito del “buon selvaggio”, egli elevò gli indiani d’America a degni rappresentanti del primitivismo, in quanto individui pacifici e in grado di vivere in sintonia con la natura. Ma per Freneau la natura al di là della frontiera non era solo il luogo in cui proiettare l’io, ma l’ambiente ideale, viste le enormi risorse del territorio, in cui far sorgere una società nuova, nella quale sarebbero

state abolite povertà e ingiustizie14.

Il romanticismo arriva in America tramite l’Inghilterra, relativamente tardi. La poesia “To a Waterfowl” (1818) di William Cullen Bryant (1794-1878) si colloca agli albori del movimento letterario; qui il poeta s’interroga sulle forze che spingono

l’uccello a volare. Ben presto, si rende conto che “There is a Power”15 ad accompagnare

13

P. M. Freneau “The Wild Honey Suckle”, in Sculley Bradley et al. (eds), The American Tradition in

Literature, vol. I, cit., p. 362.

14

M. Curti, The Growth of American Thought, New York (NY), Harper & Row, 1964, pp. 165-166.

15

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i movimento in aria dell’animale. Non appena esso sparisce dal campo visivo del poeta, questi prova sicurezza e sollievo al sapere che lo sbatter d’ali è nelle mani di una forza divina. Bryant avverte anche una forte fiducia dell’uccello nei suoi confronti, il che rafforza la sua fede, consapevole che Dio guida sia l’animale che il poeta. Esiste un legame indissolubile fra la propria persona e l’animale, e, dunque, la natura tutta:

He who, from zone to zone,

Guides through the boundless sky the certain flight In the long way that I must tread alone,

Will lead my steps aright16.

Con la diffusione del romanticismo, l’apprezzamento della wilderness divenne un topos letterario consolidato. Prendere coscienza del territorio equivaleva a prendere coscienza di se stessi, attraverso un’esplorazione tanto geografica quanto fisico-psicologica. Trovare gli strumenti atti alla sopravvivenza fisica significava anche trovare un linguaggio letterario adatto a esprimere lo stupore suscitato dall’impatto col territorio: la natura venne dunque riconosciuta come una ricchezza vitale per l’essere umano, parte del suo mondo interiore.

5.2 Una nuova wilderness

Mentre il romanticismo stava contribuendo a creare una cultura positiva della wilderness, incitando il singolo a viverla appieno, a percepirla come un luogo in cui ricongiungersi col proprio io, la lotta dei coloni americani per l’indipendenza dal Regno di Gran Bretagna dette vita a una seconda ondata di entusiasmo. La motivazione primaria che giustificava l’indipendenza fu, ovviamente, il desiderio di libertà politica ed economica, che avrebbe reso il popolo americano autonomo, nuovo, più forte, “americano” per l’appunto. Fino agli anni Settanta del XVIII secolo, la cultura americana era essenzialmente una cultura riflessa, che immagazzinava alquanto

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passivamente il tipicamente europeo, rielaborandolo solo parzialmente. Basandosi sul presupposto romantico e sul deismo, la wilderness fu elevata a elemento prezioso americano da parte dei nazionalisti, addirittura fino a divenire, dalla metà del XIX secolo, la risorsa culturale e morale alla base dell’autostima nazionale. La fine della guerra d’indipendenza americana (1783) coincise con la volontà da parte del popolo americano di esplorare la wilderness, poiché la civiltà trovava lì le sue radici; non vi era possibilità di comprendersi e conoscersi, se non a partire da essa. Il cittadino americano si rese ben presto conto che lo splendore della nuova nazione non risiedeva nella sua cultura, bensì nella wilderness, percepita come superiore e insuperabile per bellezza e varietà morfologica. E se, come molti pensavano in quel momento, la wilderness era la manifestazione dello splendore divino, allora l’America partiva con un cospicuo

vantaggio sull’Europa, ove la colonizzazione era cominciata ben prima17. La natura

americana, ricca di montagne, laghi e fiumi, si prestava perfettamente alle descrizioni romantiche di paesaggi mozzafiato.

Lo stesso Bryant, ritiratosi nei boschi alla ricerca della pace perpetua, ha contribuito, attraverso l’espressione letteraria, a rendere indipendente la cultura americana, con la trattazione di tematiche originali, legate alla wilderness e al romanticismo. Per quanto la maggior parte dei suoi lavori siano considerati di qualità mediocre, alcune sue fatiche minori, come “A Forest Hymn” (1824), restituiscono un’immagine della natura piena di energia morale e significati religiosi: “The groves

were God’s first temples”18 si legge nel primo verso dell’inno. In questa poesia di

Bryant, la natura è maestra di vita, poiché

Ere man learned

To hew the shaft, and lay the architrave, And spread the roof above them19;

ma anche madre, giacché permette al poeta di osservare che tutte le sue sfaccettature sono la prova della compiutezza e della persistenza della creazione:

17

Cfr. R. Nash, Wilderness and the American Mind, cit., pp. 67-69.

18

W. C. Bryant, “A Forest Hymn”, v. 1, in The American Tradition in Literature, vol. I, cit., p. 477.

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My heart is awed within me when I think Of the great miracle that still goes on, In silence, round me-the perpetual work Of thy creation, finished, yet renewed Forever. Written on thy works I read The lesson of thy own eternity20.

Una visione incentrata più sul rispetto che sulla spiritualità della natura è quella che si riscontra in James Fenimore Cooper (1789-1851), che divenne un eroe letterario nazionale con la pubblicazione di The Pioneers (1832), in cui l’azione è dominata e determinata dall’ambiente naturale; qui e negli altri testi di The Leatherstocking Tales, lo scrittore si occupa dell’avanzare della civilizzazione, non mostrando mai di fatto la wilderness come un ostacolo da conquistare; al contrario, ne esalta la bellezza e ne parla come di un luogo d’assoluto valore morale, in cui è possibile vivere le più eccitanti avventure. Il personaggio più famoso di Cooper, Natty Bumpoo, diviene il pioniere ideale e portavoce del romanticismo legato al sublime e al carattere sacro della wilderness, nella cui solitudine egli si trasferisce dalla città, dove non è possibile ravvisare la mano di Dio. L’ammirazione della wilderness si alternò, in Cooper, alla consapevolezza del primato della civilizzazione nei confronti della natura selvaggia. Veder sparire quanto di più bello vi fosse al mondo fu per Cooper una tragedia, ma una tragedia necessaria. La civiltà era inarrestabile. Città e campagna, cultura e natura dovevano coesistere: non si trattava più di registrare una dicotomia, ma di creare una

convivenza armoniosa di due mondi da sempre divergenti21.

20

Ibidem, vv. 69-74, p. 479.

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