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1. INTRODUZIONE 1.1. Fattori che influiscono sulla produttività del vigneto

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1. INTRODUZIONE

1.1. Fattori che influiscono sulla produttività del vigneto

Il risultato produttivo del vigneto è frutto di complesse interazioni tra i fattori ambientali (terreno e clima) e le tecniche colturali (varietà, sesti d’impianto, forme d’allevamento, ecc.) (Maccarrone, 1993). In proposito riportiamo la Fig.1 che propone alcune delle interazioni tra i fattori della produzione.

Fig.1- Interazione fra i diversi fattori della produzione della vite (Fregoni, 1999).

Quantità Qualità

Clima Tecnica Terreno

colturale Lavorazione Irrigazione Concimazione Allevamento del ceppo Frangiventi Vitigno nostrano portinnesto Umidità Fertilità fisico-chimica Piogge Caratteri fisici (pendenza, orientamento, ecc.) Temperatura Venti

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Fondamentale è conoscere quindi sia come ogni singolo fattore influenzi la coltura, sia come questo interagisca con tutti gli altri fattori colturali. Questo lavoro cognitivo sarà per il viticoltore, che voglia ottenere un prodotto di qualità, lo strumento indispensabile per concretare le scelte necessarie.

Passeremo in rassegna in maniera più dettagliata quelli che sono ritenuti i fattori della produzione di maggiore importanza.

1.1.1. Il terreno

Il suolo ed il sottosuolo determinano l’originalità e la tipicità del vino. Ciò è ampiamente dimostrato dai molti esempi di abbinamenti preferenziali tra vitigno e terreno ricavati dall’esperienza:

- Il Pinot nero, lo Chardonnay e il Meunier, originano i migliori spumanti nei terreni calcarei e poveri di potassio;

- Il Pinot nero fornisce i suoi vini tranquilli migliori sempre nei terreni calcarei;

- I Cabernet preferiscono i terreni ciottolosi, rossi o calcarei; - Il nebbiolo fornisce i suoi vini migliori nelle marne calcaree,

ma da ottimi vini anche in terreni acidi;

- Il Tocai dona i suoi migliori vini nei terreni molto argillosi (Fregoni, 1999).

La vite è una delle piante di più plastico adattamento al terreno, ma naturalmente l’introduzione del portinnesto di viti americane resistenti alla fillossera ha cambiato i termini del rapporto vite terreno, perché, in effetti, essendo la vite europea inserita su soggetto americano, che a rigore funge da terreno artificiale, il suddetto rapporto si complica nell’interazione

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terreno-portinnesto-vite. Ad ogni modo, l’influenza del terreno è dimostrata dal fatto che con uno stesso vitigno, sul medesimo soggetto e nello stesso macroclima si ottengono, in terreni differenti, prodotti diversi (Pàstena, 1990).

Possiamo innanzitutto fare una prima distinzione, di carattere più ampio, tra suoli vocati e non vocati per la viticoltura: i primi presentano i diversi costituenti in quantità bilanciate per consentire un sufficiente immagazzinamento di sostanze nutritive e d’acqua ed hanno una porosità adeguata per assicurare gli scambi gassosi ed evitare fenomeni d’asfissia che danneggiano fortemente la vite ( Morando, 1994); i secondi risultano essere quelli molto umidi, asfittici, con abbondanza di ristagni superficiali, eccessivamente costipati, molto argillosi, con valori di calcare troppo elevati e pH superiori ad 8,5. In tali circostanze, molti degli elementi minerali perdono di mobilità e la pianta può soffrire visibilmente di carenze nutrizionali (Monticelli, 2000).

Normalmente le condizioni di qualità si hanno sui colli, dove la presenza del terreno limita le disponibilità idriche: sono proprio i fattori limitanti l’attività vegetativa e produttiva (scarsità d’acqua e d’azoto), che consentono, con le produzioni limitate d’uva, l’ottenimento di vini con caratteristiche organolettiche di elevata qualità (Morando, 1994).

Il terreno, dunque, è uno dei fattori fondamentali della produzione viticola, non solo per azione diretta, per effetto della sua natura fisica e chimica, ma anche indiretta, grazie alla giacitura, all’esposizione, ecc., che modificano spesso in misura notevole la realtà macroclimatica (Pàstena, 1990).

La differente tessitura dei terreni influenza in primo luogo la penetrazione degli apparati radicali. Nei terreni sciolti le radici si approfondiscono per parecchi metri consentendo un costante rifornimento idrico e minerale alla pianta, mentre lo strato superficiale del suolo si può

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disidratare senza alcun inconveniente. Ciò porta a prodotti qualitativamente migliori che vengono ricondotti dalla classificazione comunitaria ai terreni vocati di collina. Nei terreni argillosi gli apparati radicali sono superficiali quindi più soggetti a squilibri idrici.

Importante è anche il “ruolo calorifico” del terreno, vale a dire la sua capacità di riscaldarsi, che influenza notevolmente l’assorbimento radicale (Fregoni, 1999).

Le proprietà termiche del suolo variano con la natura del terreno. Più precisamente, il calore specifico, la conducibilità e la diffusività termica del terreno variano con le sue caratteristiche mineralogiche, con la sua porosità, con la composizione chimica e con il suo contenuto in umidità (Bonari et al., 1997).

Per cui i terreni sciolti che hanno una migliore conducibilità termica, inducono una buona attività radicale durante la fase vegetativa e, con la disidratazione estiva del terreno, permettono l’arresto dell’attività vegetativa e quindi un miglior accumulo di sostanze zuccherine, aromi, polifenoli, ecc. nelle bacche (Fregoni, 1999).

L’esperienza inoltre c’insegna che ad un precoce riscaldamento primaverile del terreno (legato alla tessitura, ma anche ad altri fattori dell’ambiente) corrisponde un germogliamento anticipato, fattore questo di pregio per il rapido formarsi di un apparato fogliare elaborante (Tomasi et al., 2003).

Il colore del suolo, nel caso esso sia privo di copertura, modifica la quota percentuale di radiazione riflessa, per cui influisce sensibilmente sull’assorbimento della radiazione solare, e quindi sulla temperatura superficiale del terreno. Tanto maggiore è l’albedo del terreno (terreni chiari, asciutti, poveri di sostanza organica e di ferro o ricchi di silice, di carbonato di calcio), ovvero la quota di radiazione solare riflessa dal

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terreno, tanto minore è l’assorbimento della radiazione durante il giorno e il terreno tende ad essere fresco (Bonari et al., 1997).

Sulla temperatura del suolo, ovviamente, ha grande importanza la copertura presente sulla superficie, che influenza sia la quantità di calore ricevuto e perduto, sia il modo in cui viene dissipato. In generale i terreni coperti da vegetazione hanno una temperatura media e un’escursione termica più ridotte dei terreni nudi, con differenze più marcate durante il periodo estivo e nelle ore di maggiore insolazione (più calde). Le coperture costituite da vegetazione morta e da erba essiccata oltre a bloccare il passaggio della radiazione solare in arrivo, immobilizzano al loro interno una certa quantità di aria e poiché l’aria ha una conducibilità termica molto bassa il calore viene trasmesso molto lentamente dalla superficie della copertura che ha ricevuto la radiazione solare e quella del terreno. I terreni coperti da questi materiali presentano quindi una temperatura più ridotta dei terreni scoperti (Bonari et al., 1997).

La pendenza del terreno è un fattore molto importante in viticoltura, come già accennato la maggior parte delle produzioni di qualità si fa su terreni collinari: ciò si deve al fatto che questi terreni vanno soggetti ad una progressiva ma moderata disidratazione estiva, che consente, nel periodo di maturazione delle bacche, di arrestare l’attività vegetativa della pianta e di depositare più zuccheri negli acini (Fregoni, 1999). La pendenza consente anche di avere un miglior angolo d’incidenza dei raggi solari rispetto alla pianura, ed una maggiore ventilazione, dovuta alle correnti di compensazione che dalla valle risalgono le pendici (Monticelli, 2000). Nei fondovalle, infatti, durante il giorno si ha una maggiore radiazione che colpisce l’aria in seguito all’apporto della riflessione della radiazione incidente sui fianchi delle alture circostanti, che causa una maggiore temperatura diurna rispetto alla vetta. Durante la notte, invece, nel fondovalle si ha una temperatura più bassa rispetto alla vetta in seguito

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all’accumulo d’aria fredda più pesante che da questa scivola verso il basso lungo i pendii (Bonari et al, 1997). Questi fattori contribuiscono in modo congiunto alla formazione di particolari microclimi favorevoli alla buona maturazione dell’uva ed alla sanità delle piante (Monticelli, 2000).

L’esposizione è un fattore legato alla coltura della vite su terreni in pendenza. La migliore esposizione è quella a sud-ovest, seguono quelle a sud, ad est, a nord-ovest (Monticelli, 2000). L’esposizione a sud conferisce ai frutti una gradazione zuccherina superiore, mentre a nord si ottengono livelli anche inferiori del 3%. Per cui le esposizioni meno soleggiate sono, in genere, le meno indicate per una viticoltura di qualità, ma vengono gradite nelle regioni caldo-aride quando si desidera “settentrionalizzare” la coltura o nelle regioni temperato-fredde per vitigni bianchi precoci in cui si richiede una buona acidità (Fregoni, 1999).

1.1.2. Il clima

Il clima è definito come l’insieme di tutti i fenomeni meteorici che caratterizzano lo stato medio dell’atmosfera e le sue variazioni in un determinato punto della superficie del globo. Si può distinguere un macroclima, che si riferisce ad un territorio molto vasto, da un clima locale, che interessa invece una determinata località, da un microclima che si riferisce, ad esempio, ad un semplice appezzamento caratterizzato da particolare esposizione, altitudine, copertura vegetale, ecc. Possiamo dire che il microclima interessa gli strati d’aria vicino al suolo ed è “una struttura climatica isolata rispetto alle strutture climatiche limitrofe”. Lo stesso si può dire del clima locale, dove sono molto più importanti le distribuzioni orizzontali di temperatura, pressione e umidità e gli scambi con le aree circostanti (Giardini, 1992).

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Si comprende quindi che clima e terreno sono due fattori intimamente legati tra loro, per cui ogni fenomeno atmosferico si riflette nel suolo ed alcuni fenomeni del terreno (evaporazione, ecc.) si riflettono nell’atmosfera circostante. Queste interazioni vengono riassunte nella lingua francese con un unico termine: “Terroir” (Falcetti, 1994). Sembra opportuno spendere qualche parola in più sul concetto terroir data la sua notevole importanza in viticoltura e la mole di studi e ricerche che sono state eseguite in proposito.

Una zona vitivinicola, qualunque sia la sua dimensione geografica o territoriale, è definibile come l’insieme dei fattori naturali che, attraverso la loro azione sul vigneto, conferiscono al prodotto finale tipicità e originalità. L’insieme di questi fattori dell’ambiente naturale che influiscono sull’espressione del prodotto e non possono essere modificati dall’uomo, non è altro che la definizione di terroir (Colugnati, Crespan, 2000).

Il clima è il fattore che più del terreno influenza la produzione della vite è, d’altra parte, com’è stato accertato in Sicilia, le variazioni del grado zuccherino delle uve dovute al terreno sono subordinate allo stesso andamento climatico, tanto che a Marsala, le differenze dell’alcolicità dei vini, dovute alle condizioni pedologiche, su una media di 5 anni, sono risultate di 0,3-1,3 gradi, mentre quelle dovute alle condizioni climatiche sono andate da 1,3 a 3,4 gradi, con maggiori incidenze nelle annate piovose (Pàstena, 1990).

I fattori climatici più importanti sono: radiazione solare, temperatura idrometeore, vento, umidità atmosferica (Giardini, 1992).

La radiazione solare costituisce un importantissimo fattore biologico, capace di influenzare fortemente il clima e l’attività biologica (Pàstena, 1990). Circa l’1% della radiazione totale in arrivo è trasformata attraverso il processo fotosintetico in energia chimica latente. Una quantità

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notevolmente maggiore è assorbita dall’ecosistema Terra e trasformata in calore, che a sua volta è utilizzato in parte per l’evaporazione dell’acqua e in parte per l’incremento, o meglio per il mantenimento, della temperatura nel sistema terreno-atmosfera-biomassa. Per cui tutte le manifestazioni climatiche che avvengono nell’atmosfera hanno come loro causa prima l’energia solare ricevuta dalla Terra sotto forma di radiazione: infatti, questa ha una influenza diretta sulla temperatura dell’aria e del terreno e sul processo di evaporazione dell’acqua e ha una influenza indiretta sul valore dell’umidità relativa e sul movimento, sia orizzontale che verticale, delle masse d’aria da cui, infine, dipendono le precipitazioni (Bonari et al., 1997).

Ricordiamo che la vite (Vitis vinifera L.) è una pianta eliofila e si avvale di intensità luminose medio-elevate. La fotosintesi aumenta rapidamente fino a 18.000 lux per poi stabilizzarsi intorno ai 25-35.000 lux ed un punto di saturazione luminosa intorno ai 40-45.000 lux (Orlandini et al., 2003).

E’ noto che il contenuto in composti polifenolici è un fattore importante nella definizione della qualità dei vini rossi. La sintesi dei polifenoli dipende da un gran numero di fattori ambientali (luce, temperatura, ecc.) e interni alla pianta (ormoni, nutrienti, ecc.). Per quanto riguarda il ruolo dei fattori ambientali, dettagliati studi hanno descritto l’importanza della luce su numerosi enzimi del metabolismo fenolico. E’ stato evidenziato che la riduzione della radiazione porta alla riduzione della concentrazione di antociani nella bacca (Bertamini, 2003).

Lo sviluppo e la crescita delle piante risultano influenzati dalle condizioni termiche dell’ambiente in cui si trovano. Il metodo maggiormente utilizzato per determinare l’effetto che le quantità di temperatura hanno sulla fenologia delle piante, è costituito dall’accumulo dei gradi del giorno, che si basa sulla correlazione presente tra temperatura

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e sviluppo. La velocità di raggiungimento della fase fenologica è, infatti, proporzionale alle quantità di temperature utili giornaliere (sommatoria termica). Nel caso della vite, l’effetto della temperatura, soprattutto in specifiche fasi del ciclo vegetativo, risulta importante anche per i processi di maturazione e accumulo degli zuccheri e per la composizione aromatica, che determinano la qualità della produzione. L’ampiezza delle escursioni termiche che si verificano durante l’invaiatura è correlata positivamente al deposito degli zuccheri nelle bacche, alla sintesi degli antociani e anche alla componente aromatica (Orlandini et al., 2003).

Quando si analizza il fattore idrometeore si da maggiore importanza alle piogge, in quanto risulta essere il più prevedibile, con particolare riguardo per la piovosità annuale in mm, la sua distribuzione mensile, la piovosità del mese che precede la vendemmia e l’evapotraspirazione potenziale e reale annuale e dei singoli mesi. Le piogge invernali hanno valore come riserve d’acqua nel terreno (Pàstena, 1990). Una buona disponibilità d’acqua al momento della ripresa vegetativa della vite consente la formazione di una chioma efficiente, mentre in seguito la progressiva disidratazione del terreno si traduce in un’ottimale maturazione delle bacche.

L’umidità dell’atmosfera condiziona i processi d’evapotraspirazione e di conseguenza il fabbisogno idrico della coltura. In presenza d’alti tassi d’umidità la traspirazione risulta ridotta, mentre in giornate secche, che si manifestano spesso in corrispondenza di forti venti, le perdite d’acqua sono accentuate con possibilità di stress idrico per la pianta e quindi riduzione delle produzioni. L’umidità inoltre è una variabile fondamentale per molti processi fitosanitari: gli elevati tassi d’umidità possono portare ad uno stato di condensazione con presenza di bagnatura fogliare e del grappolo quando si oltrepassa il punto di saturazione (Orlandini et al., 2003).

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1.1.3. Il vitigno ed il portinnesto

L’impianto di un vigneto è un’opera estremamente importante perché alcune delle decisioni prese in tale momento non sono modificabili nel tempo. Tra i fattori di cui bisogna tener conto poiché in grado di influenzare il risultato qualitativo ed economico dell’impianto ve ne sono alcuni di tipo ambientale, precedentemente trattati, altri di tipo genetico che riguardano sia la scelta del portinnesto sia della varietà ed infine alcuni fattori di tipo agronomico che comprendono aspetti legati alla scelta del sistema d’allevamento e alle scelte delle tecniche colturali. A questo fattore viene dato un peso enorme nel rispetto delle scelte varietali e clonali (Stefanini, 1996).

L’utilizzo del portinnesto in viticoltura risale all’arrivo in Europa, circa 130 anni fa, di un afide parassita (la fillossera) il quale attaccava in maniera mortale le radici della vite europea. Una volta constatato che le specie selvatiche americane avevano un apparato radicale resistente agli attacchi di quel parassita, si fece strada l’idea di innestare i vitigni su portinnesti americani, salvando in tal modo la viticoltura europea. I portinnesti, però, oltre ad avere questa peculiarità presentano anche caratteristiche che consentono alla pianta di adattarsi a diverse situazioni podologiche e di influenzarne anche la vigoria (Bavaresco, Zamboni, 2001). Con il passare del tempo, quindi, il ruolo originario del portinnesto, che pur rimase fondamentale, si arricchì di nuovi significati che possono essere così elencati: adattabilità a condizioni edafiche e climatiche limitanti, dovute a fattori biotici (presenza nel terreno di nematodi, agenti di marciumi radicali, cocciniglie) e abiotici (siccità, umidità, compattezza, salsedine, acidità, calcare, carenze di potassio e magnesio), regolazione della vigoria della pianta, in modo da ottimizzare il rapporto tra quantità

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d’uva per ceppo e sua qualità, induzione di precocità o tardività nella maturazione (Bavaresco, 1998).

La problematica, concernente la scelta dei portinnesti, acquista particolare rilievo quando le condizioni pedologiche o climatiche possono presentare limitazioni all’espletamento delle piene potenzialità produttive della pianta, è infatti emerso chiaramente che in condizioni ecopedologiche favorevoli, il fattore portinnesto è responsabile soltanto di una limitata variabilità nel vigneto, che interessa maggiormente gli aspetti produttivi ed in minor misura i livelli qualitativi. L’influenza dell’annata sembra, invece, avere maggiore peso nel modulare il comportamento del vigneto e ad avere una significativa interazione con il portinnesto. Sulla base di tali conoscenze appare, pertanto, ininfluente sulla qualità il tipo portinnesto utilizzato in zone ecopedologiche non soggette a limitazioni climatiche e podologiche (Scalabrelli et al., 2002).

La scelta del vitigno da utilizzare in Italia è la risultante di almeno due componenti: il vincolo legislativo ovvero il produttore può scegliere tra un elenco di varietà, detto “Registro Nazionale delle Varietà di Vite”, nel quale sono riportati i vitigni autorizzati e raccomandati per ogni provincia, inoltre se il vigneto da impiantare risiede in zona a Denominazione di Origine ( D.O.C. e D.O.C.G.) la scelta risulta ancor più ridotta, poiché i vitigni consentiti e addirittura le tecniche produttive ammissibili sono imposti da disciplinari di produzione; la seconda componente che sicuramente influenza questa scelta è il legame tra vitigno e ambiente. Le caratteristiche espressive e produttive di un vitigno sono profondamente legate all’ambiente di coltivazione. Riguardo agli studi effettuati sulla zonazione si sono dimostrati, ormai da tempo, lo strumento idoneo per evidenziare limiti e potenzialità del territorio (Falcetti et al., 1997). L’ambiente interagisce con la pianta alterando l’espressione della vigoria, della fertilità delle gemme e dell’epoca delle fasi fenologiche.

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Per vigoria s’intende il rapporto tra l’espressione vegetativa, ovvero la biomassa prodotta dalla pianta nel corso di una stagione, ed il numero di gemme lasciate con la potatura. La vigoria può essere definita anche in altri termini come la velocità di crescita nell’unità di tempo. Questo concetto va distinto da quello di capacità vegetativa che indica la quantità globale di crescita correttamente rappresentata dalla superficie fogliare totale prodotta. Di solito questi due parametri sono correlati negativamente: se sono presenti pochi germogli si presenteranno molto lunghi per effetto dell’elevata velocità di crescita, simbolo di alta vigoria, mentre la capacità vegetativa rimane bassa, poiché la superficie fogliare totale è limitata a causa del numero molto ridotto di germogli (Poni et al., 2003). La vigoria di una pianta è spesso correlata ad una produzione di scarsa qualità, perciò sarà necessario valutare con attenzione la fertilità del terreno ed adottare densità d’impianto, forme d’allevamento e portinnesto in grado mitigare tale effetto.

La fertilità delle gemme ha un andamento particolare lungo il tralcio: è maggiore nella zona mediana e minore nella parte distale e basale del tralcio. Il valore della fertilità inteso come numero di grappoli per ogni tralcio varia da varietà a varietà ed è regolata da fattori genetici per cui potremmo avere viti che presentano valori ridotti di fertilità basale che non potranno essere condotte con forme d’allevamento che implicano potature invernali troppo corte. Nonostante la base genetica, la fertilità può variare sia in funzione della vigoria dei germogli (valori troppo ridotti o troppo elevati di questa ultima determinano una riduzione della fertilità gemmaria) sia dell’ambiente di coltivazione (talune varietà sono soggette ad aumenti del valore della fertilità basale se vengono impiantate in ambienti più favorevoli).

La pianta deve essere in grado di ambientarsi al meglio in una data zona di produzione senza che le sue fasi fenologiche subiscano

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interferenze negative da parte degli agenti climatici. Bisogna quindi valutare se le epoche di germogliamento, fioritura e vendemmia si adattano all’ambiente di coltivazione.

1.1.4. La forma d’allevamento

La pianta di vite, lasciata a sé, ha la tendenza a comportarsi in un modo diverso secondo le attitudini varietali e dell’ambiente. Vi sono alcune varietà, che hanno tralci con portamento tendenzialmente eretto (es.: “Primitivo” pugliese) per cui la pianta assume un habitus cespuglioso, in altre invece i germogli, dapprima rivolti verso l’alto, si curvano poi verso il basso già alla fioritura a poco dopo e la pianta assume un habitus strisciante. Generalmente però la vite, essendo una liana, invece di formare cespugli, lasciata a se, su un terreno piano senza sostegni, tende a adagiarsi al suolo. Questo stesso tipo di vite se cresce presso sostegni, naturali, li sfrutta per meglio esporre al sole le foglie e portare i grappoli a pendere liberi nell’aria. E’ evidente che l’uomo, nella sua opera di domesticazione, ha tenuto conto di queste situazioni di partenza della specie selvatica che rappresentano casi tipici d’adattamento ad ambienti diversi (Eynard, Dalmasso, 2000).

Domesticare una vite significa fare in modo che essa si sviluppi secondo forme ben precise, modificando la sua natura ed il naturale habitus. Questo è facilmente ottenibile mediante l’ausilio d’opportuni sistemi di sostegno e mediante il posizionamento e la potatura dei tralci secondo la necessità. La diversa gestione dei tralci ha come diretta conseguenza un comportamento fisiologico differenziato da parte della pianta sia per quanto concerne lo sviluppo dei germogli sia per la

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fruttificazione. Tra i fattori più importanti che possono modificare la fisiologia della pianta, dobbiamo prendere in considerazione:

- la risposta alla diversa disposizione spaziale dei tralci; - la lunghezza della potatura;

- la densità di piantagione; - l’altezza della chioma;

- l’altezza della parete vegetativa; - l’andamento della vegetazione.

E’ noto che la vite ha un comportamento acrotono, quindi i germogli inseriti sul tralcio, posto verticalmente, hanno un diverso accrescimento: quelli apicali, che si accrescono nella parte terminale del tralcio, tendono ad accrescersi maggiormente di quelli in posizione basale. Il meccanismo che regola questo fenomeno, è sotto controllo ormonale ed è definito come para-dormienza. Quando i tralci vengono posti orizzontalmente anziché verticalmente si va ad interferire con il meccanismo di traslocazione degli ormoni provocando una risposta diversa da parte della pianta nello sviluppo dei germogli.

Per quanto riguarda la lunghezza della potatura, possiamo affermare che essa dipende sicuramente dalla forma d’allevamento adottata, rilevando che il numero di gemme che sono lasciate con la potatura influenza la vigoria d’ogni tralcio: infatti, se variamo la carica di gemme, imponiamo alla pianta stessa di suddividere la sua forza vegetativa su di un numero maggiore o minore di siti. Secondo quanto detto se la carica di gemme è bassa la pianta svilupperà tralci in numero minore ma più vigorosi, mentre se è alta si svilupperanno un maggior numero di tralci ma di minor vigore.

La densità di piantagione è strettamente connessa alla forma d’allevamento, poiché ne influenza lo sviluppo vegetativo potenziale. Questo argomento sarà approfondito in un capitolo a parte. Per il momento

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è utile rimarcare che la densità di piantagione influenza lo sviluppo e la competizione radicale dei ceppi, l’accrescimento dei tralci e la loro reciproca competizione, la superficie fogliare, l’intercettazione luminosa e di conseguenza i fenomeni fisiologici connessi (fotosintesi, respirazione, traspirazione) (Fregoni, 1999).

Quando si parla di altezza della chioma si intende la distanza che intercorre tra il suolo e l’inizio della vegetazione. La sua variazione comporta modificazioni nel portamento della vegetazione, nel flusso della linfa, nel microclima della chioma, nell’ombreggiamento tra i filari.

Chiome di vite allevate ad altezze differenti presentano andamenti diversi della vegetazione: in particolare le chiome basse sviluppano una vegetazione assurgente, mentre quelle alte, in stretta dipendenza della forma d’allevamento considerata, hanno una distribuzione della vegetazione orizzontale e discendente. Quanto appena detto, richiama il fenomeno secondo il quale la vigoria dei singoli germogli è più elevata nelle forme basse, in quanto è ridotta la distanza tra apparato radicale ed apparato epigeo. Viceversa le forme alte riducono la vigoria dei singoli germogli: con l’aumentare della distanza dal suolo l’efficienza del sistema d’approvvigionamento d’acqua e di sali minerali diminuisce (Fregoni, 1999). Solitamente le forme d’allevamento basse sono adottate in zone caldo-aride dato che un tronco breve rende la vite più resistente agli stress idrici e in zone fredde se si vuole sfruttare il calore del suolo durante il periodo vegetativo. Forme alte sono preferibili dove si temono gelate primaverili per irraggiamento, dato che gli strati prossimi al suolo sono in questo caso più freddi, e in ambienti freschi in cui la vite tende ad avere uno sviluppo vigoroso (Eynard, Dalmasso, 2000).

Per altezza della vegetazione s’intende la distanza, sull’asse verticale, tra l’inizio della chioma e la fine della stessa. Questo elemento influenza direttamente la quantità di superficie fogliare in grado di intercettare la

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radiazione luminosa. In generale le forme d’allevamento che si avvantaggiano, rispetto alle altre, per capacità d’intercettazione luminosa sono quelle che distribuiscono la vegetazione lungo un piano inclinato oppure orizzontali. Questa ultima forma, già a partire dalla fioritura, può raggiungere livelli di intercettazione luminosa pari al 100% della quota di radiazione incidente. Le forme d’allevamento con formazione di una chioma verticale alta e stretta, danno origine ad una copertura vegetale del suolo di tipo discontinuo e quindi, anche a chioma completa, sono caratterizzati da una quota di radiazione incidente che viene perduta direttamente a terra senza intercettare la chioma. Per tale ragione, la percentuale massima di luce, captata da una forma di questo tipo si attesta intorno al 50-70% della radiazione disponibile in dipendenza anche del fattore altezza della vegetazione (Poni, 2001). La qualità e la composizione dell’uva sono il risultato dell’accumulo nei grappoli di sostanze elaborate dalle foglie. L’individuazione del giusto rapporto tra source (quantitativo di foglie) e sink (quantitativo d’uva prodotta) consente la corretta ripartizione degli elaborati (Brancadoro, Failla, 2001). Quanto detto, esprime il concetto base d’equilibrio vegeto-produttivo di cui tenere conto per regolare in modo adeguato l’altezza della vegetazione in rapporto al carico produttivo. Secondo studi effettuati da Champagnol esiste un rapporto tra superficie fogliare e superficie coltivata di 2:1 che dovrebbe rimanere invariato. Se volessimo aumentare la distanza tra le file dovremmo aumentare l’altezza della vegetazione per mantenere invariato il rapporto suddetto quindi occorre un’altezza della vegetazione almeno uguale alla distanza tra i filari, cosa però inconcepibile oltre i 2 metri (Champagnol, 1994).

Le forme di allevamento tradizionali, sia espanse che meno espanse ma comunque sempre provviste di capi a frutto lunghi, specialmente se curvati ad archetto, generano forti squilibri vegetativi conseguenti a

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gerarchie di crescita della nuova vegetazione: infatti tra i singoli germogli vengono privilegiati quelli inseriti nella zona di curvatura e in quella distale a scapito di quelli centrali. In termini fisiologici, il fenomeno si traduce con la produzione di germogli uviferi molto deboli, provvisti di una superficie fogliare ridotta. Tali germogli producono quantità altrettanto ridotte d’assimilati e i loro grappoli stentano a raggiungere livelli zuccherini elevati. Alla raccolta le forme d’allevamento squilibrate danno origine comunemente ad una quota di grappoli con forti ritardi di maturazione, poiché l’accumulo degli elaborati nelle bacche avviene principalmente per il richiamo che queste esercitano sugli zuccheri prodotti dalle foglie dei germogli su cui i grappoli sono inseriti; la migrazione dei carboidrati procede quindi preferenzialmente attraverso la via rapida del trasporto floematico a breve distanza. Proprio perché tali germogli uviferi centrali arrestano precocemente il proprio sviluppo e le foglie prodotte sono in numero insufficiente per garantire la maturazione dei grappoli, gli acini attraggono gli zuccheri anche dai germogli contigui, in special modo se vigorosi e privati dei grappoli, o dalle riserve del legno vecchio, ma con un processo molto più lento a causa del trasporto a lunga distanza degli elaborati (Intrieri et al., 1994) .

Le forme d’allevamento tradizionali quindi portano generalmente a qualità del vendemmiato più basse per la presenza di grappoli meno maturi che abbassano il potenziale alcolimetrico del mosto e conferiscono eccessiva acidità e caratteristiche erbacee. Ciò impone una raccolta di tipo frazionato in modo tale che, con l’eliminazione di una parte di prodotto, siano resi disponibili i carboidrati in eccesso per i grappoli residui.

La scelta della forma d’allevamento, da adottare da parte dell’imprenditore, risulta oggi particolarmente importante al fine di conciliare quattro fattori determinanti che devono coesistere: sfruttamento ottimale delle risorse naturali, produttività, qualità desiderata,

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contenimento dei costi. Proprio in considerazione di queste esigenze della viticoltura moderna andremo ad analizzare quelle forme di allevamento quali Guyot, Cordone speronato, Cordone libero (o cortina semplice), Casarsa e Doppia cortina (o GDC) che meglio si adattano a questa mentalità. Queste cinque forme sono accomunate principalmente dai seguenti aspetti:

- Una potatura corta a sperone che comporta una dinamica di sviluppo dei germogli e della chioma tale da consentire un miglioramento nelle prestazioni fisiologiche, rispetto alle forme di allevamento a potatura lunga, con conseguente netto miglioramento qualitativo del prodotto. Le uve ottenute presentano caratteristiche fisico-chimiche omogenee adatte ad una vinificazione di qualità.

- Possibilità di meccanizzazione elevata, per cui tutte le operazioni colturali, comprese quelle la potatura secca e la vendemmia, possono essere eseguite con ottimi risultati utilizzando delle macchine. Ciò è molto importante perché sono proprio queste ultime operazioni che, se eseguite manualmente, incidono per il 70% sui costi di produzione dell’uva.

Per contro queste cinque forme d’allevamento si differenziano per: - La differente vigoria che imprimono alla varietà coltivata: il

controllo della vigoria del sistema vigneto risulta fondamentale per adattare le viti al loro ambiente di coltivazione, presupposto fondamentale per ottenere i migliori risultati esprimibili da un dato ambiente.

- La diversa potenzialità produttiva conseguente al differente sviluppo in metri lineari di cordone permanente per unità di investimento (Teot et al., 1997).

Riguardo le cinque forme d’allevamento proposte può essere utile presentare alcune considerazioni per il Cordone speronato e per il Guyot

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che sono da considerarsi i sistemi di conduzione maggiormente rappresentativi dei nostri areali di produzione.

Queste due forme d’allevamento, rispetto a quelle più tradizionali, presentano una carica di gemme minore e generalmente sono anche meno produttivi, ma offrono il grosso vantaggio di una maggiore uniformità nello sviluppo che si riflette positivamente sul prodotto uva con un minor livello d’acidità ed un maggior tenore zuccherino. Per ottenere vini ben strutturati, armonici e che mantengono più a lungo le loro caratteristiche, si devono scegliere forme d’allevamento, quali Guyot e Cordone speronato, in grado di garantire una bassa produzione per ceppo e un equilibrio vegeto-produttivo quanto più ottimale (Mutton et al., 2003).

Il Cordone speronato è una forma d’allevamento che va collocata in ambienti dove la situazione pedoclimatica porta ad un contenimento della vigoria (terreni asciutti, poveri, zone collinari in genere), oppure quando si utilizzano varietà a scarso sviluppo vegetativo. Questo perché il palizzamento verso l’alto dei germogli uviferi imprime vigoria alla vite e nelle situazioni sopra descritte migliora l’equilibrio vegeto produttivo.

La larghezza tra i filari può variare di norma tra i 2,2-2,5 m, mentre le viti possono essere a 80-90 cm di distanza lungo il filare, in terreni poveri e per cultivar poco vigorose, e fino a 120-150 cm in terreni fertili e per cultivar vigorose. Dal punto di vista strutturale il filo portante per il cordone permanente può essere collocato tra i 60 e i 100 cm dal suolo e con altezza totale dei pali fuori da terra non inferiore ai 2-2,2 m per garantire lo sviluppo di una sufficiente parete fogliare e mantenere su quasi tutti i germogli uviferi una quantità di foglie sufficienti ad una buona maturazione dell’uva. Importante è anche il corretto posizionamento dei fili di contenimento della vegetazione verso l’alto in modo da consentire un’adeguata penetrazione della luce e la circolazione dell’aria all’interno

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della chioma, presupposto fondamentale per migliorare le condizioni microclimatiche attorno ai grappoli e l’efficienza fotosintetica delle foglie.

Una possibile limitazione nella scelta di questa forma d’allevamento è rappresentata dall’utilizzo di cultivar con scarsa fertilità nelle gemme basali (Teot et al., 1997). In numerosi casi, è stato constatato che questo carattere non ha una base genetica assoluta e può variare in funzione del vigore e del sistema d’allevamento adottato. In effetti, le tipologie dei sistemi a cordone permanente a taglio corto possono essere talmente diverse tra loro che il comportamento delle gemme può essere adattato alle caratteristiche dei vitigni e alle condizioni colturali (Intrieri et al., 1998).

Nel cordone speronato è possibile ridurre gli onerosi costi della manodopera necessaria in fase di potatura secca, spollonatura, cimatura, sfogliatura e vendemmia utilizzando macchine polivalenti ampiamente diffuse sul mercato.

Il Guyot è una forma d’allevamento che trova il migliore impiego negli ambienti ideali per il cordone speronato. E’ costituito da un tronco verticale di lunghezza variabile di 30-100 cm sul quale durante la potatura viene lasciato un tralcio generalmente di 8-10 gemme e uno sperone. In generale è una forma di allevamento molto equilibrata che consente di ottenere uva di buona qualità. La vendemmia e la cimatura dei germogli possono essere meccanizzate al contrario della potatura invernale (Teot et al., 1997).

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1.1.5. La densità di piantagione

Quando si procede all’impianto, bisogna anzitutto decidere le distanze cui porre le viti. Esse sono subordinate al sistema d’allevamento e di potatura che si vorrà adottare, nonché alla natura dei vitigni da coltivare (Eynard, Dalmasso, 2000). In effetti, la fittezza di piantagione, vale a dire il numero di viti che si pongono a dimora in un ettaro di vigneto è sicuramente un fattore colturale importante, poiché influenza l’entità della produzione, il suo livello qualitativo e i costi di produzione. Il numero di viti per ettaro è, in ogni caso, la risultante della scelta dei sesti d’impianto; la stessa fittezza di piantagione, a titolo d’esempio 3000 viti/ha, si può ottenere con un sesto d’impianto di 2,5 per 1,2 m oppure 3 per 1 m. (Bavaresco, Zamboni, 2001).

Il sesto d’impianto è quindi regolabile variando la distanza dei ceppi sulla fila e la distanza tra le file. Risulta di particolare interesse analizzare quali siano gli effetti indotti sull’equilibrio vegeto-produttivo del vigneto al variare di queste due diverse componenti (Intrieri et al., 2003). Le modificazioni dell’equilibrio vegeto-produttivo indotte dall’aumento di fittezza di piantagione possono essere efficacemente valutate dall’andamento del rapporto tra superficie fogliare totale di una vite e la relativa produzione d’uva. Questo rapporto varia molto in funzione dei vitigni presi in considerazione, ma in linea del tutto generale quando il valore di questo indice è basso (meno di 1) siamo di fronte ad un vigneto disequilibrato verso l’eccesso di produzione; quando è alto (maggiore di 1,5) il vigneto presenta un’eccessiva vigoria con vegetazione fitta e grappoli molto ombreggiati (Bavaresco, Zamboni, 2001). Da quanto emerge dagli studi effettuati da Intrieri nelle viti allevate con distanze sulla fila troppo elevate (170 cm) risulta deviato il normale ciclo vegeto-produttivo ed i valori degli indici d’equilibrio sono alterati: il rapporto

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superficie fogliare/produzione si abbassa perché risulta insufficiente la quantità di foglie ed il rapporto uva/legno si innalza poiché l’attività produttiva è comunque in eccesso rispetto a quella vegetativa. In questo caso per riportare in equilibrio il sistema è necessario raccorciare i cordoni e ridurre il carico di gemme creando così spazi vuoti lungo la fila, e procedere al diradamento dei grappoli sui germogli più deboli tutti questi interventi abbassano ulteriormente la produzione ed aumentano i costi di gestione. Con distanze sulla fila troppo ridotte (70 cm) le viti manifestano una reazione deviata rispetto a quella ottimale, con eccessiva crescita dei germogli e conseguenti ritardi nella maturazione e nella lignificazione. In questo caso, a causa della forte spinta vegetativa, si modificheranno i rapporti espressi dagli indici di equilibrio: quello tra superficie fogliare e produzione sarà ben oltre il valore 2 perché aumenterà la fogliosità della parete; quello tra peso dell’uva e peso del legno di potatura si ridurrà a valori molto bassi perché rispetto alla quantità di uva crescerà più che proporzionalmente l’attività vegetativa (Intrieri et al., 2003). Quindi in risposta a basse distanze sulla fila esiste una concorrenza per la luce che crea di conseguenza accavallamento delle vegetazioni contigue o all’opposto (distanze più ampie tra i ceppi) perdita di intercettazione della radiazione dovute a discontinuità nella vegetazione. Anche l’apparato radicale sembra modificarsi approfondendosi sempre di più man mano chela distanza sulla fila diminuisce (Carbonneau, 2003).

Per quanto riguarda la distanza tra le file, quando essa aumenta abbiamo da un lato una diminuzione dell’intercettazione e della distribuzione della radiazione o aumento dell’intasamento vegetativo, spesso anche al livello dei grappoli e dall’altro una riduzione dell’ombreggiamento tra i filari con evidenti effetti microclimatici, ma non generalizzabili perché strettamente connessi all’architettura della pianta. In

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modo analogo all’aumentare della distanza interfila si nota una radicazione meno densa e maggiormente distribuita (Carbonneau, 2003).

Si ritiene che la distanza tra i filari rappresenti la variabile fondamentale per aumentare o ridurre la capacità produttiva per unità di superficie senza alterare la qualità dell’uva.

A parità di distanza tra i ceppi sulla fila, l’ampiezza degli interfilari non ha, infatti, effetti sulla qualità dell’uva salvo che non intervengano fenomeni di ombreggiamento reciproco tra le pareti vegetative o interferenze radicali tra le viti dei filari contigui. In terreni di media fertilità, tali interferenze tendono ad annullarsi da larghezze interfilari di poco superiori a 2 m. A causa dell’inevitabile spessore della parete vegetativa, l’ampiezza effettiva si ridurrebbe a poco più di 1,5 m (Intrieri et al., 2003). La differenza di 0,5 m tra lo spazio interfilare, alla latitudine dell’Italia settentrionale e per orientamento dei filari nord-sud, può causare problemi di reciproco ombreggiamento delle pareti fogliari se non si rispetta la regola che vuole il rapporto tra altezza della parete fogliare e distanza interfilare non superiore a 1. La distanza tra i filari è, quindi, vincolata alla latitudine, alla vigoria delle viti e anche alla necessità di meccanizzazione. Riguardo a quest’ultima esigenza è opportuno ricordare che, con forme d’allevamento a parete fogliare di limitato spessore, vedi Guyot e Cordone speronato, sotto ai 2 m di spazio tra i filari è difficile operare con un parco macchine tradizionale e queste condizioni sono ancor più necessarie se i vigneti sono in giacitura collinare con pendenze significative. Non a caso le distanze tra i filari più comunemente utilizzate sono tra 3,5 e 2,5 m (Bavaresco, Zamboni, 2001). Quanto appena detto è stato confermato dai molti studi effettuati sulle densità d’impianto. A titolo d’esempio riportiamo quanto assunto da Brancadoro e collaboratori nella zona di Montepulciano: le sperimentazioni condotte sul vitigno Sangiovese allevato a cordone speronato alle tre densità di 3333, 5000, 7500, generate

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da distanza sulla fila costante di 1 m e distanza interfila variabile da 1,2 a 3,5 m, hanno evidenziato che l’incremento della densità d’impianto (dovuto alla diminuzione della distanza tra i filari) porta, in genere, ad una riduzione della vigoria e della produzione d’ogni ceppo, con conseguente aumento, però, della produzione per ettaro e della quantità totale di sostanza secca prodotta dal vigneto. La diminuzione dell’interfila non si è, invece, convertita in un aumento significativo dell’accumulo di zuccheri. Se da una parte, era normale aspettarsi che ciò si verificasse nel passaggio da un interfila di 3 m ad uno di 2 m, non generando in effetti un aumento sostanziale della competizione radicale, dall’altra era lecito attendersi che il passaggio dalla media all’alta densità (distanza tra le file di 1,33 m e maggiore competizione radicale) fosse accompagnato da un aumento di accumulo degli zuccheri. Tutto ciò, probabilmente, si è verificato a causa dell’ombreggiamento instauratosi tra filari attigui alla fittezza più elevata, poiché non è stato rispettato il corretto rapporto tra altezza della spalliera e la distanza tra le file (Brancadoro et al., 2001). Quindi, un elevato livello qualitativo del prodotto è raggiungibile con densità di impianto medio-alte. Il limite superiore di tale fittezza dovrà evitare la rottura dell’equilibrio vegeto-produttivo che si instaura in un vigneto impostato correttamente in funzione della fertilità dell’ambiente. Secondo Carbonneau tale limite, che corrisponde a quella che lui definisce la densità massima, può raggiungere la soglia massima di 10000 ceppi/ha per la maggior parte delle vigne, mentre 5000 per le vigne in zone aride. Superato questo limite s’innesca una concorrenza negativa nei confronti delle riserve idriche, minerali, del volume del suolo e di luce tra le file e sulla fila, tale da creare un indebolimento esagerato dei ceppi provocandone uno stato depressivo che li rende troppo fragili alle costrizioni colturali e ambientali (Carbonneau, 2003). A tale proposito sono state condotte ricerche, nell’ambito del progetto “Chianti Classico

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2000”, con lo scopo di determinare i rapporti esistenti tra densità di piantagione e comportamento vegetativo e produttivo su Sangiovese. I risultati acquisiti hanno dimostrato che le densità di piantagione più elevate non offrono vantaggi generalizzabili nei riguardi del comportamento vegeto-produttivo e nella qualità delle uve. Infatti, a seconda delle condizioni ecopedologiche possono verificarsi inconvenienti dovuti all’alterazione dell’equilibrio vegeto-produttivo, conseguente l’adozione di un basso numero di gemme per pianta, oppure all’aumento della produttività, se vengono adottate cariche di gemme più elevate. Questi risultati hanno inoltre messo in evidenza che la densità di 5000 piante/ha ha mostrato uno sviluppo più equilibrato delle piante, produzioni più contenute e maggiormente aderenti al disciplinare di produzione in vigore nel Chianti Classico (Scalabrelli et al., 2000).

Il miglioramento qualitativo dell’uva si ottiene soprattutto infittendo le viti lungo il filare; ciò porta alla riduzione della vigoria dei ceppi, ma solo se si raggiunge una soglia di fittezza tale da innescare i fenomeni di competizione radicale. In un suolo molto fertile e profondo, tale competizione tra gli apparati ipogei, si ottiene con valori di distanze sulla fila molto bassi (50-60 cm). Distanze superiori provocherebbero un’eccessiva vigoria delle viti, poiché i loro apparati radicali avrebbero porzioni di terreno maggiori da esplorare (Bavaresco, Zamboni, 2001). Si tenga inoltre presente che un elevato numero di radici per unità di volume terreno, ottenibile con densità medio-alte, significa anche migliore esplorazione dello stesso e quindi maggior assorbimento di macro e microelementi, che si riflette in maniera positiva sulla qualità della produzione (Fregoni, 1999).

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1.1.6. L’orientamento dei filari

L’orientamento dei filari è uno dei fattori da cui dipende la quota di luce effettivamente intercettata, ma occorre subito precisare che esso interagisce in maniera talvolta assai complessa con la latitudine, il periodo della stagione, l’altezza e lo spessore della chioma. Al diminuire dell’inclinazione dei raggi solari, e cioè dell’angolo che essi formano col piano orizzontale, aumenta sia la superficie colpita da una stessa quantità di energia, sia lo spessore della massa d’aria attraversata per raggiungere la superficie terrestre. Ciò provoca forti variazioni nella quantità di radiazione in arrivo al suolo sia durante l’anno sia durante il giorno. Qualsiasi luogo della Terra riceve la maggiore quantità di energia quando il sole raggiunge la sua massima altezza sull’orizzontale. Alla latitudine del nostro Paese la radiazione in arrivo è quindi più elevata nei mesi di maggio, giugno, luglio e più ridotta nei mesi di novembre, dicembre e gennaio (Bonari et al., 1997). I raggi solari, nelle zone poste a latitudini più elevate, arrivano con angoli d’incidenza minori (inclinazioni maggiori), rispetto alle medio-basse latitudini. E’ comunque certo che l’orientamento dei filari ha maggiore importanza alle basse latitudini (meno di 30° dall’equatore) quando il percorso del sole sulla volta celeste tende ad essere sempre più parallelo a una chioma orientata est-ovest che, in tali condizioni, si trova ad essere penalizzata poiché una quota rilevante di radiazione sfiora la chioma stessa senza colpirla direttamente. Per quanto riguarda la fascia di latitudine in cui si sviluppa la viticoltura del centro-nord Italia (42°-46° nord), le differenze di radiazione totale intercettata, in pianura, da viti allevate a controspalliera e orientate, ad esempio nord-sud ed est-ovest, non sono particolarmente rilevanti. Per questo motivo la scelta dell’uno o dell’altro orientamento dovrebbe dipendere soprattutto da esigenze di distribuzione della luce: la

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disposizione nord-sud garantisce notoriamente una simmetria di illuminazione per ambedue i lati del filare che non si registra nell’orientamento est-ovest, in cui il lato sud della parete è sempre esposto alla luce e quello nord sempre in ombra (Poni, 2001). Infatti, pur non evidenziandosi grosse differenze sino all’invaiatura, esse si verificano a partire da questa fase fenologica fino alla piena maturazione, periodo in cui i vigneti con l’orientamento est-ovest sono in grado di intercettare una radiazione solare superiore a quelli con orientamento nord-sud. Questo vantaggio è tanto maggiore quanto più ci si trova in aree settentrionali mentre alle latitudini più basse e cioè sotto il 35° parallelo, risulterebbe più vantaggioso l’orientamento nord-sud. Dal punto di vista qualitativo ciò può tradursi in un maggiore accumulo di zuccheri nelle bacche e in una diminuzione dell’acidità totale, del peso del legno di potatura, del tenore in azoto delle foglie e degli attacchi da parte dei marciumi (Brancadoro et al., 2001). Per esigenze pratiche si possono preferire quegli orientamenti che facilitano il transito e l’operatività delle macchine o che controllano meglio i fattori erosivi. La scelta di forme d’allevamento che tendono a distribuire la vegetazione lungo piani orizzontali o inclinati rende meno importante l’influenza legata all’orientamento dei filari (Poni, 2001). La distribuzione dell’energia radiante è, inoltre, variabile sia nel corso delle stagioni sia durante la giornata. Nei primi mesi di vegetazione, maggio-giugno, si riscontra una maggiore intercettazione negli orientamenti nord-sud, mentre nei mesi successivi la situazione s’inverte rendendo le disposizioni est-ovest capaci di migliore intercettazione. Durante il decorso della giornata si osserva per gli orientamenti nord-sud una maggiore intercettazione durante il mattino e il pomeriggio con i due picchi rispettivamente alle ore 10 ed alle 16, mentre nelle ore medie della giornata l’esposizione est-ovest è quella favorita con un picco alle ore 12 (Brancadoro et al., 2001).

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1.1.7. La tecnica di gestione della chioma

Con i termini “gestione della chioma” s’intende l’insieme delle operazioni o delle tecniche atte a modificare nel breve periodo i rapporti tra attività vegetativa e produttiva consentendo un migliore adattamento della vite alle condizioni colturali.

Tra le tecniche che permettono un’ottimale gestione della chioma, possiamo annoverare:

- Operazioni di potatura invernale;

- Operazioni di potatura verde che comprendono: cimatura,

spollonatura, scacchiatura, sfemminellatura, sfogliatura, e diradamento dei grappoli.

Passeremo adesso in rassegna tutte queste operazioni fornendone una breve descrizione.

Quando si parla di potatura invernale innanzitutto bisogna distinguere in base allo stadio di crescita della pianta una potatura di allevamento atta ad assicurare il più rapido sviluppo della struttura scheletrica della pianta in rapporto alla forma desiderata e, come effetto correlato ottenere la massima precocità di messa a frutto dell’impianto, senza penalizzare la crescita radicale che deve essere equilibrata a quella della parte aerea; una potatura di produzione che consenta di mantenere nel tempo sia la forma impostata con la potatura di allevamento al fine di rendere più agevoli tutte le operazioni colturali, sia un equilibrio ottimale tra attività vegetativa e carico produttivo, allo scopo di conseguire la massima resa di uva alla qualità desiderata cercando di ridurre al minimo le esigenze di diradamento dei grappoli (Poni et al., 2003). La potatura di produzione può essere distinta, sulla base del tipo di capo ( se a frutto o a legno) che viene lasciato, in potatura corta, lunga e mista. Si parla di potatura corta quando vengono lasciati solo speroni cortissimi nei quali capi a legno e capi a

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frutto non sono distini; di potatura lunga se viene adottato un tralcio che funge da capo a legno nella parte basale e da capo a frutto in quella centrale e distale; di potatura mista quando allo stesso tempo si trovino speroni e tralci lunghi.

La lunghezza del tralcio di un anno non ha nulla a che vedere con la carica di gemme, per cui le distinzioni precedenti non vanno confuse con quelle di potatura povera e ricca. Queste espressioni si riferiscono al numero complessivo di gemme che vengono lasciate con la potatura. Si definisce povero un sistema di potatura che tende a lasciare sulla vite un numero di gemme inferiore a 10; poverissimo se meno di 4-5; ricco se si lasciano da 20 a 40 gemme; ricchissimo se oltre 40; medio se tra 10 e 20 (Eynard, Dal Masso, 1990). La tipologia di potatura invernale utilizzata, strettamente dipendente quindi dalla forma d’allevamento e dalle condizioni pedo-climatiche determinerà un certo equilibrio vegeto-produttivo che potrà essere in seguito modificato durante il periodo vegetativo mediante quegli interventi che abbiamo indicato sotto il nome comune di potatura verde.

Relativamente a questa pratica colturale non vi sono dubbi sulle modificazioni che induce sui rapporti tra le attività di sintesi e di accumulo influenzando la produttività fogliare, la ripartizione degli assimilati e di conseguenza la qualità dei prodotti (Bertamini et al., 1991).

Un aumento del numero di gemme per ceppo, lasciate con la potatura, riduce il vigore vegetativo ed aumenta la produttività (Bazzanti et al., 1986). Quanto appena detto è vero, ma le cultivar possono rispondere in modo assai diversificato a questo intervento anche in relazione alle condizioni ambientali. Sono stati svolti studi da Bertamini e collaboratori volti a comprendere gli effetti che la diversa intensità di potatura invernale può avere sui parametri della produttività e le risposte adattative di alcuni vitigni diffusi un Trentino. Ad esempio, nel vitigno Schiava, hanno

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evidenziato che la forte riduzione della percentuale di germogliamento è apparsa l’unico meccanismo messo in atto per attenuare l’effetto negativo di un’elevata carica di gemme. Il parallelo incremento di fertilità dei germogli e di peso dei grappoli ha però comportato un incremento della produzione d’uva per ceppo pressoché proporzionale all’incremento della carica di gemme inficiando notevolmente la qualità dei mosti. In altri vitigni a bacca rossa, come il Cabernet S., la fertilità dei germogli, come conseguenza della maggiore carica di gemme, si è ridotta ed allo stesso modo è calato anche il peso medio dei grappoli. L’abbassamento della produttività per germoglio, in questo vitigno, ha consentito il mantenimento di un buon equilibrio fisiologico tra foglie e frutti (Bertamini et al., 1995) .

Quanto appena detto, è da considerare uno dei principali motivi del limitato effetto della potatura sulla concentrazione zuccherina dei mosti (Clingeleffer, 1989).

Risultati analoghi su Cabernet Sauvignon sono emersi dai risultati delle ricerche di Barbagallo e collaboratori sull’influenza della potatura sull’attività vegetativa e produttiva: infatti, la maggiore percentuale di germogliamento, determinata dal più alto numero di germogli secondari, sembrerebbe dimostrare l'elevata capacità di crescita delle piante potate a cordone speronato. Inoltre si è osservata una minore fertilità dei germogli degli speroni nel cordone speronato rispetto a quella dei due germogli basali del capo a frutto e dello sperone della potatura mista (guyot)(Barbagallo et al., 2004).

Secondo Intrieri questa potrebbe essere la risposta della pianta attribuibile alla probabile minore disponibilità di luce all’interno della chioma nella potatura del cordone speronato: la potatura corta, infatti, determinando un accrescimento più uniforme dei germogli e il maggior numero dei germogli per pianta (primari e secondari) produrrebbe una

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parete vegetativa più omogenea lungo il filare con una minore presenza di vuoti e di luce all’interno della vegetazione (Intrieri et al., 1995).

Un confronto su quattro vini rossi ottenuti da cv. Nero d’Avola, in relazione a due forme di allevamento e due sistemi di potatura (guyot e cordone speronato) non ha evidenziato influenze significative delle pratiche colturali sul quadro polifenolico e soprattutto sul profilo antocianico che così si conferma dipendente dai caratteri varietali. Tuttavia, tra le quattro tipologie esaminate, il vino prodotto dalla forma di allevamento a cordone speronato, quindi con sistema di potatura corta, presenta qualche valore aggiuntivo dal punto di vista polifenolico e aromatico-sensoriale (Corona, Finoli, 2004).

Le operazioni di potatura verde non solo sono indispensabili per correggere eventuali errori di scelta dei fattori strutturali (densità di piantagione e forma d’allevamento) ma si rendono necessarie per modificare i parametri qualitativi della produzione.

I principi che devono essere seguiti, quando s’interviene nel gestire la chioma con gli interventi di potatura verde, sono i seguenti:

 Favorire una superficie fogliare ampia;

 Mantenere sano ed efficiente l’apparato fogliare;

 Generare un microclima ottimale della fascia produttiva;

 Consentire la ripartizione degli elaborati prodotti dalla fotosintesi;  Definire l’equilibrio vegeto-produttivo (Compostrini, Serina,

2003).

Tra questi interventi la pratica di cimatura, che consiste nell’asportazione di un tratto apicale più o meno lungo dei germogli, ha riscosso un notevole interesse. Questa operazione deve essere considerata un male necessario visto che i benefici prodotti dall’eliminazione della vegetazione sono quelli derivanti dal miglioramento del microclima

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(Corradi, 2004). Di quest’operazione parleremo più approfonditamente in seguito nel paragrafo dedicato all’importanza della chioma.

La spollonatura consiste nella soppressione dei succhioni e dei polloni generatesi da gemme latenti presenti rispettivamente sul legno vecchio, sul colletto o sulle radici. E’ bene procedere all’eliminazione di questi germogli il prima possibile sia perché essendo generalmente sterili e vigorosi comportano una forte diminuzione delle sostanze nutritive disponibili per i germogli principali sia perché risultano di più facile soppressione in quanto ancora verdi e teneri.

La produzione di polloni è, entro certi limiti, fisiologica, ma se il loro numero è ogni anno elevato, occorre prendere in considerazione la possibilità che il fenomeno sia in parte legato a scelte non corrette di potatura invernale (carico di gemme non adeguato alla potenzialità vegetativa dei ceppi) (Poni, 2003).

La scacchiatura è un’operazione che viene eseguita sulle viti potate lunghe e consiste nell’asportazione di quei germogli, ancora di pochi centimetri di lunghezza, che pur essendo generati dal capo a frutto non sono considerati importanti poiché risultano sterili e non servono per la potatura dell’anno seguente oppure di quei germogli fertili ma ritenuti in soprannumero. Per le stesse ragioni della spollonatura tale intervento dovrebbe essere realizzato quanto prima possibile (Eynard, Dal Masso, 1990). In realtà le sperimentazioni effettuate hanno dimostrato che l’apporto fotosintetico di queste formazioni è rilevante ed, essendo germogli sterili, i carboidrati da loro prodotti vengono traslocati prevalentemente verso i germogli provvisti di grappoli (Smart, Robinson, 1991).

La sfemminellatura è una pratica rivolta alla riduzione della superficie fogliare della pianta tramite l’eliminazione o la cimatura delle femminelle. Questa operazione è soprattutto rivolta a mantenere a livello dei grappoli

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una condizione favorevole d’arieggiamento e d’esposizione ad eventuali trattamenti antibotritici. E’ bene precisare che la riduzione della superficie elaborante determinata dalla sfemminellatura non è paragonabile a quella che si attua con una cimatura severa o con la sfogliatura, perché in tali casi si sopprimono foglie in piena attività fotosintetica, mentre le foglie delle femminelle sono meno utili al bilancio energetico della pianta perché in gran parte sono in fase d’accrescimento e perchè spesso provocano un ombreggiamento che limita la disponibilità d’energia radiante per le foglie con maggior capacità di fotosintesi (Schubert et al., 1988). Di norma quest’operazione si rende necessaria ogni qual volta sia stato antecedentemente eseguito un intervento di cimatura che eliminando la dominanza apicale abbia consentito la produzione di rami anticipati dalle gemme pronte del tralcio.

Con la sfogliatura si interviene per eliminare un certo numero di foglie nella fascia produttiva in modo tale da esporre i grappoli ad una maggiore insolazione onde permettere una corretta maturazione. Per questo motivo tale operazione viene generalmente effettuata in prossimità della vendemmia. L’intervento è eseguito su foglie in fase avanzata di sviluppo in modo da non comportare sostanziali riduzioni nella disponibilità dei fotassimilati per i grappoli (Iacono et al., 1995).

Il diradamento dei grappoli è una pratica che prevede l’eliminazione di una parte dei frutti in modo da accelerare la maturazione degli altri con numerose ripercussioni anche sull’aspetto qualitativo. Questo risultato, in un panorama vitienologico teso alla ricerca sempre maggiore della qualità, ha fatto si che il diradamento diventasse una pratica di routine; questo vale in modo particolare per quelle aree, come la Toscana e il Piemonte, o per quelle aziende dove è molto spinta la ricerca dell’eccellenza nei vini e i disciplinari D.O.C.G. impongono produzioni ad ettaro estremamente contenute (Brancadoro et al., 1999). Occorre innanzi tutto determinare la

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quantità percentuale da asportare. Non è corretto pensare, come sovente avviene che il livello qualitativo conseguibile sia inversamente proporzionale alla quantità finale del raccolto (Monticelli, 2001).

1.1.8. La tecnica di gestione del suolo.

La gestione dl suolo vitato rappresenta una scelta importante e spesso determinante nell’ottenimento di una produzione di qualità. La fertilità agronomica del terreno, legata ad aspetti di tipo fisico, chimico e biologico, condiziona tutto il processo produttivo, sia in termini quantitativi sia qualitativi. La tecnica adottata per la gestione del terreno svolge un ruolo importante nel determinare l’entità di questa fertilità, poiché influenza in maniera diversificata tutti quei parametri che concorrono a definirla.

La corretta tecnica di gestione del suolo è in grado di controllare gli effetti competitivi della flora avventizia: difatti in un vigneto in stato di abbandono la flora avventizia colonizza velocemente e drasticamente tutta la superficie a disposizione creando così un intenso effetto competitivo nei confronti della vite per l’approvvigionamento dell’acqua, dei nutrienti in essa disciolti e della luce. Una gestione appropriata del suolo permette il miglioramento o, quanto meno, la conservazione della fertilità fisico-chimica dello stesso necessaria per l’attività delle radici, che lo esplorano lungo tutto il suo profilo. L’efficienza e la crescita radicale influenzano lo sviluppo della chioma, il rapporto tra superficie fogliare e grappoli. Quando si prende in considerazione il suolo, perché questo mantenga le sue caratteristiche chimico-fisiche, è necessario proteggerlo dai fenomeni erosivi, soprattutto negli ambienti collinari, maggiormente vocati ad una viticoltura di qualità: l’azione battente della pioggia è in grado di

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devastare la struttura del suolo poiché gli aggregati, responsabili della macro e microporosità del terreno, vengono distrutti. La superficie del suolo, se danneggiata in tal modo, può dare origine a croste superficiali che limitano permeabilità del terreno e che espongono il suolo a rischi di erosione marcata come il deflusso laminare (scorrimento superficiale con asportazione e deposito a distanza di particelle terrose) e poi il deflusso incanalato, la forma più importante ed evidente che interessa il terreno per le quantità di suolo asportato. Questo tipo d’erosione è inoltre tanto, più pericoloso quanto più agisce in vigneti nati dopo grandi movimenti di terreno dovuti a sbancamenti e livellamenti (Storchi, 2003). In questo caso la presenza di un’adeguata copertura vegetale nei momenti dell’anno che si presentano più critici per piovosità e tipo d’eventi piovosi, in relazione alla pendenza dei versanti e all’eventuale impiego di altre tecniche di regimazione delle acque (eventuali affossature o impianto dei filari secondo le linee di livello), risulta essere una delle strategie più efficaci per il contenimento dei fenomeni erosivi.

Le tecniche di gestione del suolo possono essere ricondotte a tre tipologie:

- lavorazione meccanica periodica del suolo;

- eliminazione delle piante infestanti con impiego di diserbanti;

- inerbimento, spontaneo o artificiale, con abbinamento eventuale di diserbo chimico o fisico sulla fila.

Certamente possiamo affermare che la pratica del diserbo chimico è sempre più in disuso nei confronti di un mantenimento di un cotico erboso in grado di annullare o almeno ridurre gli effetti erosivi. Con una copertura inerbita del terreno si ottiene una parte aerea densa formata da foglie completata da residui vegetali in corso di decomposizione e da una parte sotterranea, altrettanto densa, costituita da un sistema di radici associate ad un suolo ricco di humus e ben strutturato. Queste due caratteristiche

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“strutturali” influenzano i meccanismi fondamentali che regolano i movimenti dell’acqua e del suolo. In particolare favoriscono l’infiltrazione della pioggia grazie alla copertura del suolo da parte delle foglie e dei residui che abbassano l’energia della pioggia e limitano anche la distruzione degli aggregati e la formazione di una crosta impermeabile in superficie. La rete radicale favorisce la penetrazione dell’acqua, ma contribuisce anche alla coesione della superficie del suolo e dunque alla sua resistenza al ruscellamento (Gril 2003).

Oltre a questi effetti benefici diretti sul terreno, ve ne sono molti altri indiretti: studi effettuati, infatti, hanno messo in evidenza che l’adozione dell’inerbimento permanente permette di creare una concorrenza benefica nei confronti della vite. I risultati di queste sperimentazioni hanno evidenziato una riduzione di vigore del vigneto, quale che sia la specie impiantata per inerbire. La diminuzione della vigoria ha come conseguenza un abbassamento delle rese per ceppo e per ettaro che non scende mai al di sotto dei valori consentiti dalla denominazioni. L’effetto sulle rese non è dovuto ad un sistematico abbassamento della fertilità, ma piuttosto ad una riduzione della taglia delle singole bacche (Corino et al., 2003; Chantelot, 2002). La riduzione del vigore non pregiudica lo sviluppo vegetativo, ma lo regola in modo ottimale: infatti la diminuzione di legno di potatura è accompagnata anche da una riduzione della crescita vegetativa ed è stato constatato che l’arresto di crescita sulla modalità inerbita avviene all’inizio di luglio, mentre nella modalità testimone non è stato osservato alcun arresto di crescita.

Nelle parcelle su cui è stato eseguito l’inerbimento permanente, si è frequentemente constatato un migliore stato sanitario delle uve alla vendemmia. Questo risultato si spiega principalmente con la riduzione del vigore dei ceppi, che evitando così un eccessivo affastellamento della

Figura

Figura 9. Confronto tra la temperatura media mensile nel biennio2001- biennio2001-2002
Figura 10. Confronto tra l’escursione termica media mensile nel biennio  2001-2002. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12020406080100120140160mm mese Piovosità 01 Piovosità 02
Figura 13. Peso cimatura per pianta espresso in g. Media 2001-2002. PESO CIMATURA/ha (kg) 2001-2002 02004006008001000 5000 5000 7350 C.S
Figura 15. Numero dei germogli per pianta in funzione dell’anno e della
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