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I IIIlll dddiiiaaabbbeeettteee eee llleee cccooommmpppllliiicccaaannnzzzeee::: dddiiimmmeeennnsssiiiooonnneee dddeeelll ppprrrooobbbllleeemmmaaa

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Il diabete mellito rappresenta la patologia metabolica più diffusa e la sua prevalenza è in rapido aumento in tutto il mondo. Nel 2025, 300 milioni di adulti saranno affetti da diabete; circa il 95% svilupperà il diabete di tipo 2 (1,2). Il maggior numero di nuovi casi di diabete si manifesterà nei Paesi in via di sviluppo, ma anche nei paesi occidentali (3,4a), Italia inclusa, si osserverà un significativo e progressivo aumento della prevalenza del diabete mellito. Obesità e sedentarietà sono le cause del progressivo aumento dell’incidenza del diabete (4b). Il diabete di tipo 2 interessa più del 5% della popolazione adulta e la sua prevalenza aumenta dall’1% nei soggetti con 20-39 anni di età, al 13% negli ultrasessantenni. Inoltre, circa un terzo di tutti i casi di diabete tipo 2 rimangono non diagnosticati. Il diabete non diagnosticato è presente infatti nel 3% degli adulti; la prevalenza aumenta dallo 0.6% tra i 20 e i 39 anni di età al 6% nei soggetti con più di 60 anni. IFG (impaired fasting glucose) e IGT (impaired glucose tolerance) sono anch’essi molto frequenti nella popolazione adulta tanto che attualmente si stima che siano più di 300 milioni i soggetti a rischio elevato di sviluppare il diabete (5,6a).

I soggetti con diabete tipo 2 presentano una mortalità annuale pari a circa il 5.4% (doppia rispetto a quella della popolazione non diabetica), e la loro aspettativa di vita è ridotta in media di 5-10 anni. Il diabete espone ad un aumentato rischio di tutte le forme di patologia cardiovascolare (6): la frequenza di infarto del miocardio è aumentata di 3-5 volte, quella di stroke di 2-3 volte, il rischio di amputazioni è aumentato di 40 volte. Cecità ed insufficienza renale terminale sono rispettivamente 20 e 25 volte più frequenti rispetto alla popolazione non diabetica. La sopravvivenza a 5 anni dei diabetici in insufficienza renale terminale (ESRD) è solo del 20%, in gran parte a causa di una frequenza straordinariamente alta di eventi cardiovascolari. Le complicanze dell’aterosclerosi sono le principali responsabili delle elevate morbilità e mortalità associate al diabete. Le alterazioni metaboliche del diabete causano disfunzione vascolare e predispongono ad un’aterosclerosi precoce ed aggressiva. Il diabete aumenta il rischio di infarto del miocardio e di morte coronarica.

(2)

L’incidenza e la severità degli eventi cerebrovascolari sono aumentate e la prognosi dell’ictus è più severa. Il diabete è spesso causa di patologia aterosclerotica periferica con predilezione dei distretti vascolari più distali. I diabetici sono frequentemente sottoposti a procedure di rivascolarizzazione per sindromi coronariche acute o ischemia critica agli arti inferiori, ma gli esiti sono meno favorevoli rispetto alla popolazione non diabetica. Sebbene sia indiscusso il ruolo del diabete quale fattore di rischio cardiovascolare maggiore, è tuttora ampiamente dibattutto se il diabete e una precedente patologia coronarica conferiscano veramente un equivalente rischio di futuri eventi cardiovascolari.

Le complicanze microvascolari, renali e retiniche, e la neuropatia sono rare nei primi anni che seguono la comparsa del diabete tipo 1, ma non sono infrequenti già alla diagnosi nel diabete tipo 2 e il loro insorgere e progredire può precedere anche di molti anni il momento della diagnosi. Allo stesso modo, l’eccesso di eventi cardiovascolari non solo caratterizza il diabete tipo 1 e il tipo 2, non solo precede la diagnosi del diabete di tipo 2, bensì si estende anche agli stati di alterata regolazione del glucosio (IFG e IGT) e alla condizione di insulino-resistenza (6b). E’ quindi evidente che l’obiettivo primario di ridurre il rischio delle complicanze del diabete richiede sia l’implementazione combinata delle strategie più efficaci per predire il rischio e ridurre l’incidenza degli eventi nel soggetto con diabete noto (tabella 1), che l’individuazione precoce del diabete tipo 2 non diagnosticato e la ricerca degli stati di alterata regolazione del glucosio.

Nella popolazione non diabetica la mortalità da patologia coronarica si è significativamente ridotta negli ultimi 30 anni (7,8). Tale riduzione è stata attribuita al più stretto controllo dei fattori di rischio cardiovascolare e alle migliorate capacità di intervento sul paziente cardiopatico (9,10).

(3)

Tabella 1 - Fattori di rischio cardiovascolare e diabete mellito: livello delle evidenze.

Fattore di rischio Evidenza in studi longitudinali Evidenza in trial clinici

Fattori di rischio tradizionali

Colesterolo (LDL) Conclusive: il rischio è più forte rispetto alla popolazione non diabetica

Conclusiva (analisi di sottogruppi e studi dedicati)

Pressione arteriosa Conclusive Conclusive

Fumo di sigaretta Conclusive Non applicabile

Sesso Conclusive: più debole rispetto alla

popolazione non diabetica Non applicabile

Fattori di rischio “non-tradizionali”

Glucosio Pressoché conclusive Conclusive

Insulina Non conclusive Conclusive (terapia insulina =riduzione eventi cardiaci)

Insulino resistenza Conclusive Non applicabile

Lipoproteina (a) Scarse evidenze disponibili Non applicabile

Albuminuria Conclusive Conclusive (ACE-inibitori

e sartanici) Markers di

infiammazione Nessuna evidenza disponibile Non applicabile

Fibrinogeno Evidenze suggestive Non applicabile

Aterosclerosi

subclinica* Evidenze suggestive Non applicabile

Inattività fisica Evidenze incomplete Non applicabile

Dieta Nessuna evidenza disponibile Non applicabile

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L’analisi comparativa di due studi prospettici, il NHANES I (First National Health and Nutrition Examination Survey) realizzato nel periodo 1971-75 e il NHANES II Epidemiologic Follow-up Survey (NHEFS, 1982-84) dimostra che la riduzione della mortalità coronarica registrata nella popolazione generale (11) non è stata altrettanto ampia nel diabete (12a). La mortalità per cause cardiache (ischemiche e non) si riduceva del 36.4% negli uomini non diabetici e del 13.1% nei diabetici, del 27.1% nelle donne non diabetiche, mentre aumentava del 22.9% nelle diabetiche. La minor riduzione di mortalità nei soggetti con diabete rispetto ai non diabetici è evidente per la mortalità per tutte le cause (figura 1), la mortalità cardiaca totale e la mortalità per cardiopatia ischemica. Di conseguenza, la mortalità relativa (diabetici vs non-diabetici) è risultata maggiore nel NHEFS rispetto al NHANES I sia negli uomini che nelle donne.

Figura 1 – Modificazioni della mortalità cardiovascolare nella popolazione generale e nella popolazione diabetica: confronto tra NHANES I e NHANES II Epidemiologic Follow-up Survey (12).

Diabetici Modificazione nella mortalità, % Maschi Femmine 20 10 0 -10 -20 -30 -40 -50 -16.6 10.7 p=0.76 p=0.46 Non diabetici Maschi Femmine -43.8 -20.4 p=0.02 p=0.001

(5)

E’ verosimile che le modificazioni nei fattori di rischio siano state meno favorevoli e i miglioramenti delle capacità terapeutiche meno efficaci nei soggetti diabetici, specialmente nelle donne diabetiche (12b). E’ altresì evidente che l’aumento progressivo della prevalenza del diabete (1,2) e il minor declino nella mortalità totale e nella mortalità cardiovascolare rilevato nella popolazione diabetica (12a), faranno del diabete un fattore di mortalità cardiovascolare sempre più importante.

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La malattia aterosclerotica è responsabile di circa il 60-70% delle morti nella popolazione diabetica. La sola cardiopatia ischemica è causa di più del 40% della mortalità totale e più del 60% di tutte le ospedalizzazioni per diabete (13). Secondo stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità la prevalenza della complicanza cardiovascolare è calcolabile tra il 26 ed il 36%. Il rischio di mortalità per tutte le cause è notevolmente più alto nella popolazione diabetica, in particolare nel diabete tipo 1, rispetto alla popolazione non-diabetica. Tale rischio varia dal 1.46 in Italia (14) a 2.35 in Finlandia e si attesta intorno a 2 negli USA. La riduzione nella speranza di vita è stimabile a 15 anni per il diabete tipo 1 e a 5-10 anni per il diabete tipo 2 con ampie variazioni in funzione sia dell’età anagrafica che dell’età di insorgenza del diabete. Nel NHANES I, per esempio, l’aspettativa media di vita era inferiore di 8 anni nei soggetti di età compresa tra 65 e 74 anni (13). Negli Stati Uniti, la mortalità annuale dei soggetti con diabete è del 5.5% con un aumento progressivo dall’1.0% tra i 25 e i 44 anni al 13.6% sopra i 75 anni (15).

Nelle popolazioni caucasiche, il rischio di coronaropatia aumenta in funzione della durata del diabete, ma riconosce in rapporto all’età anagrafica un andamento simile a quello della popolazione generale (16). Sia nei diabetici di tipo 1 della Joslin Clinic (diabete diagnosticato prima dei 21 anni di età) che nella popolazione non diabetica di Framingham i primi decessi per patologia coronarica venivano registrati nella quarta decade di vita. Tuttavia, dopo 20-40 anni di follow-up, in un range di 30-55 anni di età, la mortalità coronarica cumulativa era del 35% nei diabetici di tipo 1, ma solo dell’8% negli uomini e del 4% nelle donne non diabetici della coorte di Framingham.

(6)

Oltre a questo eccesso di mortalità coronarica, i diabetici di tipo 1 ancora in vita al termine del follow-up presentano una elevata prevalenza di malattia coronarica sintomatica o asintomantica così che l’incidenza cumulativa di ischemia miocardica (fatale e non fatale) alla fine dei 20-40 anni di follow-up era pari a circa il 50%. Il rischio di coronaropatia è simile in uomini e donne e aumenta con andamento simile dopo i 30 anni di età indipendentemente dall’età di insorgenza del diabete (0-9, 10-14 o 15-20 anni). Questo suggerisce che l’esposizione al diabete prima dei 20 anni di età non contribuisce allo straordinario aumento del rischio cardiovascolare osservato dopo i 30 anni di età nel diabete di tipo 1. In alternativa, è anche possibile che l’esposizione al diabete dopo i 20 anni di età acceleri la progressione delle tappe intermedie della aterosclerosi coronarica comunemente osservate nella popolazione generale nella terza e quarta decade di vita (16).

Il diabete tipo 2 raddoppia il rischio cardiovascolare nell’uomo e lo aumenta di quattro volte nella donna (17a). Quattro decadi di ricerca epidemiologica dimostrano che il diabete annulla il vantaggio del sesso femminile in termini di rischio cardiovascolare (17b). Questo si traduce in un rischio relativo rispetto alla popolazione generale più elevato nelle donne rispetto agli uomini per la maggior parte degli eventi cardiovascolari e per tutte le manifestazioni dell’arteriopatia coronarica (infarto miocardico, angina e morte improvvisa). Nel diabete di tipo 2 l’eccesso di rischio cardiovascolare è presente già al momento della diagnosi del diabete ed esprime l’esposizione ai fattori di rischio cardiovascolare durante la fase di “pre-diabete”. Gli effetti cumulativi della esposizione al pre-diabete ed al diabete sugli eventi o sulla mortalità cardiovascolari possono essere illustrati efficacemente confrontando i dati di mortalità emersi da un follow-up di 24 anni di una ampia coorte di diabetici di tipo 2 seguiti presso la Joslin Clinic fin dal momento della diagnosi del diabete (avvenuta in età compresa tra i 35-62 anni) con i dati di mortalità provenienti da un analogo follow-up della popolazione non-diabetica di Framingham (17). Nel diabete il rischio è già più elevato, sia negli uomini che nelle donne, al momento della diagnosi e per brevi durate di malattia e tende ad aumentare in maniera più marcata rispetto alla popolazione non diabetica così che la mortalità cumulativa registrata nei diabetici rispetto alla popolazione di Framingham al termine del follow-up è doppia nei maschi (60% vs 25%) e quattro

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L’interpretazione dei risultati del confronto varia se l’effetto del diabete è misurato come differenza tra mortalità o rapporto tra mortalità. Se il confronto è analizzato in termini di differenza tra mortalità, l’impatto del diabete sulla mortalità coronarica tende ad aumentare con la durata del diabete sia negli uomini che nelle donne. Se il confronto (Joslin vs Framingham) è analizzato in termini di rischio relativo, l’effetto dell’esposizione al diabete non cambia in funzione della durata del diabete negli uomini, mentre tende a diminuire all’aumentare della durata del diabete nelle donne. L’evidenza epidemiologica che documenta l’eccesso di rischio coronarico nella popolazione diabetica è ampia e univoca. Sia nel Chicago Heart Association Detection Project in Industry (18) che nel Rancho Bernardo Study (19), il diabete risultava un fattore di rischio indipendente per mortalità da cardiopatia ischemica in entrambi i sessi con stime del rischio relativo superiori nelle donne diabetiche. Nel Rancho Bernardo Study (19), il rischio relativo per cardiopatia ischemica (diabetici vs non diabetici) era 1.8 negli uomini e 3.3 nelle donne dopo correzione per età, e rispettivamente, 1.9 e 3.3 dopo correzione per età, pressione sistolica, colesterolo, indice di massa corporea e fumo di sigaretta. Nel Nurses’ Health Study (20) il rischio relativo corretto per l’età nelle donne diabetiche rispetto alle non diabetiche era pari a 6.7 per l’infarto miocardico fatale e non fatale, 5.4 per l’ictus ischemico, 6.3 per la mortalità cardiovascolare e 3.0 per la mortalità per tutte le cause. Nel Wisconsin Study (21), il rischio relativo di cardiopatia ischemica era 2.4 negli uomini e 2.2 nelle donne. Nel National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES) (22), il rischio di eventi coronarici fatali era 2.8 e 2.5 volte superiore nei diabetici (uomini e donne) rispetto ai non diabetici dopo correzione per età, pressione arteriosa, colesterolo, BMI e fumo di sigaretta. Nel World Health Organization Multinational Study (23) sia uomini che donne diabetici presentavano un eccesso di mortalità totale e di mortalità cardiovascolare, ma le donne diabetiche avevano una mortalità per cause cardiovascolari pari alla metà di quella osservata negli uomini diabetici.

In uno studio di follow-up durato dieci anni condotto da Uusitupa e coll. (24) su pazienti con diabete di tipo 2 di nuova diagnosi, la mortalità totale e quella per cause cardiovascolari standardizzate per età sono risultate superiori nei diabetici rispetto ai non diabetici sia tra gli uomini che tra le donne.

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Nello studio di Laakso e coll. (25) l’impatto del diabete tipo 2 sul rischio di patologia coronarica è stato valutato in una popolazione ad alto rischio per aterosclerosi (Finlandia orientale) e in una a rischio relativamente basso (Finlandia occidentale). I soggetti diabetici di sesso maschile presentavano un rischio di cardiopatia ischemica da 3 a 4 volte superiore e le donne diabetiche da 8 a 11 volte superiore rispetto alle corrispondenti popolazioni non diabetiche senza differenze rilevanti tra le due diverse aree geografiche. L’impatto del diabete tipo 2 sull’incidenza di eventi coronarici è quindi così forte da diventare manifesto con intensità simile sia nelle popolazioni ad elevato rischio per aterosclerosi (Finlandia orientale) che in quelle con rischio relativamente basso (Finlandia occidentale). Tali risultati suggeriscono che fattori correlati al diabete indipendenti dai fattori di rischio tradizionali giocano un ruolo fondamentale nella patogenesi della malattia vascolare nel diabetico (25a, 25b). Lo studio di Kuusisto e coll. (26) ha rilevato un eccesso di mortalità coronarica e di eventi cardiaci anche nei soggetti più anziani affetti da diabete tipo 2. Durante i 3.5 anni del follow-up, il 3.4% dei soggetti non diabetici contro il 14.8% dei diabetici sono morti per eventi coronarici o hanno avuto un infarto non fatale. Particolare rilevanza, per le dimensioni del campione studiato, assumono i risultati del Multiple Risk Factor Intervention Trial (MRFIT), un ampio studio prospettico che ha valutato la mortalità in più di 5000 diabetici di tipo 2 e in più di 300000 soggetti non diabetici di età compresa tra 35 e 57 anni in un follow-up di 12 anni (27). Il rischio assoluto di morte (21.1% vs 6.1%) e quello di morte per patologie cardiovascolari nel complesso (11.7% vs 2.6%), o per ciascun tipo di evento cardiovascolare era più alto nei diabetici rispetto ai non diabetici per ciascun strato di età e per ciascun livello di rischio (numero dei fattori di rischio, consistenza del singolo fattore), in media tre volte più alto anche dopo correzione per età, livelli di colesterolo, pressione arteriosa sistolica e fumo di sigaretta. Indipendentemente dalla presenza di altri fattori di rischio cardiovascolare maggiori (dislipidemia, fumo di sigaretta, ipertensione, ipertrofia ventricolare sinistra) il diabete di per sé raddoppia o triplica il rischio di eventi cardiovascolari fatali e non fatali (28). Nel MRFIT (27), per esempio, tra i diabetici di sesso maschile senza fattori di rischio maggiori aggiuntivi (pressione sistolica <120 mmHg, colesterolo totale <200 mg/dl, non fumatori) l’incidenza di morte per eventi cardiovascolari era 5 volte superiore rispetto ai maschi non

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D’altra parte, il 25% dei soggetti con diabete di nuova diagnosi presentano evidenze di malattie vascolari (29) e l’incidenza di patologia cardiovascolare tende ad aumentare ben prima che i livelli glicemici raggiungano la soglia per la diagnosi di diabete (30). Venti anni di follow-up del Whitehall Study, del Paris Prospective Study e dell’Helsinki Policemen Study dimostrano che valori di glicemia alla 2a

ora dell’OGTT inclusi nel quinto quintile della loro distribuzione si associano ad un progressivo aumento della mortalità per tutte le cause e della mortalità cardiovascolare con un rischio relativo corretto per età pari rispettivamente a 1.6 e 1.8 nei soggetti con i più elevati valori glicemici (>97.5%). Lo studio di Funagata (31) dimostra, in un follow-up di 7 anni, che non solo la mortalità cardiovascolare dei diabetici è maggiore di quella dei soggetti normoglicemici, ma lo è anche quella dei soggetti con ridotta tolleranza glucidica (IGT). In questi ultimi, il rischio relativo corretto per età (IGT vs normoglicemici) era pari a 2.2. Nel Nurses’ Health Study, venti anni di follow-up dimostrano che il rischio cardiovascolare è significativamente aumentato anche prima della diagnosi del diabete (32). Rispetto alle donne che non avrebbero sviluppato il diabete nel corso del follow-up, non solo quelle già diabetiche all’ingresso nello studio (RR 5.0), ma anche quelle che sarebbero diventate diabetiche nel corso del follow-up è stato possibile registrare un aumentato rischio di eventi cardiovascolari (infarto del miocardio o ictus) (figura 2). Tra queste ultime, l’aumento del rischio è stato registrato non solo dopo la diagnosi del diabete (RR 3.7), ma anche prima della diagnosi del diabete (RR 2.8)

(10)

Figura 2 – Rischio di patologia cardiovascolare prima e dopo la diagnosi clinica di diabete mellito tipo 2: il Nurses’ Health Study (32).

Inoltre, un recente studio di Tuomiletho e coll. (33) dimostra che soggetti con IGT che non progrediscono a diabete in 10 anni di follow-up presentano un rischio relativo di 1.49 per l’incidenza di patologia coronarica, 2.34 per la mortalità cardiovascolare e 1.65 per la mortalità per tutte le cause.

Nel paziente con diabete tipo 2, la patologia coronarica presenta non soltanto una maggior incidenza, ma anche una maggiore estensione e gravità (28) e si associa ad una peggiore prognosi post-infarto. I pazienti diabetici con infarto del miocardio hanno una mortalità due o tre volte superiore rispetto ai soggetti non diabetici. La maggior parte di questo eccesso di mortalità è conseguenza di una più elevata mortalità intra-ospedaliera (34) in gran parte dovuta all’aumentata

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Varie possono essere le motivazioni per cui il decesso a breve termine in seguito a infarto del miocardio è più frequente e la prognosi a lungo termine peggiore nei diabetici. Nei diabetici l’infarto del miocardio è più spesso silente e ciò può determinare un ritardo nella diagnosi e nel trattamento (36). Benchè le dimensioni dell’area infartuata e la frazione di eiezione del ventricolo sinistro siano mediamente simili nei diabetici e nei non diabetici, l’incidenza di insufficienza cardiaca è maggiore nei primi (37, 38). L’aumentata frequenza dell’insufficienza cardiaca correlata con l’infarto del miocardio nei diabetici può trovare almeno due spiegazioni. La prima e probabilmente più verosimile è l’esistenza di una forma peculiare di cardiomiopatia diabetica indipendente dall’aterosclerosi che si manifesta come disfunzione o insufficienza diastolica del ventricolo sinistro (39-41). Questa ipotesi è indirettamente confermata dai risultati del GUSTO-I Study in cui il diabete rimane un fattore indipendente di mortalità a 30 giorni dall’infarto anche dopo correzione per variabili cliniche ed angiografiche (42). D’altra parte, l’estensione complessiva delle lesioni stenotiche può essere maggiore nei pazienti diabetici rispetto ai non diabetici. Infatti, i diabetici presentano una maggior incidenza di malattia di due o tre vasi coronarici e una più bassa incidenza di malattia di un solo vaso coronarico rispetto ai non diabetici. Queste osservazioni sono confermate da due ampi studi di intervento in cui l’angiografia coronarica è stata eseguita in corso di infarto acuto del miocardio. Nello studio TAMI (Thrombolysis and Angioplasty in Myocardial Infarction), i pazienti sono stati sottoposti a cateterismo cardiaco 90 minuti dopo il trattamento trombolitico e successivamente a distanza di 7-10 giorni dall’episodio acuto (43). I pazienti diabetici presentavano una maggiore incidenza di coronaropatia su più vasi e un più elevato numero di segmenti vasali caratterizzati da aspetti stenotici rispetto ai non diabetici. Analogamente, nel TIMI II (Thrombolysis and Myocardial Infarction Phase II) i pazienti diabetici che ricevevano la terapia trombolitica ed eseguivano angiografia coronarica presentavano con maggior frequenza dei non diabetici l’interessamento di più vasi coronarici (44). Infine, Stein e coll. (45) hanno rilevato al momento della PTCA (percutaneous transluminal coronary angioplasty) una maggior incidenza di malattia dei tre vasi nei pazienti diabetici e una correlazione sia con la mortalità intra-ospedaliera che con la mortalità a lungo termine. Nel GISSI-II Thrombolytic Trial, uomini e donne con diabete presentava una più elevata incidenza di scompenso cardiaco congestizio, con rischio massimo nelle donne insulino-trattate (46).

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Nel TAMI (43) il rischio relativo di scompenso cardiaco nel diabetico infartuato è stato pari a 2.5 rispetto al non diabetico, a parità di frazione di eiezione ventricolare sinistra. Nel TIMI-II, la presenza del diabete raddoppia il rischio di morte nelle prime sei settimane dopo infarto miocardio (44); nel TAMI (43) la mortalità intra-ospedaliera nelle donne diabetiche era doppia rispetto a quella degli uomini diabetici e quattro volte superiore a quella degli uomini non diabetici.

L’eccesso di mortalità registrata nel diabete si intende nel medio termine alla fase post-ospedaliera. Nel GISSI-II (46), il follow-up a sei mesi, e nel Norvegian Timolol Trial (47), il follow-up a 18 mesi dimostrano che la mortalità del paziente diabetico è doppia rispetto al non-diabetico. Ancora una volta, il rischio massimo (mortalità del 14-17% a 180 giorni) si registra a carico delle donne insulino-trattate (x 3 rispetto alle non diabetiche, x 4.5 rispetto agli uomini non diabetici). Nello studio FINMONICA (48) la mortalità ad un anno era del 44.2% negli uomini diabetici e del 32.6% nei non diabetici (x 1.38), del 36.9% nelle donne diabetiche rispetto al 20.2% nelle non diabetiche (x 1.86); la mortalità ad un anno dei sopravvissuti al primo mese era del 9.6% e del 5.0% negli uomini diabetici e non (x 1.97) e del 10.7% e 2.5% nelle donne diabetiche e non (x 4.17).

L’eccesso di mortalità permane in maniera estremamente evidente anche nel lungo termine. Nel Minnesota Heart Survey (49), il rischio di morte dopo 6 anni di follow-up a carico dei pazienti sopravvissuti dopo la fase acuta dell’infarto miocardico era del 40% maggiore nei diabetici rispetto ai non diabetici; la sopravvivenza a lungo termine era ridotta in entrambi i sessi, ma in maniera più evidente nelle donne. Nel Determinant of Myocardial Infarction Onset Study (50) la mortalità a 4 anni risultò significativamente più alta nei diabetici (x 2.4) anche dopo correzione per i fattori di rischio cardiovascolari maggiori e numerosi fattori confondenti (x 1.7). Nello studio OASIS (Organization to Assess Strategies for Ischemic Syndromes) il diabete è fattore predittivo indipendente di mortalità (RR 1.57) in soggetti con angina instabile e infarto non-Q e lo è in maniera più evidente nelle donne (RR 1.98) rispetto agli uomini (RR 1.28) (51a).

(13)

Benchè sia evidente che il diabete è associato ad un marcato incremento (da 2 a 4 volte) del rischio cardiovascolare globale e, in particolare, del rischio coronarico (5), e benchè sia altrettanto chiaro che la cardiopatia ischemica espone il diabetico ad uno straordinario aumento (da 3 a 7 volte) della mortalità coronarica (51b), rimane dibattuto se il diabete e la malattia coronarica (nel non diabetico) conferiscono un rischio equivalente per futuri eventi cardiovascolari. Una prima indagine prospettica durata 7 anni ha confrontato in una popolazione finlandese l’incidenza di infarto miocardico (fatale e non fatale) in 1373 soggetti non diabetici e 1059 pazienti con diabete tipo 2 (52). L’incidenza di infarto del miocardio nei soggetti con e senza precedente infarto miocardico era rispettivamente del 18.8% e 3.5% nei non diabetici e del 45% e 20.2% nei diabetici. Analogamente, l’incidenza di morti cardiovascolari e quella di ictus tra i diabetici senza precedente infarto miocardico era sovrapponibile all’incidenza registrata nei non diabetici con storia positiva per infarto del miocardio, mentre la coesistenza di diabete e coronaropatia identificava un gruppo a rischio particolarmente elevato. Nessuna sensibile modificazione interveniva dopo correzione per altri fattori di rischio quali fumo di sigaretta, ipertensione, colesterolo totale o LDL, colesterolo HDL e trigliceridi. E’ interessante osservare come lo spessore dell’intima a livello carotideo sia simile in soggetti diabetici senza segni clinici di coronaropatia e in soggetti non diabetici con patologia coronarica clinicamente evidente. I pazienti diabetici con arteriopatia coronarica presentano il maggior ispessimento dell’intima a livello carotideo, mentre i non diabetici senza coronaropatia presentano il minor spessore intimale. Tale risultato, proveniente dallo studio IRAS (Insulin Resistance Atherosclerosis Study), ben si accorda con i risultati dello studio di Haffner e coll. (52) e suggerisce come l’elevata incidenza di malattia coronarica nella popolazione con diabete tipo 2, possa essere ascritta ad una più veloce progressione del processo aterosclerotico. Ad aggravare il rischio nel paziente diabetico concorre anche la particolare frequenza degli episodi di ischemia cardiaca asintomatici. Sottoslivellamenti ST silenti e anormalità di perfusione coronarica asintomatica sono almeno due volte più frequenti nei diabetici durante test ergometrico e scinfigrafia miocardica. Secondo alcuni studi più del 90% degli episodi ischemici in pazienti diabetici sono silenti (53).

(14)

L’ipotesi di un rischio associato al diabete della stessa entità del rischio conferito da un precedente episodio infartuale è confermata dai risultati di numerosi studi (50,51a). Nel Nurses’ Health Study (54), diabete e coronaropatia tra i non diabetici conferiscono un rischio equivalente per mortalità totale e mortalità per patologia coronarica, mentre l’associazione di diabete e coronaropatia identifica donne a rischio particolarmente elevato. Nel Physicians’ Health Study (55), diabete e coronaropatia nei non diabetici determinano un rischio sovrapponibile per mortalità totale, mentre il rischio di mortalità coronarica è più elevato tra i non diabetici con coronaropatia rispetto ai diabetici senza coronaropatia. Anche in questo studio, l’associazione tra diabete e coronaropatia identifica uomini a rischio particolarmente elevato (tabella 2).

Altri studi confermano il ruolo del diabete quale fattore di rischio cardiovascolare, ma riconoscono ad esso un impatto minore di quello conferito dalla pre-esistenza di una patologia coronarica. In uno studio scozzese, i non diabetici con pregresso infarto del miocardio presentano rispetto ai soggetti con diabete tipo 2 senza patologia coronarica un più elevato rischio di morte per tutte le cause (x1.35), di morte per cause cardiovascolari (x2.93) e un più elevato rischio di infarto del miocardio (x3.10) (56). Nell’Health Professionals Follow-up Study (57) il rischio relativo (rispetto ai non diabetici non cardiopatici) di eventi coronarici fatali era 3.84 per i diabetici, 7.88 per i non diabetici con pregresso infarto del miocardio e 13.41 per i soggetti diabetici con pregresso infarto del miocardio (tabella 2).

(15)

Tabella 2 – Impatto del diabete sulla mortalità per tutte le cause e sulla morbilità e mortalità cardiovascolare.

Soggetti non diabetici Soggetti con diabete tipo 2 senza precedenti cardiovascolari con precedenti cardiovascolari senza precedenti cardiovascolari con precedenti cardiovascolari

Haffner SM, et al., N Engl J Med, 1998 (52); follow-up: 7 anni

Infarto del miocardio

(%) 3.5 18.8 20.2 45.0

Ictus fatale e non fatale

(%) 1.9 7.2 10.3 19.5

Morti per cause

cardiovascolari (%) 2.1 15.9 15.4 42.0

OASIS Registry, Circulation, 2000 (51); follow-up: 2 anni

Infarto del miocardio

(%) 7.5 10.2 10.7 13.1

Ictus (%) 2.0 3.2 3.0 5.1

Morti per cause

cardiovascolari (%) 5.1 10.5 9.3 16.6

Mortalità per tutte le

cause (%) 6.9 12.8 13.0 20.3

Mukamal KJ, et al., Diabetes Care, 2001 (50); followup: 3.7 anni

Morti per cause

cardiovascolari (RR) 1.0 1.5 1.8 2.7

Mortalità per tutte le

cause (RR) 1.0 1.5 1.7 2.4

Hu FB, et al., Arch intern Med, 2001 (54); follow-up: 20 anni

Infarto del miocardio

(RR) 1.0 8.15 7.48 17.6

Morti per cause

cardiovascolari (RR) 1.0 6.58 6.59 13.6

Mortalità per tutte le

cause (RR) 1.0 2.55 3.12 5.08

Lotufo PA, et al., Arch intern Med, 2001 (55); follow-up: 5 anni

Morti per cause

cardiovascolari (RR) 1.0 2.9 5.4 10.6

Mortalità per tutte le

cause (RR) 1.0 2.1 2.2 4.2

Evans JMM, et al., Br Med J, 2001 (56); follow-up: 11 anni

Infarto del miocardio

(RR) --- 3.10 1.0

---Morti per cause

cardiovascolari (RR) --- 2.93 1.0

---Mortalità per tutte le

cause (RR) --- 1.35 1.0

---Cho E, et al., J Am Coll Cardiol, 2002 (57); follow-up: 10 anni

Infarto del miocardio

(RR) 1.0 7.88 4.82 13.41

Morti per cause

cardiovascolari (RR) 1.0 5.63 3.34 9.41

Mortalità per tutte le

(16)

I pazienti con diabete tipo 2 non solo presentano un aumentato rischio di patologia cardiovascolare (x 2-5 rispetto alla popolazione non diabetica), non solo hanno un’aumentata incidenza di infarto del miocardio (x 3 rispetto alla popolazione generale), non solo soffrono di una più elevata mortalità nel post-infarto, ma hanno anche una prognosi peggiore dopo procedure di rivascolarizzazione coronarica. Sia il by-pass coronarico (CABG, coronary artery bypass graft) che l’angioplastica (PTCA) sono procedure efficaci nel paziente con diabete mellito. Il diabete non induce una aumentata mortalità perioperatoria; si associa invece con una peggiore prognosi a lungo termine in parte spiegata dall’eccesso di fattori di rischio cardiovascolari (58) che si esprime già dopo sei mesi dalla rivascolarizzazione con una aumentata frequenza di restenosi (45) dovuta ad una esagerata iperplasia della media alla quale concorrono il danno endoteliale, l’aumentata deposizione piastrinica e l’ipereattività di fattori di crescita (PDGF, platelet derived growth factor; IGF-1, insulin-like growth factor-1; FGF-ß, ß-fibroblast growth factor) o l’iperespressione dei loro recettori. Nel BARI trial (Bypass Angioplasty Revascularization Investigation) (59a) i pazienti diabetici avevano rispetto ai non diabetici una minor sopravvivenza a 5 anni per le entrambe le procedure. Inoltre, i diabetici sottoposti a by-pass avevano una sopravvivenza a 5 anni dell’81%, significativamente migliore rispetto a quella dei soggetti trattati con angioplastica (66%), un risultato probabilmente spiegato dalla più estesa e diffusa patologia aterosclerotica che più si presta ad una più efficace rivascolarizzazione tramite by-pass piuttosto che tramite angioplastica.

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Il diabete conferisce un più elevato rischio per tutte le espressioni della patologia cardiovascolare aumentando di almeno due volte il rischio per l’ictus e di quattro e più volte l’incidenza di arteriopatia periferica (59b). Nel diabete tipo 2, la mortalità per patologia cerebrovascolare è da 2 a 4 volte superiore a quella della popolazione non diabetica e l’ictus rappresenta, dopo la patologia coronarica, la seconda principale causa di morte. Nel Whitehall Study (60), dieci anni di follow-up dimostrano che la mortalità per malattia cerebrovascolare è circa due volte superiore nei soggetti diabetici di sesso maschile di età compresa tra 40 e 64 anni rispetto non diabetici. Nel Multiple Risk Factor Intervention Trial (61) il rischio di ictus fatale non emorraggico era 3.8 volte più alto tra i pazienti diabetici rispetto ai non diabetici, indipendentemente da età, razza, pressione arteriosa, fumo di sigaretta e altri fattori di rischio. Nel Nurses’ Health Study (20) il rischio di ictus corretto per età è risultato quattro volte più alto nelle donne diabetiche rispetto alle non diabetiche. Il rischio di ictus fatale (x 5.0) e non fatale (x 3.8) era simile. Lo studio di Tuomilehto e coll. (62) dimostra che il 16% dei casi decessi per ictus tra gli uomini e il 33% tra le donne possono essere attribuiti al diabete. I soggetti affetti da diabete all’inizio dello studio avevano un rischio di morte per ictus 6 volte superiore a quello dei soggetti non diabetici se uomini, 8 volte superiore se donne, mentre il rischio relativo per gli uomini e, rispettivamente, le donne che avevano sviluppato il diabete durante il follow-up è risultato paria a 1.7 e 3.7. Analoghi i risultati di un altro studio finlandese realizzato su pazienti con diabete tipo 2 provenienti da aree a diverso rischio cardiovascolare; i soggetti di sesso maschile presentavano un rischio di ictus da due a tre volte superiore e i soggetti di sesso femminile un rischio cinque volte più alto durante i sette anni del follow-up (uomini: Finlandia orientale, OR 2.4; Finlandia occidentale, OR 3.3; donne: Finlandia orientale, OR 5.5; Finlandia occidentale, OR 5.4) (63). In uno studio svedese su popolazione, 8 anni di follow-up registrano un’incidenza di ictus più elevata nei diabetici rispetto ai non diabetici (RR: uomini x 4.1, donne x 5.8). La mortalità a breve termine (28 giorni) era simile negli uomini diabetici e non diabetici, ma più alta nelle donne diabetiche rispetto alle non diabetiche (64). D’altra parte, nel Minnesota Heart Survey (65) la frequenza di casi mortali a breve termine era simile nei diabetici e nei non diabetici di entrambi i sessi. E’ evidente che il diabete rimuove il vantaggio legato al sesso presente in premenopausa nella popolazione generale non solo in relazione al rischio coronarico (66), ma anche per altri aspetti della patologia cardiovascolare (67).

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L’arteriopatia periferica (PVD) è una delle cause maggiori di morbilità nella popolazione diabetica. Si presenta con maggiore frequenza e progredisce più rapidamente rispetto alla popolazione non diabetica (68a). In numerosi studi, l’incidenza relativa varia da 4 a 8 (68b). Il diabete tipo 2 è causa di più del 50% delle amputazioni non traumatiche (64). La prevalenza della arteriopatia periferica (indice di Windsor <0.9 suggestivo di PVD, <0.8 diagnostico per PVD) è maggiore nel diabete di tipo 2 rispetto ai non diabetici sia in studi di popolazione che in studi eseguiti in singole cliniche. Nell’Hoorn Study (69) la prevalenza di PVD era 20.9% nei diabetici e 7% nei controlli normoglicemici. L’arteriopatia periferica è infrequente prima dei 50 anni di età, mentre la sua prevalenza aumenta drammaticamente nelle decadi successive con una stretta correlazione (indipendente dall’età) con la durata del diabete. Nell’UKPDS (70), l’arteriopatia periferica era presente nell’1.2% dei soggetti alla diagnosi del diabete e nel 12.5% dopo 18 anni di durata di malattia. Nel Finnish Social Insurance Institution’s Coronary Heart Disease Study (71) la prevalenza corretta per età della claudicatio era 3.8 volte maggiore negli uomini diabetici rispetto ai non diabetici e 3.2 volte maggiore nelle donne diabetiche rispetto alle non diabetiche. Nel Framingham Heart Study (72), l’incidenza corretta per età della claudicatio era 2.7 volte superiore nei maschi diabetici e 3.4 volte superiore nelle femmine diabetiche. Il rischio di amputazione nel soggetto diabetico è da 10 a 15 volte superiore rispetto al non diabetico (5). Nello studio di Lehto e coll. (73) condotto su 1044 pazienti con diabete tipo 2, l’incidenza di amputazione durante i 7 anni di follow-up era simile nei due sessi (5.6% nei maschi, 5.3% nelle femmine). Nello studio Rochester (74), l’incidenza di amputazioni tra i diabetici tipo 2 è stata di 3.9 per 1000 persone/anno (12 volte superiore rispetto all’incidenza nei non diabetici). Risultati simili derivano dallo studio di Leverkusen (75); nei diabetici l’incidenza di amputazione è stata pari a 2.1, nei non diabetici a 0.1 per 1000 persone/anno con un rischio relativo pari a 22.2. La presenza di PVD è marker di coesistenza di aterosclerosi a livello coronario e carotideo e traduce un elevato rischio di morte cardiovascolare precoce. Il rischio di infarto del miocardio è aumentato nei diabetici con arteriopatia periferica, mentre l’assenza dei polsi periferici si associa

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Esiste tutta una serie di presupposti (epidemiologici, fisiopatologici, etiopatogenetici) per considerare la persistente iperglicemia un movente patogenetico dell’aterosclerosi. La cronica elevazione dei livelli glicemici altera l’attività vasomotoria, compromettendo la capacità di vasodilatazione, in vari distretti circolatori (76).

Figura 3 – Le anomalie metaboliche che caratterizzano il diabete, in particolare l’iperglicemia, l’eccesso di acidi grassi liberi e la resistenza all’insulina, innescano meccanismi molecolari capaci di alterare la funzione e la struttura dei vasi. Questi meccanismi includono l’aumento dello stress ossidativo, le modificazioni di trasduzione di segnali intracellulari (attivazione della PKC) e l’attivazione dei recettori per gli AGE (RAGE). Ne conseguono: ridotta disponibilità di NO, aumentata produzione di endotelina-1 (ET-1), attivazione di fattori di trascrizione quali NF-kB e AP-1 ed aumentata sintesi di fattori protrombotici quali il fattore tissutale (TF) e l’inibitore dell’attivatore del plasminogeno (PAI-1) (76).

Iperglicemia Acidi grassi liberi Insulino resistenza

Stress ossidativo Attivazione di p rotein chinasi C

Attivazione di R AGE VASOCOSTRIZIONE Ipertensione Crescita delle VSMC INFIAMMAZIONE Chemochine (MCP-1) Citochine (IL-1) CAMS (ICAM-1) TROMBOSI Ipercoagulabilità Attivazione piastrinica

(20)

Le anomalie metaboliche che caratterizzano il diabete, quali l’iperglicemia, l’eccesso di acidi grassi liberi e l’insulino-resistenza, provocano ciascuna l’induzione di meccanismi molecolari che concorrono alla disfunzione vascolare (figura 3).

A livello endoteliale, lo stress ossidativo indotto dall’iperglicemia inibisce la produzione e riduce la biodisponibilità dell’ossido nitrico (77-81), favorisce l’adesione dei monociti all’endotelio, altera la funzione delle cellule muscolari lisce e delle piastrine, attiva i recettori per i prodotti avanzati della glicazione (AGEs) (82-86), stimola la produzione di numerosi fattori pro-trombotici, accelerando quindi lo sviluppo e la progressione della placca ateromatosa (76, 87). Numerosi studi hanno evidenziato una correlazione positiva tra controllo glicemico (espresso come livelli percentuali di HbA1c) e mortalità e morbilità per eventi cardiovascolari. Una recente

analisi eseguita in 1664 pazienti consecutivi ospedalizzati per infarto acuto del miocardio (88), ha individuato una stretta associazione tra livelli glicemici al momento del ricovero ed il successivo esito clinico. Una prognosi particolarmente sfavorevole veniva riscontrata nei pazienti con storia nota di diabete mellito. In sintesi, i risultati indicavano che tanto maggiore era la glicemia tanto più frequente risultava l’insufficienza cardiaca durante il ricovero e tanto maggiore la mortalità nel primo anno dopo l’infarto. Il rischio associato all’iperglicemia era indipendente dal peso corporeo (BMI) o dalla preesistente dislipidemia. In uno studio altrettanto recente (89), prognosi ancora peggiore rispetto a quella dei soggetti con diabete noto, in termini di mortalità soprattutto nelle unità di terapia intensiva, è stata rilevata nei pazienti con iperglicemia di nuova diagnosi. La maggior parte dei pazienti con iperglicemia al momento dell’evento cardiovascolare è proprio rappresentata, con tutta probabilità, da soggetti con diabete non diagnosticato. In questi individui, il trattamento aggressivo dell’iperglicemia riduce il rischio di mortalità a breve ed a lungo termine come dimostrato dallo studio DIGAMI (90,91).

Ciononostante, l’effetto del trattamento normoglicemizzante sulla riduzione degli eventi cardiovascolari rimane oggetto di una discussione che neanche i risultati dello studio UKPDS (92) hanno potuto chiarire. Infatti, mentre lo studio UKPDS dimostrava un’indiscussa efficacia dell’intervento sulla glicemia in termini di riduzione delle complicanze microangiopatiche, l’effetto sull’infarto del miocardio, ad esempio, era solo prossimo alla significatività statistica

(21)

L’analisi epidemiologica dell’UKPDS ha comunque dimostrato che ad ogni punto percentuale di riduzione della HbA1c corrisponde una riduzione del 14% del rischio di infarto del miocardio, del

12% per ictus e del 43% per vasculopatia periferica (93). La relazione tra i valori medi di HbA1c e

rischio di complicanze micro- e macrovascolari risulta, nell’analisi dei dati UKPDS, di tipo lineare. Alcune differenze debbono però essere sottolineate.

Figura 4 - La relazione tra i valori medi di HbA1c e rischio di complicanza micro- e macro-angiopatica risulta, nell’analisi dei dati UKPDS, di tipo lineare. Alcune differenze debbono però essere sottolineate. La relazione tra HbA1c e microangiopatia è più ripida di quella con macroangiopatia, sottolineando la più diretta relazione tra controllo glicemico e retinopatia, nefropatia, neuropatia. Il diverso impatto della glicemia sulle complicanze croniche appare ancor più evidente se si esamina l’incidenza di micro- e macro-angiopatia per valori di HbA1c ottimali. Infatti, a fronte di HbA1c pari a 5.5%, l’incidenza di microangiopatia è inferiore al 5%, mentre prossima al 15% è quella della complicanza macrovascolare.

(22)

La relazione tra HbA1c e microangiopatia è più ripida di quella descritta con la macroangiopatia,

sottolineando la più diretta relazione tra controllo glicemico e retinopatia, nefropatia e neuropatia. Il diverso impatto della glicemia sulle complicanze croniche appare ancor più evidente se si esamina l’incidenza di micro- e macroangiopatia per valori di HbA1c ottimali. Infatti, a fronte di

HbA1c pari a 5.5%, l’incidenza di microangiopatia è risultata inferiore al 5%, mentre prossima al

15% è quella delle complicanze macrovascolari (figura 4).

La spiegazione più semplice, per questo diverso impatto del diabete, si basa sul concetto che le complicanze macrovascolari sono accelerate dal diabete ma fortemente influenzate anche da altri fattori. Il Multiple Risk Factor Intervention Trial (MRFIT) è, come già ricordato, un ampio studio prospettico che ha valutato, in un follow-up di 12 anni, la mortalità in più di 5000 diabetici di tipo 2 e in più di 300000 soggetti non diabetici di età compresa tra i 35 ed i 57 anni (27). Il rischio assoluto di morte (21.1% vs 6.1%) e quello di morte per patologie cardiovascolari (11.7% vs 2.6%) era più alto nei diabetici rispetto ai soggetti non diabetici per ciascuna fascia d’età e per ciascun livello di rischio (numero dei fattori di rischio, consistenza del singolo fattore). In media, questo rischio era tre volte più alto anche previa correzione per età, livelli di colesterolo, pressione arteriosa sistolica e fumo di sigaretta. Indipendentemente dalla presenza di altri fattori di rischio cardiovascolare maggiori (dislipidemia, fumo di sigaretta, ipertensione, ipertrofia ventricolare sinistra) il diabete di per sé raddoppia o triplica il rischio di eventi cardiovascolari fatali e non fatali (28). Nel MRFIT (27), per esempio, tra i diabetici di sesso maschile senza fattori di rischio maggiori aggiuntivi (pressione sistolica <120 mmHg, colesterolo totale <200 mg/dl, non fumatori) l’incidenza di morte per eventi cardiovascolari era 5 volte superiore rispetto ai maschi non diabetici, mentre nel gruppo a più elevato rischio (combinazione di ipertensione, ipercolesterolemia e fumo di sigaretta) il rischio relativo era sensibilmente più basso e pari a 2.5 (28). Nello stesso UKPDS, oltre all’iperglicemia, elevati di colesterolo-LDL, ipertensione arteriosa ed età sono risultati fattori predittivi indipendenti del rischio cardiovascolare (94a, 94b).

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Diabete e ipertensione coesistono più frequentemente di quanto atteso in base alla probabilità. Alla coesistenza di diabete ed ipertensione può essere attribuito dal 30% al 75% delle complicanze croniche del diabete. La prevalenza dell’ipertensione arteriosa è circa due volte maggiore nei soggetti con diabete (sia di tipo 1 che di tipo 2) rispetto alla popolazione generale. Circa il 50% dei diabetici presenta ipertensione arteriosa (25% dei soggetti con diabete di tipo 1 e 75% di quelli con diabete di tipo 2), mentre è iperteso solo il 15-25% della popolazione generale dopo i 50 anni d’età. L’ipertensione, inoltre, è presente nel 20-40% dei soggetti con ridotta tolleranza ai carboidrati (95).

L’eccesso di ipertensione riscontrato nel diabete di tipo 1 è in gran parte dovuto alla coesistenza della nefropatia incipiente o conclamata. L’aumento dei valori pressori interessa contemporaneamente la pressione sistolica e la diastolica e correla strettamente con la comparsa e la progressione del danno renale. Spesso, infatti, i valori pressori cominciano ad aumentare contestualmente alla comparsa di microalbuminuria. Circa il 50% dei diabetici tipo 1 con più di 30 anni di durata di malattia presenta ipertensione arteriosa; la maggior parte di questi ha sviluppato la nefropatia diabetica. Nell’EURODIAB IDDM Complications Study, la prevalenza dell’ipertensione arteriosa (PA ≥140/90 mmHg e/o trattamento antipertensivo) è stata del 24,3% (più elevata negli uomini: 26,8% vs 21,7%). Tale prevalenza aumenta dal 17% nei normoalbuminuruci al 29% nei microalbuminurici e al 69% nei macroalbuminuruci (96).

Nel diabete di tipo 2 l’insorgenza dell’ipertensione può precedere o seguire il rilevamento di iperglicemia. Pertanto, i soggetti con diabete tipo 2, sono spesso ipertesi già al momento della diagnosi. I valori pressori tendono ad aumentare progressivamente con l’età, con la riduzione dell’attività fisica e con l’entità del sovrappeso. L’aumento è più evidente nei valori sistolici che nei diastolici. L’ipertensione sistolica isolata è particolarmente frequente nel diabete di tipo 2 ed è attribuibile alla patologia aterosclerotica e alla perdita di elasticità della parete arteriosa.

(24)

Anche la frequenza dell’ipertensione sistolica isolata aumenta con l’età, contribuendo in maniera significativa alla elevata prevalenza dell’ipertensione nella popolazione diabetica anziana. L’ipertensione è più frequente negli uomini rispetto alle donne diabetiche prima dei 50 anni, ma il rapporto si inverte dopo tale età.

Nel diabete di tipo 2, l’insulinoresistenza e l’iperinsulinemia, associate all’obesità viscerale -sindrome metabolica -, rivestono, nella patogenesi dell’ipertensione, un ruolo più importante dell’alterazione della funzione renale (97). La prevalenza dell’ipertensione che nei soggetti con diabete di tipo 2 è compresa tra il 60 e l’80%, non differisce sostanzialmente nei normoalbuminuruici (≈70%), nei microalbuminurici (≈90%) e nei macroalbuminurici (>90%).

La coesistenza di diabete ed ipertensione moltiplica il rischio cardiovascolare associato a ciascuna delle due condizioni (97). L’ipertensione aumenta il rischio di ictus di sei volte nella popolazione generale e, dato che l’incidenza di eventi cerebrovascolari è almeno doppia nella popolazione diabetica rispetto a quella non diabetica, l’associazione di ipertensione e diabete aumenta enormemente il rischio di ictus (59b). L’ipertensione determina anche un incremento dell’incidenza di infarto del miocardio, ipertrofia ventricolare sinistra, disfunzione diastolica e scompenso cardiaco congestizio, manifestazioni tutte più frequenti nei soggetti con diabete ed ipertensione (5). Inoltre, i diabetici ipertesi presentano una più alta incidenza di vasculopatia aterosclerotica periferica.

Lo studio HDS (Hypertension in Diabetes Study), condotto in diabetici di tipo 2 seguiti per 4 anni, dimostra che il diabete raddoppia il rischio di eventi cardiovascolari fatali e non fatali rispetto alla popolazione non diabetica normotesa. La coesistenza di diabete ed ipertensione si associa ad un aumento di quattro volte del rischio relativo. Il rischio di ictus aumenta più del 200% e quello di infarto miocardico più del 50% (98).

Lo studio MRFIT ha esaminato la relazione fra valori di pressione sistolica e mortalità cardiovascolare in soggetti di sesso maschile con e senza diabete (27). In dodici anni di follow-up, tale studio ha dimostrato che la pressione sistolica risulta correlata positivamente al rischio di

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Nei diabetici dello studio MRFIT il rischio di morte cardiovascolare aumenta da 53.6 a 242.6 per 10.000 persone/anno per pressioni sistoliche tra <120 mmHg e ≥200 mmHg, mentre nei non diabetici il rischio aumenta da 12.2 a 128.7 per 10.000 persone/anno. Per valori di pressione sistolica <140 mmHg (normotensione), il rischio relativo di eventi fatali e non fatali è fino a quattro volte maggiore nei diabetici rispetto ai non diabetici.

E’ ancora una volta interessante osservare che il rischio relativo per mortalità cardiovascolare, vale a dire l’eccesso di rischio dei diabetici rispetto ai non diabetici, tende a ridursi per pressioni sistoliche comprese fra 140 e 200 mmHg, ma rimane pur sempre almeno doppio nel paziente diabetico rispetto al non diabetico (27).

Il controllo aggressivo della pressione arteriosa sembra ridurre l’incidenza di eventi cardiovascolari in maniera più evidente nei diabetici rispetto ai non diabetici.

Nello studio SYST-EUR (Systolic Hypertension in Europe) (99), il trattamento attivo riduce gli eventi cardiovascolari del 26% e gli accidenti cerebrovascolari fatali e non fatali del 38% nei non diabetici. Nei diabetici, il trattamento attivo riduce la mortalità totale del 55%, la mortalità per patologie cardiovascolari del 76%, gli eventi cardiovascolari del 69%, gli accidenti cerebrovascolari del 73% e tutti gli eventi cardiaci del 63%. Le riduzioni nella mortalità totale, nella mortalità cardiovascolare e nell’incidenza di eventi cardiovascolari sono risultate significativamente maggiori nei diabetici rispetto ai non diabetici.

Nell’intera popolazione dello studio HOT (Hypertension Optimal Treatment) (100) è stata descritta solo una tendenza alla riduzione del rischio di infarto del miocardio nel gruppo con obiettivo di pressione diastolica <85 mmHg 25%) e nel gruppo con obiettivo <80 mmHg (-28%) rispetto al gruppo con obiettivo <90 mmHg. Nei soggetti con diabete mellito, la riduzione degli eventi cardiovascolari nel gruppo con il più ambizioso obiettivo di trattamento è stata invece estremamente evidente. Nei diabetici, infatti, tra soggetti con obiettivo <80 mmHg e soggetti con obiettivo <90 mmHg si è registrata una riduzione del 51% degli eventi cardiovascolari maggiori (p=0.005) e una riduzione del 67% della mortalità cardiovascolare (p=0.016).

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Riduzioni significative sono state osservate quando tra gli eventi maggiori è stato incluso anche l’infarto silente (RR=1.6, p=0.045) o quando è stata valutata la mortalità cardiovascolare (RR=3.0, p=0.016). Riduzioni sono state ottenute anche per la mortalità totale (90 vs 80 mmHg, RR = 1.77, p=0.068), e l’infarto del miocardio (RR = 2.01, p=0.11).

Tali osservazioni sono in linea con i dati dell’UKPDS dove un più rigoroso controllo della pressione arteriosa (144/82 mmHg) consente una riduzione notevole del rischio di eventi cardiovascolari rispetto ad un controllo meno rigoroso (154/87 mmHg) (101).

In soggetti con diabete tipo 2 di nuova diagnosi il trattamento aggressivo della pressione arteriosa capace di ottenere diminuzioni di 10 e 5 mmHg nella pressione sistolica e diastolica rispettivamente, riduce del 34% le patologie cardiovascolari (infarto del miocardio, morte improvvisa, accidenti cerebrovascolari, arteriopatia periferica), del 25% l’incidenza di infarto del miocardio, del 37% gli end-point microvascolari (10). L’analisi epidemiologica dell’UKPDS dimostra come la riduzione di 10 mmHg della pressione sistolica si associa ad una riduzione del 13% delle complicanze microvascolari, del 12% di ogni complicanza correlata al diabete, del 15% delle morti dovute al diabete e dell’11% del rischio di infarto del miocardio (14). Analogamente a quanto osservato per la glicemia (HbA1c), anche per la pressione arteriosa (sistolica) esiste quindi una correlazione lineare tra livelli pressori ed aumento dell’incidenza di micro- e macroangiopatia (94b, 102). Anche qui, comunque, è necessario differenziare il relativo impatto sulle complicanza micro- e macrovascolare. Per valori di pressione sistolica di 115 mmHg, l’incidenza di microangiopatia era pari all’8% mentre sfiorava il 20% per la macroangiopatia (figura 5), confermando l’ipotesi che molti fattori sono coinvolti nel generare il rischio cardiovascolare del paziente con diabete tipo 2.

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Figura 5 - Analogamente a quanto osservato per la glicemia (HbA1c) anche per la pressione arteriosa (sistolica) esiste una correlazione lineare con l’aumento dell’incidenza di micro- e macroangiopatia nel periodo d’osservazione dello UKPDS. Anche qui è però opportuno analizzare il relativo impatto su complicanza micro- e macrovascolare. Per valori di pressione sistolica di 115 mmHg, l’incidenza di microangiopatia era pari all’8% mentre sfiorava il 20% per la macroangiopatia, confortando l’ipotesi che molti fattori sono coinvolti nel generare il rischi cardiovascolare del paziente con diabete Tipo 2.

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L’associazione tra rischio CV ed assetto lipidico, oltre che dagli studi epidemiologici, è ben illustrata dagli studi di intervento che hanno dimostrato una riduzione del rischio di morbilità e mortalità cardiovascolare dopo terapia ipolipidemizzante (tabella 3) (103b).

Tabella 3 – Relazione tra trattamento ipolipidemizzante con statine e rischio di eventi cardiovascolari nel diabete

mellito. Eventi, % Studio N. pts Placebo Statina Rischio ridotto % End-point Prevenzione primaria

AFCAPS, 1998 155 8.4 4.8 43 IM fatale e non fatale, morte

improvvisa Prevenzione

secondaria

4S, 1999 202 45 22 51 Eventi coronarici fatali +

infarto non fatale

CARE, 1996 602 37 29 22

Eventi coronarici fatali + infarto non fatale +

rivascolarizzazioni

LIPID, 1998 782 23 19 17 Eventi coronarici fatali +

infarto non fatale Prevenzione

primaria e secondaria

HPS, 2003 5963 25.1 20.2 22

Eventi coronarici fatali + infarto non fatale, ictus,

rivascolarizzazioni

Questi studi hanno evidenziato l’efficacia del trattamento ipocolesterolemizzante nel ridurre il rischio CV, anche se nessuno di essi mirava in modo specifico all’esame della popolazione diabetica.

Figura

Tabella 1 - Fattori di rischio cardiovascolare e diabete mellito: livello delle evidenze.
Figura 1 – Modificazioni della mortalità cardiovascolare nella popolazione generale e nella popolazione diabetica: confronto tra NHANES I e NHANES II Epidemiologic Follow-up Survey (12).
Figura  2  –  Rischio  di  patologia  cardiovascolare  prima  e  dopo  la  diagnosi  clinica  di  diabete  mellito  tipo  2:  il Nurses’ Health Study (32).
Tabella 2  – Impatto del diabete sulla mortalità per tutte le cause e sulla morbilità e mortalità cardiovascolare.
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